Articolo estratto dal volume IV del 1962 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Notoriamente abbondano i saggi e le storie del cinema italiano, da quelle della Prolo, del Palmieri e del Freddi, a quelle del Blasetti, del Rondi, del Margadonna, del Carpi, del Gromo, dell’Aristarco..., per non parlare dei capitoli consacrati ad esso in ogni storia generale del cinema che si rispetti. Ma si tratta sempre di lavori o volutamente limitati all’uno o all’altro periodo, per esempio al cinema muto o al cosiddetto neorealismo, o ormai arretrati nel tempo, o di monografie frettolose, più che di vere e proprie storie. E sì che, per quel molto che il cinema italiano ha rappresentato nel mondo in un passato ormai remoto e, molto più, nel passato prossimo, ed oggi ancora rappresenta, merita bene che se ne scriva finalmente una storia seria e, per quanto possibile, definitiva.
Orbene: mutando in Storia del cinema italiano1 il titolo meno impegnativo di Cinema italiano di un suo volume, già pubblicato nel 1953 e nel 19542, e quasi raddoppiandone le pagine, si direbbe che il Lizzani abbia inteso di riempire questo vuoto; purtroppo, invece, a lettura terminatane, dobbiamo dire che ancora ne siamo lontanissimi.
Cominciamo, infatti, col rilevare che soltanto 282 pagine del volume sono consacrate al testo espositivo vero e proprio, le restanti 390 essendo occupate da due ampie appendici: la prima, che raccoglie scritti di dodici «autori» (pp. 285-487), la seconda che provvede le filmografie di cinquantasette registi di film a soggetto e di trentasei registi di film documentari (pp. 489-672); e che l’una e l’altra fanno più volume che storia, perché raccolgono materiali che, per la massima parte, gli esperti sapevano agevolmente adire in fonte e che, in ogni caso, si potevano rendere facilmente reperibili con una semplice accurata bibliografia, mentre antologia e filmografia non osservano l’unico criterio storiograficamente valido, cioè quello dell’oggettiva completezza.
Infatti, con quale criterio sono stati scelti gli «autori»? Con quello degli autori-registi? No, perché C. Zavattini non è regista. Di altri che in maniera determinante abbiano influito nei film? No, perché tra i non registi c’è il solo Zavattini. Forse di «autori», cioè di scrittori, i quali, a loro tempo, abbiano influito nelle sorti del cinema italiano sia nella sua produzione ed evoluzione sia nella sua interpretazione? E dove sono, allora, i nomi, per esempio, di Viazzi, di Barbaro e di Aristarco e, soprattutto, le testimonianze di Rondi, di Chiarini, di Gromo e di altri, che avrebbero molto giovato a variare l’unisono delle dodici voci prescelte? Il curatore dell’antologia, G. Vento, intendeva «documentare» obiettivamente la realtà, oppure, al solito3, ideologicamente addomesticarla? Così pure, come si spiegano alcune assenze nelle filmografie? Per esempio, mancano Pasinetti e Paolucci, benché dal Lizzani, nel testo, vengano ancora giudicati «i più eleganti tra i documentaristi» (p. 97); manca Petrucci, che, salvo errori, ha al suo attivo vari film documentari ed a soggetto (sì, lo confessiamo, non marxisti); e mancano Cerchio, Cortese, Cottafavi, Forzano, Francisci, Gallone, Malaparte, Marcellini, Mastrocinque, Quilici, Paolella, Tellini, Sala, Trenker ed altri, che, si condividano o meno le loro idee, si approvino o meno i loro film, hanno pur lavorato nel cinema italiano, almeno quanto E. Petri e Fl. Vancini (un film a soggetto), C. Lizzani e A. Vergano (un documentario)... Quale criterio, dunque, hanno adottato i curatori G. Vento e M. Argentieri? E perché non ne hanno edotto il lettore curioso, anche senza necessariamente raggiungere i toni saputi raggiunti da Paciscopi e Signorini nella seconda edizione?
Viceversa, fin dalla prima pagina si manifesta il criterio che guida il Lizzani nello scegliere, nel documentare e nel commentare i fatti della sua «Storia». Distaccandosi dal luogo comune di tanta critica, egli parte dalla costatazione che il cinema non è, né soltanto, né principalmente, arte – almeno nell’accezione idealistica –, ed in ciò noi ci troviamo d’accordo con lui; suppone anche – e chi mai potrebbe dargli torto? – che il cinema è fortemente condizionato, da una parte dai fattori tecnico-economici, che lo strutturano in ogni sua fase (il capitale), dall’altra dal contesto sociale in cui gli autori attingono e che il pubblico respira (situazione politica), e dall’altra ancora dalle strutture giuridiche che ne vincolano l’attività (censure). Il guaio è che egli, questi fattori, li integra in una sua opinione preconcetta, vale a dire che non si appoggia ai fatti, come un criterio meramente storico richiederebbe, ma questi sceglie od ignora, riduce o forza, secondo che giovino o meno all’ideologia marxista, cui il Lizzani serve con la fede cieca ed acritica degna del più fedele discepolo di Barbaro. Cosi polarizzata, la sua «storia» si snoda senza incertezze. Come il Vasari, che giudicò tutta la storia della pittura in funzione del non plus ultra del verisimile naturalistico raggiunto dalla prospettica del cinquecento, il Nostro, individuate come teste di turco il dannunzianesimo ed il fascismo, e data per pacifica ed unica la nozione del neorealismo quale i marxisti l’hanno coniata, a loro immagine e somiglianza, e l’hanno divulgata a loro esclusivo servizio, vale a dire su parametri unicamente sociali-economici, tenta poi di piegare ad essa tutto il cinema italiano, secondo ovvie relazioni di prima e di poi, di anti- e di pro-, di anticipazioni profetiche, di approssimazioni, culmini, involuzioni, derivazioni ed echi.
Il metodo, non c’è che dire, è comodo, perché, alla maniera propria marxista, semplifica tutti i quesiti, individua senza mezzi termini, nel più manicheo dei modi, chi ha ragione e chi ha torto, chi ha ben meritato della causa e chi l’ha boicottata e tradita, e cosi permette ai marxisti, in una con l’onorata compagnia degli artisti, dei resistenti e degli antifascisti, di assumere il tono epico elegiaco del più comodo vittimismo, nel momento stesso in cui tranquillamente collezionano i loro innegabili successi contro l’avversa triade del governo, dei capitalisti e dei moralisti ipocriti (leggi: clero e cattolici).
Ma il metodo, se è comodo, non è altrettanto convincente, almeno per chi abbia un minimo di notizia su registi, film, argomenti e temi del cinema italiano. Si leggano, per esempio, i futili tentativi di interpretazione ai quali il Lizzani è costretto di ricorrere per spiegare Rossellini (p. 130 ss.), Castellani (p. 167 ss.), e specialmente Fellini (p. 210 ss.), troppo fastidiosi franchi tiratori rispetto ad un neorealismo di marca marxista; tentativi cui davvero non giova il tono di sufficiente disprezzo verso un umanesimo personalista ed una concezione religiosa della vita, cui il Lizzani, da marxista ortodosso, frequentemente allude con i termini di «filosofia», di «evasione metafisica», di «realtà metastoriche» e di «misticismo».
Anche lo stile nel quale il saggio è stato redatto non può sodisfare lo studioso serio. Se, infatti, spesso il Lizzani vi si dimostra versato in teoria ed in pratica cinematografica, dando giudizi pregevoli di buongusto e di esperienze dirette, troppo spesso vi si dimostra anche disuguale, qua spicciando un film o un regista con una frasetta e là dilungandosi in vere e proprie recensioni. Inoltre vi abbondano le ripetizioni, sovrabbondano le frasi fatte, le iterazioni oratorie e le coloriture, più confacentesi alla più barocca stampa sportiva che a quella critica o storica.
Chiudiamo, dunque, il volume, delusi. Speravamo che un’altra delle rare opere di seria cultura venisse a riscattare quelle troppo numerose di sotto- o di pseudo-cultura che infestano l’editoria del cinema. Ma, evidentemente, non è dall’oriente marxista che la vera cultura può attendere la sua luce!
1 C. LIZZANI, Storia del cinema italiano, Firenze, Parenti, 1961, in-16º, pp. 672.
2 Cfr Civ. Catt. 1955, II, 528.
3 Cfr Civ. Catt. 1960, I, 530.