NOTE
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* Riduzione di un capitolo del volume di prossima pubblicazione: «L’Inter mirifica»: storia, commento e documentazione,  Roma, Studio romano della Comunicazione sociale, 1969.

1 Vi dovette influire il mistero dell’Incarnazione del Verbo, nucleo e sostanza della «buona novella», che conferiva ad esse un valore simbolico nuovo, e ne riduceva i pericoli di deviazioni idolatriche; ma v’influì anche la cultura ellenistico-romana, ridondante di figurazioni scultoriche e pittoriche, nella quale le primitive cristianità respiravano.

2 Serie di xilografie, accompagnate da brevi testi latini (e poi tedeschi), ad uso di chierici e di fedeli, apparse nei secoli XII e XIII, e, per merito della stampa, diffusesi in Europa nei due secoli seguenti.

3 Documenti pontifici sul teatro, Città del Vaticano 1966, Prefazione.

4 Né più tempestiva fu la produzione teatrale aliturgica della «Chiesa». I noti drammi terenziani della monaca Rosvita (per l’Occidente), ed il Cristós Páschòn (per l’Oriente), così come altri «pezzi» perduti, non risalgono oltre i secoli XXI, e, in ogni caso, devono considerarsi più componimenti da leggere nelle scuole abbaziali, «giochi di alunni», che da recitare in pubblico.

5 Ciò spiega, tra l’altro, la sterile Querelle (giansenista) sulla (im)moralità del teatro che dilagò, specialmente nella Francia dei secoli XVII e XVIII, ove anche eminenti ecclesiastici – tra i quali il grande Bossuet –, teorizzarono contro il teatro in sé, con argomenti di fede e di ragione che, fortunatamente, il Magistero non ha mai fatto propri.

6 La stessa Roma non restò indietro nella gara col resto della cristianità, accogliendo, già nel 1475 – tredici anni dopo la fuga da Magonza dei primi operai di Gutenberg (1462) –, una ventina di tipografie.

7 Rispetto ad esso, invece, segnò piuttosto un regresso un’altra lettera della Segreteria di Stato, inviata sotto Giovanni XXIII e nell’imminenza delle assise conciliari, alla XXXV Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi in Siena dal 24 al 29 settembre 1962 (Lettera al card. Giuseppe Siri, presidente delle Settimane sociali d’Italia); nella quale si trattò delle «incidenze sociali dei mezzi audiovisivi», senza curarsi di definire quali e quante fossero le realtà comprese sotto una dizione tanto approssimativa ed ambigua.

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Articolo estratto dal volume III del 1969 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Quale il comportamento della Chiesa rispetto agli odierni grandi strumenti della comunicazione sociale? È un luogo comune rimproverarle una condotta timorosa, troppo cautelativa, se non anche negativa, rispetto a quella più liberale ed aperta che essa avrebbe seguito in altri tempi. Le cose, invece, non stanno esattamente così.

Prima della stampa

Nei primi secoli, sino a tutto il medioevo, il ricorso all’uno o all’altro mezzo e forma di comunicazione per predicare l’annuncio della salvezza non costituì per la Chiesa un problema. Dietro l’esempio di Gesù, essa cominciò a proporlo con la parola parlata, semplicemente perché la quasi totalità degli evangelizzandi, analfabeti, non erano in grado di riceverlo in altra maniera. Ma non appena le circostanze lo richiesero e lo permisero, a quella orale accompagnò la comunicazione verbale scritta, più atta a trasmettere nello spazio ed a tramandare nel tempo «i fatti e i detti di Gesù» (At 1,1).

Neanche il libro, in quanto supporto di scrittura, costituì un problema per la Chiesa. Se già san Paolo chiedeva a Timoteo di procurargli «libri, e specialmente pergamene» (2Tim 4, 13), e se nel medioevo, con i suoi scriptoria e le sue biblioteche, la Chiesa ne restò quasi l’unica moltiplicatrice e custode, tale sua innegabile benemerenza ha poco che fare con la comunicazione propriamente detta, perché, in quei secoli, libri e biblioteche, oltre che agli usi liturgici, s’interessavano, più che altro, all’arte ed al pensiero, poco o nulla all’informazione; in ogni caso, seguivano più il criterio della conservazione del sapere che della sua diffusione.

Lo stesso discorso va fatto per le arti figurative: scultura, pittura, miniatura, xilografia... Certo, fu merito del cristianesimo l’aver rotto con la tradizione giudaica, ostile ad ogni rappresentazione umana. Ma, più che all’esecuzione di programmi o di norme del Magistero, ciò si deve all’ispirazione spontanea1 degli artisti cristiani, che decorarono i primi luoghi di culto con rappresentazioni di fatti, personaggi e simboli dell’Antico e del Nuovo Testamento ad essi familiari, e, poi, – nelle sculture dei capitelli e dei portali, nei mosaici e negli affreschi delle pareti e dei catini, nelle vetrate – svilupparono dette rappresentazioni in cicli, spesso «paralleli», diventati una specie di catechesi visiva degli analfabeti, a sostegno di quella orale. Anche i tardivi e rari interventi, dottrinali o normativi, del Magistero, anche conciliare, non tolsero al fenomeno quel carattere di spontaneità, financo nell’espressione comunicativo-didattica più notevole: delle cosiddette Bibliae Pauperum2.

Sotto più aspetti le cose non andarono meglio per il teatro. Intanto, riguardo alla prassi, non è vero – com’è stato affermato3 – che la Chiesa, «fin dall’inizio ha cercato di usare il teatro per il suo messaggio e per la restaurazione interiore dell’uomo», perché, per lunghi secoli, la Chiesa altro spettacolo non ebbe che la sacra liturgia. Per trovarvi i primi segni di movimentazione drammatica, germi lontani del futuro teatro – i cosiddetti «uffici drammatici» –: per le liturgie orientali bisogna attendere il secolo VII, e per quella latina i secoli VIII e IX.

Del resto, in Oriente la cosa non ebbe seguito; in Occidente, l’evoluzione della liturgia verso il teatro vero e proprio fu lentissima e, data la rozzezza dei costumi, fu più mal sopportata che promossa dalla Chiesa. Soltanto nei secoli XII e seguenti: Laudi, Devozioni e Sacre Rappresentazioni in Italia, Mystères, Moralités, Miracles, Passions ecc. in Francia si svilupparono dall’azione liturgica, e dal suo latino passarono nei volgari («drammi misti»); quindi si staccarono dall’altare, avanzarono verso il portico, per finalmente uscire sul sagrato delle chiese, fatte «teatro di popolo»4. Circa poi la posizione teorica della Chiesa rispetto al teatro, deve darsi un giudizio anche più riservato. Intanto il magistero conciliare e pontificio può dirsi assente. Della dozzina di interventi disciplinari che si conoscono, non uno riguarda il teatro propriamente detto, vale a dire l’interpretazione pubblica di un testo da parte di attori: tutti trattando di mimi, di balli, bagordi, farse, pagliacciate ed altri spettacoli volgari e popolareschi del tempo. In ogni modo, tutti hanno carattere proibitivo-difensivo, in condanna: o degli «attori» (diciamo meglio: buffoni, mimi, istrioni, giocolieri...), che, del resto, per tutto il medioevo ed oltre furono considerati «infami»; oppure degli spettacoli dati nei giorni di festa in concorrenza con le funzioni liturgiche, o delle chiese che li tollerassero e dei chierici che li frequentassero.

Vero è che il pensiero della Chiesa sul teatro per quei tempi va ricercato, non tanto negli interventi dei papi o dei concili, quanto negli scritti dei Padri e dei Dottori. Ma anche in questi il teatro risulta tutt’altro che stimato come veicolo utile «al messaggio cristiano ed alla restaurazione interiore dell’uomo». Contro le frequenti e veementi tirate di Tertulliano, san Cipriano, san Basilio, san Giovanni Crisostomo, sant’Agostino, Lattanzio ecc., poco possono le timide e tardive concessioni ad un teatro non necessariamente diabolico di sant’Alberto Magno, san Bonaventura, sant’Antonino e san Tommaso d’Aquino.

Né poteva essere altrimenti. Nei primi secoli cristiani, infatti, il teatro, perduta ogni dignità artistica, era scaduto in vergognoso spettacolo-scuola di lussuria e di sangue e, in ogni caso, costituiva una «propaganda» di quell’idolatria che era stata, sì, rifiutata dai decreti imperiali, ma durava tuttavia nelle credenze e nei costumi profondi delle masse. In siffatta situazione non era agevole sottilizzare tra condanna in toto del teatro qual era e salvataggio del teatro quale poteva essere; come non lo fu dopo la parentesi del dramma sacro medievale e degli autos sacramentales spagnuoli, quando il teatro tornò a paganeggiare, quindi anche ad irridere e a demolire ogni valore morale e religioso5. In sintesi, la condotta della «Chiesa» circa il teatro fu dettata prevalentemente dal pericolo morale immediato (il peccato) che il teatro, di fatto, costituiva per il culto e per la castità; poco o nulla dal teatro quale veicolo di idee; mai dal teatro quale forma specifica di comunicazione.

La stampa

Le cose non cambiarono molto rispetto all’arte tipografica, che, nella storia dei mezzi di comunicazione umana, costituì, dopo quella della scrittura, un evento radicalmente nuovo, ed il primo che si sia verificato durante la vita della Chiesa. Agli inizi le reazioni si adeguarono alle condizioni storico-sociali nelle quali l’evento si produsse; poi andarono notevolmente ritardando rispetto all’accelerata e profonda evoluzione dei tempi.

La stampa, infatti, nacque come prevalente fatto di cultura, e in un’Europa nella quale il cristianesimo, come dottrina e come istituzione, contava ancora quale fattore di unità culturale e politica, nonostante le crepe ed il travaglio prodottovi dal recente grande scisma d’Occidente e dai germi insieme liberatori e dissolventi del Rinascimento. Era, dunque, nella natura delle cose che i primi torchi stampassero libri religiosi – la Bibbia, scrittori ecclesiastici, testi liturgici... –; che gli uomini di Chiesa accogliessero la stampa come dono divino; che le prime stamperie si allogassero nelle abbazie, nelle sedi episcopali e nelle università ecclesiastiche6.

Ben presto però il nuovo strumento, come poi gli altri che lo seguirono, si rivela religiosamente ambivalente, la sua utilità ed i suoi pericoli dipendendo dai contenuti che le pagine stampate convogliano: tanto più temibili i secondi quanto più la stampa va manifestando la propria caratteristica specifica, vale a dire: la diffusione indifferenziata ed a modico prezzo delle idee, derivante dalla tecnicità del mezzo e dalla brama di lucro degli stampatori. In quest’atmosfera di apprensione si verificano i primi interventi disciplinari della gerarchia: ovviamente laudativi nell’esordio, ma repressivo-difensivi quando passano alle disposizioni.

Una quarantina d’anni dopo l’invenzione, l’Università di Colonia comincia a proibire la stampa, la lettura e la vendita di libri eretici: e il 27 marzo 1479 Sisto IV la loda, l’incoraggia e la sostiene concedendole l’uso di censure ecclesiastiche. Un decennio dopo, gli arcivescovi di Magonza e di Würzburg cominciano ad applicare la censura preventiva: e Innocenzo VIII ne prende occasione per indirizzare a tutta la Chiesa il decreto Inter multiplices, del 17 novembre 1487, che doveva fissare, si può dire sino ai nostri giorni, la disciplina ecclesiastica circa la stampa – nei suoi tre momenti: produzione, commercio, lettura – su queste disposizioni-base: 1) obbligatorio esame previo ecclesiastico di tutti gli scritti destinati alla stampa; 2) concessione del permesso di stampa (Imprimatur) soltanto ai libri che non fossero contrari alla religione cattolica; 3) pene spirituali o pecuniarie a quanti stampassero, vendessero, leggessero o tenessero presso di sé libri contravvenenti a queste disposizioni; 4) distruzione degli stessi libri, normalmente col fuoco; e, dopo il Concilio di Trento, loro inserzione in un vincolante Indice dei libri proibiti.

Infatti, l’Inter multiplices di Innocenzo VIII, il 1° giugno 1501 venne ripreso, quasi ad litteram, nell’omonimo decreto di Alessandro VI; liberato poi dalle fioriture curialesche che lo appesantivano, fornì il dispositivo della costituzione Inter sollicitudines (4 maggio 1515), promulgata da Leone X durante il Concilio lateranense V; perfezionato, questo, dalla Sollicita ac provvida, di Benedetto XIV (9 luglio 1753) e dall’Officiorum ac munerum, di Leone XIII (26 genn. 1897) riguardante l’Indice dei libri proibiti, confluì nei canoni 1384-1405 del Codice di diritto canonico (1917), oggi ancora in vigore.

Sintetizzando, si può dire che nei primi anni della stampa la prassi e gli interventi normativi della Chiesa partono da interessi eminentemente pastorali. In un primo tempo la muove una ragione strettamente religiosa: difendere la fede dai germi di eresia («scripta erronea haeresim sapientia») ed evitare lo scandalo degli impreparati («rudibus atque indoctis hominibus, femineo sexui»). Ma presto si preoccupa anche dei pericoli morali che corre il costume cristiano («tam in fide quam in vita et moribus») diffusi dalla stampa licenziosa. Non manca, anzi è vivo, l’interesse culturale umanistico («ingenia et literarum studia percommode exercere»), in lodevole avanzo rispetto ad altri centri culturali, che diffidano del libro stampato come di un volgare sottoprodotto dell’autentica cultura umanistica rappresentata dal prezioso e raro manoscritto; ma la cultura favorita dai libri viene stimata, più che altro, in funzione strumentale a fini pastorali («etiam infideles sciant et valeant sacris institutis instruere, fideliumque collegio per doctrinam christianae fidei salubriter aggregare»).

Questa visione, tuttavia, attiene ad una concezione medievale della cattolicità, così come ad una visione medievale della cultura attiene l’apprezzamento della stampa. Tutta l’attenzione è incentrata nel «libro» stampato, quale tradizionale deposito di dottrina stabile, codificata, oggetto di dotto ammaestramento, per dir così, scolastico, ignorando altre prestazioni della stampa più duttili e popolaresche; visione nella quale, invece, si distinsero, con lucida tempestività, gli agitatori della Riforma.

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Lutero ed i suoi, infatti, furono in ciò esemplarmente «moderni», adoperando in funzione polemica e di «propaganda» almanacchi, fogli e libelli, già d’uso popolare, come elementi di un’orchestrazione nella quale entravano canzonette, farse, caricature, e soprattutto la conversione sistematica dei maestri e l’apertura di scuole popolari, che impartissero le nozioni necessarie alla lettura, insieme, della Bibbia e del materiale di propaganda. Così, mentre Roma, ed i cattolici in genere, rispondevano al «Manifesto» delle 95 tesi di Lutero ed alla sua predicazione lanciandogli contro grossi tomi, in latino, destinati ai dotti ed alle biblioteche, i colportori riformati inondavano la Germania (e poi la Francia) di opuscoli e di fogli volanti – si conta che, Lutero vivente, ne siano stati diffusi non meno di 800.000! –, scritti in tedesco, in stile popolare, ornati, per i meno letterati, con rami e xilografie satiriche, opere anche di artisti eccellenti (come il Dürer); e mentre Roma insisteva su di un insegnamento cattedratico, ad alto livello, ribadendo una dottrina monolitica, ma priva di mordente sugli interessi immediati popolari, Lutero, senza dimenticare i dotti, legava le sue dottrine alle «informazioni» sui fatti del giorno, facendo presa più nel sentimento che nel ragionamento, scatenando con ciò fenomeni di opinione popolare, che egli stesso poi si vide costretto a frenare.

La natura stessa della religione cristiana, più atta ad essere diffusa e difesa con la predicazione e la testimonianza che non con certe forme di propaganda, nonché la situazione difensiva nella quale si trovava la Chiesa di Roma rispetto ai protestanti che la contestavano, spiegano solo in parte il suo comportamento. La verità è che le mancò una, forse allora impossibile, visione dei «segni dei tempi». Non avvertì che l’invenzione della stampa, per se stessa già segno di un’epoca storica conclusa, mano mano che gli stampati si andavano diffondendo e che andava allargandosi la massa dei lettori, rapidamente accentuava le differenze irreversibili tra cultura-civiltà della parola parlata, fondata sul rapporto autoritativo docente-discente, e cultura-civiltà della parola stampata, caratterizzata dal rapporto diretto e libero tra individuo e mezzo culturale; nella quale seconda civiltà, appunto, era diventata psicologicamente facile la tentazione di passare, anche rispetto alla Sacra Scrittura, dalla lettura diretta, resa possibile e facile, alla sua interpretazione ed accettazione meramente individuale («libero esame»).

Nella secolare lotta che seguì tra «libertà di stampa» e «difesa dell’ordine» soprattutto mediante la censura, i «laici» furono pronti e decisi sostenitori della libertà: prima teorizzando – in Inghilterra, l’Areopagitica, di J. Milton, contro il Licensing Act, è del 1644 e l’Epistola de tolerantia, di J. Locke, è del 1689 –, e poi strappando diritti legali – abolizione del Licensing Act in Inghilterra nel 1695 –, anche costituzionali, come in America col Virginia’s Bill of Right, del 1776, e, in Francia, con la Déclaration des droits de l’Homme et du Citoyen, del 1791. La Chiesa, invece, preferì insistere sui danni prodotti o temuti dall’uso della libertà fatta licenza, specialmente se a spese di lettori privi o scarsi di sussidi critici; denunciarli senza riposo e, come s’è visto, cercare di limitarli ed arginarli con prescrizioni proibitive e repressive, anche invocando, finché le condizioni politiche glielo permisero, l’appoggio dei «prìncipi cristiani». Condotta che, pur se consona ai tempi, fìnì con l’accreditarle la taccia di nemica della libertà e di contraria al progresso.

Nasce il giornale

Ma in questo settore il ritardo della Chiesa rispetto ai tempi si verificò soprattutto quando, nella fine del secolo XVIII e nel secolo XIX, il giornalismo venne assumendo, quale polarizzatore ed animatore delle opinioni pubbliche, peso e funzione di «quarto potere». Essa continuò a guardare indietro, trascurando di antivenire i tempi. Non diversamente da alcuni intellettuali «laici», parteggiò ancora per il libro, depositario e veicolo privilegiato di cultura di élites, sussidio di insegnamento diretto, ignorando la stampa quotidiana, formatrice di opinioni a livello di masse, mediante l’informazione orientata, in una società che diventava essenzialmente opinionale.

Quando Gregorio XVI viene eletto (1831-1846) già lavorava, al ritmo di 2.000 copie l’ora, la stampatrice piana a vapore KoenigBauer; e quand’egli morirà, Samuel Morse avrà messo a punto il suo alfabeto telegrafico e, da sette anni, il mondo sarà entrato nella «civiltà iconica» con la fotografia (1839). Tuttavia, le attenzioni del Papa al riguardo della stampa sono ferme all’Inter multiplices di Leone X, e l’unico suo intervento magisteriale in argomento sarà la Mirari vos (15 ag. 1832), che deterrà il non invidiabile onore di prima condanna pontificia di un giornale: L’avenir, di Lamennais.

Pio IX, che gli succede (1846-1878), nonostante il lungo pontificato, si occupa poco della stampa. Quando lo fa, l’anticlericalismo e l’irreligione della stampa del tempo lo distraggono dal «giornalismo-informazione» come nuovo fattore sociale: che, alla sua morte, disporrà già di quasi tutte le innovazioni tecnologiche «moderne»: rotativa, telegrafo anche sottomarino, telefono, agenzie d’informazione... Se sua è la consegna positiva, poi ripresa da Leone XIII, di combattere la cattiva con la buona stampa, e se suo merito è aver favorito la nascita della Civiltà Cattolica (1850) e dell’Osservatore Romano (1861), è anche vero che la stampa periodica per lui non uscì dal «genere» di nuova «tecnica libraria».

Invece, nel magistero di Leone XIII (1878-1903) la stampa comincia timidamente ad assumere valore proprio. Non per nulla nel mondo le testate periodiche, che al principio del secolo toccavano le 3.000, nel 1896 toccheranno le 23.000. A lui, tra l’altro, il merito del primo discorso pontificio rivolto a giornalisti (22 febbr. 1879), con un accenno alle «attualità»; nonché il merito dei primi cenni alla libertà d’opinione (opinionum levitas!) e sul fenomeno dell’«opinione pubblica». Egli, inoltre, riconosce che la stampa è ormai una necessità, e che svolge una sua funzione sociale: ma la concepisce ancora come arma di sostegno e di difesa della religione (e del potere temporale): da ostacolare, dunque, e da reprimere quando diventi dannosa (la ricordata Officiorum ac munerum, sull’Indice, del 1897), nonostante che, con l’apertura dell’Archivio Vaticano agli studiosi, avesse mostrato quale efficacia di verità attribuisse all’informazione (purtroppo soltanto storica, e non ancora cronachistica). Né le cose mutarono con san Pio X (1903-1914), se non verso un maggior rigore di vigilanza, a causa della crisi modernista. Per il resto, le «efemeridi», come ancora vengono chiamati i giornali, restano mezzo diretto di apostolato, e Luigi Veuillot (22 ott. 1913) è indicato modello del giornalista cattolico in quanto fedelissimo apologista ed efficace polemista a servizio della Chiesa e della Santa Sede. Un’aura nuova, invece, comincia a spirare col pontificato di Pio XI (1922-1939), che contò, tra l’altro, l’Esposizione Internazionale della Stampa Cattolica, allestita nel Vaticano nel 1936. Ma la sensibilità del Pontefice per la potenza e responsabilità della stampa d’informazione, anche non cattolica, non trova sviluppi dottrinali sistematici nelle sue esortazioni e nei suoi discorsi improvvisati. Còmpito, invece, egregiamente assolto da Pio XII (1939-1958). Merito, infatti, del suo amplissimo magistero in argomento sono: l’attenzione simultanea da lui concessa all’insieme degli strumenti della comunicazione sociale ed ai fenomeni più generali ad essi attinenti, quali, ad esempio, la propaganda e l’«opinione pubblica»; all’aspetto dei valori umani in quanto tali riguardanti la stampa, perciò non più concepita soltanto come arma di difesa della Chiesa; la definizione dei rapporti tra verità-oggettività dell’informazione e carità-bene comune, tra diritti-doveri individuali e compiti-diritti dello Stato e della Chiesa: tutti elementi che, anche se in una elaborazione dottrinale e normativa meno sistematica e completa di quella riguardante il cinema, per suo merito confluiranno sostanzialmente nell’elaborazione e nella discussione conciliare dell’Inter mirifica.

Il cinema

Vediamo ora come andarono le cose col cinema. Inventato verso la fine del pontificato di Leone XIII (1895), nonostante il pronto interessamento pratico-pastorale di non pochi cattolici in Europa, la Santa Sede, – se non con un intervento disciplinare di san Pio X nel 1912 –, per circa trent’anni lo ignorò. Né si può fargliene una colpa, perché in quei primi decenni – eccezion fatta per i comunisti russi, che in ciò dimostrarono una diabolica antiveggenza –, nessuno prevedeva, per quello che allora era un divertimento da baraccone disprezzato dalla «gente per bene», la potenza di comunicazione che poi avrebbe raggiunto.

Ma quando Pio XI (1922) salì la Cattedra di Pietro, la «settima arte» già stava fornendo qualche opera degnissima. Tuttavia, i ben quindici interventi del suo pontificato che toccano il cinema non vennero occasionati tanto dalla (scarsa) produzione artistica, quanto, daccapo, dall’immoralità degli schermi, diventata (rispetto ai tempi!) più sfacciata, o almeno più corposa e clamorosa, con l’introduzione del sonoro (1926), e dalle proporzioni «sociali» che il cinema andava prendendo nel mondo, manovrato dall’oligopolistica organizzazione tecnico-economica americana, e poi anche dai regimi nazista e fascista: i quali, tardivamente seguendo la lezione della Russia sovietica, l’assumevano a veicolo di propaganda ideologica.

Dopo vari interventi occasionali, in discorsi ed anche in encicliche (la Divini illius magistri, del 1929, e la Casti connubii, del 1930) quasi tutti intonati ad ammonizioni e a denunce, la Santa Sede – attenzione ancora non usata alla stampa – emanò le due prime sintesi dottrinali-disciplinari sull’argomento: la lettera della Segreteria di Stato all’Office Catholique International du Cinéma (OCIC), del 28 apr. 1934 – che per due anni fu considerata la magna carta del cinema –, e la Vigilanti cura, del 29 giugno 1936, prima ed ultima enciclica tutta consacrata al cinema.

Specialmente per merito di questa enciclica, il magistero di Pio XI conseguiva queste «novità» rispetto a tutto il magistero precedente:

  1. per la prima volta veniva interessata al problema, ed investita della sua soluzione, tutta la gerarchia cattolica, nonché l’azione del laicato cattolico organizzato (l’«Azione Cattolica»);
  2. per la prima volta uno strumento della comunicazione sociale veniva trattato, oltre che rispetto ai suoi «contenuti», nella sua caratteristica idoneità di comunicazione sociale;
  3. insieme alle denunce di pericoli e di danni, ed alla conseguente opera di difesa e di prevenzione, veniva rilevata la necessità di una parallela opera positivo-pratica: presso la produzione (gli studios), la distribuzione (le sale) ed il consumo (gli spettatori);
  4. a questo scopo venivano predisposti per tutta la Chiesa i quadri orientativo-coordinatori a livello nazionale (gli «Uffici Nazionali»), coordinandoli a loro volta nella già esistente Associazione Internazionale (OCIC).

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Con Pio XII (1939-1958) il corpus dottrinale e normativo del cinema raggiunge quella completezza che lo renderà il modello al quale conformare, prima del Concilio, la dottrina e la disciplina della radio e della televisione e, con l’Inter mirifica, anche della stampa e degli altri strumenti.

Caratterizza il suo magistero in argomento, prima di tutto il numero altissimo dei suoi interventi – ben 89, di cui 61 suoi personali–. Tra essi spiccano per la ricchezza ed organicità della dottrina e delle norme, i due Discorsi sul film ideale, del 1955, confermati poi e sintetizzati nell’enciclica Miranda prorsus, del 1957; e le molte lettere inviate dalla Segreteria di Stato ai congressi, convegni o «giornate» dell’OCIC, che trattano distesamente tutti i principali aspetti della cultura, della morale e della pastorale del cinema. In secondo luogo lo caratterizza la tendenza ad includere la tematica e la problematica del cinema in quella globale degli altri strumenti della comunicazione sociale.

Sotto questo aspetto il documento più significativo è la lettera indirizzata dalla Segreteria di Stato alla XLII Settimana sociale di Francia, svoltasi a Nancy nel luglio 1955, nella quale, per la prima volta, stampa, cinema e radio-televisione, nell’accezione e nell’àmbito di techniques de diffusion, venivano trattati globalmente rispetto all’opinione pubblica: argomento al quale Pio XII aveva dedicato il magistrale discorso del 18 febbr. 1950 e la lettera del maggio 1954. Con la Miranda prorsus il magistero di Pio XII segna un altro decisivo passo in avanti. Intanto, perché all’argomento consacrava un’enciclica, ben più impegnativa di una lettera della Segreteria di Stato; ma soprattutto perché trattava e del cinema e della radio e televisione (purtroppo, vi si taceva ancora della stampa!) quali specifici strumenti «di comunicazione», fornendo così all’Inter mirifica la base più soda e feconda per uno sviluppo socio-teologico della dottrina7.

Questo aprirsi del campo visivo dal cinema agli altri strumenti della comunicazione rifluì anche sull’Ufficio Centrale della Santa Sede, che – non ultima benemerenza del grande Pontefice – si sviluppò sotto Pio XII. Il primo suo nucleo risale al 20 gennaio 1948, quando, nell’intento di tradurre in realtà lo spirito e la lettera della Vigilanti cura e le norme direttive emanate in varie circostanze dalla Santa Sede, e per assecondare i voti della gerarchia e di enti di produzione e di distribuzione cinematografici, Pio XII istituiva una speciale «Commissione Pontificia per la Cinematografia didattica e religiosa», a carattere internazionale, con sede nella Città del Vaticano: di consulenza e di revisione dei film a soggetto religioso e morale, destinati all’insegnamento ed alla propaganda cattolica. Detta Commissione, già col 1° gennaio 1952, si disse, più semplicemente e comprensivamente, «per la Cinematografia», divenendo «l’organo della Santa Sede per lo studio dei problemi cinematografici che hanno attinenza con la fede e con la morale, a disposizione della Santa Sede». Col 16 dicembre 1954 allargò le sue competenze e si disse «per la Cinematografia, la Radio e la Televisione», diventando «l’organo della Santa Sede per lo studio dei problemi del cinema, della radio e della televisione che hanno attinenza con la fede e con la morale», «restando a disposizione dei Sacri Dicasteri ed Uffici della Santa Sede».

Nell’imminenza del Vaticano II, sarà Giovanni XXIII, col motu proprio Boni pastoris, del 22 febbraio 1959, ad erigerla in «Ufficio permanente della Sede Apostolica per l’esame, l’incremento e l’indirizzo delle varie attività nel campo del cinema, della radio e della televisione», «aggregandola alla Segreteria di Stato». Toccherà, infine, a Paolo VI, col motu proprio In fructibus multis, del 2 aprile 1964, di estenderne le competenze anche alla stampa, esaudendo il voto espresso dai Padri conciliari nel n. 19 dell’Inter mirifica, completando così, anche nel dispositivo organizzativo-giuridico, il costante e rapido estendersi degli interessi ecclesiastici dal cinema a tutto il più vasto insieme degli strumenti della comunicazione sociale.

La radio-televisione

All’apertura del Vaticano II, la radio, quale strumento di trasmissioni pubbliche, contava una quarantina d’anni, mentre la televisione, almeno in Europa, non arrivava a venti. Eppure, gli interventi della Santa Sede relativi alla prima assommavano già a 75, ed a una decina quelli relativi alla seconda, in massima parte appartenenti al pontificato di Pio XII.

Come s’è detto, dottrina e norme si modellano, di regola, su quanto il Magistero aveva acquisito nel cinema, come è dato vedere specialmente nell’enciclica Miranda prorsus: che perciò può considerarsi la summa del magistero preconciliare in argomento. Ovviamente, data l’originalità e duttilità tecnologica dell’invenzione, vi abbondano maggiormente i rilievi ammirativi per la perfezione e le possibilità tecniche degli strumenti, come pure per le loro insperate possibilità di «predicazione» diretta (particolarmente nei discorsi di Pio XII, «Con intenso gaudio» del 3 dicembre 1944 e «Il vostro congresso» del 3 ottobre 1947); ma abbondano anche le apprensioni per i maggiori pericoli e responsabilità connessi con l’irrompere dei programmi radio-televisivi «entro il santuario domestico», e con la loro efficacia in funzione di propaganda-opinione.

Degna di nota è anche la tempestività con la quale in campo cattolico si addivenne ad efficienti e coraggiose realizzazioni pratiche, non solo di «predicazione», ma anche culturali-sociali – per ricordare un’iniziativa tra tante: Radio Sutatenza, in Colombia –; tempestività permessa delle condizioni tecniche proprie della radio, che, a parità di resa culturale-pastorale, comportano rischi economici molto minori del cinema e, spesso, della stessa stampa. Anche per questo fu agevole a Pio XI precedere nel buon esempio, inaugurando egli stesso, nel 1931, con la prestazione tecnica dello stesso Marconi, quella Radio Vaticana che poi con Pio XII doveva rendere preziosi servigi di carità e di verità a tutta l’umanità. Servizi diretti che, invece, le condizioni tecniche, diverse, dello strumento finora non hanno permesso di realizzare con la televisione.

A proposito dunque di questi due strumenti si può rilevare che il magistero ecclesiastico, reso edotto dalle esperienze passate:

  1. è intervenuto più tempestivamente che non già rispetto alla stampa ed al cinema;
  2. che, pur ammirandovi la munificenza della Provvidenza e la sagacia dell’industria umana, e pur auspicando buoni frutti dal buon uso, si è mostrato molto preoccupato dei pericoli morali-religiosi ad essi attinenti, tanto più reali quanto irreligioso e naturalistico è stato l’humus nel quale (il cinema e) la radio-televisione hanno visto la luce, a differenza di quello cattolico, di cui si nutrì nei suoi primordi l’arte tipografica, e di quello religioso nel quale nacque il teatro antico, e rinacque quello medievale;
  3. che vi abbondano sempre più le considerazioni circa la globalità dei fenomeni di cui stampa, cinema e radio-televisione sono insieme causa e parte, fattori ed effetti, polarizzandosi sempre più l’attenzione del Magistero dai contenuti alle forme tipiche della loro comunicazione, preparando così la visione che l’Inter mirifica farà sua propria.

* * *

Concludendo: si può affermare che il comportamento della Chiesa rispetto ai moderni grandi strumenti della comunicazione sociale, lungi dal segnare un regresso cautelativo e denunciatario rispetto a quello da essa seguito in altri tempi, si è andato via via aprendo e facendosi più consapevole e comprensivo del loro valore sociale globale; e che il Decreto Inter mirifica costituisce, in questo senso, un non discutibile punto di arrivo, del quale è augurabile che Pastori e fedeli tengano conto, restando solleciti, sì, dei reali pericoli della stampa, del cinema e della radio-televisione, ma diventando anche più solleciti dei loro vantaggi, e perciò impegnati più in opere di illuminata promozione, che in denunce e in accorati rimpianti.

* Riduzione di un capitolo del volume di prossima pubblicazione: «L’Inter mirifica»: storia, commento e documentazione,  Roma, Studio romano della Comunicazione sociale, 1969.

1 Vi dovette influire il mistero dell’Incarnazione del Verbo, nucleo e sostanza della «buona novella», che conferiva ad esse un valore simbolico nuovo, e ne riduceva i pericoli di deviazioni idolatriche; ma v’influì anche la cultura ellenistico-romana, ridondante di figurazioni scultoriche e pittoriche, nella quale le primitive cristianità respiravano.

2 Serie di xilografie, accompagnate da brevi testi latini (e poi tedeschi), ad uso di chierici e di fedeli, apparse nei secoli XII e XIII, e, per merito della stampa, diffusesi in Europa nei due secoli seguenti.

3 Documenti pontifici sul teatro, Città del Vaticano 1966, Prefazione.

4 Né più tempestiva fu la produzione teatrale aliturgica della «Chiesa». I noti drammi terenziani della monaca Rosvita (per l’Occidente), ed il Cristós Páschòn (per l’Oriente), così come altri «pezzi» perduti, non risalgono oltre i secoli XXI, e, in ogni caso, devono considerarsi più componimenti da leggere nelle scuole abbaziali, «giochi di alunni», che da recitare in pubblico.

5 Ciò spiega, tra l’altro, la sterile Querelle (giansenista) sulla (im)moralità del teatro che dilagò, specialmente nella Francia dei secoli XVII e XVIII, ove anche eminenti ecclesiastici – tra i quali il grande Bossuet –, teorizzarono contro il teatro in sé, con argomenti di fede e di ragione che, fortunatamente, il Magistero non ha mai fatto propri.

6 La stessa Roma non restò indietro nella gara col resto della cristianità, accogliendo, già nel 1475 – tredici anni dopo la fuga da Magonza dei primi operai di Gutenberg (1462) –, una ventina di tipografie.

7 Rispetto ad esso, invece, segnò piuttosto un regresso un’altra lettera della Segreteria di Stato, inviata sotto Giovanni XXIII e nell’imminenza delle assise conciliari, alla XXXV Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi in Siena dal 24 al 29 settembre 1962 (Lettera al card. Giuseppe Siri, presidente delle Settimane sociali d’Italia); nella quale si trattò delle «incidenze sociali dei mezzi audiovisivi», senza curarsi di definire quali e quante fossero le realtà comprese sotto una dizione tanto approssimativa ed ambigua.

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2870, vol. I (1970), pp. 155-160
n. 2739, vol. III (1964), pp. 246-254
n. 2729, vol. I (1964), pp. 422-435
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408