Articolo estratto dal volume I del 1978 pubblicato su Google Libri.
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Dopo quello del Toffler1, ecco un altro volume sul futuro che per abbondanza ed attendibilità di informazioni, e per chiarezza di aperture sociologiche ed etiche, induce a meditare sulla nostra, tutta particolare, condizione di uomini di oggi. Ne è autore lo storico e cattedratico francese Pierre Chaunu2, il quale, doppiata da poco la cinquantina – è del 1923 –, dopo centotrenta articoli ed una ventina di volumi, con questo porta sulle ventimila le pagine da lui pubblicate.
Bisogna dire che, a differenza del sociologo e giornalista USA, non è che agevoli molto la lettura di questo suo volume. A parte, infatti, le ripetizioni, che ne confermano l’origine antologica3, disorienta il suo stile nominale-infinitivo ed esclamativo-reiterativo; ed anche il suo smozzicare il discorso in aforismi e in apposizioni parentetiche, e il suo frequente uso di traslati vagamenti allusivi: svantaggi che la pedissequa versione italiana, più che ridurre, rincara. Certo è, tuttavia, che, se riesca a reggere il suo stile asmatico e cifrato, il lettore resta largamente ripagato, come avviene in ogni incontro con autori onesti, che conoscano quello di cui discorrono, e che credano in quello per cui si battono. I rilievi che seguono, valgano, dunque, ad invogliare i nostri lettori a tentare l’esperienza.
Quale futuro?
Lo Chaunu è un pioniere della storia quantitativa e seriale, e dal 1964 è il direttore del suo primo Centro Francese di Ricerche all’Università di Caen. S’interessa, dunque, non tanto a quegli elenchi di date di nomi e di gesta, più o meno eroiche, di «personaggi», che nella retorica di non remoti testi scolastici «facevano la storia»; ma – seguendo H.-I. Marrou – «a tutto ciò che gli specialisti qualificati oggi riconoscono come valido nell’enorme quantità di conoscenze accumulate nelle biblioteche sullo studio del passato» (p. 28); e s’interessa, in particolare, allo studio comparato – diciamolo «matematica sociale» – dei dati statistici, soprattutto economici e demografici, al quale i calcolatori della terza generazione4 dal 1965 vanno assicurando esiti, fino a pochi anni fa, imprevedibili (p. 58). Ora, questo suo attenersi a dati matematici, il suo trarre da essi le leggi del comportamento dei popoli e delle loro vicende – senza peraltro, come si vedrà, scadere in un determinismo che ignori la forza storica delle idee e gli spazi propri della libertà umana –, conferisce una particolare attendibilità «scientifica», sia alle sue analisi del passato ed ai suoi rilievi sulle crisi d’oggi, sia a quelle che egli chiama prospettive per il futuro5, ed alle nostre responsabilità affinché esse si avverino assicurando una sopravvivenza «umana» all’umanità.
In questa luce, crediamo, vanno visti, intanto, i suoi punti di consonanza e di dissonanza col Toffler. Come si ricorderà, il sociologo americano insisteva sull’accelerazione esponenziale delle innovazioni tecnologico-culturali, che fanno del nostro tempo un unicum nella storia dell’umanità. Lo Chaunu ne avvalora la già abbondante esemplificazione.
Scrive, tra l’altro, a proposito di sviluppo demografico ed economico: «In poco meno di tre secoli, dal 1700 ad oggi, ci sono stati sulla terra tanti uomini quanti nei milioni di anni precedenti [...]; in un trimestre di questi nostri anni ’70, la produzione di acciaio nel mondo equivale a quella del ferro dalle origini della metallurgia sino alla metà del sec. XVIII; tutto il volume degli scambi tra l’America e l’Europa nell’anno record (dei secc. XVI e XVII) 1608 entrerebbe in una sola delle quattro cisterne di una moderna superpetroliera» (p. 38).
Ed a proposito di circolazione accelerata di conoscenze e di informazioni: «Lo storico che studia la diffusione del libro e dell’immagine nella società tradizionale [...] dei secc. XVII e XVIII non può non rilevare la saturazione dei segni grafici nel mondo d’oggi [...]. Verso il 1700, per il settore più privilegiato dell’Europa occidentale, con larga approssimazione possiamo calcolare che i lettori ammontassero ad un quarto della popolazione, e che ogni famiglia di “lettori” potesse contare – incluse le raccolte delle grandi biblioteche – su non più di cinque libri e di duè immagini a stampa [...]; la metà dei libri usciti nei primi due secoli della stampa sono scomparsi, letteralmente consumati dalle mani dei lettori» (p. 100). La carta stampata in tutte le tipografie del mondo nei primi cinquant’anni dopo Gutenberg non uguaglia quella di una edizione natalizia di un grande quotidiano di New York. Dal 1955 ad oggi c’è un raddoppio dell’informazione ogni sette anni» (p. 38). «Mentre il numero degli uomini aumenta in proporzione aritmetica, il volume delle comunicazioni interumane cresce in proporzione geometrica» (p. 301).
E concorda col Toffler notando che oggi:
«La maggioranza dei fenomeni che osserviamo fuori della natura, ossia nella storia dell’uomo, si presenta, nell’ambito di un’esistenza umana, con una crescita quasi sempre accelerata, tanto da farci chiedere se questa – chiamiamola “il moltiplicatore” – non sia la caratteristica del nostro tempo» (p. 72); e che: «Questo moltiplicatore comporta una modificazione sempre più rapida degli atteggiamenti e degli ambienti», sicché i demografi (e non soltanto essi), «per tener presenti le modificazioni intervenute nel frattempo, sono costretti ad aggiornare le loro previsioni come minimo ogni cinque anni» (p. 260).
Vero è che, come vedremo, razionalmente ottimista, lo Chaunu s’ingegna di dimostrare storicamente infondato, oggi, uno «chock del futuro», e, in ogni modo, ritiene che missione dello storico è rispondere, per tramite delle scienze, aux successives angoisses de son temps (p. 53); tuttavia, anche lui rileva un fattore che conferma il lato psicologico-emotivo della diagnosi del Toffler, vale a dire il fatto che nell’uomo di oggi l’accelerazione è esperienza vissuta; onde il suo trovarsi sempre più straniato da una visione del mondo «sicura» perché stabile, e il suo sentire il presente, non più come approdo di innovazioni prodotte da «storici» eventi passati, ma come crisi di continuati trapassi verso l’ignoto.
Scrive: «Oggi, il progresso non è soltanto un concetto, ma un’esperienza vissuta, diversamente dai molti secoli passati, quando i cambiamenti erano troppo lenti per essere avvertiti nella breve durata – in media: trent’anni – di una vita umana [...]. Ancora negli ultimi decenni del secolo scorso si pensava alla storia rifacendosi a qualche evento modificatore che [...] faceva del passato un “prima”: prima della Repubblica, prima della guerra [...], prima delle ferrovie [...], prima della conquista del West, prima del crollo dei valori morali [...], prima della generalizzazione dell’istruzione primaria, prima del giornale a due lire [...]; insomma: un Ancien Régime, rispetto al quale guardare e giudicare il proprio tempo» (pp. 47 ss.).
Per lui la storia passata – soprattutto se «scientifica» come egli l’intende –, dev’essere semplicemente la memoria dell’umanità, a partire dalla quale va giudicato il tempo presente e «prospettato» il futuro, in un flusso, malgrado tutto, continuo: di costanti storiche, che non vanno ignorate, e di responsabilità personali e sociali, che non vanno misconosciute e tradite. Di qui – altra sua assonanza col Toffler – il suo ragionevole destreggiarsi tra, se non sempre il promuovere, almeno l’accettare come realtà le modificazioni del presente, ed il conservare quanto risulti valido nell’eredità del passato: «Difendere il diritto [...] di conservare ciò che è stato, e che anche domani sarà il meglio della vita: ecco una grande lezione della storia» (p. 116). Di qui anche l’oggettività con la quale egli affronta, tra le altre, alcune questioni, crediamo, capitali, quale quella dell’aborto, quella dell’informazione per tramite dei mass media, e quella più generale dell’insostituibilità di una visione cristiana dell’esistenza umana.
Invasori da annientare?
Presidente-fondatore dell’Associazione Universitaria francese per la difesa della vita, Pierre Chaunu si batte contro l’aborto prima di tutto per insopprimibile esigenza morale. Rileva che «la genetica ha dimostrato in modo definitivo quello che già la filosofia e la coscienza umana da due millenni ritenevano» (p. 311), che, cioè, «l’embrione umano è un uomo» (p. 109); quindi, contro la marea del neo-conformismo, afferma che «nessuna dialettica può far sì che uccidere non significhi uccidere», e perciò che «uccidere un uomo nel ventre materno è un assassinio» (ivi); nota, inoltre, che se si parla degli uomini come se fossero insetti (p. 270), e se i validi considerano quelli che «ingombrano» – feti, vecchi o handicappati – quali «invasori da annientare» (p. 286), si va dritti «all’eutanasia degli individui o fisicamente, o mentalmente, o – perché no? – etnicamente difformi dalle norme del gruppo» (p. 278); che è quanto dire: ai campi e ai forni di sterminio nazisti6.
Ma si batte contro l’aborto anche con argomenti desunti, appunto, dalla sua storia quantitativa e seriale. Lungi dal paventare pericoli dalla densità delle popolazioni, entro certi limiti vede in essa la condizione minimale di crescita economica e culturale; e sostiene che, come le uniche tre civiltà originarie umane – del «moltiplicatore» comunicazione scritta: nella Mezzaluna Fertile, nella Cina e nell’India – «si sono prodotte, a duemila anni di distanza, sempre al confine di un deserto» (p. 123), così oggi, non il deserto, ma «il gomito a gomito di milioni di uomini è la condizione della messa in moto del “moltiplicatore” delle intelligenze» (p. 151). In ogni caso, cifre e statistiche alla mano, egli denuncia come privo di fondamento, ed ispirato a miopi egoismi, lo spauracchio di un boom demografico per il 2000, e di un incombente esaurirsi delle risorse energetiche ed alimentari7. Circa le ostentate curve esponenziali di crescita demografica mondiale, dato e non concesso che i dati allegati siano tutti attendibili, egli, storia alla mano, contesta che esse debbano svilupparsi all’infinito «senza flessioni e brusche rotture» (p. 81), non foss’altro perché «da dieci anni, in molti Paesi, l’allungamento della vita umana non è più un assioma» (p. 303). Contro, poi, l’attendibilità di molti dati-spauracchio, egli denuncia cifre e stime di censimenti scandalosamente viziate da sistematici errori per eccesso (pp. 295 ss.), ivi comprese quelle sbandierate come «scientifiche» dal MIT (Massachussetts Institute of Technology) e dall’ONU, «al servizio di un neomalthusianismo che nel 1970 si è radicalizzato nella campagna per un’assurda e suicida “crescita zero”» (p. 262); e denuncia, inoltre, una politica «mondiale» demografica da parte della stessa ONU che, estrapolando dati parziali e non omogenei, fissa medie immaginarie, non tenendo conto dei rapporti del tutto diversi tra territori, densità e tassi di crescita nei diversi Paesi (pp. 271 e 307).
Non basta. È contrario all’aborto perché ritiene un falso e una beffa macabra «il principale argomento invocato per legalizzarlo; cioè: che l’aborto è, sì, un male, ma che di fatto si pratica, e che, non potendo impedirlo, è meglio praticarlo apertamente nelle cliniche, dove l’uccisione del feto comporterà minori danni alla salute fisica e mentale della madre» (p. 312). Un falso – egli nota – perché risulta in maniera inconfutabile che le cifre degli aborti clandestini sbandierate prima delle leggi liberalizzatrici sono state dappertutto ultragonfiate in modo sistematico» (ivi); e una beffa macabra, perché in tutti i Paesi che vi hanno fatto ricorso, le leggi liberalizzatrici, lungi dal diminuire o limitare il numero degli aborti, l’hanno duplicato e triplicato8.
Informazione e mass media
Egli, infine, è contro l’aborto per il modo «democratico» con cui è stato manipolato, allo scopo, il consenso della cosiddetta opinione pubblica. Vale la pena di leggere quanto egli in proposito documenta, non foss’altro che per meditare su quanto di simile si è verificato in Italia a proposito del referendum sul divorzio, e si va verificando a proposito degli otto referendum radicali.
«Da dieci anni si conduce in Europa e negli Stati Uniti una campagna bene orchestrata per la liberalizzazione dell’aborto. La Francia, a lungo restia, è stata raggiunta negli anni ’71-’72. Secondo un sondaggio di allora, l’opinione pubblica era contraria per l’80%; un anno dopo, la proporzione era rovesciata per il condizionamento massiccio di tutti i mezzi di comunicazione». Quando, nel maggio del ’73, si propose «d’introdurre nel diritto francese il permesso legale di uccidere, si organizzò una campagna nei gruppi di opinione e del potere [...]. I sostenitori dell’aborto libero raccolsero 200 firme di medici (metà dei quali studenti in medicina), mentre i sostenitori del rispetto alla vita ne raccolsero 18.000, ai quali, nel novembre del ’73, si aggiunsero 12.500 tra sindaci e consiglieri generali. Poi si ebbe un totale di 52.000 tra medici, giuristi, professori d’università, infermieri ed ostetriche. Orbene, nel notiziario delle 20, la conferenza stampa dei 12.500 sindaci e consiglieri generali dispose di 30 secondi di trasmissione, mentre, nei dieci mesi precedenti, i 200 “medici” abortisti avevano avuto in esclusiva parecchie ore di diverse trasmissioni. In tempi di trasmissione, grosso modo, il rapporto tra abortisti e antiabortisti è stato dell’ordine di 100 a 1, e in colonne di stampa è stato dell’ordine di 15 a 1 [...]. Inutile ripetere che, dopo un anno di questa informazione-deformazione, i rapporti dell’opinione pubblica erano quasi rovesciati. Raramente, in tutta la storia dell’informazione, sono state commesse disonestà simili» (pp. 108 ss.).
Avremmo da discutere su questo suo, alquanto ottimista, «raramente», contraddetto, tra l’altro – per restare in argomento, – da altre due macroscopiche «disonestà» dell’informazione giornalistica da lui stesso segnalate; quali: da una parte, la congiura del silenzio sul suicidio demografico che è in atto nei Paesi sviluppati (p. 62) e, dall’altra, l’acritico accogliere e spacciare per assioma la paurosa progressione geometrica della popolazione mondiale (pp. 74 ss.), di cui sopra. Ma preferiamo soffermarci su due rilievi, positivi e più generali, dello Chaunu sull’informazione giornalistica: il primo riguarda la sua materia specifica, «la notizia»; il secondo riguarda le responsabilità sociali dei giornalisti.
Come già si è accennato, tesi dello Chaunu è che il progresso umano più autentico non sta né nel culto acritico di tutto il retaggio della storia, né nel suo rigetto in blocco; bensì nell’armonia tra aggiornamenti, magari rivoluzionari, permessi o imposti dall’accelerato sviluppo tecnologico e socio-culturale, e la tutela di valori che la storia e la coscienza umana dimostrano assoluti cd immutabili. Ma l’informazione giornalistica – egli osserva – che oggi è il «supermoltiplicatore accelerato» (p. 97) della storia, di sua natura maneggia come proprio soltanto quanto «fa notizia», vale a dire quanto interessa come nuovo ed innovatore. Di qui la sua funzione storica, spesso più che meritoria, culturalmente e politicamente dirompente; ma di qui anche la sua propensione – il caso dell’aborto è solo uno dei tanti – a premiare i cambiamenti piuttosto che i valori, e magari ad identificare «mutamento» con «valore»; facendo leva sulle emozioni-opinioni delle masse, così mobilitandole in gruppi di pressione decisionali, e non sulle certezze razionali dei «competenti» già dispensate dai circuiti tradizionali della famiglia, della scuola e della Chiesa.
Che il mondo dell’informazione sia consapevole di questa realtà rispetto al suo proprio potere, è certo: esso si sente «il quarto potere», superiore agli altri tre delle nostre moderne costituzioni, teorizzati dal Montesquieu (p. 102); ma è dubbio – e noi lo pensiamo con l’Autore – che detto mondo sia consapevole, nel suo complesso, delle responsabilità civili e morali che da questo suo potere gli derivano, condizionato com’è dalla deformazione professionale di un ambiente – per non dire: di una casta – a sé stante.
«Il presente – egli scrive – è nelle mani dell’informazione. Oggi nel mondo poco più di un milione di individui hanno in esclusiva la funzione d’informare ogni giorno i tre miliardi e mezzo di altri uomini che globalmente accedono ai mezzi d’informazione. Non c’è mestiere più difficile di questo, che comporti poteri maggiori, che esiga una coscienza più severa» (p. 67). Ora «questo mondo dell’informazione non riflette l’insieme della società in cui opera. Costituisce un ambiente sociale e culturale che in quasi tutti i Paesi occidentali si presenta con caratteri specifici. Al limite, c’è più affinità tra gli ambienti dell’informazione della Francia, della Germania o degli Stati Uniti che non tra gli ambienti degli stessi Paesi [...]. Si tratta di un ambiente estremamente tipizzato, con tradizioni, sensibilità particolari e un senso di solidarietà [...], sicché ogni critica, per quanto moderata, rivolta contro di esso rischia di scatenare reazioni di difesa [...] presto eccessive» (pp. 103 ss.). «Progresso vuol dire cambiamento e conservazione: ma la massa delle comunicazioni che provengono dalle odierne strutture dell’informazione è tale da esautorare [...] tutte le istituzioni tradizionali di trasmissione dell’esperienza: famiglia, chiesa e scuola [...]: le quali, per effetto del supermoltiplicatore-informazione [...], finiscono col diventare a loro volta, non più [...] veicoli di valori di permanenza, ma dei valori di cambiamento: gli stessi del mondo dell’informazione» (p. 113).
Per un umanesimo europeo cristiano
I valori dimostrati assoluti ed immutabili dalla storia e dalla coscienza umana, e che oggi anche il pensiero laico in molta parte accoglie e propugna, secondo lo Chaunu si ritrovano nativi ed interi nel pensiero religioso-etico (e nella civiltà) ebraico-cristiana; e per essi egli si batte – oltre che, come s’è visto, a proposito di aborto e di informazione manipolatrice – anche a proposito di altre travagliate attualità. Al lettore individuarle e, se del caso, discuterne9. Noi preferiamo consacrare lo spazio che ci resta alla visione storica nella quale l’Autore, da storico quantitativo-seriale, inquadra detti valori, e ad alcune conseguenze operative che ne deriva.
Egli fa notare (pp. 124 ss.) come, non solo l’acculturazione in senso generale – vale a dire la millenaria evoluzione dell’homo sapiens da nomade-cacciatore ad allevatore, e da sedentario-coltivatore a cittadino –, ma anche la cultura-civiltà; umana come acquisizione e trasmissione simbolica di conoscenza e di valori, di norme di convivenza e di tecnologie, si è svolta per onde geografiche concentriche secondo un asse Sud Est-Nord Ovest, dall’oasi della Mezzaluna Fertile – Delta del Nilo, Siria e Mesopotamia –, verso il bacino del Mediterraneo: Grecia, Cartagine e Roma, e poi verso Africa, Hispania e Gallia; sicché questo slittamento è alle radici della cultura-civiltà della nostra Europa, dalla quale, a partire del sec. XVI, malgrado alcuni suoi processi distruttori, altre culture-civiltà estraeuropee l’hanno ereditata, ed oggi ormai tutto il mondo, almeno sotto certi aspetti (forse non i migliori), va ereditando.
Orbene – continua l’Autore – in questo asse polarizzato s’è inserito un fattore storico unicum, che ha fatto della cultura-civiltà europea, non solo l’erede fortunata dell’Egitto (la scrittura e l’architettura), della Grecia (la filosofia, la storia, l’arte) e di Roma (la poesia e il diritto), ma anche della unica vera religione: quella rivelata ebraico-cristiana. Scrive:
«Anche la storia, nata in Grecia, è legata al trionfo della religione-cultura ebraico-cristiana [...], la sola che s’inserisca in un tempo autenticamente umano [...]. A differenza di tutte le altre, che offrono un credo di proposizioni atemporali, essa annuncia la Buona Novella dell’azione salvatrice di un Dio che – si noti bene – si presenta totalmente trascendente e differente rispetto al mondo, creato dalla sua parola» (p. 41). «L’essenziale di ogni civiltà sta nella relazione ontologica e cosmologica [...] che lega l’uomo all’Essere e l’uomo all’uomo [...]. Sotto questo aspetto l’Occidente [cristiano] costituisce un unicum. Invano si cercherebbe altrove qualcosa che assomigli al Dio unico, personale, creatore del mondo ex nihilo, trascendente [...], e che, ciononostante, forma dei piani e porta avanti una storia umana non ciclica, ma lineare, con un principio ed una fine ultima [...]. Questa visione ebraico-cristiana è “fuori norma”, in quanto non esclusivamente umana. Da sola, la ragione non può spiegarla: Occorre o rifiutarla come “non ragionevole”, o accettarla come rivelazione» (p. 219). Resta il fatto che, «risalendo nella storia più autenticamente umana, quella della civiltà dell’uomo pienamente uomo [...], tutto ci porta verso uno spazio geografico [...] dove lo spirito soffia più facilmente [...]: culla degli uomini e luogo privilegiato fra tutti, poiché è il luogo dell’apparizione della Trascendenza rivelata dall’unico vero Dio» (p. 128).
In questa luce, crediamo, va intesa la sua esortazione a noi europei di scrollarci di dosso esagerati complessi di colpa rispetto al Terzo Mondo (p. 130), dato che, come egli nota, in passato «le forme dì civiltà, diciamo pure “europee”, hanno avuto effetti positivi ben più sconvolgenti che non i saccheggi che qua e là hanno accompagnato la colonizzazione» (p.229)10. E soprattutto in questa luce va intesa l’ancora attuale missione dell’Europa, possibilmente unita, di «europeizzare tutte le culture» (p. 117), non degradando il Messaggio, «tradito da quanti ne avevano ricevuto il deposito» (p. 187), in quel suo «surrogato escatologico che è il socialismo, cui l’Europa illuministica ha aperto la via» (ivi); né, al contrario, identificando la sua civiltà con quella, non meno materialistica, del produttivismo consumistico.
«L’Europa non è semplicemente uno spazio geografico, tanto meno è il secondo – e potenzialmente il primo – apparato produttivo del mondo: è soprattutto sensibilità, intelligenza, comunicazione, linguaggio» (p. 166). «A differenza del monolitismo cinese e della polverizzazione indiana, del tribalismo africano e delle propaggini europee delle Americhe, dell’enorme agglomerato multinazionale dell’URSS e satelliti, tenuto insieme da una mistica politica e da un apparato poliziesco centralizzato: il fattore geniale dell’Europa sono le nazioni, che, a conti fatti, per l’emulazione costante che creano, nonostante le due guerre pazzesche, finiscono col renderle più di quanto costino» (p. 161). «Non c’è dubbio alcuno: è in pericolo l’intelligenza del mondo di domani, la sua capacità di reagire alle minacce mortali che si profilano all’orizzonte. Ora l’intelligenza sta dove si trova la continuità storica più lunga – l’Europa e le sue propaggini –: là dove resta ancora una ragionevole probabilità di assicurare un’educazione umana agli uomini» (p. 286).
* * *
Non sappiamo se lo Chaunu sia anche cattolico. Gli farà tuttavia piacere leggere che, a proposito di Europa e di collaborazione europea, Paolo VI ha parlato di
«mentalità umana più larga, più generosa, una mentalità a formare la quale lo spirito cristiano, universale anzi, e cioè cattolico, può tanto giovare. Dall’antica “cristianità” storica dell’Europa può derivare la socialità internazionale, di cui ha bisogno [...] per sé e per il mondo». «Quale compito per una società impregnata di cristianesimo ed iniziata da tanti secoli alla giustizia e alla carità cristiana!»11.
1 A. TOFFLER, Lo choc del futuro, Torino, Einaudi, 1972 (Civ. Catt. 1977 IV 349-362).
2 P. CHAUNU, De l’histoire à la prospective, Paris, Laffont, 1975, 8º, 398; Storia e scienza del futuro, Torino, SEI, 1977, 8º, 353. L. 4.000. I rimandi di questa rassegna si riferiscono a questa versione italiana (ritoccata da noi).
3 Nel 1971 l’Autore pubblicava una delle sue opere maggiori: La civilisation de l’Europe des Lumières. Il direttore della rivista Informations, Jacques Klein, ne fece ampie lodi, e l’invitò a collaborare a detta rivista. Un terzo di questo volume raccoglie, appunto, le sue collaborazioni degli anni 1971-1974, mentre il resto è in gran parte l’eco delle conversazioni tra i due sul tema-tesi: oltre che a farci conoscere il presente, la storia può aiutarci ad antivedere il nostro futuro prossimo.
4 O «calcolatori ibridi»: termine generalmente usato per indicare i sistemi misti di elaborazione elettronica di dati, in cui sono combinati organi di calcolo analogici (= calcolatori della seconda generazione) ed organi di calcolo digitali (= della prima generazione), così assicurando i vantaggi combinati dei due tipi di elaborazioni. «Vengono usati per applicazioni scientifiche o per controllo di processi industriali: in entrambi questi casi l’utilizzazione sfrutta infatti la capacità della macchina di trattare dati, sia in forma continua che in forma discreta (ossia digitale), e la possibilità di usare, sia i programmi digitali con la loro maggiore precisione, sia le funzioni analogiche di integrazione con la loro maggior velocità» (cfr A. CHANDOR, Dizionario di informatica, Bologna 1972, 36).
5 Precisa l’Autore: «La “prospettiva” è il termine medio del futuro, fra una proiezione puramente deduttiva e una futurologia puramente inventiva, un settore intermedio che allea la deduzione all’induzione, il sicuro al meno certo, in una tensione intelligente alla ricerca del possibile» (p. 258). «La distanza che separa la “prospettiva” dalla proiezione non sarà mai marcata a sufficienza [...]. La proiezione è un preliminare, governa ogni tentativo di andare oltre. La “prospettiva” è una proiezione corretta» (p. 261). Analogamente il Dictionnaire général des sciences humaines, di G. THINES e A. LEMPEREUR (Paris, 1975). «Il termine prospective è stato introdotto da Gaston Berger per indicare una forma di riflessione sull’avvenire, che si applica a descriverne le strutture più generali ed a estrarne gli elementi di un metodo applicabile al nostro mondo in accelerazione [...]. La prospective si distingue dalla previsione in quanto quest’ultima prolunga le linee di forza messe in luce dall’analisi del passato. La prospective rifiuta di entrare nell’avvenire all’indietro; essa è piuttosto un progetto, un’anticipazione. Non si tratta di proiettare il passato nel futuro, ma di costruire il futuro mettendo in opera l’immaginazione creatrice» (p. 9).
6 Scrive: «I gruppi di pressione favorevoli all’aborto, antico misfatto che la società ebraico-cristiana era riuscita ad eliminare, hanno potuto impedire la conoscenza delle prove scientifiche. Ma qua e là, specie in USA, la cospirazione del silenzio si va rompendo [...]. Può essere però che [...] quanti si battono per l’antico diritto di uccidere, riconoscendo alla donna il potere già riconosciuto all’antico pater familias, segnino ancora dei successi. Ma questi andranno contro quanto faticosamente è stato acquisito nel corso dei secoli. La loro vittoria mina i fondamenti del nostro diritto – ammesso, infatti, il diritto di uccidere i bambini, ci sarà anche quello di uccidere i vecchi e di eliminare gli inutili –, e mette in causa il principio superiore e fondamentale della morale, quella ragion pratica che Kant aveva recuperato per la nostra società laica, dalla nostra più antica e duratura eredità ebraico-cristiana» (p. 312).
7 A proposito del petrolio osserva (riassumiamo): «Secondo i maghi del MIT, nel 1971 la terra poteva contare ancora sul petrolio per non più di vent’anni; poi sarebbe stata la fine – dato che esso forniva il 70% dell’energia consumata – a cominciare dall’agricoltura intensiva, per mancanza di concimi e di trattori. Ma l’allarme ha sortito come effetto positivo la crisi petrolifera del 1973-’74, causata innanzi tutto dalla guerra del Kippur, ma anche dall’incredibile caduta del valore di acquisto, rispetto ai prodotti industriali, della prima di tutte le materie prime (il petrolio il 70% di quanto circola in mare), in venti anni di spreco, e di sfruttamento delle popolazioni povere del Terzo Mondo ad opera delle potenze industriali. L’allarme apocalittico del MIT non ha fatto che denunciare l’imprudente politica dei potentes, e spingere i Paesi arabi a rivendicare quanto loro si diceva essere dovuto. Un rialzo salutare, e ancora insufficiente, del petrolio ha affrettato la sua sostituzione con altre fonti energetiche e la sua conservazione per usi molto più vantaggiosi. Esso, infatti, costituisce un favoloso deposito di proteine, capace di esorcizzare per diecimila anni tutti ali spettri della fame del mondo» (pp. 76 ss.).
8 A conferma, l’Autore riporta alcuni dati. Per l’Inghilterra: prima della legge del 27 aprile 1968 gli aborti clandestini dovevano aggirarsi sui 15-20.000 l’anno; dopo la legge, gli aborti legali toccano i 160.000 l’anno. Per la Francia, alla stessa data, gli aborti clandestini non dovevano superare i 100.000; dieci anni dopo, quelli legali toccavano i 200.000. Altri dati riguardano l’URSS ed alcune Repubbliche dell’Est (pp. 312 s.)
9 Segnaliamo, tra le altre, le sue riserve sulle possibilità di un marxismo dal volto umano (pp. 196, 200, 244), i suoi rilievi non conformisti sul mito-spauracchio di un Cile quale unico luogo diabolico-fascista (pp. 241-246), e sulle responsabilità mondiali degli USA (pp. 203 ss.), e soprattutto sull’inattendibilità di certe inchieste (per esempio, su i vari rapporti tipo Kinsey), e sull’assurdo di morali che giustifichino le proprie norme basandosi sulle «medie» dei comportamenti (pp. 320).
Qualche discussione, invece, crediamo che meriterebbero i problemi dei rapporti Chiesa-mondo-socialismo, e fede-tradizione-aggiornamento, toccati dallo Chaunu alle pp. 344 ss.
10 Nota, a proposito di decolonizzazione: «Per i mezzi di comunicazione di massa [...], ci sono stati un vincitore: il Terzo Mondo, e un vinto: l’Europa [...]. La colonizzazione era stata un misfatto; ma non in quanto colonizzazione, dato che quella russa e quella cinese sono buone – anzi, neanche sono colonizzazione –, ed anche quelle dei Nigeriani sul Biafra e dei Sudanesi musulmani sui Sudanesi animisti o cristiani. Quella dell’Europa era cattiva soltanto perché era europea. Nessun altro avvenimento ha provocato un impatto psicologico tanto massiccio e catastrofico. Si è manipolata la decolonizzazione come si è manipolata la Resistenza» (p. 135). «Una storia quantitativa rigorosamente scientifica [...] dovrebbe togliere all’Europa il suo senso di colpa. Un tempo gli Europei, rispetto al resto del mondo e al meraviglioso tesoro di ricchezze delle altre civiltà [...] soffrivano di un ridicolo complesso di superiorità. Oggi i nostalgici della diplomazia delle cannoniere dove sono? I tempi sono cambiati [...]. Ma rifiutare il retaggio ereditato per una visione errata della storia della colonizzazione e della decolonizzazione, sarebbe anche più ridicolo e pericoloso» (p. 137).
11 Civ. Catt. 1969 I 579; 1970 II 274.