NOTE
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1 Per gli atti delle Congregazioni generali XXV-XXVIII, cfr Civ. Catt. 1953, I, 65.

2 I termini generici che qui adoperiamo tengono presenti i dubbi che perdurano tra i glottologi circa le origini del linguaggio umano; dubbi che fanno disperare alcuni di essi circa la soluzione del problema, forse ozioso come quello della quadratura del cerchio (cfr G. FANO, Saggio sulle origini del linguaggio, Torino 1962, pp. 19 e 20, nota. – Su questa opera, e su quella di F. BRUNI, L’origine del linguaggio, cfr Civ. Catt. 1962, IV, 582, e 1959, IV, 415).

3 PLATONE, Fedro, capp. LXIV. L’apologo è doppiamente interessante. Prima perché, localizzato in Egitto, indica l’origine storica della nostra scrittura proprio nei segni geroglifici, usati promiscuamente come ideogrammi, come sillabe e come consonanti dagli scribi egiziani; nel secondo millennio avanti Cristo mutati in segni solo fonetici dai fenici, dai quali poi i greci derivarono il loro alfabeto, i quali poi lo tramandarono agli italioti ed ai latini. Seconda: perché esemplifica praticamente quell’alto concetto della dignità umana che faceva concludere a Platone il suo dialogo con la seguente mirabile invocazione: «O dio Pan, e dèi tutti di questo luogo, concedetemi di diventar bello di dentro, e che tutto quello che avrò di fuori sia amico a quel che sarà dentro; d’altro non ho bsogno: ho pregato abbastanza» (ivi, cap. LIX).

4 A. MANZONI, I promessi sposi, cap. 111.

5 Cfr L’analphabétisme dans divers pays, e L’analphabétisme dans le monde au milieu du XXesiècle, UNESCO, Monographies sur l’éducation de base, 1953 e 1957.

6 Non disponendo di dati circa la produzione mondiale di dischi, ci limitiamo a riferirne due parziali, ma significativi. Cinque anni fa erano stati venduti 60 milioni di dischi di Bing Crosby, e la sola Italia nel 1961 ha prodotto circa 20 milioni di dischi.

7 Gli interventi della S. Sede sul cinema sono stati raccolti nei due volumi: Le cinéma dans l’enseignement de l’Église, Città del Vaticano 1955; e E. BARAGLI, Cinema cattolico, Roma 1959; sulla radio e la televisione, nel recentissimo: Documenti Pontifici sulla Radio e la Televisione, Città del Vaticano 1962 (cfr Civ. Catt. 1963, I, 61).

8 Questo accenno è nell’ultimo capoverso del messaggio: «È nostro ardente desiderio — affermano i Padri — che su questo mondo, ancora così lontano dalla pace desiderata per la minaccia derivante dallo stesso progresso scientifico, progresso meraviglioso, ma non sempre ossequente alla superiore legge della moralità, splenda la luce della grande speranza in Gesù Cristo unico nostro Salvatore» (cfr Civ. Catt. 1962, IV, 284).

9 Pio XII, Lettera enciclica «Miranda prorsus» (8 settembre 1957).

10 Ci riferiamo alla formula ideografica: I = f (C, E, P), nella quale l’Idoneità; (= I) di comunicazione efficiente di un dato strumento si misura in funzione (= f) di tre variabili, quali la Capacità; (= C) di contenuti che lo strumento è atto a comunicare, la Estensione (= E), vale a dire la quantità di soggetti recettori che lo stesso è atto a raggiungere, e la Potenza (= P) d’informazione e di suggestione con la quale il contenuto, tramite lo strumento, viene comunicato. Ci siamo così permessi di variare alquanto la formola I = L E P, data per primo da F. PAOLONE (Film e opinione, Roma 1958, p. 23), sostituendone alcune sigle e denominazioni, in armonia con quelle in uso nella Logica scolastica.

11 Un calcolo simile, ma tra teatro e cinema, si permetteva già il noto regista J. FEYDER: «Col cinema, un’attricetta ben lanciata ci metterà meno di un anno a raggiungere tanti spettatori quanti la grande Sarah Bernhardt non ne ha raggiunti in quarant’anni di carriera teatrale nel mondo» (Le cinéma, notre métier, Genève 1944, p. 13); e tre anni dopo (27 marzo 1947) l’accademico di Francia Jérôme THARAUD notava, nel discorso di recezione del commediografo e regista Marcel Pagnol: «La vostra commedia Fanny [pubblicata per il teatro nel 1931, e portata sullo schermo dallo stesso Pagnol nel 1932], in soli quindici anni ha toccato e passato da un pezzo le centomila rappresentazioni. Per raggiungere questo risultato [senza il cinema] sarebbe stato necessario cominciare a dare rappresentazioni dieci anni prima della nascita di Molière [avvenuta nel 1622] e continuare, per tutte le sere, sino ad oggi!» (R. JEANNE – CH. FORD, Le cinéma et la presse, Parigi 1961, p. 84).

12 Cfr Statuto della Pontificia Commissione per la Cinematografia didattica e religiosa (17 settembre 1948); Statuto della Pontificia Commissione per la Cinematografia (1º gennaio 1952); Statuto della Pontificia Commissione per la Cinematografia, la Radio e la Televisione (16 dicembre 1954).

13 Questo titolo si ritrova anche nell’attuale Xª Commissione conciliare, detta appunto De fidelium apostolatu; de scriptis prelo edendis et de spectaculis moderandis. – Per la proposta, votata il 27 nov. dal Concilio, in merito alle future (estese) competenze della «Pont. Commissione per la Cinematografia, la Radio e la Televisione», cfr Civ. Catt. 1963, I, 70.

14 Aid-visual, in inglese, area linguistica dove il neologismo è nato; Audiovisuels in francese; audiovisivi in italiano. A questo proposito ci sia lecito avanzare il dubbio che il termine audio sia derivato per semplice assonanza con l’Aid di Aid-visual, che propriamente significava «sussidi visivi», di evidente riferimento didattico. – Per una esauriente chiarificazione di siffatta questione concettuale-terminologica, cfr FR. FATTORELLO, Sul termine audiovisivi, in Notizie e Commenti (Roma 1959, n. 10, pp. 4-6).

15 Scrive R. BRANCA: «La parola aid-visual in inglese, e audio-visuel in francese deriva dai verbi latini audio (ascolto) e video (vedo). L’accoppiamento del nome sussidio con l’aggettivo audiovisivo come locuzione non è corretta, ma usata universalmente esprime con esattezza un concetto nuovo nella didattica. I sussidi audiovisivi sono quelli che si vedono e che si sentono contemporaneamente e cioè il cinema e la televisione, ma in pratica anche il teatro, la radio, il magnetofono, il grammofono, i fumetti, i tabelloni, la panno-lavagna, le lavagne magnetiche ecc. sono ormai compresi fra i sussidi integrativi del metodo audiovisivo» (I sussidi audiovisivi in Italia, 1959, pp. 51 e 52).

16 Ancora il BRANCA: «Cinematografo e televisione, e soltanto essi, costituiscono il fenomeno audiovisivo. Fare confusioni di classifica è pericoloso per le conseguenze pratiche nel campo didattico ed educativo» (ivi, p. 31). – L’autore, però, premette: «Il processo dai sussidi didattici ai sussidi audiovisivi non è graduale. C’è un salto... È diversa la natura dei due mezzi... Mentre i sussidi didattici... sono basati su una comunicazione interumana (da uomo a uomo, da docente a scolaro), i sussidi audiovisivi godono di una natura propria» (ivi, p. 28).

17 Il termine è stato recentemente usato, con discutibile scelta, nel tema della XXXV Settimana sociale dei cattolici d’Italia (Siena, 24-30 settembre 1962), che si è intitolata appunto: Le incidenze sociali dei mezzi audiovisivi. Com’era prevedibile, le ambiguità del termine, che nessuno pensò a rilevare ed a ridurre, almeno tentando una elencazione di quelli che si potevano e dovevano ritenere, o non ritenere, «mezzi audiovisivi», inficiarono una parte delle relazioni e gran parte delle discussioni. Nel Riassunto delle lezioni (p. 5) si legge: «L’universo di espressioni – di parole, di immagini e di suoni – che si va rapidamente espandendo e viene generalmente indicato col nome comprensivo di mezzi audiovisivi». Nelle Conclusioni ufficiali (p. 14) si legge di «una comunicazione audiovisiva» opposta alla «trasmissione verbalizzata dei concetti» quasi che Radio e Televisione appartenessero soltanto alla prima e non anche alla seconda. E nelle discussioni ci fu chi volle includere nei mezzi audiovisivi anche il libro ed il teatro...

18 Scriveva a questo proposito la LAHY-HOLLEBECQUE: «Une technique, quand elle reste elle-même, est toujours probe, sans complications doctrinales ni affectations esthétiques. Un art, au contraire, spécule et raffine sur les idées et les sentiments, innove les théories, glisse sur la pente de la philosophie et, par voie insensibile, inféodé à l’amour, son thème éternel, passe de la mesure décente à l’impureté. En effet, ce qu’il exprime ne dépend plus d’un appareil enregistrateur qui, lui, saisit le vif et ne fraude pas, mais du cerveau de l’homme qui, souvent, peut etre malade, excessif, déformé» (L’enfant au royaume des images, Parigi 1956, pp. 17-18).

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Articolo estratto dal volume I del 1963 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

La prima discussione del terzo Schema di costituzione conciliare, consacrato ai moderni strumenti della comunicazione sociale, iniziatasi con la 25ª e conclusasi felicemente nella 28ª Congregazione generale del Vaticano II (23, 24, 26 e 27 novembre 1962), insieme con quella dei circa 2.200 Padri presenti in aula, ha richiamato l’attenzione di tutto il mondo, cattolico e non cattolico, che segue con interesse le cronache conciliari1. E già questo può considerarsi un frutto duraturo dell’animosa iniziativa del papa Giovanni XXIII, il quale, a suo tempo, dispose che fosse discusso e maturato da un Segretariato preparatorio, e poi portato in aula, un argomento che molti, così entro come fuori della Chiesa, ancora oggi credono poco conveniente già al suo magistero ordinario, e anche meno alla dignità di un concilio ecumenico.

Si tratta di opinioni preconcette, che derivano da due lacune nozionali; la prima, riguardante la portata straordinaria e la natura profonda dei fatti e fenomeni storici, psicologici e sociologici che l’insieme di questi strumenti oggi causa od occasiona, innesca o incrementa, nel mondo; la seconda, riguardante la natura e la missione della Chiesa, chiamata dal suo Fondatore a guidare una umanità non astratta ed astorica, bensì composta di uomini concreti e immersi nel loro tempo, ed a operare essa stessa in intimo contatto con le realtà di questo mondo: in ogni caso, mai ignorandolo, neanche quando s’identificasse con quello per il quale Gesù non pregava (cfr Gv 17,9).

In attesa di conoscere le dottrine e le norme dei testi conciliari definitivi, crediamo utile introdurre i nostri lettori ad una più piena intelligenza di essi, mostrando loro, come in una panoramica, il vasto e complesso quadro degli interessi della Chiesa (e del Concilio) rispetto ai moderni strumenti della comunicazione sociale, dopo averne scorso, in una veloce carrellata, il loro sviluppo storico. Né dispiaccia se, per ciò fare, risaliremo a fatti anche remotissimi: essi varranno a convincerci dell’unicità delle realtà storiche che, in questo settore, si vanno attuando sotto i nostri occhi, ed a farci giudicare nel loro giusto senso certe reazioni pessimistiche verificatesi ad ogni avvento di invenzioni più o meno rivoluzionarie.

Verso la parola scritta

Per farli passare, da mondi individuali, impazienti di pienamente esprimersi e comunicare, a mondi aperti e liberamente comunicanti, tra gli uomini, a somiglianza del loro Signore, soccorse la parola parlata: segno divino dell’intelligenza razionale, con cui l’uomo, dominando la singolarità e la contingenza delle cose, si dimostrò superiore a tutti gli esseri del creato, nella gloria e nell’onore di poco inferiore agli angeli (cfr Ps. 8,5).

Ma la parola parlata, per quanto insuperabile strumento di espressione e di comunicazione concettuale, aveva i suoi angusti limiti di spazio e di tempo. Infatti, come comunicazione diretta, nella sua estensione dipendeva dal volume di voce del parlante, mentre, una volta proferita, non lasciava traccia che nella labile memoria dei pochi che l’avevano ascoltata. Di qui la millenaria ricerca degli uomini primitivi di sussidi alla parala parlata2: segni magici di deprecazione o di propiziazione e segni di riconoscimento, mnemonici o di proprietà; bastoni intaccati, cordicelle annodate, collane di conchiglie; fuochi e fumate, rumori e suoni di tam tam, di corni... Quindi fu l’uso di immagini: incise, disegnate o dipinte, su rupi, pelli, cortecce, tavolette, laterizi...: ora in figure intere ed a prevalente scopo propiziatorio per azioni di caccia, ed ora abbreviate, e poi appena accennate, a significare gli oggetti e le azioni relative ad essi (pittografia). Quindi, ancora, il passaggio all’ideografia, col portare i simboli grafici a significare non più gli oggetti (ideogrammi) ma i loro nomi. Siamo, ormai, all’aurora della scrittura propriamente detta. Lentamente, infatti, nelle notazioni cuneiforme (civiltà babilonese) e geroglifica (civiltà egiziana) l’ideogramma passa a fonogramma, cioè i simboli grafici cominciano a suggerire suoni: prima verbali, poi sillabici e, finalmente, alfabetici. La scrittura fonetica è un fatto compiuto.

Come le mitiche invenzioni del fuoco e della ruota, questa della scrittura doveva segnare una delle svolte decisive nella storia dell’umanità. Dava, infatti, la possibilità di fissare stabilmente il pensiero umano, vale a dire tutto quello che l’uomo come tale, differenziato da tutto il resto del creato, poteva esprimere e creare di specificamente suo; e la possibilità di diffonderlo inalterato nello spazio, comunicandolo non più soltanto tra pochi presenti, ma tra i lontani; inoltre, dava la possibilità di tramandarlo nel tempo, con l’immenso vantaggio di poter consegnare ai posteri i documenti delle grandi civiltà, altrimenti condannate all’oblio, e di permettere così agli stessi di costruire le loro culture non ex novo, ma come vivendo di rendita sui capitali accumulati delle generazioni passate.

I timori del re Thamous

Ma vale la pena di ricordare, alludendo fin d’ora a quanto dovremo rilevare circa gli strumenti di comunicazione sociale indotti dal progresso tecnico moderno, che i vantaggi della parola scritta rispetto a quella parlata sembrarono ai pensatori, – pochi, crediamo, per la verità, – non tali e tanti da togliere loro qualsiasi preoccupazione culturale circa il passaggio da una espressione e forma di cultura all’altra. Di ciò resta traccia nel Fedro, di Platone, dove il filosofo non solo ha buon giuoco nel denunciare la povertà del discorso scritto, freddo e morto, a paragone di quello parlato, caldo e vibrante di vita, specie nella funzione più alta e nobile che esso aveva raggiunto, vale a dire nell’insegnamento filosofico e morale, di cui, proprio con i suoi dialoghi, egli stava fornendo prove sublimi, bensì anche nel denunciare il pericolo d’impoverimento delle facoltà umane temuto nella scrittura.

È noto l’apologo al quale egli scherzosamente ricorre per chiarire il suo pensiero3. Egli racconta che il dio Theuth, inventore, tra le altre cose, anche della scrittura, si recò dal re Thamous in Tebe di Egitto per proporgli di far dono delle proprie invenzioni agli egiziani suoi sudditi. Il re gli chiese quali vantaggi le stesse fossero per arrecare; quindi, mentre il dio esponeva, egli qui lodava là biasimava. Arrivati alla scrittura, il dio Theuth disse: — Questa invenzione, o re, eccellente rimedio della memoria e del sapere, farà gli egiziani più capaci di apprendere e di ricordare —. Ma il re a lui: — O ingegnosissimo Theuth, sarai capace di inventare, ma non è affar tuo giudicare dell’utilità delle tue invenzioni! Proprio perché ne sei l’inventore, tu t’inganni sulle possibilità della scrittura. Infatti, l’introduzione di essa causerà la perdita della memoria in quelli che impareranno a leggere, in quanto, fidandosi ormai dello scritto, non ricorderanno più di dentro, da se stessi, bensì soltanto da segni estranei, da di fuori. La tua invenzione, quindi, non porta a sapere, bensì a ritrovare; del sapere, tu, ai tuoi acquirenti, non procuri la realtà, ma l’apparenza! Così avverrà che gli uomini, fatti lettori senza apprendere, si riterranno sapienti quando saranno ignoranti; e, divenuti saccenti invece che saggi, si renderanno insopportabili!

Millenni di analfabetismo

Ma, con buona pace del re Thamous e di Platone, la storia si incaricò di dimostrare quanto mai fossero infondati siffatti timori. Non meno che ai rapsodi pre-omerici, su su nei secoli, le facoltà mnemoniche furono scarsissimamente insidiate dalla scrittura, fino agli arabi, che nel medioevo continuarono a trasmettersi a memoria l’intero Corano, ai contadini toscani dell’inizio di questo secolo, che, semianalfabeti, recitavano, senza fallire verso, tutta la Gerusalemme Liberata, ed ai recenti eroi di Lascia o raddoppia?, molti dei quali dimostrarono quale prodigiosa memoria di cose inutili possa andare d’accordo con una fondamentale incultura.

In realtà, stante la scarsità del materiale scrittorio (papiro, tavolette, pergamena...) e stante soprattutto la pressoché universale miseria di esistenze umane occupate quasi esclusivamente nel sodisfacimento dei bisogni essenziali della vita, scrittura e lettura restarono privilegio di pochi ricchi, i quali non avevano né la voglia né i mezzi di comunicarlo alle masse: così, nel suo insieme, tutta l’umanità non uscì dalla cultura della parola parlata. Contro i pochi funzionari delle amministrazioni statali, i pochi membri delle caste sacerdotali e i pochi signori, o i fortunati clienti e cortigiani di questi, che potevano dedicarsi all’otium culturale, rimasero masse sterminate di analfabeti totalmente assorbiti nel negotium, per i quali tutti i volumi erano con sette sigilli sigillati, non meno di quello dell’Apocalisse; ed anche nel nostro mondo occidentale cristiano rimase l’universa et sancta – et illitterata – plebs Dei, fissa nella comunicazione pittografica, scolpita o dipinta, di quella Biblia pauperum che furono le cattedrali cattoliche, sussidio del magistero orale della Chiesa. Proprio perché la cultura scritta costava moltissimo, essa rimaneva monopolio di alcuni ricchi, ai quali, oltre tutto, forniva ulteriori mezzi di aumentare le proprie ricchezze sfruttando i poveri, i quali così venivano sempre più confinati in un non redimibile stato d’incultura. Per rompere questo circolo chiuso e per far diventare la parola scritta veicolo veramente universale di comunione umana, oltre che modificare alcune situazioni sociali, occorreva moltiplicare a centinaia e a migliaia i testi scritti, e farli scendere a costi senza paragone più bassi di quanto non fossero non solo i rarissimi e preziosissimi codici alluminati medievali, bensì anche i manoscritti degli amanuensi comuni. In condizioni storiche favorevoli soccorsero, per compiere il miracolo, la carta di stracci, diffusasi in Europa nei secoli XIII e XIV, e soprattutto, a mezzo il secolo XV, i caratteri mobili di Gutenberg, ritrovato che, col portare a livelli popolari la millenaria invenzione della scrittura, più che la scoperta dell’America, avvenuta qualche decennio dopo, chiudeva definitivamente un’era culturale dell’umanità, ed apriva quella moderna.

* * *

Tuttavia, proprio a livello popolare gli effetti tardarono a farsi sentire, ché, col moltiplicarsi e col diffondersi della pagina scritta non andò di pari passo l’insegnamento sistematico della lettura, introdotto soltanto molto tardi, soltanto in alcune grandi città d’Europa, e soltanto per i ragazzetti, escluse quindi le masse degli adulti, escluse tutte le popolazioni contadine e, in ogni caso, escluse le femmine. Insomma, per quattro secoli, soltanto pochi ceti privilegiati, generalmente per ragioni di censo – quando non anche per elezione o cooptazione al clero – praticamente ebbero libero accesso alla parola scritta, già prevalentemente teologica ed umanistica, poi anche e prevalentemente filosofica, scientifica e tecnica; e la quasi totalità dell’umanità, globalmente, ancora una volta restò allo stadio primitivo della sola parola parlata, con tutte le relative caratteristiche di costume e di mentalità. Tra le quali ricordiamo: scarsa o nessuna apertura verso problemi culturali generali esorbitanti da un’esistenza ancora assorbita quasi esclusivamente dal sodisfacimento dei bisogni primari fisici e morali di essa, sia individuale sia associata; attaccamento acritico alle tradizioni degli anziani, fissate una volta per sempre nelle costumanze, obbliganti ed intangibili, quando non anche in quell’indiscutibile codice sapienziale che erano i proverbi popolari; quindi, fiducia tranquilla e totale dell’individuo negli organismi sociali – quali la famiglia, la chiesa, il comune, la corporazione, il clan... – che gli assicuravano la trasmissione integrale degli stessi valori tradizionali e ne tutelavano l’esistenza altrimenti indifesa, nonché rispettosa fiducia in chi ne rappresentasse l’autorità; rispetto sacro per la pagina scritta (accezione positiva di «leggenda = da leggere», ben lontana da quella deteriore assunta dipoi; senso sacrale di «Sta scritto...», e «Si legge...»; valore argomentante di «È stato pure stampato!»), ma, allo stesso tempo, diffidenza profonda per i pochi che vi sapevano leggere dentro. «All’entrare (nell’abitazione del dottor Azzeccagarbuglii, — scrive il Manzoni, — Renzo, che poi del tutto analfabeta non era) si sentì preso da quella soggezione che i poverelli illetterati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto»4. Assenza, o parte passiva e succuba, delle masse analfabete negli avvenimenti politici, condotti da pochi che detenevano, con la cultura, le leve delle idee motrici (basti ricordare, tra i meno antichi, la rivoluzione francese, i moti risorgimentali per l’Italia e, per la Russia, la rivoluzione di ottobre...).

Questa umiliante situazione d’isolamento culturale dell’uomo è poi durata, si può dire, quasi immutata sino ai nostri giorni in larghissime plaghe del globo; mentre anche in zone privilegiate, dove la civiltà della parola scritta si è andata sviluppando più o meno rigogliosa, hanno perdurato isole più o meno vergini di alfabeto e di carta stampata. Basti ricordare che, ancora nel 1900, tra 26 paesi recensiti sotto questo aspetto dall’U.N.E.S.C.O.: in Cile, Italia, Filippine e Iugoslavia circa il 5O per cento degli abitanti sopra i dieci anni erano analfabeti; in Brasile, Colombia, Cuba, Spagna, Finlandia e Grecia il 60 per cento; in Bulgaria, Honduras, Portogallo e Birmania il 70 per cento; nel Messico l’80 per cento; in Egitto, India, Turchia ed Unione Sud Africana il 90 per cento. Intorno allo stesso anno, negli Stati Uniti il 44,5 per cento dei negri erano analfabeti, e nell’India il 99,3 per cento delle donne. In cifre assolute, calcolando in due miliardi e mezzo la popolazione del globo, e in un miliardo e mezzo il numero di quelli che vi superavano i 15 anni, ancora nel 1950, tra questi ultimi, gli analfabeti raggiungevano almeno i 700 milioni, vale a dire il 45 per cento dell’umanità adulta5.

La fine di una notte

Orbene, ai nostri giorni, per la prima volta nella storia dell’umanità, si prospetta la possibilità di strappare queste masse senza numero al loro isolamento culturale; anzi l’opera in gran parte è già avviata, mediante l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione sociale, i quali, in qualche maniera differenti dalla scrittura, o la suppliscono, oppure l’adoperano in misure estensive ignote al libro, oppure ancora innescano processi conoscitivi e comunicativi che chiedono d’integrarsi rapidamente almeno in un minimo di cultura anche della parola scritta.

Essi sono principalmente:

  • la stampa periodica: dalla gazzetta, in uso dal ‘600, al giornale vero e proprio, introdotto nel sec. XVIII, e a tutte le altre sue diverse forme. Essa si è sviluppata oltre misura dal secolo passato in dipendenza di quattro invenzioni tecniche: la macchina tipografica, che nel 1811 (Koenig-Bauer), veniva a sostituire il vecchio torchio a mano; la rotativa, che verso la metà dell’800 fece passare la stampa, da intermittente e lenta, a continua e velocissima, decuplicandone la velocità di tiratura (da 1.200 a 12.000 copie orarie); la linotype, che trent’anni dopo sostituiva con procedimenti meccanici la lenta composizione a mano ereditata da Gutenberg; e finalmente i vari procedimenti di foto riproduzione, che sulla fine dell’800 permisero la stampa tecnicamente perfetta, rapida ed economica delle illustrazioni, sia in bianco e nero sia a colori. Tutte queste invenzioni, integrate, sul principio del 1900, nei procedimenti di rotocalco e di offset, causarono, specialmente dopo la prima guerra mondiale, l’inondazione oggi in atto delle riviste illustrate, magazines, rotocalchi, dépliants, volantini e manifesti murali, ormai diventati elementi caratteristici ed ineliminabili della moderna civiltà iconografica ed iconovisiva;
  • il cinema: inventato sulla fine del secolo passato, diffusosi ai primi di questo, e specialmente poi dopo il 1928, quando, da muto che era, diventò sonoro;
  • la radio: passata dallo stadio sperimentale dei primi anni di questo secolo, a servizio stabile e continuativo dopo la prima guerra mondiale;
  • la televisione: avviata tra le due guerre mondiali e diffusasi prodigiosamente dopo la seconda;
  • i procedimenti di registrazione, quali i dischi, i fili ed i nastri magnetici per la parola e per i suoni, gli uni e gli altri divenuti merce di grande consumo in questo ultimo decennio; ed i nastri magnetici anche per le immagini (Ampex) ormai di uso corrente nella televisione, e che da un giorno all’altro vedremo resi di uso comune e domestico, come sono già le cineprese.

Si può dunque affermare che in questi ultimi decenni, come una nuova atmosfera, fatta di carta e di colori, di immagini e di suoni, ha invaso tutte le terre di vecchia civiltà occidentale, ed è in procinto di invadere le altre e di circondare rapidamente tutto il globo. La costituiscono, tra l’altro: 8.000 giornali, con 300 milioni di copie giornaliere; 22.000 periodici, con 200 milioni di copie settimanali o mensili; 2.500 nuovi film prodotti ogni anno, per saziare la fame di 170.000 cinema e di 17 miliardi di spettatori annui, che vi prendono posto per un minimo di 35 miliardi complessivi di ore; 6.000 radio trasmittenti, per 400 milioni di ricevitori; 1.000 trasmittenti televisive, per 120 milioni di abbonati, i quali consumano complessivamente 200 miliardi di ore di spettacolo ogni anno; centinaia di milioni di dischi, milioni di registratori...6.

La Chiesa nel tempo nostro

Già la grandezza di questo fenomeno in atto, che tutto fa prevedere destinato a sviluppi senza misura maggiori, spiega perché la Chiesa si interessi ad esso. Incarnata com’è nell’umano, essa, che non rifuggì dall’usare l’ascetica dei suoi monaci per salvare e trasmettere le reliquie della sapienza e dell’arte greca e latina sfuggite alle devastazioni barbariche; essa che non dubitò di battezzare il teatro usandolo come mezzo di catechesi e come sussidio liturgico, e che si interessò subito alla stampa, per qualche decennio battendo la concorrenza degli umanisti paganeggianti: in questi ultimi decenni ha moltiplicato a decine e a centinaia gli interventi del suo magistero ordinario in argomento di stampa, cinema, radio e televisione7.

Plausibilmente, dunque, ne ha fatto anche argomento di discussioni e di deliberazioni conciliari, dato che il Vaticano II, a differenza degli altri concili ecumenici, più che dirimere e definire punti particolari di dottrina rivelata, intende attuare una totale e solenne presa di coscienza di questo critico momento di trapasso culturale e morale che l’umanità sta attraversando, e dato che la Chiesa, in esso, più che ripiegata sul passato, è tutta applicata al presente e protesa verso l’avvenire, ed intende assumere pienamente la parte di catalizzatrice e di polarizzatrice che, nel travaglio di un mondo nuovo, per divino mandato le compete; un mondo nuovo nel quale, appunto, questi strumenti costituiscono insieme una delle cause più determinanti ed acceleranti ed una delle manifestazioni più esplosive.

Quali sono gli aspetti sotto i quali questi strumenti interessano maggiormente la Chiesa ed il Concilio? – Per rispondere a questa domanda occorre tener presente insieme una nota essenziale della Chiesa ad alcune caratteristiche di questi odierni strumenti di comunicazione.

Nota essenziale della Chiesa – come abbiamo accennato – è il suo fine eminentemente soprannaturale, ma da realizzare in soggetti umani, legati, durante il loro passaggio terreno, a determinate e non ignorabili condizioni storiche. Possiamo, infatti, descriverlo in questi termini: — La gloria di Dio, nella massima possibile divinizzazione dell’umanità in Cristo, in questa sua fase storica e transeunte mediante la sua grazia, che si schiude nella visione beatifica nella fase terminale ed eterna. — Ne consegue che, mentre nulla, che sia veramente umano, può considerarsi del tutto estraneo alla Chiesa (ed al Concilio), le attività dell’uomo e le stesse sue invenzioni interesseranno la Chiesa (ed il Concilio) proporzionalmente alle connessioni ed alle interferenze che mostreranno di avere rispetto al fine ultimo comune all’uomo ed alla Chiesa. Nulla o poco, dunque, interesseranno i ritrovati tecnici che risultassero del tutto o quasi del tutto indifferenti a questo fine ultimo; moltissimo invece e vivissimamente quelli che più o meno direttamente lo toccassero, aiutandone ed ostacolandone il raggiungimento.

Ora, sotto questo aspetto, con la straordinaria precisione e ricchezza magisteriali che ne illuminarono il pontificato, Pio XII, introducendosi nella Miranda prorsus, distingueva in tre categorie «le meravigliose invenzioni tecniche di cui si gloriano i nostri tempi, frutti dell’ingegno e del lavoro umano, ma anche doni di Dio». La prima: di quelle invenzioni che servono a moltiplicare le forze e le possibilità fisiche dell’uomo (e si riferiva, evidentemente, al reperimento di nuove fonti di energia: vapore, elettricità, motori a scoppio, energia atomica..., ed alle loro applicazioni); di queste, naturalmente, il Concilio, come la Chiesa, potrà trattare ex professo in casi limite, per esempio circa l’energia atomica, di cui già nel Messaggio dei Padri conciliari all’umanità8. La seconda categoria: di quelle che servono a migliorare le sue condizioni di vita (si pensi, per esempio, a tutti i ritrovati moderni concernenti l’abitazione ed il nutrimento, i viaggi e l’igiene, la medicina e la chirurgia...); e questi, presumibilmente, porranno al Concilio problemi generali e particolari diretti ed indiretti, più frequenti... La terza, infine: di quelle e che più da vicino toccano la vita dello spirito, servendo, o direttamente, o mediante artifici di immagini e di suoni, a raggiungere le stesse moltitudini, per comunicare ad esse, con estrema facilità, notizie, idee ed insegnamenti, quali nutrimento della mente, anche nelle ore di svago e di riposo». Tra le quali Pio XII ne ricorda espressamente tre: «il cinema, la radio e la televisione, che nel nostro secolo hanno segnato uno sviluppo straordinario»9.

«Strumenti della comunicazione sociale»

Ecco, perciò, le due note caratteristiche di questi strumenti: prima di tutto: la loro straordinaria estensione, vale a dire il numero senza numero dei soggetti recettori da essi raggiungibili, e spesso realmente raggiunti; seconda, la potenza d’informazione e di suggestione delle comunicazioni da essi attuabili10.

Il primo aspetto è a tutti noto, tanto è immediatamente rilevabile. Ad esso, infatti, si riferiscono i termini oggi correntemente usati per designarli: il francese techniques de diffusion e gli inglesi mass media e mass communications. Basti rilevare che, mentre un docente, senza ausili tecnici, riesce a raggiungere col suo insegnamento non più di qualche centinaio di alunni; che, mentre il teatro, in condizioni non ordinarie, può contare sul migliaio di spettatori per rappresentazione; che, mentre il libro di buon successo tocca le due o tre mila copie per edizione (e non è caso molto frequente quello di più edizioni in un anno); che mentre un oratore di grido, eccezionalmente, e non senza l’ausilio di appropriati strumenti tecnici, può essere udito da qualche decina ed anche da qualche centinaio di migliaia di uditori; decine e centinaia di migliaia di copie sono tirature del tutto ordinarie per giornali e rotocalchi, i quali non raramente toccano e passano il milione di copie; un film modesto, se vuole, com’è ovvio, ricuperare il danaro costato, deve contar su almeno tre o quattro milioni di spettatori paganti, mentre per le stazioni televisive e radiotrasmittenti sono normali le decine di milioni di ascoltatori simultanei. Del resto è noto come la rubrica Carosello totalizzi ogni sera circa dieci milioni di spettatori, che Lascia o raddoppia? e Canzonissima ne realizzarono punte tra i dodici e i tredici milioni, e che il recente esperimento di Telstar ha raggiunto in una serata i duecento milioni di ascoltatori-spettatori!

Calcoliamo con un po’ di fantasia: se nostro Signore avesse concesso a san Francesco Saverio la grazia di raggiungere, prima di morire, con la sua parola apostolica, duecento milioni di ascoltatori, nella misura di una predica al giorno ad uditòri di mille uomini ciascuno, e predicando tutti i giorni dell’anno senza un giorno di vacanza: il santo non sarebbe morto, come è morto, nel 1552, bensì nel 2100; vale a dire che, dopo aver predicato per ben 410 anni, gliene mancherebbero ancora 140!11.

* * *

Se si pensa che raramente si tratta di masse localizzate, bensì di numeri enormi di recettori materialmente distanti o separati l’uno dall’altro e di fatto resi intercomunicanti tra di loro dall’azione onnipresente di questi mezzi, si comprenderà perché questi vengano trattati dal Concilio sotto la denominazione comune, un po’ nuova, di strumenti della comunicazione sociale. Meglio di ogni altra, infatti, essa indica l’aspetto preciso e prevalente sotto il quale tutto questo insieme di fatti interessa la Chiesa; aspetto che si può considerare come il punto di arrivo di una lunga maturazione concettuale in una materia, del resto, ancora fluida, e di una progressiva presa di coscienza, divenuta soltanto ora totale. A questo proposito saranno, crediamo, molto indicativi i seguenti dati.

Il primo organo creato nella Curia Romana, cioè nel governo centrale della Chiesa, riguardante questi strumenti, si disse – siamo nel 1948 – Pontificia Commissione per la cinematografia didattica e religiosa. Si notino i limiti oggettivi e di competenza: solo il cinema, e solo i compiti di consulenza e di revisione dei film a soggetto religioso e morale destinati all’insegnamento ed alla propaganda cattolica. Quattro anni dopo – 1952 – lo stesso si muta in Pontificia Commissione per la cinematografia. Come si vede, l’oggetto resta invariato, ma le funzioni si allargano e si rinforzano, trattandosi ormai di «organo della S. Sede per lo studio dei problemi cinematografici che hanno attinenza con la fede e la morale». Ancora due anni, ed una nuova dizione indica che questa volta è l’oggetto stesso che si allarga; infatti, nel 1954 l’organo si denomina Pontificia Commissione per la Cinematografia, la Radio e la Televisione: titolo che dura tuttora12.

Orbene, una volta deciso da S.S. Giovanni XXIII il Vaticano II, al Presidente di questa venne assegnata anche la presidenza dei due Segretariati successivi – Antipreparatorio e Preparatorio – dello stesso Concilio, che, tuttavia, si intitolarono Della stampa e dello Spettacolo (De scriptis prelo edendis et de spectaculis moderandis)13, titolo che portava l’attenzione su due oggetti – stampa e spettacolo – in gran parte nuovi, ma carichi di problemi e di aspetti in parte comuni ed in parte propri rispetto al cinema, alla radio e alla televisione.

Presumibilmente, dunque, i due Segretariati, preso atto della vastità e diversità delle realtà e dei fatti compresi nel raggio delle loro indagini e del loro studio, furono alla ricerca di un termine comune tale che, mentre li comprendesse tutti, ne designasse l’aspetto più rilevante e totale – scolasticamente si direbbe: la ragione formale –, sotto il quale interessavano la Chiesa ed il Concilio. Ora, ovviamente, il termine spectacula rispondeva poco o nulla alla realtà delle cose; prima di tutto perché, per esempio, la stampa, la radio, i dischi, propriamente parlando, non sono spettacoli; poi perché molti spettacoli – il teatro, il circo, le parate, le gare, i fuochi artificiali... – come tali interessavano scarsamente in quella sede, i loro effetti sugli spettatori contenendosi entro limiti qualitativi e quantitativi senza paragone più modesti che non quelli degli altri mezzi; finalmente perché l’aspetto prevalentemente moralistico, che per lo più vien fatto di rilevare negli spettacoli, può considerarsi soltanto una parte, e non la più rilevante, dei complessi problemi morali e sociali sollevati dai caratteristici strumenti odierni.

Si poteva ripiegare su audio-visualia, termine tecnico che aveva il vantaggio di rendere i neologismi corrispondenti ormai d’uso corrente nelle lingue moderne14, nonché di rilevare uno degli aspetti che spiegano il loro immenso influsso nel mondo odierno. Ma anche questo termine non era privo di grosse ambiguità. Intanto perché esso è correntemente usato con esclusiva accezione didattica, vale a dire in funzione aggettivale rispetto ai sostantivo sussidi dell’insegnamento orale, scolastico o meno15; poi perché non sono pochi quelli che dànno al termine un significato esclusivamente cumulativo, secondo il quale, audiovisivi propriamente detti sarebbero soltanto il cinema sonoro e la televisione, strumenti che fanno appello contemporaneamente all’udito ed alla vista, e non gli altri, nei quali venga impegnata o soltanto la vista (rotocalco, e tutti i prodotti iconografici), o solo l’udito (radio, dischi...)16. Infine, il termine non sodisfaceva pienamente perché, mettendo in risalto l’aspetto appunto uditivo e visivo di questi strumenti, induceva ad affrettate conclusioni circa il loro influsso nel mondo odierno, quasi che la loro potenza suggestiva dipendesse unicamente dai loro aspetti sensoriali più o meno cumulati (televisione) e non anche da altri fattori, quali la latitudine di espansione permessa dalla loro natura tecnica (rotocalchi, dischi), le condizioni gregarie degli spettatori, specifiche di alcuni spettacoli (cinema)17, ed altre.

Per rilevare questi ultimi aspetti soccorrevano i due termini di uso corrente: techniques de diffusion, per l’area di lingua francese, e mass media, o mass communications, per l’area anglosassone, sopra ricordati. Ma anche questi non rispondevano all’intento senza inconvenienti. Il primo, infatti, se era valido nell’affermare l’aspetto tecnico, fondamentale e comune a tutti questi strumenti, lo era meno in quanto non procedeva oltre, e, per di più, conferiva alla diffusione un carattere di meccanicità impersonale, che, se può convenire, per esempio, alla diffusione di malattie, di beni economici, di insetticidi..., quadra meno con quella di notizie, di opinioni, di visione di vita, di costumi18; inoltre, dava ansa a conclusioni aberranti proprio su piano pastorale, come quella di tener lontana la Chiesa, spirituale e santa, da attività tecniche connesse all’uso di questi strumenti, o di avocarne tutta la competenza esclusivamente ai laici.

I due termini dell’area anglosassone – mass media e mass communications –, a loro volta, presentavano l’inconveniente di accezioni discutibili o erronee, rilevando troppo ed esclusivamente il concetto di massa. Infatti, che, in realtà, questi strumenti, come abbiamo affermato e provato, possano raggiungere, e di fatto raggiungano, almeno nel loro insieme, numeri sterminati di recettori, è verissimo; che, poi, non convenientemente adoperati, tendano a massificare, cioè a spersonalizzare gli individui nella loro autonomia interiore, è affermato dalla quasi totalità degli psicologi e dei sociologi; che, di fatto, fino ad oggi, abbiano prevalentemente prodotto siffatti effetti, noi lo sosteniamo, ma si può anche discutere, e c’è chi lo nega; ma che di natura loro siano tali che non possano non massificare nel senso più deteriore sopra indicato, e che perciò questa sia la loro caratteristica fondamentale – ciò che, purtroppo, viene sostenuto anche da alcuni di parte cattolica, chierici e laici, più bene intenzionati che bene informati – è da ritenersi del tutto erroneo. Ora, il termine massa, se usato a qualificare questi strumenti, potrebbe sembrare avallarne anche, o soltanto, l’accezione discutibile con valore di tesi, del tutto estranea alla mente della Chiesa, mai incorsa in una condanna globale dei moderni strumenti tecnici; ma anche precluderebbe alla stessa Chiesa ed al Concilio qualsiasi interesse positivo rispetto agli stessi.

1 Per gli atti delle Congregazioni generali XXV-XXVIII, cfr Civ. Catt. 1953, I, 65.

2 I termini generici che qui adoperiamo tengono presenti i dubbi che perdurano tra i glottologi circa le origini del linguaggio umano; dubbi che fanno disperare alcuni di essi circa la soluzione del problema, forse ozioso come quello della quadratura del cerchio (cfr G. FANO, Saggio sulle origini del linguaggio, Torino 1962, pp. 19 e 20, nota. – Su questa opera, e su quella di F. BRUNI, L’origine del linguaggio, cfr Civ. Catt. 1962, IV, 582, e 1959, IV, 415).

3 PLATONE, Fedro, capp. LXIV. L’apologo è doppiamente interessante. Prima perché, localizzato in Egitto, indica l’origine storica della nostra scrittura proprio nei segni geroglifici, usati promiscuamente come ideogrammi, come sillabe e come consonanti dagli scribi egiziani; nel secondo millennio avanti Cristo mutati in segni solo fonetici dai fenici, dai quali poi i greci derivarono il loro alfabeto, i quali poi lo tramandarono agli italioti ed ai latini. Seconda: perché esemplifica praticamente quell’alto concetto della dignità umana che faceva concludere a Platone il suo dialogo con la seguente mirabile invocazione: «O dio Pan, e dèi tutti di questo luogo, concedetemi di diventar bello di dentro, e che tutto quello che avrò di fuori sia amico a quel che sarà dentro; d’altro non ho bsogno: ho pregato abbastanza» (ivi, cap. LIX).

4 A. MANZONI, I promessi sposi, cap. 111.

5 Cfr L’analphabétisme dans divers pays, e L’analphabétisme dans le monde au milieu du XXesiècle, UNESCO, Monographies sur l’éducation de base, 1953 e 1957.

6 Non disponendo di dati circa la produzione mondiale di dischi, ci limitiamo a riferirne due parziali, ma significativi. Cinque anni fa erano stati venduti 60 milioni di dischi di Bing Crosby, e la sola Italia nel 1961 ha prodotto circa 20 milioni di dischi.

7 Gli interventi della S. Sede sul cinema sono stati raccolti nei due volumi: Le cinéma dans l’enseignement de l’Église, Città del Vaticano 1955; e E. BARAGLI, Cinema cattolico, Roma 1959; sulla radio e la televisione, nel recentissimo: Documenti Pontifici sulla Radio e la Televisione, Città del Vaticano 1962 (cfr Civ. Catt. 1963, I, 61).

8 Questo accenno è nell’ultimo capoverso del messaggio: «È nostro ardente desiderio — affermano i Padri — che su questo mondo, ancora così lontano dalla pace desiderata per la minaccia derivante dallo stesso progresso scientifico, progresso meraviglioso, ma non sempre ossequente alla superiore legge della moralità, splenda la luce della grande speranza in Gesù Cristo unico nostro Salvatore» (cfr Civ. Catt. 1962, IV, 284).

9 Pio XII, Lettera enciclica «Miranda prorsus» (8 settembre 1957).

10 Ci riferiamo alla formula ideografica: I = f (C, E, P), nella quale l’Idoneità; (= I) di comunicazione efficiente di un dato strumento si misura in funzione (= f) di tre variabili, quali la Capacità; (= C) di contenuti che lo strumento è atto a comunicare, la Estensione (= E), vale a dire la quantità di soggetti recettori che lo stesso è atto a raggiungere, e la Potenza (= P) d’informazione e di suggestione con la quale il contenuto, tramite lo strumento, viene comunicato. Ci siamo così permessi di variare alquanto la formola I = L E P, data per primo da F. PAOLONE (Film e opinione, Roma 1958, p. 23), sostituendone alcune sigle e denominazioni, in armonia con quelle in uso nella Logica scolastica.

11 Un calcolo simile, ma tra teatro e cinema, si permetteva già il noto regista J. FEYDER: «Col cinema, un’attricetta ben lanciata ci metterà meno di un anno a raggiungere tanti spettatori quanti la grande Sarah Bernhardt non ne ha raggiunti in quarant’anni di carriera teatrale nel mondo» (Le cinéma, notre métier, Genève 1944, p. 13); e tre anni dopo (27 marzo 1947) l’accademico di Francia Jérôme THARAUD notava, nel discorso di recezione del commediografo e regista Marcel Pagnol: «La vostra commedia Fanny [pubblicata per il teatro nel 1931, e portata sullo schermo dallo stesso Pagnol nel 1932], in soli quindici anni ha toccato e passato da un pezzo le centomila rappresentazioni. Per raggiungere questo risultato [senza il cinema] sarebbe stato necessario cominciare a dare rappresentazioni dieci anni prima della nascita di Molière [avvenuta nel 1622] e continuare, per tutte le sere, sino ad oggi!» (R. JEANNE – CH. FORD, Le cinéma et la presse, Parigi 1961, p. 84).

12 Cfr Statuto della Pontificia Commissione per la Cinematografia didattica e religiosa (17 settembre 1948); Statuto della Pontificia Commissione per la Cinematografia (1º gennaio 1952); Statuto della Pontificia Commissione per la Cinematografia, la Radio e la Televisione (16 dicembre 1954).

13 Questo titolo si ritrova anche nell’attuale Xª Commissione conciliare, detta appunto De fidelium apostolatu; de scriptis prelo edendis et de spectaculis moderandis. – Per la proposta, votata il 27 nov. dal Concilio, in merito alle future (estese) competenze della «Pont. Commissione per la Cinematografia, la Radio e la Televisione», cfr Civ. Catt. 1963, I, 70.

14 Aid-visual, in inglese, area linguistica dove il neologismo è nato; Audiovisuels in francese; audiovisivi in italiano. A questo proposito ci sia lecito avanzare il dubbio che il termine audio sia derivato per semplice assonanza con l’Aid di Aid-visual, che propriamente significava «sussidi visivi», di evidente riferimento didattico. – Per una esauriente chiarificazione di siffatta questione concettuale-terminologica, cfr FR. FATTORELLO, Sul termine audiovisivi, in Notizie e Commenti (Roma 1959, n. 10, pp. 4-6).

15 Scrive R. BRANCA: «La parola aid-visual in inglese, e audio-visuel in francese deriva dai verbi latini audio (ascolto) e video (vedo). L’accoppiamento del nome sussidio con l’aggettivo audiovisivo come locuzione non è corretta, ma usata universalmente esprime con esattezza un concetto nuovo nella didattica. I sussidi audiovisivi sono quelli che si vedono e che si sentono contemporaneamente e cioè il cinema e la televisione, ma in pratica anche il teatro, la radio, il magnetofono, il grammofono, i fumetti, i tabelloni, la panno-lavagna, le lavagne magnetiche ecc. sono ormai compresi fra i sussidi integrativi del metodo audiovisivo» (I sussidi audiovisivi in Italia, 1959, pp. 51 e 52).

16 Ancora il BRANCA: «Cinematografo e televisione, e soltanto essi, costituiscono il fenomeno audiovisivo. Fare confusioni di classifica è pericoloso per le conseguenze pratiche nel campo didattico ed educativo» (ivi, p. 31). – L’autore, però, premette: «Il processo dai sussidi didattici ai sussidi audiovisivi non è graduale. C’è un salto... È diversa la natura dei due mezzi... Mentre i sussidi didattici... sono basati su una comunicazione interumana (da uomo a uomo, da docente a scolaro), i sussidi audiovisivi godono di una natura propria» (ivi, p. 28).

17 Il termine è stato recentemente usato, con discutibile scelta, nel tema della XXXV Settimana sociale dei cattolici d’Italia (Siena, 24-30 settembre 1962), che si è intitolata appunto: Le incidenze sociali dei mezzi audiovisivi. Com’era prevedibile, le ambiguità del termine, che nessuno pensò a rilevare ed a ridurre, almeno tentando una elencazione di quelli che si potevano e dovevano ritenere, o non ritenere, «mezzi audiovisivi», inficiarono una parte delle relazioni e gran parte delle discussioni. Nel Riassunto delle lezioni (p. 5) si legge: «L’universo di espressioni – di parole, di immagini e di suoni – che si va rapidamente espandendo e viene generalmente indicato col nome comprensivo di mezzi audiovisivi». Nelle Conclusioni ufficiali (p. 14) si legge di «una comunicazione audiovisiva» opposta alla «trasmissione verbalizzata dei concetti» quasi che Radio e Televisione appartenessero soltanto alla prima e non anche alla seconda. E nelle discussioni ci fu chi volle includere nei mezzi audiovisivi anche il libro ed il teatro...

18 Scriveva a questo proposito la LAHY-HOLLEBECQUE: «Une technique, quand elle reste elle-même, est toujours probe, sans complications doctrinales ni affectations esthétiques. Un art, au contraire, spécule et raffine sur les idées et les sentiments, innove les théories, glisse sur la pente de la philosophie et, par voie insensibile, inféodé à l’amour, son thème éternel, passe de la mesure décente à l’impureté. En effet, ce qu’il exprime ne dépend plus d’un appareil enregistrateur qui, lui, saisit le vif et ne fraude pas, mais du cerveau de l’homme qui, souvent, peut etre malade, excessif, déformé» (L’enfant au royaume des images, Parigi 1956, pp. 17-18).

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2870, vol. I (1970), pp. 155-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2739, vol. III (1964), pp. 246-254
n. 2729, vol. I (1964), pp. 422-435
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408