Articolo estratto dal volume II del 1973 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Specialmente in questo post-Concilio, si sono andati moltiplicando gli scritti sul diritto d’informazione nella Chiesa e sull’esercizio dello stesso1. Ma, per lo più, si tratta di scritti polemici, in quanto rispecchiano o il risentimento di “informatori”, danneggiati – dicono – da un’anacronistica disciplina del segreto, oppure le apprensioni di “autorità” per una spregiudicata messa in piazza di tutto. E si tratta, inoltre, di scritti spesso parzialeggianti. Infatti, in quelli che difendono l’“autorità”, non sempre all’ortodossia della dottrina morale-pastorale fa riscontro una pari scientifica, o almeno realistica, conoscenza dell’informazione quale irreversibile odierno fenomeno sociale; mentre in quelli degli “informatori” – spesso, del resto, neanche cattolici, né credenti – sovente manca la conoscenza del pensiero ecclesiale cattolico, e qualche volta manca anche una nozione dell’informazione che superi quella ristretta alla prassi professionale.
Mette dunque conto studiare la questione con animo, possibilmente, sereno; cominciando col chiederci se, in linea di massima, nella Chiesa sia doverosa, o almeno preferibile, la disciplina del segreto, oppure se sia preferibile quella della “casa di vetro”; in altri termini, se nella Chiesa l’informazione sui suoi eventi – cioè su quanto vi avviene e vi si prepara – debba ritenersi piuttosto cosa eccezionale, benevola concessione dell’autorità, oppure normale diritto-dovere.
E, proprio per scrupolo di maggior chiarezza oggettiva, seguiremo uno stile schematico espositivo, e non colorato discorsivo; concedendo, inoltre, particolare attenzione alla recente istruzione pastorale Communio et progressio2, dato che, emanata dall’“autorità”, è lecito supporre che ne rappresenti bene il pensiero più aggiornato; mentre, applaudita in coro dagli “informatori”, è presumibile che ne rispetti le attese professionali.
La disciplina del segreto
Nella Chiesa primitiva il problema dell’informazione in senso odierno non si poneva. Tuttavia le fonti sembrano stare per una Chiesa “aperta”, tanto ad intra quanto ad extra, piuttosto che per una Chiesa “società segreta”. Gesù la volle civitas supra montem posita, quae non potest abscondi, e ne esortò i membri a far conoscere le proprie opera bona (Mt 5,15-16); e questa Chiesa nei primi anni di vita si costituì in gruppi soprattutto locali, ad intercomunicazione diretta, in cui normalmente le decisioni venivano discusse e prese in comune ed in pubblico (cfr Act 6,2 ss.; 15,22), verificandovisi anche casi di messa in comune dei beni (ivi 4, 32)3.
Con la diffusione del cristianesimo nel mondo romano dopo l’editto costantiniano, e con lo strutturarsi della Chiesa in una complessa organizzazione interna, il governo dei vescovi andò modellandosi su quello dei prefetti imperiali, spesso finendo col surrogarli man mano che l’impero andava sfaldandosi. Se, perciò, anche nel medio evo perdurarono casi di partecipazione diretta di popolo, il governo autoritario dei vescovi e delle loro curie divenne la regola, spiegabile del resto con la lentezza delle comunicazioni e con l’ignoranza generale delle plebi fedeli. E nessuna meraviglia se, sia pure in scala ridotta, sul governo dei vescovi si conformò quello dei pievani rispetto alle loro pievi ed, in genere, quello del clero sui fedeli.
Il fenomeno si accentuò nell’alto medio evo, nel rinascimento ed oltre. A tutti i livelli il governo ecclesiastico, e non solo nel fasto, si modellò su quello delle corti secolari; anzi spesso le superò, forte del carattere sacrale che gli era tutto proprio. Al popolo, fedele o non fedele, non spettava conoscere gli arcana imperii, ma semplicemente ubbidire; e tanto più ciò fu vero nelle comunità religiose.
Ora, nell’ambito del potere civile le cose cominciarono a cambiare specialmente in Inghilterra sulla fine del secolo XVII. L’abolizione della censura preventiva della stampa (il Licensing Act, del 1695) produsse le prime brecce nel segreto dei dibattiti parlamentari; segreto, poi, praticamente abolito nel 1803, quando lo Speaker assegnava ufficialmente ai giornalisti il loro posto in galleria. Più spicci, in Francia, un secolo dopo, preludendo alla Rivoluzione, gli Stati Generali, nel 1789, cominciarono a pubblicare i propri dibattiti col Journal des débats et des décrets. Nel 1804, in Germania, per quanto re assoluto, Federico Guglielmo II doveva riconoscere che “un’onesta pubblicità è la più sicura garanzia, per governo e sudditi, contro la negligenza e il malvolere degli ufficiali: merita perciò di essere stimolata ed agevolata in tutti i modi”.
Invece, sino, si può dire, ai nostri giorni, il mondo ecclesiastico ha mantenuto mentalità e prassi dell’ancien régime. Così il Vaticano I – e siamo al 1869-’70! – si preparò, si aprì e si svolse nella disciplina del segreto più assoluto, nonostante le reazioni della stampa estera – per la verità: in maggioranza anticlericale – e le illuminate apprensioni di alcuni vescovi4. E se, recentemente, qualche cosa è mutata, ciò pare che sia avvenuto più per le pressioni, spesso poco ortodosse, di giornalisti, prevalentemente spinti da interessi professionali, che per una presa di coscienza, da parte della gerarchia, circa le funzioni dell’informazione nel mondo e nella Chiesa di oggi, o in seguito ad istanze d’informazione da parte degli aventi diritto.
Dopo il Vaticano II
Nel Vaticano II funzionò un regolare Ufficio Stampa, alle dipendenze del Segretario Generale. Però, nel primo Periodo, i più di mille giornalisti accreditati, se non ebbero da lamentarsi dei servizi tecnici (locali, telefoni, poste, telescriventi...), passarono presto dallo scontento all’esasperazione per la qualità delle informazioni, giornalisticamente inutilizzabili, che ne ricevevano. Infatti, segreti erano gli schemi delle discussioni, segreti i nomi degli oratori, sunteggiati ed “addomesticati” i loro interventi, astretti al segreto su tutto ciò che si diceva in Aula o nelle commissioni i Padri conciliari, gli esperti, i consultori, i collaboratori...
Com’era da prevedere, data anche l’opinione tutta personale di alcuni – e non soltanto laici, o non cattolici! – circa la portata morale del segreto, le “fughe” si moltiplicarono. Invano il Segretario Generale richiamò (solo!) gli esperti all’osservanza del Regolamento, minacciandoli di radiarli dall’incarico; quasi tutti i giornali, proporzionalmente alle proprie finanze ed alle proprie “entrature” romane, si procurarono di straforo notizie “segrete”; il che non impedì ai giornalisti di denunciare, allora ed in seguito, in scritto e di presenza – anche molto in Alto –, l’assurdità della loro situazione professionale5.
Nel secondo Periodo – distaccato l’Ufficio Stampa dalla Segreteria Generale – le cose andarono meglio, ma non molto. I comunicati e le conferenze stampa furono più abbondanti e meno vaghi; però restarono segreti gli schemi in discussione ed i testi degli interventi; e, ovviamente, i giornalisti – gli accreditati, nel frattempo, avevano superato i 1.500 (ed i 1.800 nel terzo Periodo) – restarono esclusi dalle discussioni in Aula. Di qui l’animosità con cui alcuni di essi, specialmente americani, si gettarono contro lo schema del Decreto che trattava della stampa e dell’informazione, denunciandolo come una prova “dell’incapacità del Concilio di affrontare i problemi del mondo odierno”, tra l’altro perché “mentre lo Schema parla delle speciali responsabilità morali di quanti comunicano le informazioni [lèggi: “i giornalisti”], non fa parola di quelle che dovrebbero esser le fonti delle stesse informazioni [lèggi: “le autorità”], delle quali la società ha bisogno, pur riconoscendosi nel testo il diritto a questa informazione. In tal maniera il Decreto scantona sui problemi di tutti quelli [lèggi ancora: “gli informatori”], che sono vittime di una autoritaria disciplina del segreto”6.
Alle deficienze dell’Ufficio Stampa ufficiale cercarono di supplire i Centri d’informazione nazionali, organizzati dagli stessi giornalisti accreditati7, sicché negli ultimi due Periodi le informazioni divennero pure troppo abbondanti. Tuttavia il testo degli schemi continuò a restare segreto e, ovviamente, violato. Di qui un comunicato dell’Ufficio Stampa del novembre 1964, che richiamava tutti all’osservanza del segreto circa i testi e circa i lavori delle commissioni.
Con l’indizione del Primo Sinodo dei Vescovi (Roma 1967) ricominciarono le lamentele dei giornalisti, i quali ebbero l’impressione di venire defraudati dei diritti d’informazione che si erano conquistati nel Concilio. Infatti il Regolamento (n. 18) dichiarava “legati al segreto tutti coloro che partecipavano al Sinodo, sia riguardo agli atti preparatori sia ai lavori dell’Assemblea”. Quindi, ancora una volta, essi reagirono, e con essi alcuni episcopati; ed ancora una volta ottennero un Ufficio Stampa. Che però li lasciò men che scarsamente soddisfatti, specialmente a causa “della disposizione di tacere i nomi degli oratori, mantenuta in vigore sino alla fine, nonostante che questi si conoscessero quasi subito per altre vie”. Ragion per cui, anche in questa occasione, i giornalisti accreditati ricorsero ad un organismo autonomo – il CCCS (= Centrum Coordinationis Communicationum Synodi), che, segreto o non segreto, li soddisfece di più8.
Per il Secondo Sinodo (“straordinario”: Roma 1969)9 – experientia docet! – le cose andarono molto meglio. Giornalisti, episcopati e vescovi singoli si mossero tempestivamente, fecero giungere sino al Papa le loro preoccupazioni petizioni e suggerimenti, e furono autoritativamente rassicurati che se ne sarebbe tenuto il conto dovuto. Infatti, fermo restando nel nuovo Regolamento (n. 20) l’obbligo del segreto, si provvide all’informazione col seguente n. 16:
”§ 1. Allo scopo di fornire notizie sulle adunanze e sui lavori del Sinodo viene costituito uno speciale Comitato [...]. – § 2. Segretario del Comitato sarà il Direttore della Sala Stampa della Santa Sede. – § 3. Spetta al Comitato, con l’approvazione del Presidente Delegato, stabilire le modalità secondo cui fornire le informazioni. – § 4. Dietro designazione da parte del Presidente Delegato, alcuni Padri sinodali terranno, sulle diverse materie, conferenze stampa ai giornalisti”.
E questa volta i corrispondenti si ritennero soddisfatti, tanto da non avvertire la necessità di ricorrere ad altre agenzie non ufficiali10.
Nel Terzo Sinodo (“ordinario”: Roma 1971) le cose andarono ancora meglio. Amplissimi furono i bollettini dell’Ufficio Stampa; ulteriormente ridotto lo spazio tutelato dal segreto: praticamente, soltanto i testi-scheda per le votazioni sul sacerdozio e sulla giustizia; i quali, del resto, puntualmente, vennero fotocopiati e messi in vendita dal su ricordato CCCS11. Il che, piaccia o non piaccia, fa concludere: 1) che, almeno a livello di concilio ecumenico e di sinodo dei vescovi, l’informazione nella Chiesa ha segnato un’avanzata irreversibile; 2) che questa, come si diceva, è stata causata quasi esclusivamente dalle pressioni della stampa; 3) e che ormai non c’è segreto che sia materialmente tutelabile.
Dalla prassi alla dottrina
Questi i fatti. Ma quali, su piano di dottrina, i principi, che li giustifichino o meno? In particolare: fermo restando che, anche nella Chiesa ed, anzi, soprattutto in essa, interessi prevalenti di giustizia e di carità, attinenti ai singoli ed alla comunità, possono e debbono esigere la tutela del segreto, è da chiedersi se questo segreto sia oggi, come normale sistema di governo, doveroso, consigliabile, lecito o meno.
A parte la comprensibile tendenza di ogni governante umano ad evitare, col segreto, ogni confronto critico sul proprio operato, a favore della prassi del segreto si afferma che molte notizie, messe in piazza, scandalizzano i semplici, non preparati ad esse; inoltre, che l’informazione sistematica e generalizzata rende lento ed incerto il governo; infine che, soprattutto oggi con i mass media, gli informatori e gli informati, incompetenti o interessati, possono facilmente ostacolare il libero esercizio dell’autorità agendo come gruppi di pressione.
Queste ragioni non sono del tutto infondate12. Tuttavia altre ce ne sono, teologiche e sociologiche, più valide, in favore di una normale politica di informazione veritiera, abbondante e tempestiva.
Intanto è da notare che la Chiesa è una società di sua natura pubblica, e che per lo più, oggi, d’interesse pubblico, anche estra-ecclesiale, sono i suoi eventi, le sue istituzioni, le sue persone. L’informazione quindi, di massima, va considerata non una benigna concessione dell’autorità, da distribuire col contagocce, ma una sua normale prestazione sociale.
Inoltre, non può essere ignorato che, con l’affermarsi ed il generalizzarsi della vita democratica civile, va maturando, anche nei fedeli, una mentalità ed una consapevolezza di “persone” capaci e responsabili, la quale va rispettata anche nell’ambito ecclesiale. Quindi, che anche i fedeli non possono più essere trattati come sudditi minorenni, semplici esecutori di ordini, ma vanno informati su quanto li riguarda, e formati: sicché siano più sensibili alla “verità” delle situazioni, che vulnerabili dalla loro eventuale “scandalosità”. ,
Ancora: nel mondo opinionale odierno la notizia frequente dei fatti e delle persone ne accredita come valori i soggetti; mentre il silenzio li riduce tra i non-valori. Il sociologo può con ragione deplorare questa realtà; ma la Chiesa, che di fatto è depositaria e maestra di valori autentici, può e deve tenerne conto.
Non basta: i valori più autentici della Chiesa hanno carattere interiore-spirituale (l’azione dello Spirito Santo nelle anime), e si esplicano in riti, dottrine e documenti generalmente poco “pubblicizzabili”. Di qui, negli informatori, la tendenza a “far notizia” ripiegando sugli aspetti più esteriori, aneddotici, folcloristici della vita della Chiesa, dandone così una visione superficiale e distorta.
Inoltre, l’informatore, spesso pressato, anche dalla concorrenza, a fornire i suoi “servizi”, se non dispone dell’informazione occorrente, è facilmente tentato di carpire indiscrezioni più o meno attendibili, ed anche a supplire di fantasia, diffondendo così notizie false o erronee, che tardive rettifiche ufficiali riusciranno scarsamente a raddrizzare. Un’onesta e tempestiva informazione può ridurre di molto siffatti inconvenienti.
Finalmente: oggi mantenere il segreto è diventato materialmente impossibile anche nella Chiesa. S’è visto che cosa è avvenuto nel Vaticano II e nei tre Sinodi dei Vescovi. Ed è nota la vicenda dei Rapporti della Commissione di esperti sulla Humanae vitae: tutti e due segretissimi, e tutti e due puntualmente pubblicati ad verbum: a Parigi e a New York...13. Fermo, dunque, restando il dovere-diritto dell’autorità ad imporre alcuni segreti14, e pur riprovando chi li viola, resta accertato che, anche ai fini pratici, pure nella Chiesa conviene che l’informazione sia la norma, e che il segreto sia l’eccezione15.
La posizione del Magistero
Personalmente continuo a ritenere16 che i giornalisti a torto abbiano criticato e continuino a criticare l’Inter mirifica per aver taciuto su questo argomento. Il quale, perciò, a rigore, poteva anche essere ignorato dall’Istruzione Pastorale, voluta dallo stesso Decreto (n. 23) allo scopo preciso di "applicare i principi dottrinali essenziali e le direttive pastorali più generali” riguardanti i mass media: àmbito rigorosamente fissatogli, sulla fine del primo Periodo, da una tassativa delibera dei Padri conciliari.
Sta il fatto però che già durante il Concilio, ma soprattutto in questo post-Concilio, le polemiche circa l’informazione (e l’opinione pubblica) "nella Chiesa” sono andate moltiplicandosi, spesso toccando toni drammatici; e che spesso ne sono stati parte in causa i professionisti dell’informazione e dei mass media; e che perciò un’Istruzione Pastorale applicativa (o, piuttosto, amplificativa) dell’Inter mirifica, per giunta elaborata soprattutto dai professionisti, non poteva assolutamente ignorare l’argomento. Ciò spiega come la Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali, incaricata della sua redazione, abbia elaborato nella Communio et progressio una dottrina che, sotto questo aspetto, ne fa il documento magisteriale più avanzato.
Ad esso perciò occorre rifarsi in argomento di “informazione nella Chiesa”, non trascurando però la Lettera che in data 25 giugno 1971, a nome del Santo Padre, il cardinale Jean Villot, segretario di Stato, inviava al 9 Congresso Mondiale dell’Union Catholique Intemationale de la Presse, svoltosi in Lussemburgo dal 14 al 18 luglio17.
Fissato il principio (n. 119) che “va riconosciuta ai singoli fedeli la facoltà e il diritto di essere informati su tutto ciò che occorre per prender parte attiva alla vita ecclesiale” – che, poi, altro non è che l’applicazione ovvia, del principio generale enunciato per ogni società nel n. 5 dell’Inter mirifica – la Communio et progressio passa a limitare così l’ambito del segreto nella Chiesa (n. 121):
”[...] Le ricchezze spirituali di cui la Chiesa è segno esigono che le informazioni che riguardano i suoi programmi e la sua molteplice attività siano, più che altre mai, esattissime verissime e chiarissime. Perciò, se le autorità religiose non vogliono divulgare tali notizie, oppure se queste non siano divulgabili, facilmente si generano dicerie, che circolano più a detrimento che a favore della verità. Sicché il segreto si deve limitare allo stretto necessario richiesto dal buon nome altrui o da altri diritti, personali o di gruppi”.
Scendendo quindi ad indicazioni più pratiche, l’Istruzione dichiara (nn. 123-124):
“Quanti nella Chiesa occupino posti di autorità, usando degli strumenti di comunicazione sociale annuncino sempre e pienamente la verità, e procurino che della Chiesa e della sua vita venga presentata un’immagine fedele. Dato poi che questi strumenti spesso sono gli unici canali e fonti di informazione tra la Chiesa e il mondo, chi li trascurasse, veramente occulterebbe i talenti elargiti da Dio. Se la Chiesa confida e spera che le agenzie d’informazione, e gli stessi strumenti, s’interessino anche agli argomenti religiosi, e che li trattino con la cura da essi richiesta, da parte sua deve fornire ed offrire a queste istituzioni informazioni non reticenti, precise e vere, sicché esse possano assolvere pienamente i loro compiti”. "[...] le autorità ecclesiastiche devono, con intraprendente antiveggenza, prevenire le difficoltà [...]. Conviene poi che su alcune decisioni e provvedimenti ecclesiastici di straordinaria importanza s’informino in anticipo alcune persone fidate, con divieto di divulgazione prima di una certa data [embargo], cosicché se ne possa preparare una divulgazione illuminante, con vantaggio della Chiesa”.
I modi pratici
Come, in pratica, assicurare l’agibilità di queste norme direttive generali? Per l’informazione interna di gruppi ecclesiali relativamente ristretti – come piccole parrocchie, comunità religiose, associazioni locali... – per lo più potranno bastare le normali relazioni interpersonali, più o meno dirette: avvisi, consulte e capitoli, bilanci, circolari...; mentre all’informazione esterna, per lo più occasionale, potranno provvedere il parroco, il superiore, il presidente o il segretario dell’associazione.
Quando, invece, si passi ad istituzioni o ad iniziative di più largo raggio e respiro, e perciò di accresciuto interesse pubblico – diocesi e dicasteri ecclesiastici, conferenze episcopali e Santa Sede, province ed ordini religiosi, associazioni nazionali ed internazionali, grandi istituzioni culturali ed assistenziali, congressi e convegni... –, fermi restando gli insostituibili rapporti interpersonali (consigli presbiterali e pastorali, consulte provinciali, capitoli ed assemblee generali...), sarà necessario passare a veri e propri uffici d’informazione, proporzionalmente strutturati in personale ed in mezzi. Ad rem la Communio et progressio (n. 120):
“Il ritmo naturale e lo svolgimento normale dei compiti della Chiesa richiede che tra le autorità ecclesiastiche, a tutti i livelli, le istituzioni cattoliche e gli stessi fedeli, scorra un continuo flusso e riflusso di notizie [...], e che questo si allarghi a tutto il mondo. Per raggiungere siffatto obiettivo occorrono apposite istituzioni (uffici d’informazione, portavoce ufficiali, sale stampa, consigli pastorali...), sufficientemente dotati di mezzi”.
Questi uffici d’informazione, oltre alle prestazioni occasionali – urgenti richieste telefoniche, indirizzi di persone competenti e di fonti per argomenti specifici... – , preziosissime, specie in circostanze di emergenza, dovrebbero assicurare ai giornalisti: conferenze stampa, più o meno periodiche o straordinarie, comunicati e documentazione relativa agli eventi, come: biografie dei personaggi, sommari e testi integrali dei discorsi o delle relazioni, storia dell’istituzione, precedenti e status quaestionis delle polemiche, eventuali rettifiche o smentite, precisi e significativi dati statistici, materiale fotografico... Dovrebbero, inoltre provvedere ad informare gli interessati diretti (clero, diocesani, membri di associazioni...) ed il pubblico in genere, mediante i normali veicoli d’informazione: o propri (bollettini diocesani, notiziari, giornali cattolici...), o comuni (stampa d’informazione, radio-televisione...).
È più che ovvio che, per assolvere soddisfacentemente siffatti compiti, gli uffici d’informazione dovrebbero disporre di un minimo di documentazione propria, come raccolte di atti ufficiali, indirizzari, prontuari e schedari aggiornati, e magari “memorie”, ed uffici-statistica, come quello recentemente ed esemplarmente istituito presso la Curia Romana. Ma soprattutto dovrebbero disporre di personale adatto; vale a dire:
- disponibile: se necessario, a tempo pieno; e magari anche ad ore non canoniche: perché, specie in situazioni di emergenza, le richieste di informazioni urgenti possono venire nelle ore più impensate;
- teologicamente sicuro: cioè a posto per cultura religiosa-morale e per spiccato sensus fidei et Ecclesiae, data la natura delle notizie “ecclesiali” che devono fornire, ad informatori, oggi, spesso contestatori e, per lo più, digiuni di dottrina cattolica o, tout court, di religione. E non è detto che per ciò occorra necessariamente un “chierico”, anzi. Però, in casi particolarmente “dottrinali”, sarà opportuno, se non anche necessario, ricorrere al competente, e allo specialista (per lo più “chierico”);
- con sufficiente sensibilità pubblicistica: sicché si renda conto delle esigenze, e magari della deformazione professionale, di “quelli della stampa”; i quali, per lo più, non vogliono né predicare né edificare né convertire nessuno, ma semplicemente stendere il loro servizio “giornalistico”, possibilmente brillante. Occorre, perciò, sapersi destreggiare per accontentarli con dati precisi e freschi (le “attualità”), per quanto l’argomento e l’evento li consentano;
- e, soprattutto, con buone qualità umane: vale a dire: tratto sereno e civile, sincerità, padronanza dei propri nervi, capacità di dialogo; per portare e mantenere in clima di mutua fiducia, se non di cordiale amicizia, quei contatti informali (public relations) con i giornalisti che spesso giovano all’informazione veritiera e socialmente utile più che non la stessa concordanza della fede e nelle
Anche a questo proposito la Communio et progressio dà indicazioni preziose (nn. 174 e 176):
“I singoli vescovi, le conferenze episcopali e le commissioni episcopali, ed anche la Sede Apostolica, abbiano un proprio portavoce, o informatore ufficiale, permanente, autorizzato a comunicare notizie ed informazioni, ed a presentare documenti ecclesiastici di imminente pubblicazione, per facilitarne e precisarne il contenuto. Nella misura del loro mandato, questi informatori comunicheranno le novità della vita e dell’attività della Chiesa con tempestività e precisione. E si auspica che pure le diocesi e i maggiori organismi cattolici dispongano di siffatti informatori permanenti con compiti similari. Tutti questi incaricati, come tutti gli altri che in qualche modo passano per rappresentanti ufficiali della Chiesa, tengano sempre presente quanto in proposito insegnano la scienza e la disciplina delle ’pubbliche relazioni’; sicché conoscano come si compone il pubblico al quale si dirigono, ed intrattengano rapporti cordiali con tutti i suoi componenti, fondati sulla mutua fiducia e comprensione: virtù che possono allignare e crescere là soltanto dove gli uomini si stimano e si rispettano l’un l’altro, nel culto perenne della verità.
“Affinché il genuino dialogo, interno ed esterno, della Chiesa circa l’aspetto religioso degli avvenimenti di attualità si sviluppi abbondante e continuo, serva la pubblicazione di comunicati ufficiali: esaurienti e precisi, con le spiegazioni richieste dalla natura delle cose e delle notizie, inoltrati ai lettori con i mezzi appropriati, quali: bollettini, telescriventi, telefoto [...]”.
Qualche progresso pratico in questo senso s’è segnato, tanto a Roma quanto altrove; ma resta ancora moltissimo da attuare, e con urgenza, per aggiornarsi ai tempi. Tuttavia, quel che innanzi tutto occorre è formarsi una mentalità nuova circa il ruolo e la natura dell’informazione, specialmente da parte delle “autorità”; perché, almeno in questo settore, i giornalisti sono più che ben forniti.
Oltre tutto, dall’informazione – dottrina e prassi – dipende strettamente anche il dialogo opinionale nella Chiesa: argomento che ci ripromettiamo di trattare in un prossimo articolo.
1 Limitandoci appunto a questo post.Concilio, cfr, tra gli altri: 1. Conclusions de la commission théologique (in Chronique sociale de France, 1966, n. 74, 72 ss.). 2. Les journalistes catholiques et la hiérarchie ecclésiastique (in Journalistes catholiques, 1970, n. 18, 4 ss.). 3. M. ALCALÁ, La lglesia y la información (in Razón y fe, genn. 1969, 11 ss.). - 4. L. BEIRNAERT, Conditionner ou former l’homme, e Le problème du conditionnement dans l’Eglise (in Etudes, 1960, n. 306, 207 ss.; 1961, n. 308, 3 ss.). – 5. A. BENGSCH, Manipulatio et vita christiana (in Periodica de re morali canonica liturgica, 1971, I, 3 ss.; ed anche Studi cattolici, nov. 1970, 691 ss.). – 6. H. BOLEWSKI, Information und Kirche (in Lutherische Monatshefte, genn. 1967, 17 ss.). - J.M. DIEZ-ALEGRIA, Manipolazione e libertà nella Chiesa (in Concilium, magg. 1971, 87 ss.). – 8. D. FORRISTAL, Communication in Church (in The Furrow, magg. 1967, 239 ss.). – 9. E. GABEL, L’enjeu des média, Paris 1971 (cfr Civ. Catt. 1971 IV 460 ss.). – 10. I. IRIBARREN, Liberté de la presse dans le domaine religieux (in Civitas, 1970, n. 8, 608 ss.); Pressefreiheit in der Kirche (in Communicatio socialis, 1971, n. 1, 11 ss.). – 11. E.M. LOREY, Mechanismen religiöser Information, München 1970. – 12. N. METTE, Offentlichkeit in der Kirche (in Diakonia. Der Seelsorger, apr. 1971, 110 ss.). – 13. A.G. MOLINA, la Iglesia en la encrujada de la comumicación social, Madrid 1970 (cfr Civ. Catt. 1971 I 198; 1972 I 516). – 14. A. MONTERO MORERO, La información religiosa en sus vertientes teológica y periodística, Madrid 1969. – 15. C.J. PINTO DE OLIVEIRA, Information et propagande, Paris 1968 (cfr Civ. Catt. 1969 I 250 ss.). – 16. J. PLACIDUS, Pendelschlag zur Mitte? Versuch einer nachkonziliaren Zwischenbilanz (in Civitas, apr. 1970, 599 ss.). – 17. J. REMY, Pubblicità dell’informazione nella Chiesa per uscire dal dialogo ineguale (in Concilium, 1971, n. 7, 122 ss.). – 18. F.P. SCHALLER, Informationsrecht und Meinungsfreiheit in der Kirche (in Civitas, sett. 1970, 62 ss.); Zum Informationsrecht im kirchlichen Raum, Freiburg 1970, – 19. M. SOUCHON, Diffusion de l’informarion et rapports d’autorité (in Etudes, mar. 1970, 386 ss.). – 20. R. TUCCI, Libertà del giornalista cattolico ed autorità della Chiesa (in Civ. Catt. 1966 Il 127 ss.).
2 Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali, Istruzione pastorale «Communio et progressio» (23 maggio1971) – Cfr E. BARAGLI, L’Istruzione Pastorale «Communio et progressio», in Civ. Catt. 1971 IV 39 ss., 235 ss.
3 A questo proposito, sia pure in senso accomodatizio, sono stati ricordati questi altri testi scritturistici: Mt 5,37 e Gc 5,12: “Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no”; Gv 3,20-21: “Chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”; Gv 18,20: “lo ho parlato al mondo apertamente [...], non ho mai detto nulla di nascosto”.
4 Cfr G. MOLINA, op. cit., in Nota 1, n. 13, p. 62; il quale, però, giustamente rileva, oltre al diffuso anticlericalismo della stampa del tempo, il carattere anche politico-temporale del Vaticano di allora.
5 Cfr, anche per quanto segue, E. BARAGLI, L’Inter mirifica, Roma 1969, 148 ss., 199 ss.
6 Ivi, 148.
7 La tedesca KNA, l’austriaca KATHPRESS, la belga CIP, l’olandese KPN, la Congo-Léopoldville DIA, la canadese CCC, che poi confluirono nell’agenzia-consorzio ICI-ROME.
8 Per tutta la questione cfr G. MOLINA, op. cit., 207 ss.; G. CAPRILE, Il sinodo dei vescovi: Prima Assemblea Generale, Roma, 1968, 573 ss.
9 Cfr G. CAPRILE, Il sinodo dei vescovi: Prima Assemblea Straordinaria, Roma 1970, 353 ss.
10 Scrive G. CAPRILE (op. cit., 365): “Altrettanto soddisfatti possono dirsi i giornalisti, dai quali sembra che sia partita qualche sporadica rimostranza per le disposizioni del Regolamento, giudicate da qualcuno un po’ rigide. È stato apprezzato l’inserimento nel Regolamento dell’Art. 16 riguardante l’informazione, e così pure il più ampio potere orientativo e deliberativo goduto dal Comitato sugli organi esecutivi. Si è vista la sincera volontà di venire fattivamente incontro alle esigenze della stampa con la massima rapidità consentita dai mezzi e dal personale a disposizione; si è lavorato in un clima di mutua fiducia; l’aver comunicato i nomi degli autori dei singoli interventi ha confermato la reciproca fiducia, evitando il ricorso ad altri espedienti e rendendo inutili [...] altri centri d’informazione spontaneamente pronti al compito di supplire ad eventuali reticenze e silenzi degli organismi autorizzati”.
11 Cfr G. CAPRILE, Il sinodo dei vescovi: Seconda Assemblea Generale, Roma 1973, 939 e 940 (ed anche 967-968, 969, 987, e soprattutto 1081). L’A. riporta il rilievo di un vescovo dell’Uganda (mons. E. Nsubuga): "È un’ingiustizia divulgare, come avviene, anche ad opera di alcuni vescovi, comunicazioni che pervengono sub secreto da parte della Segreteria del Sinodo”; ricorda poi che il 30 ottobre 1971 il Presidente Delegato annunciava che un testo da votare “non verrà distribuito né ai segretari speciali né agli auditori, ed è coperto dal segreto: non potrà quindi essere comunicato a persone estranee”; quindi nota: “Tale precauzione, come era da prevedere, pesò solo su quanti, rispettosi del segreto imposto, ne accettarono le conseguenze; qualcuno, meno ligio, non ne tenne conto, e un paio di giorni dopo, presso il Centro dell’IDOC si poteva ottenere una riproduzione piuttosto male eseguita al ...modico prezzo di lire mille”. Ed, a proposito dei due documenti finali, nota lo stesso CAPRILE (op. cit., 1119): “Forse una più larga informazione – pur nel loro carattere non ancora ufficiale, – avrebbe dissipato in notevole misura una certa impressione di disaccordo tra i Padri e di quasi fallimento del Sinodo. Una volta di più, purtroppo, è stata l’indiscrezione a trionfare!”.
12 Da buon giornalista, e geloso difensore della categoria, mons. I. IRIBARREN, allora Segretario Generale dell’UCIP, scriveva in Journalistes Catholiques (lug.-ag. 1969, 3) “Uno dei motivi per cui si insiste sulla restrizione delle informazioni nella Chiesa è che la stampa finirebbe col formare, in seno ad essa, un gruppo di pressione. Quest’argomentazione dev’essere considerata non solo un attacco alla stampa, ma anche come una mancanza di rispetto verso i vescovi: un episcopato fermo nella dottrina, sereno nell’esercizio del governo, composto da uomini sperimentati e di sicuro prestigio, costituisce un gruppo di lettori più immunizzato contro la deformazione dei giudizi che potrebbe venir provocata dalla lettura dei giornali. No: i vescovi sono i beneficiari, non le vittime, di un’informazione abbondante e libera. Supporre il contrario sarebbe offenderli”. Ma, lungi dall’essere azzardata, l’ipotesi ci sembra attendibilissima, anzi confermata dai fatti. Basti, tra gli altri, ricordare il movimento di opinione avviato da pochi giornalisti durante il Concilio a proposito dell’Inter mirifica (cfr BARAGLI, op. cit., ivi), ed il condizionamento operato dalla stampa su alcuni episcopati in occasione dell’Humanae vitae.
13 Cfr Civ. Catt. 1968 III 459. Nel Sinodo dei Vescovi 1971 (cfr G. CAPRILE, op. cit., 970), il card. J. Willebrands, riferendosi al progetto della Lex Ecclesiae fundamentalis, integralmente pubblicato nonostante il segreto, notava: “Giacché si riconosce che la pubblicazione dello Schema di Legge Fondamentale ha portato qualche buon risultato, per la partecipazione al dibattito da parte di alcuni teologi e giuristi, non sarebbe preferibile a una pubblicazione illegittima, ma inevitabile, una pubblicazione ufficiale corredata da una buona introduzione e da opportune spiegazioni?”.
14 “Se è bene affermare che l’informazione è ormai universalmente riconosciuta quale diritto universale inviolabile ed inalienabile, sicché ciascuno possa assumere le proprie responsabilità anche nella vita della Chiesa: è ugualmente necessario ricordare che con ciò non si misconosce affatto la necessità di rispettare legittimi spazi di segretezza e di discrezione, né la delicatezza indispensabile alla protezione dovuta alle persone e alle coscienze” (Lettera della Segreteria di Stato al IX Congresso mondiale dell’UCIP, 25 giu. 1971, in Oss. Rom., 25 lug. 1971), che rimanda alla Communio et progressio, nn. 119 e 121.
15 Anche nel Sinodo dei vescovi (cfr G. CAPRILE, Seconda Assemblea Generale 1971, cit., passim) si è parlato, da parte di alcuni Padri, del diritto all’informazione come prassi di giustizia da attuare in seno alla Chiesa.
16 Cfr L’Istruzione Pastorale «Communio et progressio», in Civ. Catt. 1971 IV 47.
17 Cfr E. BARAGLI, Giornalisti cattolici a congresso (Civ. Catt. 1971 III 247 ss.) – Segreteria di Stato, Lettera al sig. Jean Gélamur, presidente UCIP (25 giugno 1971).