Articolo estratto dal volume III del 1977 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
L’Art. 1 della Legge n. 103, del 14 aprile 1975: «Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva» – , più nota- come Legge di Riforma della Rai-TV - afferma che «la diffusione di programmi radiofonici e televisivi è un servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale». L’enunciato potrebbe sembrare un innocuo, quanto generico ed ovvio, riconoscimento delle rilevanti potenzialità sociali dei due mass media, ma così non è. Lo dimostrano l’espresso riferimento che la Legge fa all’art. 43 della Costituzione, ed il fatto che, dopo il sentenziato della Corte Costituzionale, soprattutto partendo da questo enunciato la Legge giustifica, tra l’altro, la riserva allo Stato dello stesso servizio e la concessione di esso in esclusiva alla RAI-Radiotelevisione Italiana, S.p.A.
Merita quindi – cosa che ci proponiamo di fare in questo studio – analizzarne e soppesarne i termini e i concetti, per chiarire – se possibile – non solo rilevanti questioni strettamente giuridiche, ma anche possibilità operative e responsabilità, tanto degli operatori del «servizio» stesso, quanto di noi, pubblico, che ne dovremmo essere gli «utenti»1.
Abbiamo sempre diffidato dei monopoli di Stato. Perciò, quando la Legge di Riforma era ancora in gestazione, in una nostra «proposta ideale per un’Italia ideale», optammo per una televisione a monopolio pubblico temperato, tanto a livello centrale quanto a livello regionale; proponendo: a livello centrale – sul modello inglese – un ente concessionario, affiancato da uno o più altri autorizzati, di libera iniziativa; e, a livello regionale – sul modello tedesco –, altrettanti enti concessionari, anche questi affiancati da altri, liberi autorizzati. E, una volta approvata la Legge di Riforma, che confermava il regime di monopolio statale, denunciammo come «fuorviante il concetto di un monopolio di Stato quale servizio pubblico: concetto sul quale tutta la Legge si fonda»2; e tale perdura la nostra opinione.
Intanto, per vederci un po’ chiaro in argomento bisognerebbe precisare che cosa propriamente s’intende per «servizio pubblico» e, prima ancora, mettersi d’accordo sull’accezione di altri termini correlativi ad esso, quali: attività (o ragioni, casi...) «di (preminente) utilità sociale (o pubblica, generale...)», «di (preminente) interesse generale (o pubblico, dello Stato, nazionale...) , ecc. Ora si dà il caso che leggi, convenzioni e disposizioni3, che pur ne fanno largo uso, non si rifanno ad accezioni univoche, bensì a più o meno sinonime, o sfuggenti, se non anche ambigue4.
Prendiamo, ad esempio, il termine «servizio». In accezione generalissima dovrebbe significare qualsiasi prestazione diretta a soddisfare legittime esigenze altrui, private o pubbliche che siano; quali, ad esempio, l’educazione dei minori, la cura degli infermi, e simili, che la tradizione cristiana qualificava «opere di misericordia», spirituali o corporali. Ma queste prestazioni non s’identificano affatto, né necessariamente si esaudscono, nei «servizi» in accezione di istituzioni giuridiche, o di aziende, che le pratichino, quali, ad esempio, i «servizi» scolastici ed ospedalieri, e – più attinenti all’argomento che c’interessa – i «servizi» postale, telefonico e di radiotelevisione circolare.
Anche sull’aggettivo «pubblico» si equivoca, con conseguenze giuridiche e pratiche non indifferenti. Càpita, per esempio, quando «pubblico» si fa sinonimo di «(para-)statale», per poi qualificare «privato» tutto ciò – funzioni, attività ed istituzioni – che (para-)statale non sia5; e càpita soprattutto quando – magari scambiato con gli analogici «sociale», «generale», «nazionale», ecc. – serva a dichiarare «essenziali», o «preminenti», alcuni interessi, necessità o utilità, per così avocare alcune attività «private» a determinati «servizi pubblici»6.
Deduzioni discutibili
In mancanza di una concordata accezione comune del qualificativo «pubblico», i giudizi di prevalente pubblico interesse o utilità, di fatto varieranno, da una parte, nel tempo, secondo il mutare, oggi rapidissimo, di fattori oggettivi tecno-economici e socio-culturali; dall’altra, a tutti i livelli territoriali – comunale, regionale, e nazionale -, varieranno secondo le più o meno liberali o totalitarie concezioni che della persona umana e dello Stato hanno le diverse dottrine economico-politico-sociali, ed i partiti (o i sindacati) che le sostengano: il «libero», sia privato sia pubblico, riducendosi pressoché a nulla tanto nei regimi di tipo fascista, nei quali lo Stato è tutto, quanto in quelli marxisti, nei quali l’individuo si dissolve nella classe, e il privato si dissolve nel collettivo (e politico).
Se si tratta dunque di rifarsi ad una concezione dello Stato che rispetti i diritti e le libertà fondamentali della persona umana, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali, i cattolici la riconoscono nei documenti del Magistero Romano specialmente di questi ultimi decenni, dove, particolarmente attinenti al nostro argomento, trovano le seguenti asserzioni:
- Stato e bene comune - «La comunità politica esiste in funzione del bene comune [...], quale si concreta nell’insieme delle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni, il conseguimento più pieno e spedito della loro perfezione»;
- Interventi dello Stato - «Ai tempi nostri, la complessità dei problemi obbliga i pubblici poteri ad intervenire più frequentemente in materia sociale, economica e culturale, per determinare le condizioni più favorevoli che permettano ai cittadini e ai gruppi di perseguire più efficacemente [...] il bene completo dell’uomo»;
- Norma della piena libertà; - Tuttavia, «nella società va rispettata la norma generale della piena libertà, secondo la quale all’uomo va riconosciuta la libertà più ampia possibile, da non limitare se non quando ed in quanto è necessario»;
- Stato e mass media - «In ragione del bene comune al quale essi sono ordinati, speciali doveri incombono sull’autorità civile riguardo ai mass media. In particolare, è suo dovere difendere e proteggere [...] la vera e giusta libertà d’informazione, che è indispensabile alla società odierna per il suo progresso»;
- Principio di sussidiarietà; - Ma, a tutti i livelli, «le autorità devono rispettare il principio del potere partecipato, detto “di sussidiarietà”, secondo il quale l’autorità non deve accollarsi o condurre iniziative quando altri, individui o gruppi, possono altrettanto bene, e forse meglio, intraprenderle e condurle a buon fine»7.
Per parte sua, il cittadino italiano trova nella Costituzione sufficienti elementi che collimano con questa concezione cattolica.
«La Repubblica – vi è detto – riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità» (Art. 2); «È suo compito rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (Art. 3); essa «adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» (Art. 5)...; e, per quanto riguarda più da vicino il nostro argomento, la Costituzione dichiara «inviolabile la libertà di ogni forma di comunicazione» (Art. 15), riconosce a «tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero [...] con ogni mezzo di diffusione» (Art. 21); in particolare riconosce «libero l’insegnamento dell’arte e della scienza» (Art. 33) e libera «la propaganda della propria fede religiosa» (Art. 19).
Né vanno dimenticate, in argomento, «le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», alle quali, secondo l’Art. 10 della Cost., «l’ordinamento giuridico italiano si conforma».
Ora l’Art. 19 della Convenzione Internazionale (16 dic. 1966), applicativa della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (ONU: 16 dic. 1948), reca: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione; tale diritto comporta la libertà di [...] ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere [...] , attraverso qualsiasi mezzo di sua scelta»; e il Trattato di Roma (4 nov. 1950 – 3 sett. 1953), divenuto norma interna dello Stato Italiano (Legge n. 848, del 4 ag. 1955), nell’Art. 10 conviene che «Toute personne a droit à la liberté d’expression [...], d’opinion, de recevoir ou de communiquer des informations ou des idées sans qu’il puisse y avoir engérence d’autorité publique».
His positis, riteniamo molto discutibili non pochi passaggi logici, dichiarati o meno, con i quali in Italia si è pervenuti: prima a legittimare il rinnovato monopolio statale del servizio radiotelevisivo, poi a formulare la Legge di Riforma, ed infine ad applicare arbitrariamente la stessa.
Com’è noto, si è giustificato il monopolio statale del servizio radiotelevisivo prima di tutto ex Art. 43 della Cost. costatando che s i tratta di un «servizio essenziale e a carattere di preminente interesse sociale». Ma – a prescindere dal ritardo con cui il legislatore ha fatto propria questa ratio – il guaio è che non si è curato di precisare che cosa abbia inteso per «servizio radiotelevisivo»8; quando la dizione era suscettibile di due accezioni: quella di apparato tecnico-amministrativo vòlto alla produzione-irradiazione dei programmi – e saremmo al momento strumentale: della «comunicazione-veicolo» –; oppure quella degli stessi programmi prodotti e irradiati – e saremmo al momento comunicativo-attivo: dei «contenuti -.
Vero è che, ai fini di eventuali regimi di riserva, la distinzione è da ritenere praticamente irrilevante quando si tratti di servizi di produzione-trasporto di «contenuti» sostanzialmente omogenei, quali, ad esempio, i servizi municipalizzati, delle ferrovie e dell’elettricità; ma è da ritenere rilevantissima nel caso di un servizio come quello radiotelevisivo qualora si abiliti, non solo ad assicurare continuità efficienza e sicurezza nella circolazione di messaggi altrui – com’è (o, almeno, come dovrebbe essere!) il caso dei servizi telefonico e telegrafico, e di quello postale rispetto alle lettere e ai giornali –, ma anche a condizionare questi liberi messaggi altrui e ad irradiarne massicciamente di propri. In questo caso, dato e non concesso che la ratio di «servizio essenziale a carattere di preminente interesse sociale» ne imponga o ne permetta l’avocazione allo Stato, è lecito chiedersi se questa, tanto su piano naziohale quanto su piano regionale e locale – stando alla concezione dello Stato (cristiana e) costituzionale sopra esposta – debba o possa comprendere anche il controllo dei «servizi-messaggi», oppure se non possa e debba limitarsi al solo controllo della proprietà e gestione del servizio tecnico. Notava il Giannini:
Anche ammesso il carattere sociale del servizio delle radiodiffusioni, non ne discende necessariamente che esso debba essere organizzato come servizio di Stato e con carattere monopolistico, poiché l’interesse dello Stato a che il servizio sia garantito si consegue anche col solo controllo del medesimo, imponendone l’esercizio in conformità dell’accennata finalità»9.
Non basta. Le sottigliezze addotte dalla Corte Costituzionale e da alcuni «addetti ai lavori» per dichiarare legittimo il monopolio statale ex Art. 43 della Cost., sia pure in riferimento agli Artt. 21, 33 e 41, non riescono a convincerci. Il semplice fatto che detto Art. 43 sia compreso, nella Costituzione, sotto il titolo Rapporti economici, e che gli articoli che immediatamente lo precedono trattino solo di «iniziative e attività economiche» (Art. 41) e di «proprietà e beni economici» (Art. 42), induce a ritenere che le «(categorie di) imprese» che l’Art. 43 concede alla legge di poter riservare «allo Stato, ad enti pubblici o» – si noti – «a comunità di lavoratori o di utenti», siano esclusivamente quelle appunto economiche di produzione e di commercio di prodotti o servizi; nelle quali certamente non rientrano i servizi radiotelevisivi, in cui l’interesse più generale non è di ordine economico, potendosene tra l’altro ipotizzare di privi di ogni scopo di lucro. A conferma, ancora nel 1965 questo era il pensiero della stessa Corte Costituzionale. Commentandone la Sentenza n. 58, del 6 luglio 1965, A. Fragola notava:
«Certo è che la concessione riflette materia attinente alla iniziativa economica; per cui, quando, come nella specie radiotelevisiva, l’interesse generale non è di ordine economico ma del tutto diverso, si può anche dubitare che lo strumento concessorio sia il più idoneo. L’appartenenza allo Stato dei servizi delle radiodiffusioni non deriva dalla necessità o dall’opportunità di sottrarre alla disponibilità privata un’attività i cui contenuti sono molteplici, con prevalenza però di quelli culturali, didattici, informativi, di svago e di divertimento, rispetto agli altri del tutto marginali [...]. E poiché questa diversità di contenuti dà luogo ad una pluralità di interessi specifici, tutti conglobati nella formula del preminente interesse generale, l’intervento dello Stato non può conseguentemente manifestarsi attraverso strumenti di regola adoperati per assicurare il buon andamento dell’economia generale, come l’autorizzazione o la concessione»10.
Ancora. Possiamo anche sorvolare sulla disinvoltura con la quale, per la radiotelevisione, la Corte Costituzionale – Sentenze n. 59 del 1960, e n. 225 del 1974 – torna ad equiparare una possibile situazione di oligopolio a quella di monopolio: sola ipotizzata nell’Art. 4311; ma non sulla disinvoltura con la quale la stessa poi assicura che solo lo Stato monopolista si trova istituzionalmente nelle condizioni di obiettività e imparzialità per realizzare il precetto costituzionale vòlto ad assicurare ai singoli le possibilità di diffondere il pensiero con qualsiasi mezzo. Dato e non concesso che possa esserlo, appunto, istituzionalmente, è lecito chiedersi se lo sia, poi, in una realtà radicalmente politicizzata quale l’italiana. Non era, forse, «Stato monopolista» quello del ventennio nero? Non «Stato monopolista» quello della gestione RAI-TV 1952-1975, contro la quale si è invocata e puntata – e, vedremo subito come, applicata – la Legge di Riforma? Tanto meno possiamo sorvolare sull’incongruenza, anche più macroscopica, con la quale si giustifica un monopolio statale esteso dal momento strumentale a quello comunicativo-attivo, ignorando tutta la latitudine ed eterogeneità dei contenuti comunicabili, e già di fatto comunicati, dal servizio (radio-) televisivo, grosso modo distinti in informazione, formazione e svago. Già una decina di anni fa, quando la televisione non era quella di oggi, si poteva affermare:
«Il televisore installato tra le mura domestiche sta raccogliendo in sé le funzioni del maestro dell’antica paideia, del cantastorie delle folle medievali, del giullare nelle corti del Rinascimento, del tribuno avanti alla Bastiglia, del venditore di elisir di lunga vita, via via sino a quelle più moderne della galleria d’arte e del concerto, del quotidiano d’informazione e del manuale storico, geografico, etnografico, astronautico...».
Che faremo quando, nel «futuro che è già cominciato», la televisione cumulerà tutte le prestazioni dell’unica, integrata, globale ed universale «comunicazione tecnotronica»?12. La devolveremo, allora, tutta, per legge, allo «Stato monopolista»? Dato che, per riservargli il servizio radiotelevisivo è bastato riconoscerlo «vòlto ad ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in conformità ai principi sanciti dalla Costituzione», non sarebbe poi tanto difficile riferirsi, all’uopo, anche agli Artt. 9, 32, 33, 35, 38, 45 e 47 della Costituzione, nei quali la Repubblica sancisce la propria tutela, rispettivamente, per lo sviluppo della cultura, per la salute, per l’istruzione, per la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, per l’assistenza sociale, la cooperazione mutualistica e l’artigianato, il risparmio e il credito...
Legge-Riforma e regolamenti
Ne siano o no convincenti le ragioni addotte, sta il fatto che ci troviamo, in Italia, con un servizio pubblico radiotelevisivo che, almeno in linea di principio, si qualifica come monopolio statale. Occorre prenderne atto, e vedere come, almeno, il suo esercizio si configuri secondo il disposto della Legge di Riforma, nonché dei decreti e regolamenti esecutivi che ne hanno attuata l’interpretazione13. Anche qui, a molti «addetti ai lavori» – e a noi con essi – molti punti appaiono assai discutibili. Uno – marginale, ma non tanto – riguarda la pubblicità. Ci si è chiesti se – per la natura dei prodotti e dei servizi pubblicizzati, e soprattutto per i discutibilissimi condizionamenti psicologici a cui la pubblicità, anche radiotelevisiva, ricorre14, – essa serva davvero la cultura, l’istruzione, l’elevazione e la salute dei cittadini, che la Repubblica afferma, appunto, di voler tutelare; inoltre ci si è chiesti se la RAI-TV possa ricorrere alla pubblicità come a fonte accessoria di cespiti, quando poi i suoi utenti sono costretti a pagare il «servizio pubblico» mediante una tassa-canone di abbonamento; ed infine se, su piano di libertà economica (Art. 41 Cost.) e di manifestazione di pensiero (Art. 21), il suo possa dirsi un autentico servizio alla collettività, quando essa, da una parte riduce all’asfissia la stampa sottraendole l’ossigeno pubblicitario e, dall’altra, vieta la pubblicità ai ripetitori esteri.
La patente anomalia della situazione è avvertita dagli stessi testi in esame. A parte, infatti, l’assurdità – di cui subito – di una Commissione Parlamentare che si autorizza a sindacare contenuti e forme dei messaggi pubblicitari –, nella Risoluzione del 23 ott. 1975 la stessa Commissione fa obbligo alla RAI-TV
«di avanzare proposte in ordine agli interventi di pubblicità radiotelevisiva correttiva per l’orientamento attivo dei consumatori e l’eliminazione delle distorsioni determinate dalla pubblicità, nonché in ordine all’introduzione del divieto della pubblicità comparativa non basata su interessi pubblici»; dal canto suo ripromettendosi, la stessa Commissione, di «provvedere tempestivamente ad indicare le percentuali di progressiva riduzione della pubblicità per le bevande superalcooliche [...] e ad esaminare, per una riduzione o eventuale abolizione, la pubblicità per i prodotti farmaceutici»15.
Ma veniamo a quella che – insieme all’istituto grottescamente detto «dell’accesso»16 – è una delle due novità più qualificanti la Legge di Riforma: la Commissione Parlamentare di vigilanza, non a torto definita dal sen. Bettiza «una mostruosità costituzionale»17.
Anomala, intanto, è la sua composizione autocratica. Si sa come sono andate le cose. Proteste da tutte le parti politiche – anche da quelle alle quali sta benissimo che in URSS la radiotelevisione sia amministrata da un Comitato dipendente dal Consiglio dei Ministri - avevano denunciato l’invadenza nella RAI-TV da parte di un Esecutivo tutto a servizio delle proprie forze politiche (lèggi: della DC, ma non solo di essa!). Di qui, da parte della Corte Costituzionale – Sentenza 225 del 1974 – le due direttive: 1) che gli organi direttivi dell’ente gestore non fossero più, direttamente o indirettamente, espressione esclusiva o preponderante del potere esecutivo; 2) che, per controllare l’imparzialità dell’informazione e la pluralità culturale degli altri programmi fossero «riconosciuti adeguati poteri al Parlamento».
In verità, l’attuazione di queste direttive comportava più di una soluzione. Tale, ad esempio, quella di affidare la vigilanza ad una commissione di parlamentari integrata da membri «laici», portavoce di istanze popolari e culturali extra-partitiche; oppure, e migliore! – sull’esempio dell’esperienza britannica – quella di un tutto «laico» Comitato di garanti, con funzione di vigilanza intermedia tra Commissione Parlamentare e Consiglio di Amministrazione della RAI-TV: Già prospettata nella Relazione Quartulli-1972, e poi proposta nel primo dei due Disegni di legge di riforma presentati dal Governo, questa soluzione venne sacrificata per scongiurare l’ostruzionismo del MSI. Si approvò quindi una Legge di Riforma che riconosce ad un organo delle Camere18, non, come richiesto dalla Corte Costituzionale, «adeguati», ma tutti i poteri di vigilanza sul servizio radiotelevisivo, con tanto di diretta ingerenza nell’ente gestore; in tal modo non eliminando, certo, la possibilità di oligopoli partitici, non meno dannosi di quello (economico?) paventato dalla Corte. Quali, in realtà, questi suoi poteri? Tali – opiniamo – da non rispettare le regole dettate dalla Costituzione. E ciò, sia in forza della Legge di Riforma (Artt. 4 e 6), sia e soprattutto in forza del Regolamento della Commissione di vigilanza. Il quale, infatti, non si limita a regolamentarne il funzionamento interno, ma si allarga a legiferare ben oltre «i principi e le finalità» (Art. 1) intesi dalla Legge stessa. Infatti, tra le altre competenze, le vengono affidate quelle di eleggere 10 su 16 membri del Consiglio di Amministrazione della RAI-TV, il Collegio Sindacale della stessa (Artt. 14, 1 e 4) ed, eventualmente, anche il Collegio Commissariale (Art. 15); inoltre la Commissione viene abilitata ad emettere giudizi, si direbbe, di merito sui messaggi pubblicitari (Art. 17, 3), a disciplinare direttamente le «Tribune» e, soprattutto, «a stabilire le norme per garantire l’accesso al mezzo radiotelevisivo e per le decisioni [insindacabili?] dei ricorsi contro le deliberazioni della competente Sottocommissione» (Art. 19): vale a dire – come nota R. Zaccaria – «a disciplinare, con conseguenze pratiche a volte assai rilevanti, le posizioni soggettive di individui e di organismi estranei all’organizzazione parlamentare».
Evidentemente ci si trova – com’era stato già rilevato in Parlamento durante la discussione della Legge, e come prosegue lo stesso Autore – davanti a «qualcosa di atipico, di cui non sembra possibile trovare precedenti significativi nella storia parlamentare»19. Sicché – se è vero, com’è vero – che nel nostro ordinamento costituzionale, che poggia sulla separazione dei poteri, le responsabilità di gestione possono far capo esclusivamente agli organi della Pubblica Amministrazione –, come dar torto a chi vi ha visto una riuscita manovra del PCI per stare in qualche modo al Governo rimanendo all’opposizione?
Ha commentato F. D’Onofrio: Si rileva «la tendenza delle forze politiche estranee alla maggioranza, e specialmente dei comunisti, a fare del Parlamento la sede di decisioni politiche, oltre che di attività legislativa, onde conferire dignità operativa concreta alla legittimazione popolare della rappresentanza parlamentare, sì da rendere la presenza parlamentare momento essenziale di un’effettiva attività di governo, al di fuori di una visione del sistema parlamentare ancorata alla contrapposizione tra maggioranza che governa ed opposizione che controlla. Così la Riforma ha sanzionato in un settore il ruolo di governo al Parlamento, con esclusione di quello dell’Esecutivo»20.
Per finire in argomento di Legge di Riforma e del relativo Regolamento: frutti, l’una, di compromessi e cedimenti politici e, l’altro, di un’inaccettabile interpretazione, è da chiedersi se almeno abbiano impedito la lottizzazione politica del «servizio pubblico», denunciata nella disciplina precedente; e la realtà dimostra che no. Certo, si è affermato – come s’è visto – che lo Stato monopolista si trova nelle migliori condizioni per assicurare l’obiettività ed imparzialità dell’informazione, e si è fatto obbligo ai giornalisti della RAI-TV di attenersi ad essa; ma, di fatto, la lottizzazione si è ripetuta, tanto dei posti di responsabilità direttiva ed operativa, quanto di testate servizi e reti, qualificandoli ed opponendoli ideologicamente. Esempio ne siano i «cattolici» GR2 e TV1 da una parte, e i «laici» GR1 e TV2 dall’altra. Il tutto mitizzando su una taumaturgica «professionalità» dei giornalisti e su un fantomatico loro codice di deontologia professionale, ignorando, tra l’altro, che molti giornalisti «impegnati» sostengono fin l’impossibilità e l’assurdo di un’informazione «obiettiva»21.
Il cosiddetto «istituto di accesso»
Come già notato, questa è la seconda novità che più qualifica la Legge di Riforma. Ad esso possono ricondursi il diritto di rettifica e le quattro «Tribune»: politica, elettorale, sindacale e stampa; infine e soprattutto quell’accesso propriamente detto al quale la Legge di Riforma riserva «tempi non inferiori al 5 per cento del totale delle ore di programmazione televisiva, e al 3 per cento del totale delle ore di programmazione radiofonica» (Art. 6). Ora merita notare che i primi due capitoli – della rettifica e delle «Tribune» – non si riallacciano necessariamente ad un «servizio pubblico» radiotelevisivo svolto in regime di monopolio, stante il diritto di ogni uomo ad essere reintegrato nei suoi interessi materiali o morali (cfr Art. 7) da chiunque glieli leda, e stante il diritto di tutti i cittadini di poter fare responsabilmente le proprie scelte (politiche), e perciò ad essere debitamente informati; diritto al quale si ispira, ad esempio, l’equal time del n. 315 del Federai Communications Act statunitense, secondo il quale le stazioni radiotelevisive che si offrono alla propaganda politica devono riservare tempi uguali ai candidati concorrenti. Invece il terzo capitolo – dell’accesso propriamente detto – , secondo la stessa Corte Costituzionale (Sentenza 225, del l974), in tanto sussiste in quanto di diritto sussiste un «servizio pubblico» radiotelevisivo monopolistico.
S’è detto: «di diritto»; ma esiste di fatto? La stessa Corte Costituzionale l’ha battuto in breccia dichiarando legittima la liberalizzazione, prima della televisione via-cavo, poi delle radiotelevisioni a raggio regionale e locale, infine delle ripetitrici nazionali ed estere; ed a questa liberalizzazione legittimata si è aggiunta quella del proliferare selvaggio delle radiotelevisioni «libere». Ciò, se, da una parte, ha incrementato dubbi circa la limitatezza del mezzo tecnico com’è stata bandita dalla Corte per legittimare il monopolio statale, dall’altra si direbbe che abbia svuotato quasi del tutto l’esigenza dell’accesso.
* * *
Questo rilievo induce a due ordini di considerazioni. La prima verte sullo stupefacente anacronismo delle Sentenze della Corte e delle discussioni parlamentari intorno alla Legge di Riforma, e sulle scelte alle quali sono approdate, istituto di accesso compreso. Come non prevederne la rapida senescenza ed impraticabilità in conseguenza della odierna sempre più veloce – diciamo pure: esplosiva – evoluzione tecnologica? Come non avvertire che, per la pressione di questa – e non siamo ancora alla radiotelevisione-diretta-tuttofare-domiciliare-via-satellite! – tutto il vecchio modello monopolistico unidirezionale è in crisi? Si direbbe che Corte e Parlamento vivano indietro nei tempi, quando leggi sovrane cercavano – con editti, gride, multe, sequestri e falò di libri – di conservare «Privilegio del Re» la stampa: e s’è visto con quali risultati! Tanto sarebbero state attuali ipotetiche leggi USA per disciplinare, nel 1909, un monopolio statale delle diligenze a cavalli, quando Ford avviava la catena di montaggio del suo Modello T in quindici milioni di esemplari...: con la differenza che, nei tempi passati, l’evoluzione tecnologica prendeva secoli, mentre oggi prende solo anni, se non soltanto mesi e giorni.
L’altra considerazione riguarda – finché il «servizio pubblico» radio-televisivo la consenta e la richieda – l’utilizzazione ottimale del diritto di accesso, che oggi in Italia implica anche un dovere primario. Occorre sensibilizzare e sollecitare i cittadini al suo esercizio e adempimento, ma anche renderglielo il più agevole possibile. E pure a ciò non sembra che soddisfino appieno Legge e Regolamento, dati i poteri discrezionali, per giunta insindacabili, che circa il giudizio di ammissibilità attribuiscono alla Sottocommissione e alla Commissione; poteri che sembrano ridurre legittimi diritti di individui e di gruppi a meri interessi protetti o estranei ad essi.
* * *
In conclusione. Per disporre di un «servizio pubblico» radio-televisivo ideale, forse il discorso logico da seguire, in un’Italia ideale, era un altro. Occorreva partire costatando che la radiotelevisione, soprattutto come informazione, nella società di oggi è, e resterà sempre più, una necessità primaria, e riconoscere, perciò, che chi onestamente vi opera svolge un servizio di ovvia pubblica utilità; avocarlo allo Stato solo ed in quanto richiesto dal bene comune, e permesso dalla Costituzione; in questo caso: formulare una Legge e un Regolamento solleciti, prima di tutto e soprattutto, dei diritti e degli interessi della comunità, e non degli interessi di più o meno prepotenti gruppi di potere. Ma l’Italia, sotto alcuni aspetti, Paese ideale non è; perciò abbiamo un «servizio pubblico» regolamentato da una Legge e da un Regolamento che sono quello che sono.
Non resta che confidare nella saggezza e nella buona volontà di quanti operano in esso, perché sfruttino bene i lati buoni che Legge e Regolamento pur presentano, e ne evitino al possibile le storture. Ma confidare soprattutto in un’adeguata urgente sensibilizzazione e formazione del pubblico radiotelevisivo affinché, monopolio o non monopolio, sappia sempre scegliere responsabilmente e giudicare maturamente.
Un’impresa alla quale la stessa RAI-TV, più che qualsiasi altro istituto, potrebbe e dovrebbe contribuire, se vuole essere e funzionare realmente da «servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale».
* Si rielabora un contributo, gentilmente richiesto dal Direttore delle «Tribune», sig. Jader Jacobelli, per il numero speciale di Tribune e Accesso-Quaderni di documentazione, diffuso esclusivamente fra gli «addetti ai lavori», parlamentari e professionisti.
1 Nell’abbondantissima bibliografia in argomento teniamo presenti soprattutto:
- Antecedenti alla Riforma (in ordine cronologico): A. GIANNINI, Il diritto dello spettacolo, Roma 1959 (Civ. Catt. 1960 IV 625); AA.VV., Rai come servizio pubblico, Roma 1963; C. CANTARANO, Codice della legislazione sullo spettacolo, Roma 1968; E. SANTORO, L’evoluzione legislativa in materia di radiodiffusione circolare (in Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 1969, n. 1, 3); L. PAOLICCHI, Potere e responsabilità della RAI (ivi, 1970, n. 1, 1), F. PIGA, Monopolio e privatizzazione (ivi, 1970, n. 1, 15); A. CADEMARTORI – A. VALLETTI BORGNINI, Il nuovo Codice Postale delle telecomunicazioni, ivi, 1973, nn. 1-3, 1); C. CHIOLA, Il pluralismo nella gestione dei servizi radiotelevisivi (ivi, 1975, n. 1, 15); F. D’ONOFRIO, Riforma dei servizi radiotelevisivi e sistema di governo (ivi, 1975, n. 1, 29, con Bibl.); E. GOROSTIAGA, Sobre las libertades y derechos fundamentales en radio-televisión (ivi, 1975, n. 3, 430).
- Posteriori alla Riforma (in ordine alfabetico): G. AMATO, Monopolio e pluralismo: un dilemma che non doveva proporsi (ivi, 1976, n. 1, 1); C. CHIOLA, L’accesso dei gruppi alle trasmissioni radiotelevisive (ivi, 1976, n. 2, 212); M. G. GRISOLIA, Sulla natura dell’accesso al mezzo radiotelevisivo (ivi, 1976, n. 2, 223, con Bibl.); R. ZACCARIA, Radiotelevisione e Costituzione, Bologna, 1977 (Civ. Catt. 1977 III 442); S. Z1NGALE – L. GOTTI PORCINARI, La legge di riforma della RAI, Roma, AIART. 1976 (Civ. Catt. 1976 III 207).
2 BARAGLI, La radio-televisione è cosa nostra, in Civ. Catt. 1974 I 258; Comunicazione tecnotronica e partecipazione, ivi, 1976 IV 345.
3 Tra i testi legislativi, o attinenti ad essi, oltre agli Artt. della Costituzione, ai Codici Civile e Penale e alla Legge di Riforma-1975, si tengono presenti soprattutto i diciotto seguenti (in ordine di data): 1) Norme per il servizio delle comunicazioni senza filo (R.D. n. 1067, 8 febb. 1923); 2) Codice Postale e delle telecomunicazioni (R.D. n. 645, 27 febb. 1936); 3) Nuove norme [...] sulle radiodiffusioni circolari (D.L.C.P.S. n. 428, 3 apr. 1947); 4) Convenzione tra lo Stato e la RAl (D.P.R. n. 180, 26 genn. 1952); 5) Protocollo aggiuntivo della Convenzione Europea: 20 mar. 1952; 6) Convezione aggiuntiva tra lo Stato e RAI: 10 mar. 1956; 7) Sentenza Corte Cost. n. 59, 1J lug. 1960; 8) Nuove norme [...] radioamatori (D.P.R. n. 1214, 5 ag. 1966); 9) Nuovo Codice Postale (D.P.R. n. 156, 29 mar. 1973); 10) Relazione della Commissione di studio «Quartulli-1972; 11) Sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea: 30 apr. 1974; 12) Disegno di legge governativo presentato alla Camera dei Deputati il 21 mag. 1974; 13) Sentenze della Corte Cost. nn. 225 e 226: 10 lug. 1974; 14) Convenzione Stato-RAI (D.P.R. n. 452, 11 ag. 1975); 15) Regolamento della Commissione Parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi (1975); 16) Ordinanza del Pretore di Roma: est. Giacobbe (J genn. 1976); 17) Regolamento per l’esame delle richieste di accesso (1976); 18) Sentenza della Corte Cost. n. 202 (28 lug. 1976).
Per i testi dei meno recenti cfr gli autori citt. nella Nota 1; per gli altri cfr la rivista Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, ed anche S. ZINGALE – L. GOTTI PORCINARI, op. cit.
4 Nei testi su citati torna correntemente il termine isolato «servizio» nell’accezione generica, crediamo, di «prestazione specifica ad utile altrui (sottintendendosi «della collettività»). Di «servizi pubblici», per quanto non si qualifichino espressamente tali, si direbbe che trattino gli Artt. 5 e 98 della Cost. Il termine, invece, si trova usato in accezione specifica nell’Art. 358 del Codice Penale (mentre l’Art. 359 tratta di «servizio di pubblica necessità») e, in accezione generica, nell’Art. 10 delle «Nuove norme [...] radioamatori», del 1966. Di «servizi pubblici essenziali» tratta, invece, esplicitamente l’Art. 43 della Cost., ma in un contesto – come appresso si rileverà – esclusivamente economico.
Circa altri termini più o meno connessi a «servizio pubblico», si leggono nella Costituzione: «necessità pubbliche» (Art. 50), «interesse pubblico» (Art. 82), «interesse generale» (Artt. 35 e 42), «preminente interesse generale» (Art. 43), «interesse nazionale» (in confronto a quelli regionali: Artt. 117 e 127), «utilità generale» (Art. 43), «utilità sociale» (Art. 41), «funzione sociale» (Art. 45) ... Mentre in altre leggi, convenzioni, ecc. si leggono: (ragioni, o casi) «d’interesse pubblico» (in Norme per il servizio..., del 1923; Codice Postale, del 1936; Nuove norme [...] radioamatori, del 1966); (manifestazioni) «d’interesse generale» (nella Convenzione Stato-Rai del 1952: cfr, anche, «intérét général», nel Protocollo aggiuntivo della Conv. Europea del 1952); (dichiarazione) «di pubblica utilità», come sinonimo di «pubblico interesse» (Codice Postale del 1936, e Convenzione Stato-Rai, cit.; cfr, anche, «cause d’utilité publique» in cit. Protocollo addizionale); «interesse dello Stato» (in Convenzione aggiuntiva RAl-1956),...
5 Cfr, ad esempio, l’Art. 38 della Cost., che, trattando del diritto all’assistenza sociale, dispone che ad essa «provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato», e che «l’assistenza privata è libera». Meglio, a nostro avviso, invece, l’Art. 33, che, pur sancendo per gli «enti privati» il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, distingue esclusivamente tra scuole «statali» e «non statali».
6 Il discorso andrebbe allargato a tutta la legislazione in vigore, la quale non attribuisce valore giuridico ad una categoria intermedia tra enti pubblici e ed enti privati, quando in dottrina non è; affatto pacifica la ratio della distinzione tra personalità giuridica privata e pubblica. Certamente sono da dire pubbliche le persone giuridiche dell’amministrazione pubblica, sorte per iniziativa dello Stato, dato che questo considera come proprie le funzioni che le stesse sono chiamate ad esplicare; ma discutibile se questa condizione, sufficiente, debba essere anche l’unica necessaria per enti non statali che di fatto esplichino attività di preminente utilità sociale (cfr R. ZACCARIA, op. cit., 169, 175, 179).
7 Le prime quattro asserzioni sono prese dai documenti del Vaticano II: Gaudium et spes (nn. 74 e 75), Dignitatis humanae (n. 7) e Inter mirifica (n. 12); la quinta appartiene alla recente istruzione pastorale Communio et progressio (n. 86).
8 Come rileva la Relazione Quartulli-1972, solo nel L.C.P.S. n. 428, del 1947 inizia ad avere, da parte del legislatore, una certa considerazione l’aspetto contenutistico delle radiodiffusioni, tra i prevalenti vecchi interessi tecnico-economici facendosi strada anche quelli socio-politico-culturali. Infatti vi si parla, non più di disciplinare l’uso di impianti, bensì di necessità di disciplinare le prestazioni realizzabili per mezzo degli stessi; al quale scopo vi si sancisce l’istituzione di «un Comitato per la determinazione delle direttive di massima culturali, artistiche, educative, ecc. [...] e per la vigilanza sulla loro attuazione» (Art. 8), nonché di una «Commissione Parlamentare di alta vigilanza per assicurare l’indipendenza politica e l’obiettività informativa delle radiodiffusioni» (Art. 11). Tuttavia, nei «considerando» della Convenzione Stato-RAI del 1952 e nelle «premesse» della Convenzione aggiuntiva alla stessa, si tratta ancora di servizi come (nuovi) impianti, rilevandovisi «l’interesse dello Stato affinché tutta la popolazione italiana possa fruire del servizio di radiodiffusione e televisione nel più breve tempo possibile».
9 Da notare che pressoché tale è la situazione della radiotelevisione in Olanda, e che tale è il regime di (alcuni) cavi sottomarini, la proprietà dei quali resta all’organismo (statale) che ne ha effettuata la costruzione e la posa, che però ne concede l’uso, anche irrevocabile, ad altri. In Italia, il Codice Postale del 1936, tra gli altri tipi di concessioni telefoniche prevedeva anche quello del solo esercizio di impianti di proprietà dello Stato.
10 A. FRAGOLA, in Rassegna di diritto cinematografico, 1968, n. 1, 125; per il testo della Sentenza, cfr ivi, 1966, n. 1, 1.
Concordano molte ordinanze di Tribunali e Preture, che in argomento hanno dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale (cfr Il diritto... cit., 1976, n. 1, 56 ss.), ed anche – sembra – la Sentenza 3 apr. 1974 della Corte di Giustizia della CEE (ivi, 1974, nn. 1-2, 101 ss.), nella quale, pur riconoscendosi la natura commerciale della pubblicità; televisiva, si rileva che il monopolio dalla RAI non ricade nell’Art. 37 del Trattato di Roma, riguardante i monopoli di carattere commerciale, come risulta dal titolo sotto cui lo stesso è posto: Libera circolazione delle merci.
11 Se il ragionamento della Corte stringe a proposito di un possibile oligopolio della radiotelevisione, ci si può chiedere perché in Italia non lo si applica ad alcuni oligopoli già in atto, mutandoli – come in altri Paesi «a regime» – in monopoli di Stato. Per esempio, nel settore del cinema, dove a modello potrebbero servire anche le leggi francesi del 1940, 1948 e 1953, che lo consideravano servizio pubblico, e ne sottoposero ad autorizzazione l’esercizio professionale, escludendone molte persone dalla relativa attività (cfr A. GIANNINI, op. cit., 14). E soprattutto, perché non lo si applichi a quell’oligopolio in atto che, anche in Italia, è la stampa. Che in argomento, abbia ragione il Pretore di Poggibonsi (Ord. 15 mag. 1971, estens. Chini) scrivendo: «La verità è che la nostra coscienza si ribella all’idea di una mancanza di libertà della stampa, perché decenni e decenni di lotte ne hanno sancita l’assoluta inderogabilità in un regime civile; ma non siamo ancora altrettanto sensibilizzati all’idea di una radio e di una televisione libere, perché nel nostro Paese questo mezzo di diffusione è stato soffocato sul nascere dal fascismo: siamo condizionati e rassegnati all’idea di una radio di Stato»?
12 Cfr BARAGLI, Comunicazione tecnotronica e partecipazione, cit., con bibliografia annessa.
13 Sono, nell’ordine: il Decreto Ministeriale del 16 lug. 1975 di attuazione della Legge di Riforma; il Regolamento della Commissione Parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, del nov. 1975, e le altre Risoluzioni della stessa, concernenti gli indirizzi generali per l’attuazione dei principi fondamentali della Riforma (9 ott. 1975), e in materia di pubblicità radiotelevisiva (22 e 31 lug. 1975); infine il suo Regolamento per l’esame delle richieste di accesso al mezzo radiotelevisivo (30 apr. 1976): tutti in S. ZINGALE, op. cit., 115 ss., tranne l’ultimo, che è in Il diritto..., cit., 1976, n. 383.
14 Cfr BARAGLI, Requiem per Carosello (Civ. Catt. 1976 IV 580) e Pubblicità e mass media (ivi 1977 II 209).
15 E la stessa Commissione nella Risoluzione del 31 lug. 1975, ha cercato di tacitare le motivatissime apprensioni della stampa.
16 Salvo sviste, il termine si trova usato per la prima volta nella Relazione Quartulli-1972. La Sentenza della Corte Cost. n. 59/1960 parlava di «ammissione all’utilizzazione del servizio». Meglio, forse, A. Fragola ha proposto «diritto di utilizzazione attiva della televisione».
17 Concordano, tra gli altri, mettendone in dubbio la legittimità costituzionale: C. CHIOLA, op. cit. 23; F. D’ONOFRIO op. cit. 33 e 43; M.C. GRISOLIA, op. cit., R. ZACCARIA, op. cit. 253, 262 ss., 266-269, 295-299, 303.
18 Che si tratti di un «organo delle Camere» è indiscutibile, dato che tutti i suoi quaranta membri vi si trovano allo stesso titolo dell’appartenenza a tutte le altre Commissioni Parlamentari, ed il suo Regolamento, come quelli delle altre Commissioni Parlamentari, recando le firme dei due Presidenti (Pertini e Spagnolli).
19 Op. cit., 268, 295, 298.
20 Op. cit., 33.
21 A conferma: dando le dimissioni da direttore della Seconda Rete radiofonica, Vittorio Citterich dichiarava di non voler «essere ulteriormente coinvolto in una così distorta interpretazione della Riforma, che spinge taluni a considerare l’area del servizio pubblico radiotelevisivo come un terreno di scontro nel quale ciascuno dovrebbe rappresentare una sola parte».