Articolo estratto dal volume III del 1965 pubblicato su Google Libri.
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Nel saggio Chaplin e la critica – raro modello di diligenza nella ricerca e di rigore critico – il serio autore che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Glauco Viazzi nel 1955 catalogava ed illustrava ben 1041 tra articoli, saggi e volumi che trattavano di quel grande attore e regista. Da allora si sono continuati a pubblicare sullo stesso argomento articoli, ed anche libri, specialmente con l’uscita dell’ultimo e discusso suo film A King in New York (1957), soprattutto in Francia. Per esempio, proprio in quel 1957 ben tre volumi; vale a dire: l’edizione definitiva di Charlot, di Ph. Soupault, il saccheggiatissimo Charlot et l’affabulation chaplinesque, di J. Mitry, ed il monumentale (ed indigesto) Charles Chaplin di P. Leprohon. Più recentemente, poi, la collana lionese Premier Pian dedicava a Charles Chaplin un suo numero (il 28º del 1963): raccolta antologica di 17 brani tra poetici, biografici o filmologici, preceduta dal saggio (pp. 5-45): Chaplin estil le frère de Charlot? dell’orientato a sinistra B. Amengual.
In verità, però, articoli, saggi e libri hanno aggiunto poco o nulla di nuovo a quanto, in argomento, già si sapeva, né hanno operato quella cernita tra provato ed inventato, completo e lacunoso, che si desiderava. Tanto che, ormai, ci si domandava se la partita dovesse considerarsi chiusa. Quand’ecco si annunziarono due volumi promettentissimi, data la persona degli autori; cioè My Father, Charlie Chaplin – pubblicato dal figlio ed omonimo dell’artista, Charlie Chaplin Junior –, subito tradotto in italiano1; e, quattro anni dopo, lanciato con pubblicità tambureggiante, My Autobiography, dello stesso artista, anche questo subito messo alla portata dei lettori italiani2.
Veramente, non è che in passato mancassero del tutto le fonti dirette. In quanto ad autori appartenenti all’entourage di Chaplin, basti ricordare, per esempio, il suo ex segretario Carlyle T. Robinson, autore – storia o libello che fosse – di La vérité sur Charles Chaplin; anzi, dello stesso biografato piuttosto abbondavano che difettavano scritti, confidenze, dichiarazioni, interviste e simili. Ma, questa volta, ci si poteva ritenere autorizzati ad attendersi l’ultima e definitiva parola in argomento. In realtà, a lettura terminata, possiamo dirci appagati? – Rispetto al primo volume decisamente no.
Infatti, in Charlot, mio padre, il volenteroso (ma non eccezionale) figliuolo, come era prevedibile, finisce con l’occupare troppo posto rispetto al grande padre. Inoltre, digiuno (si direbbe) di problemi culturali e di prospettive artistiche, riduce l’opera creatrice dell’attore-regista a modeste dimensioni, quasi diploma ad honorem motivato dalla fama popolare, nota di scarso spicco in una vita che non si potrebbe immaginare più banale, ritmata di ricordi familiari borghesucci – locali da ammobiliare, tasse da pagare, processi da superare... – che interessano poco o nulla chi ne è estraneo; ed anche, ahimè, fitta di suicidi, di divorzi e di «matrimoni» a catena, di maniaci e di nullità più o meno celebri, già rotanti, come moscerini o farfalle intorno alla fiamma di un lume, nell’effimero splendore dell’Hollywood degli anni trenta.
In fondo, il biografato sembra meritarsi pochissimo le pagine dedicate ai suoi casi. In ogni modo, ne esce fuori come un poveruomo, dotato di qualche buona qualità umana sperduta tra molte manie piccine, prepotente e timido la sua parte, ma niente affatto eccezionale, se non per la colossale fortuna che ne accompagnò il fulmineo successo mondiale. Sotto l’aspetto artistico poi veniamo confermati soltanto su di un po’ che già si sapeva; vale a dire sull’ostinazione dell’attore-regista, spinta fino alla crudeltà, nell’esigere, prima che dagli altri, da se stesso, la perfezione. Infine, anche circa l’agnosticismo dell’uomo in fatto di religione e di morale sessuale, niente di nuovo e di definitivo.
* * *
Con La mia autobiografia le cose vanno meglio. Nelle fitte pagine, apparentemente buttate giù di getto, in realtà controllatissime, si dipana la vita di un uomo che non solo interessa, ma suscita nel lettore moti di animo profondi e ripensamenti non passeggeri.
Mortogli precocemente il padre già separato dalla madre ed alcoolizzato, privato spesso anche della madre periodicamente demente, la sua infanzia londinese passa nella miseria economica e morale, che, poi, ingigantita e quasi mitizzata nel ricordo, costituirà come il fondo doloroso e la stizzosa rivalsa di tutta la sua vita, tanto di uomo quanto di artista. Conseguenza della miseria, un incolmabile vuoto culturale, sofferto poi come un complesso, mal supplito da letture tardive e disordinate. Ciò spiegherà i vuoti, e la confusione del suo mondo intellettuale o «politico», ed anche, in parte, le costanti della sua arte, affidata alle risorse della mimica, ad intuizioni solipsistiche, e più alimentata da sentimenti semplici e da emozioni primarie che nutrita da un humus culturale classico o scientifico, storico economico filosofico e religioso.
Paradossalmente, poi, proprio la miseria dei primi anni gli frutterà la ricchezza ed il lusso; e sarà egli stesso a confessare il vago senso di colpa che l’accompagnerà nei suoi favolosi guadagni, accumulati appunto sfruttando la miseria dei suoi personaggi e, primo tra essi, dell’immortale Charlot. Ed i limiti della sua cultura verranno poi rilevati anche dagli incontri con i grandi personaggi del suo tempo: – (ovviamente) artisti: come John Barrymore e Laurence Olivier, Lion Feuchtwanger, Paderewski, Horovitz, Rachmaninov e Stravinski, Eisenstein, Max Reinhardt e Picasso...; ma anche letterati ed autori: come Geltrude Stein, Brecht e Mann, Aldous Huxley, Graham Greene, Somerset Maugham, Shaw, Aragon, Steinbeck, Sartre...; scienziati: come Einstein e Oppenheimer; uomini politici: come Roosevelt, Lloyd George, Churchill, Briand e de Gaulle, Gandhi e Nehru, Gromiko, ChrušÄev, Ciu En-lai... –, insomma un caleidoscopio gigante di nomi illustri, portatori di problemi di pensiero e di prassi per interloquire nei quali poco sussidio forniscono i doni, pur eccellenti, di un artista.
Ma non mancano neanche in questa autobiografia le attese deluse. L’autore, per esempio, è reticente sulla discussa sua ascendenza ebrea; non si cura di smentire certi aneddoti blasfemi o di ridicolo raccolti da biografi non sappiano ancora se più interessati a denigrarlo o veraci. Tuttavia riteniamo che almeno due categorie di queste attese deluse ridondano ad onore dell’autore.
La prima è quella che riguarda quei suoi eventi erotici che, purtroppo, l’hanno reso notorio come uomo almeno tanto quanto alta vola la sua fama di artista. Non è che egli veli fa spregiudicatezza dei suoi principi in argomento. Scrive, infatti, a proposito dell’amico ed associato Douglas Fairbanks (p. 239):
«A quel tempo Doug era diviso dalla prima moglie. La sera aveva sempre amici a cena, compresa Mary Pickford, di cui era follemente innamorato. A tale proposito si comportavano tutti e due come conigli spaventati. Il mio consiglio era di non sposarsi ma di vivere insieme senza badare a ciò che avrebbe detto la gente, ma loro non approvavano queste idee così spregiudicate. Mi ero espresso con tanto calore contro il matrimonio che quando finirono per sposarsi sul serio tutti i loro amici vennero invitati alle nozze tranne me».
Ed a proposito dell’«onorato» mondo morale di Shakespeare continua:
«Forse dipende dalla mia psicologia o da un mio peculiare solipsismo. Nella lotta per assicurarmi un tozzo di pane e un boccone di formaggio l’onore ha sempre avuto scarsissima importanza... La madre di Amleto avrebbe anche potuto andare a letto con tutti i cortigiani e io sarei rimasto assolutamente indifferente al dolore inflitto al figlio» (p. 305).
Ma con lo stesso senso di misura col quale si è regolato nei suoi film, egli è reticente, a ragion veduta, scrivendo in argomento:
«Una romanziera piuttosto nota, saputo che stavo scrivendo la mia autobiografia, disse: “Spero lei abbia il coraggio di dire la verità”. Credevo alludesse alle mie idee politiche, invece si riferiva alla mia vita sessuale. Immagino che in un’autobiografia tutti si aspettino di trovare una dissertazione sulla libidine dell’autore, anche se non ne vedo il motivo. Secondo me essa contribuisce ben poco alla comprensione o all’approfondimento di un carattere. A differenza di Freud, io non credo che il esso sia l’elemento più importante nella complessità del comportamento. È più facile che incidano sulla psicologia il freddo, la fame e la vergogna della miseria... Comunque, in questo libro non intendo fornire una descrizione minuziosa degli alti e bassi della mia vita sessuale: trovo queste descrizioni prosaiche, ciniche e prive di poesia» (p. 248).
La seconda attesa del lettore che, restando delusa, a nostro avviso fa onore al buon senso di Chaplin, è quella che riguarda la sua poetica di regista-attore; perché – riteniamo – altro è il compito dell’artista, tutto intuitivo-creativo, ed altra è la competenza del teorico e del critico, che, riflettendo sull’opera d’arte, ne individua e giustifica i temi poetici, i modi stilistici, le leggi interne di sviluppo strutturale. Non per nulla molte teorizzazioni estetiche di grandi artisti valgono meno delle mediocri prove creative di eccellenti critici. Fatto sta che se Chaplin consacra ad esporre le sue teorie artistiche una mezza dozzina di pagine (p. 131 ss.) è troppo; e l’ovvia conclusione, da parte del lettore, è che l’arte è anche, e spesso soprattutto, fatica. Mentre circa i singoli film egli per lo più ,si limita a ricordare, senza per altro insistervi, le circostanze esteriori che li hanno occasionati o accompagnati – per esempio: The Kid, girato nell’ambascia della morte del primogenito, causa in gran parte, del fallimento del suo (primo) matrimonio con la Harris; The Circus, girato quando piangeva la morte della madre, avvenuta in una clinica di malattie mentali; lo spunto di The Great Dictator datogli da A. Korda, ecc. – utili più a capire e comprendere l’uomo quotidiano, che l’artista3.
Meno reticente – e gliene siamo grati – è circa i valori profondi ed il senso da lui attribuito all’esistenza umana. Più volte protesta di non essere comunista, vale a dire di non far parte di organizzazioni così etichettate, né di aver partecipato ad attività delle stesse. Tuttavia non nasconde le proprie simpatie verso il marxismo russo, per quanto sia agli antipodi della sua vita da capitalista e del suo spirito fondamentalmente individualista, anzi anarchico, ed allergico ad ogni forma di imposizione, nonché di irreggimentazione.
Probabilmente il suo è più un atteggiamento sentimentale che convinzione razionale. Di qui l’ingenuità di certe sue perentorie affermazioni, come quella che nel mondo «non si è ridotta la miseria con l’altruismo o la filantropia dei governi, ma con le forze del materialismo dialettico» (p. 560); ed al suo protestarsi «pacefondaio» ad ogni costo (p. 535), sì, ma a senso unico, se inorridisce, e giustamente, delle nefandezze naziste, ma ignora quelle, non minori, dei russi bolscevici e dello stalinismo, e se, contrario ad ogni guerra, si presta poi, fervoroso e efficace oratore, a far propaganda a favore dell’intervento degli Stati Uniti a fianco della Russia sovietica contro la Germania. A proposito di religione e di cristianesimo è dato trovare in queste pagine più di un indizio per supporre nell’autore non solo l’assenza di opposizione categorica, o di consapevole malanimo, bensì anche la presenza di un’inquieta ricerca di un approdo, ostacolato – crediamo – più che altro da una carente istruzione religiosa e dall’agnosticismo respirato nell’ambiente da lui praticato. Certo è, tuttavia, che non mancano nella sua vita quelli che vogliamo credere approcci discreti, ma frequenti, della grazia. Ecco, infatti, che rivedendosi, ragazzetto di otto anni, accolto, quasi orfano, nella troupe dei cattolici Jackson, scrive:
Ogni domenica andavano tutti in chiesa tranne me. Essendo l’unico protestante mi sentivo solo, e perciò di tanto in tanto li accompagnavo. Se non fosse stato per il rispetto dovuto agli scrupoli religiosi di mia madre, avrei potuto convertirmi al cattolicesimo con la massima facilità, perché mi piacevano il suo misticismo e gli altarini fatti in casa con una Vergine Maria di gesso adorna di fiori e candele accese, che i ragazzi erigevano in un angolo della stanza da letto, e davanti ai quali facevano una genuflessione ogni volta che passavano (p. 50).
Venticinque anni dopo, di ritorno dal primo trionfo europeo, che, del resto, egli stesso aveva giudicato vanità piacevole ed onorevole sino ad un certo punto, sarà la madre a ricordargli, in un momento di lucidità: «Se tu avessi messo il tuo talento a servizio del Signore, chissà quante anime avresti potuto salvare!». Riflessione alla quale egli non trovò di meglio che rispondere, alla maniera di Charlot, con una piroetta (giocando sul doppio senso di salvare-guadagnare di to save): «Forse avrei salvato delle anime, ma non dei soldi» (p. 340)
Poi sarà il grande Rachmaninov a riproporgli, sia pure a suo modo, il problema di fondo della vita:
Qualcuno portò il discorso sulla religione e io confessai di non essere un credente. Rachmaninov interloquì immediatamente: «Ma come può esservi arte senza religione?» – Per un attimo non seppi che cosa rispondere. «Forse non stiamo parlando della stessa cosa» dissi. «Per me la religione è la credenza in un dogma: e l’arte è un sentimento più che una dottrina» – «Tale è la religione» rispose lui. Dopodiché io tacqui (p. 475).
Avrà mai fatto capolino, nella mente e nel cuore di Chaplin, il concetto di religione, e la figura di Gesù Cristo, quale «carità»? Che cosa potrà, per esempio, aver pensato nel suo incontro con l’abbé Pierre di Parigi? Che cosa, soprattutto, nell’altro sconcertante incontro con l’innominato missionario di Hong Kong, che gli offrì da stringere le mani ruvide di lebbra (p. 462)? In verità le due pagine5 nelle quali più esplicitamente egli espone il suo pensiero in fatto di religione e di fede non sono molto consolanti. Se le anima, infatti, un acuto senso di ricerca, le ghiaccia il più desolato vuoto del mistero.
Ad esse fanno riscontro le ultime due, che chiudono l’autobiografia, nelle quali Chaplin scioglie un inno di gioiosa vitalità, nella felicità più serena finalmente portatagli, dopo tante dolorose e drammatiche avventure femminili, dalla gentile e generosa presenza della giovane Oona O’Neill:
Pago di queste gioie – egli conclude –, talvolta siedo sul terrazzo, al tramonto, e al di là dell’ampio prato verde contemplo il lago lontano, e oltre il lago i monti silenziosi e in questo stato d’animo non penso che a godermi la loro magnifica serenità.
Così chiudendo il volume, a noi, che crediamo, vien fatto di formulare l’augurio che, anche in premio del molto bene che egli ha fatto, si accenda al vecchio artista ormai giunto al tramonto, d’oltre il lago ed i monti silenziosi, la grande luce di una superiore e più duratura serenità.
1 CHARLES CHAPLIN Jr. (in collaborazione con N. e M. RAU), Charlot, mio padre. Milano, Rizzoli, 1961, in-8º, pp. 316. Con 12 tavv. L. 2.500.
2 CHARLES CHAPLIN, La mia autobiografia, 2ª ediz. Milano, Mondadori, 1964, in-8º, pp. 609. Con 114 ill. f.t. L. 5.000.
3 Tra l’altro, di grande interesse quanto Chaplin, a refutazione di tante leggende fiorite in argomento, riferisce sulla nascita del suo Charlot (p. 174 ss.), e sulla psicologia ed evoluzione del personaggio (p. 250 ss.).
4 Non era quella l’unica volta che la povera donna gli aveva portato l’attenzione sui valori religiosi della vita. Si legga la bella «predica» di pp. 24-25, che Chaplin così conclude: «Mia madre mi aveva talmente commosso che avrei voluto morire per andare incontro a Gesù. Ma lei non era altrettanto entusiasta. “Gesù vuole prima che tu viva e si compia qui il tuo destino”, disse. Nella stanza buia del seminterrato di Oakley Street mia madre mi accese della fiamma più ardente che questo mondo abbia mai visto, e che da allora ha sempre arricchito teatro e letteratura con i suoi temi più grandi e appassionati: pietà, amore e umanità».
5 «Una volta, nel Sud della Francia, vidi su una lapide la fotografia di una sorridente ragazzina di quattordici anni e sotto, incisa, una sola parola: Pourquoi? Nello sbalordimento in cui siamo gettati da un così grande dolore è vano cercare una risposta. Una ricerca del genere non fa che accrescere il tormento e indurre a falsi moralismi: neppure ciò non significa che non esiste risposta. Non posso credere che la nostra esistenza sia insensata e accidentale, come ci assicurano gli scienziati. La vita e la morte sono troppo risolute, troppo implacabili per essere accidentali.
«I modi casuali della vita e della morte – il genio troncato nel suo sbocciare e gli insensati olocausti e le catastrofi – possono sembrare futili e senza senso. Ma il fatto che queste cose siano accadute è la dimostrazione di un fine risoluto e ostinato che supera i limiti della comprensione della nostra mente tridimensionale.
«Vi sono dei filosofi i quali postulano che tutto è materia in qualche forma di azione, e che in tutta l’esistenza non si può aggiungere o togliere nulla. Se è così, allora ogni azione è eterna, governata dalle leggi della causa e dell’effetto; se lo si accetta, bisogna riconoscere che ogni azione è preordinata. In tal caso, la predestinazione non vale forse per la stella cadente quanto per me che mi gratto il naso? Il gatto gira intorno alla casa. La foglia si stacca dall’albero. Il bimbo inciampa e cade. Queste azioni non sono forse riconducibili all’infinito? Non sono predestinate e continue nell’eternità? Conosciamo la causa immediata che ha fatto cadere la foglia o inciampare il bambino, ma non possiamo rintracciarne né l’inizio né la fine.
«lo non sono religioso in senso dogmatico. Le mie vedute sono simili a quelle di Macaulay, il quale scrisse che gli stessi argomenti religiosi furon dibattuti nel XVI secolo con la stessa sottigliezza filosofica di oggi; e malgrado il progresso scientifico e le nuove conoscenze, nessun filosofo, passato o presente, ha, gettato nuova luce sul problema.
«lo non credo, né mi rifiuto di credere, in nulla. Ciò che si può immaginare è una verità approssimata pari a quella dimostrabile matematicamente. Non ci si avvicina alla verità attraverso la ragione, essa ci confina in una matrice geometrica di pensiero che esige logica e attendibilità; in sogno vediamo i morti e li accettiamo come vivi, sapendo al tempo stesso che sono morti. E benché questo stato di sogno sia privo di ragione, non ha forse una sua attendibilità? Vi sono cose che trascendono la ragione. Come possiamo comprendere la miliardesima parte di un secondo? Eppure esiste, se crediamo alla scienza matematica.
«Invecchiando, mi attira sempre più il problema della fede. Viviamo di essa più di quanto si pensi e otteniamo per mezzo di essa più di quanto ci si renda conto. lo credo che la fede precorra tutte le nostre idee. Senza fede non avremmo mai potuto evolvere ipotesi o teoria, scienza o matematica. È un’estensione dello spirito, un potere inverso oltre che infinito. Negare la fede è confutare se stessi e lo spirito che genera tutte le nostre forze creative.
«La mia fede è nell’ignoto, in tutto ciò che non comprendiamo col ragionamento; io credo che ciò che supera la nostra comprensione sia una cosa semplicissima in altre dimensioni, e che nel regno dell’ignoto vi sia un’infinita energia per il bene» (La mia autobiografia, cit., pp. 346-347).