Articolo estratto dal volume IV del 1986 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Proposta nell’ormai lontano 1978, maturata e autorevolmente preannunciata negli anni ‘83 e ‘841, firmata il 19 marzo 1986 dal cardinale prefetto William W. Baum, viene finalmente emanata l’Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica sulla formazione umana ed ecclesiale dei futuri sacerdoti nei problemi culturali, ascetici e pastorali connessi con l’uso dei mass media2. La quale ben merita una presentazione e un commento.
Delle tre Parti che la strutturano – 1) il testo vero e proprio; 2) una prima Appendice: gli excerpta dei documenti del Magistero romano attinenti all’argomento; 3) una seconda Appendice: elenco degli argomenti trattabili –, in questo primo approccio esamineremo solo la prima Appendice, quale riprova di come la globale rivoluzione psico-socio-culturale della comunicazione massmediale, soprattutto in questo secolo XX, abbia indotto il Magistero romano, attento ai «segni dei tempi», a integrare le sue tradizionali sollecitudini e normative di prevalente tutela ascetico-difensiva dei «chierici», in quelle di prevalente tutela e sviluppo positivo dei valori personali, umano-culturali e spirituali-pastorali, propri dell’odierno sacerdozio ministeriale.
Dal libro al giornale
Al suo primo apparire nel secolo XV, la stampa di Gutenberg venne accolta nella Chiesa come «una specie di arte divina, capace di moltiplicare i codici di ogni scienza, così a incremento dell’erudizione umana»3, come «ad istruzione nella religione degli infedeli, per così condurli [...] alla famiglia dei fedeli»4. Tuttavia, presto ci si allarmò per due pericoli che, rispetto al millenario manoscritto, il nuovo mezzo tecnico comportava, contrari al secondo vantaggio; vale a dire: la diffusione di dottrine eretiche e la volgarizzazione della Sacra Scrittura e di scritti di argomento religioso, messi in mano anche di lettori – rudibus atque foemineo sexui! – costituzionalmente, si pensava, incapaci di comprenderli. E si ricorse, allora, a ripari radicali. Oltre alla classica distruzione col fuoco degli scritti condannati, controllando produzione, commercio e lettura dei libri con due misure durate per quattro secoli, sino quasi ai nostri giorni: quella di una generalizzata censura preventiva, e quella dell’inserimento degli scritti contrari alla fede (e, poi, anche ai costumi), in un Indice dei libri proibiti5 giuridicamente vincolante.
Oggi meraviglia il rigore col quale a detta normativa, e alle relative sanzioni6, vennero assoggettati anche membri del clero che, o per le cariche che ricoprivano, o per la scienza che presumibilmente dovevano possedere7, avremmo detto di per sé esentati.
Ecco, ad esempio, le prescrizioni e clausole con le quali Pio IV concedeva – nientedimeno che ai quattro cardinali della S. Inquisizione! – la facoltà di leggere libri proibiti «durante il loro ufficio»:
«... per portare alla vera dottrina gli eretici [...] essi devono aver che fare con alcuni o molti libri composti ed editi [...] dagli stessi eretici e dai fautori della setta luterana; ma anche per confutare [...] gli stessi libri, sofismi, frodi e inganni degli eretici, sì da conservare la religione nei cuori dei cattolici. Ora sappiamo che, ferme restando le costituzioni da noi promulgate e l’Indice dei libri [...], essi dubitano se possano tenere e leggere questi libri per reprimere siffatti errori, e che, figli ubbidienti, non osano esaminarli. Per liberarli da ogni motivo d’incertezza e di scrupolo di coscienza [...], certi e sicuri della fede, probità e fermezza singolare di detti Cardinali [...], concediamo loro, durante il loro ufficio e finché presiederanno a questa Inquisizione [...], piena facoltà e potere di avere, tenere e leggere [tali libri], liberamente e lecitamente, senza alcuno scrupolo di coscienza, e senza che su di essi cada alcuna suspicione di infamia o di censure ecclesiastiche. Proibiamo però severamente che altri, sian essi ecclesiastici o secolari, e quale ne sia l’autorità, il potere o la dignità, anche cardinalizia, detengano posseggano leggano e spieghino [i detti libri], senza una nuova facoltà e licenza dei detti Cardinali; e ciò, escluso qualsiasi pretesto, anche di privilegi sinora concessi da noi o dai nostri predecessori, oppure dallo stesso Ufficio della Santa Inquisizione»8.
Invece, la stampa-giornale – capofila dei mass media –, sin dal suo primo apparire intorno al 1830, e poi per un buon mezzo secolo, nella Chiesa ebbe tutt’altro che una... buona stampa. Due motivi le procurarono estese diffidenze. Il primo fu l’ambito culturale di molti uomini di Chiesa, i quali – come, del resto, molti ritardati laici colti9 – parteggiavano ancora per il libro quale espressione e veicolo privilegiato di una cultura umanistica di élite; contrari, dunque, a una stampa popolare «di massa». Come esempio di siffatta mentalità libresca valga, almeno per l’Italia, il seguente brano di «preziosa» oratoria – e siamo già al 1871! – del vicentino mons. Andrea Scotton:
«... la stampa periodica è divenuta l’arbitra della sorte dei popoli. È egli, cotesto, un progresso? [...] All’insorgere di una qualche questione i nostri avi mettevano fuori volumi sopra volumi, svolgendola e analizzandola in ogni sua parte. Al contrario oggidì si trincia in un giornale un pajo di articoluzzi, si va a gocciole a sorsi a centellini, e al manco di ragioni e di argomenti supplisce la elasticità della frase e la franchezza del sentenziare. Così alla gravità dei trattati vanno sostituendosi i centoni a mosaico, i fogli volanti pigliano il posto dei libri, e alla maschia vigorosa letteratura d’un tempo succede una miscea di riviste e di effemeridi, che vivono e muojono regolarmente nello spazio di ventiquattr’ore».
L’altro e più decisivo motivo della diffusa avversione, nella Chiesa, verso la stampa-giornale fu, da una parte, il carattere anticlericale e miscredente di troppa stampa laicista e, dall’altra, le frequenti intemperanze e deviazioni di quella cattolica. Così avvenne che con Gregorio XVI, Pio IX, e non poco anche con Leone XIII10, nella maggior parte dei documenti del Magistero romano viene ignorato l’emergente macrofenomeno socioculturale delle opinioni pubbliche, e dell’informazione quale veicolo delle stesse; per convergere in una visione censoria della stampa-giornale quale fonte unica, o quasi, di tutti i malanni politici religiosi e morali del secolo. Lo stesso Leone XIII – che pur, finalmente, avverte il concetto di notizie di attualità; (recentiorum factorum narratio) e l’ormai generalizzata necessità dell’informazione (cum modo, qui ex more universaliter invaluit, edendarum ephemeridum sit veluti indurla necessitas)11 –, ancora nel 1879 denunciava la «sfacciata libertà» con cui «gli uomini amanti di novità» si erano dati
«a spargere una moltitudine quasi infinita di giornali, che avessero per compito d’impugnare o di mettere in dubbio le eterne norme del vero e del giusto, di calunniare e rendere invisa la Chiesa, e di istillare negli animi le più perniciose dottrine [...]. E furono in ciò così fortunati che non s’ingannerebbe molto chi volesse attribuire principalmente alla stampa malvagia la colluvie dei mali e la deplorevolissima condizione di tempi e di cose alla quale oggi siamo giunti»12.
Siffatta buia visuale spiega la rigida normativa tutelativa che nell’ultimo anno del Pontefice vincolò l’entrata e la circolazione dei giornali nei seminari:
«Nessun giornale, benché cattolico e di azione popolare cristiana, può essere introdotto nei seminari, collegi e nelle scuole dipendenti dall’autorità ecclesiastica, senza espressa licenza dei superiori immediati, i quali dovranno assolutamente avere prima l’autorizzazione del proprio vescovo per i singoli giornali e riviste. Ed, in generale, non conviene che il tempo destinato alla formazione ecclesiastica e allo studio sia impiegato a leggere i giornali, principalmente quelli che richiedono nei lettori garanzie speciali di esperienza e vero spirito di pietà cristiana. Queste norme abbiano presenti e le facciano osservare anche i superiori di ordini e congregazioni religiose nelle loro rispettive famiglie»13.
Con Pio X la normativa trova nuovi motivi di rigore nella crisi modernista e nell’estendersi delle contese opinionali, così nella politica come nella Chiesa.
È del 1906, per l’Italia, la disposizione: «Sia onninamente impedito che dagli alunni dei seminari si prenda parte comechessia ad agitazioni esterne; e perciò interdiciamo loro la lettura di giornali e di periodici, salvo per questi ultimi, e per eccezione, qualcuno di sodi principi, stimato dal vescovo opportuno agli studi degli alunni»14; ed è del 1910, per tutta la Chiesa, la disposizione: «Dal momento che ai chierici sono imposti studi abbastanza seri tanto per ciò che concerne le Sacre Lettere, le materie della fede, i costumi, la scienza della pietà e dei doveri che viene detta ascetica, come pure quelle riguardanti la storia ecclesiastica, il diritto canonico e la sacra eloquenza; affinché i giovani non perdano il tempo dedicandosi ad altre questioni, proibiamo assolutamente che essi leggano qualsiasi genere di giornali e di riviste, anche se ottime. Se accadesse qualsiasi evento contrario, ne imputiamo la colpa alla coscienza dei dirigenti»15.
Cambiati i tempi, non sono cessate, seppur ridotte, siffatte preoccupazioni di tutela difensiva per i chierici rispetto all’informazione giornalistica.
È del 1921 la lettera di Benedetto XV al cardinale di Malines, Désiré Mercier, a proposito di dissidi tra fiamminghi e valloni in Belgio: «Scopo dei seminari è preparare degni ministri ai sacri altari: perciò cercherete, prima di tutto [...] che i seminari dei chierici attuino veramente lo scopo per cui sono istituiti. Bisogna, dunque, con ogni diligenza curare che non vi si introduca nessuno scritto atto a generare polemiche in quei sacri recessi, o che distragga dalla formazione alla pietà e dalla serietà degli studi»16. Ed è del 1960 l’esortazione di Giovanni XXIII al clero romano: «La odierna sovrabbondanza della produzione letteraria e giornalistica in ogni settore dello scibile umano diviene sovente tentazione di sbandamento intellettuale, di posizioni bizzarre e pericolose, verso le quali corrono quanti, mancando di esperienza di vita, sono portati facilmente a confidare troppo in se stessi»17.
Dal cinema alla radio-televisione
Il cinema è nato sulla fine del secolo XIX e si è diffuso, nei primi decenni di questo secolo, non propriamente come strumento e veicolo di comunicazione – quale, invece, l’avrebbe promosso sulla fine degli anni ’20 il sonoro –, bensì come spettacolo plebeo –, «mondo» nell’accezione più deteriore –, rientrante, quindi, nella millenaria normativa ecclesiale che ne vietava la frequentazione a quanti «del mondo» dovevano non essere: i chierici.
«Non conviene che sacerdoti e chierici assistano a spettacoli, quali che siano, nei teatri o nelle nozze; perciò conviene che, prima che entrino gli orchestrali, essi si alzino e si allontanino»: aveva decretato nel 370 il Concilio di Laodicea (Asia Minore)18.
Nell’813 ben tre Concili tornavano sull’argomento19: «Vogliamo e decretiamo che si veda bene la differenza tra quelli che professano di aver abbandonato il mondo e quelli che, invece, ci sono restati. Perciò il santo Concilio ha deciso che si differenzino secondo quanto è fissato nelle regole dei chierici. Ora la legge dei padri ordina che si astengano dalla comune vita secolare e dai piaceri mondani; perciò non intervengano a spettacoli e a feste» (n. 72). «I sacerdoti di Dio devono astenersi da ogni cosa che sia di seduzione alla vista e all’udito, e che possa indebolire il vigore dell’animo [...]. Fuggano perciò le spudorate prestazioni di turpi istrioni e dei giunchi osceni, ed anzi devono predicare di fuggirle anche agli altri sacerdoti» (n. 73). «I sacerdoti devono astenersi da ogni seduzione della vista e dell’udito [...]; e non solo si tengano lontani dalla spudoratezza degli istrioni, dei buffoni e dei giunchi volgari ed osceni, ma si persuadano che devono tenerne lontani anche i fedeli» (n. 74)20.
Questa «dottrina dei padri» echeggiò nei cann. 1 3 8 e 140 del Codice di diritto canonico del 1917, riguardanti appunto, tra l’altro, gli spettacoli «specialmente nei pubblici teatri»21: corollari del can. 124, che voleva «i chierici impegnati in una vita, interiore ed esteriore, più santa ed esemplare di quella dei laici»22. E in questa stessa visuale non poterono non inquadrarsi certe rigorose norme disciplinari circa la frequenza del clero allo «spettacolo degli spettacoli»: il cinema, di cui resta qualche traccia anche in questo postconcilio. All’argomento, infatti, è dedicato il primo intervento romano sul cinema: un decreto del cardinal vicario di Roma, Pietro Respighi, del 1 5 luglio 190923, che recita:
«1. Una delle principali cure del nostro ufficio è quella di vigilare affinché non s’introducano nel clero abitudini che male si addicono alla santità e al decoro dello stato ecclesiastico. Essendoci noto pertanto come persone appartenenti al clero [...] frequentino i pubblici cinematografi, dove non di rado si offendono la religione e la morale, abbiamo creduto nostro dovere informare di ciò il Santo Padre, invocando provvedimenti opportuni ed efficaci a togliere così grave abuso.
«2. Nel nome quindi del Santo Padre [Pio X], e con l’autorità di lui per questo scopo concessaci, mentre ricordiamo al clero l’obbligo di non frequentare i pubblici teatri, vietiamo in particolare agli ecclesiastici [...] di assistere agli spettacoli che si svolgono nei pubblici cinematografi di Roma, senza alcuna eccezione.
«3. Per espresso volere dello stesso Santo Padre, qualora, che Dio non voglia, da ecclesiastici [...] si contravvenisse a queste disposizioni, procederemo contro i trasgressori con le pene canoniche, compresa la sospensione a divinis».
Ed ecco, dopo mezzo secolo, le norme del Sinodo Romano del 196024, riguardanti, sì, soltanto «il clero e i religiosi di Roma, anche se solo di passaggio», ma che, nella mente di Giovanni XXIII, che vi ebbe parte diretta, rappresentavano un esempio-modello per le altre diocesi:
«88 – 1) È assolutamente proibito in Roma, ai chierici, ai religiosi e a tutti quelli che aspirano alla vita ecclesiastica o religiosa, residenti o solo di passaggio nella Città, di assistere a spettacoli di qualunque genere (cineforum non esclusi), che si tengano in sale e in altri luoghi, non dipendenti o non approvati dall’autorità ecclesiastica. 2) Alle persone, di cui nel paragrafo precedente, è proibito l’accesso anche alle sale e ai luoghi dipendenti o approvati dall’autorità ecclesiastica, fatta eccezione per quelli che potranno essere espressamente autorizzati dal Vicariato. 3) Se dovesse sorgere la necessità o l’opportunità di intervenire a spettacoli nei luoghi di cui ai paragrafi 1 e 2, s’interpelli il Vicariato e si stia alle sue decisioni.
«89 – 1) La violazione dolosa di quanto è prescritto ai paragrafi 1 e 2 del precedente articolo sarà colpita da pene ferendae sententiae, a giudizio del Cardinal Vicario. 2) Il chierico in sacris che assiste anche una sola volta a spettacoli teatrali o cinematografici in luoghi non approvati dall’autorità ecclesiastica [...] incorre ipso facto nella sospensione a divinis “nemini reservata”. 3) Per il chierico o il religioso l’assistere in abito secolare ai suddetti spettacoli costituisce una speciale aggravante, la quale sarà punita con pene più severe, non escluso, occorrendo, l’immediato allontanamento da Roma».
In quanto al postconcilio, il motu proprio Ecclesiae sanctae di Paolo VI, del 6 agosto 196625, tra le altre norme applicative dei decreti Christus Dominus, Presbyterorum ordinis e Perfectae caritatis, – ad experimenlum, vale a dire in attesa del nuovo Codice – stabiliva che tutti i religiosi, anche se esenti, erano «tenuti alle leggi, decreti e prescrizioni emanati dall’Ordinario del luogo, o dalle Conferenze episcopali, che riguardino, tra l’altro [...], b) l’accesso agli spettacoli pubblici».
Circa la radio – diffusasi negli anni ’20 – nel Magistero romano non c’è, invece, traccia di preoccupazioni rispetto al clero, forse perché il nuovo mass medium non venne collegato né con lo «spettacolo» mondano, né con «l’informazione» antireligiosa. Tempestivo, però, e allarmato fu l’intervento circa l’uso della televisione, dilagata negli anni ’50. È, infatti, del 1957 la circolare con la quale la S. Congregazione Concistoriale urgeva ai seminari d’Italia quanto Pio XII, il 1° gennaio 1954, si era affrettato ad ammonire all’Episcopato italiano con l’esortazione I rapidi progressi26:
«... sicura d’interpretare le sollecitudini paterne di Sua Santità per la retta formazione degli allievi del santuario, la Sacra Congregazione richiama i superiori dei seminari maggiori e minori sull’obbligo di vigilare sulle trasmissioni televisive, alle quali eventualmente venissero ammessi gli alunni, affinché, onerata eorum conscientia, niente di meno serio e meno conveniente sia loro dato in visione; con l’esclusione assoluta, non solo di quanto può “scuotere e far rovinare per sempre una costruzione di purezza, di bontà e di sana educazione”, ma altresì di ogni spettacolo fatuo, leggero e comunque disdicevole alla loro condizione di anime, che si studiano di formare in se stesse l’alter Christus».
Ormai in pieno clima conciliare, il 19 giugno 1964, la S. Congregazione dei Seminari passava a una normativa, sempre per i rettori dei seminari d’Italia27, nella quale ad aperture innovative si alternavano ancora rigori prudenziali.
Riconosciuto che l’attenzione rivolta dal Concilio ai mass media «non poteva non essere di stimolo a quanti hanno la possibilità di formare i futuri ministri, per avviarli a una più adeguata valutazione degli strumenti suddetti e alla loro illuminata pastorale»; rilevava «che già da alcuni anni si era andato sempre più diffondendo l’uso di proiettare alcune pellicole, e di consentire la visione di trasmissioni televisive agli alunni dei seminari [...], intendendo con ciò di offrire ai seminaristi un aiuto che valga a far apprezzare loro rettamente gli audiovisivi in genere e abilitarli, in particolare, alla critica estetico-morale delle singole rappresentazioni [...]», ma rilevava anche «la gravità dei rilievi che pervenivano da parte di alcuni sacerdoti, giustamente preoccupati per la frequenza e la qualità delle rappresentazioni offerte in visione agli alunni dei seminari».
Di conseguenza, la S. Congregazione incaricava ogni rettore, perché, tra l’altro: «1) ogni seminario sia abbonato alle Segnalazioni cinematografiche del C.C.C. [...] per una sufficiente base di orientamento per la scelta di pellicole adatte anche ai seminaristi, tenuto conto della loro età e cultura. 2) Poiché non è possibile attendersi dagli organi centrali un giudizio obiettivamente valido sui singoli programmi televisivi [...], il rettore consentirà la visione pubblica solo di quelle trasmissioni a proposito delle quali non abbia motivo d’apprensione, sia per diretta conoscenza dell’opera in programma, sia per il giudizio indicativo offerto settimanalmente su Guida allo Spettacolo dal C.C.T.; 3) [... in ogni caso] il rettore non permetterà che i seminaristi assistano troppo frequentemente a spettacoli cinematografici e televisivi, e ciò mai più di due volte al mese».
Nel cinquantennio 1935-1985
Diversa è, invece, l’aria che si respira percorrendo i 42 excerpta del Magistero romano, offerti – in ordine cronologico soltanto dal 1953 al 1983 – nella prima Appendice dei recenti Orientamenti28. Attento all’irruzione, non solo tecnologica, «del mondo», verificatasi in questo mezzo secolo anche nella vita del clero e dei seminari, il Magistero insiste sempre più spesso – come s’è detto – sulla tutela e sullo sviluppo positivo dei valori personali, umano-culturali e spirituale-pastorali, propri dell’odierno sacerdozio ministeriale.
Ovviamente, il Magistero odierno non ignora la consegna-scommessa data da Gesù ai suoi Apostoli di non diventare del mondo pur restando nel mondo: di questo, cioè, evitando tutto ciò al quale Egli si è dichiarato estraneo e nemico (cfr. Gv 17,9.16). Sui dieci excerpta che vertono su questo aspetto ascetico, spiccano, infatti, questi sei:29
Di Pio XII nell’enciclica Sacra virginitas: «Alcuni sostengono che tutti i cristiani, e soprattutto i sacerdoti, non devono essere segregati dal mondo, come nei tempi passati, ma devono essere presenti nel mondo, e perciò che è necessario metterli allo sbaraglio ed esporre alla prova la loro castità, affinché consti chiaramente se hanno o non la forza di resistere. Quindi, che i giovani chierici devono tutto vedere, per abituarsi a guardare ogni cosa tranquillamente, e in tal maniera rendersi insensibili ad ogni turbamento. Per questo permettono loro facilmente di guardare tutto ciò che capiti sotto i loro occhi, senza alcuna regola di modestia; di frequentare i cinema, perfino quando si tratti di film proibiti dai revisori ecclesiastici; sfogliare qualsiasi rivista anche oscena [...]. E concedono questo perché dicono che ormai il pubblico oggi vive unicamente di tali spettacoli e di tali pubblicazioni; e, chi vuole aiutarlo, deve capire il suo modo di pensare e di vedere. Ma è facile comprendere quanto sia errato e pericoloso questo modo di educare il giovane clero e di guidarlo alla santità del suo stato» (Prima appendice, n. 4).
Di Giovanni XXIII al clero romano: «Ecce nos reliquimus omnia et seculi sumus Te. In questo omnia che abbiamo lasciato per Cristo c’è anche davvero la partecipazione ad ogni lettura e ad ogni visione di giornale, di rivista, di libro, di divertimento, che in qualunque modo contraddica alla verità e allo spirito di Cristo, all’insegnamento della Santa Chiesa, alle prescrizioni e agli inviti del nostro Sinodo benedetto» (Prima appendice, n. 8).
Della S. Congregazione dei Seminari: «Sembra superflua ogni parola che voglia mettere in nuova luce la delicatezza di coscienza e la particolare sensibilità di chi sta preparandosi a diventare homo Dei (2Tm 4,17) di fronte al mondo, e la conseguente sconvenienza a che a rappresentazioni cinematografiche o televisive, sia pure di alto livello artistico, vengano ammessi gli alunni del santuario [...]. I criteri di scelta per questo speciale tipo di spettatori dovranno essere molto più oculati e rigorosi di quelli seguiti per i semplici fedeli, se non vogliamo che il germe del naturalismo attacchi, forse irreparabilmente, quanti sono chiamati ad essere, per singolare privilegio, dispensatores mysteriorum Dei (1Cor 4,2), e boni dispensatores gratiae (1Pt 4,10)» (Prima appendice, n. 12.).
Di Paolo VI nell’enciclica Sacerdotalis caelibatus: «Le difficoltà e i problemi che rendono ad alcuni penosa, o addirittura impossibile, l’osservanza del celibato, derivano non di rado da una formazione sacerdotale che, per i profondi mutamenti di questi ultimi tempi, non è più del tutto adeguata a formare una personalità degna di un “uomo di Dio” (1Tm 6,11) [...]. I giovani dovranno convincersi che non potranno percorrere la loro difficile via senza un’ascesi particolare, superiore a quella richiesta a tutti gli altri fedeli e propria degli aspiranti al sacerdozio. Un’ascesi severa [...], che sia meditato ed assiduo esercizio di quelle virtù che fanno di un uomo un sacerdote [...]: prudenza e giustizia, fortezza e temperanza [...], castità come perseverante conquista, armonizzata con tutte le altre virtù naturali e soprannaturali [...]. In tal modo l’aspirante al sacerdozio acquisterà una personalità equilibrata, forte e matura» (Prima appendice, n. 16).
Di Giovanni Paolo I al clero romano: «La “grande” disciplina richiede un clima adatto. E prima di tutto il raccoglimento [...]. Attorno a noi c’è continuo movimento e parlare di persone, di giornali, di radio e televisione. Con misura e disciplina sacerdotale dobbiamo dire: “Oltre certi limiti, per me, che sono sacerdote del Signore, voi non esistete; io devo prendermi un po’ di silenzio per la mia anima; mi stacco da voi per unirmi al mio Dio”. E sentire il loro sacerdote abitualmente unito a Dio è, oggi, il desiderio di molti buoni fedeli» (Prima appendice, n. 34).
Infine, del can. 666 del nuovo Codice di diritto canonico: «Nell’uso dei mezzi di comunicazione sociale si osservi la necessaria discrezione e si eviti quanto è nocivo alla propria vocazione e pericoloso alla castità di una persona consacrata» (Prima appendice, n. 41).
Tuttavia, secondo il Magistero romano più recente, siffatta cauta prassi ascetica del sacerdote oggi deve saldamente integrarsi in una sua personale positiva maturazione culturale.
Esortava, in proposito, Pio XI nell’enciclica Ad catholici sacerdotii, del 1935: «Per il decoro dell’ufficio che esercita e per guadagnarsi, come conviene, la fiducia e la stima del popolo [...], il sacerdote deve essere fornito di quel patrimonio di dottrina anche non strettamente sacra che è comune agli uomini colti del suo tempo [...]. I chierici non si devono accontentare di quello che forse poteva bastare in altri tempi, ma devono cercare di avere, anzi devono avere, una cultura generale più vasta, corrispondente al più alto livello e alla più ampia estensione che oggi ha raggiunto, in genere, la cultura moderna in confronto ai secoli passati» (Prima appendice, n. 1).
Così, invece, la Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, del 1970: «Sin dai primi anni del seminario, e più con l’avanzare dell’età e della formazione, gli alunni vengano introdotti nelle realtà sociali, specialmente della propria Nazione, sicché, dallo studio delle varie discipline e delle situazioni degli uomini e dei fatti quotidiani, si addestrino rettamente a conoscere i problemi e le controversie sociali; a giudicarne la natura, le relazioni reciproche, le difficoltà e le conseguenze; a scorgerne con oggettività e giustizia le soluzioni alla luce della legge naturale e della dottrina del Vangelo» (Prima appendice, n. 18 [69]).
E così Paolo VI in un’Allocuzione del 1974: «Come Gesù, come gli Apostoli, i sacerdoti sono al servizio totale di Dio e dell’uomo: questa la loro destinazione. Ecco, allora, il dovere della loro formazione, che loro incombe in un continuo “crescendo”. Formazione spirituale [...]; formazione pastorale, cercando e chiedendosi, alla luce dei documenti del Vaticano II, come servire più efficacemente il mondo nel quale sono chiamati a vivere e ad operare in nome di Cristo; formazione dottrinale, radicata nella fede e adatta ai tempi, che li aiuti a comprendere meglio il mondo...» (Prima appendice, n. 25)30.
In particolare, sei excerpta31 riguardano l’odierna necessaria apertura mentale del sacerdote rispetto al presente (e futuro) sviluppo tecnologico – specie rispetto agli strumenti della comunicazione sociale –, quale stimolo e terreno di generale aggiornamento pastorale. Tale, ad esempio, quello di Pio XII nel 1956, poi ripreso nell’enciclica Miranda prorsus, del 1957:
«Il sacerdote in cura d’anime può e deve sapere quel che affermano la scienza moderna, l’arte e la tecnica moderne, in quanto riguardano il fine e la vita religiosa dell’uomo [...]. Vi è una simile (e oggi anche maggiore) necessità di “aggiornamento pastorale” alla predicazione della Chiesa [...], come altresì alle scienze moderne. Anzi dobbiamo dire che vi è al momento presente una più grande necessità dell’orientamento delle stesse scienze moderne (in quanto esse toccano i campi religiosi e morali) al magistero della Chiesa» (Prima appendice, nn. 6 e 7[154]).
E così Paolo VI nella lettera apostolica Octogeesima advenientes, del 1971: «Tra i principali mutamenti del nostro tempo non vogliamo dimenticare l’importanza sempre crescente degli strumenti di comunicazione sociale e il loro influsso sulla trasformazione delle mentalità, delle conoscenze, delle organizzazioni umane e della stessa società [...]. Come, allora, non interrogarsi sui detentori reali di questo potere, sugli scopi che essi perseguono e sui mezzi posti in opera; infine sulla ripercussione della loro azione nei confronti dell’esercizio delle libertà individuali, tanto nel settore politico e ideologico, quanto nella vita sociale, economica e culturale?» (Prima appendice, n. 21).
Ma, ovviamente, dato l’argomento e lo scopo degli Orientamenti, la maggior parte degli excerpta magisteriali raccolti in questa loro prima appendice verte sulla positiva e pratica formazione dei sacerdoti ai problemi connessi con l’uso degli strumenti della comunicazione sociale. In particolare: dieci di essi riguardano la formazione della coscienza umana e cristiana di tutti, in genere, i recettori, sacerdoti compresi 32; sette concernono, invece, la formazione specifica dei sacerdoti all’uso loro personale degli stessi33; mentre quattordici attengono alla loro formazione specifica pastorale34.
Altrettanti argomenti e settori degli Orientamenti che ci proponiamo di presentare e commentare prossimamente.
1 «Tra i temi trattati nelle Congregazioni generali del corrente anno [...]: un nuovo testo dell’Istruzione sulla formazione dei futuri sacerdoti nei problemi culturali e pastorali connessi con gli strumenti della comunicazione sociale», così il card. W. W. Baum, prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, nella Congregazione generale del 27 ottobre 1983 (in G. CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1983, La Civiltà Cattolica, Roma 1985, 563); e «li vostro studio si è incentrato nella stesura definitiva di due documenti, sui quali lo scorso anno avevate avuto modo di esprimere il vostro parere. Mi auguro che le direttive in essi impartite [...], per quanto riguarda la formazione dei seminaristi all’uso degli strumenti di comunicazione sociale, possano recare nuovo impulso alla vita e all’attività dei seminari di tutto il mondo» (così Giovanni Paolo II, il 1º aprile 1984, alla Plenaria della stessa Congregazione: Oss. Rom., 6 aprile 1984).
2 CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione sociale (19 marzo 1986). Dello stesso documento vedi anche Prima appendice e Seconda appendice.
3 Bertoldo di Henneberg, Editto «Etsi ad mortalem», (4 gennaio 1486), n. 1.
4 Concilio Lateranense V, Costituzione «Inter sollicitudines» (4 maggio 1515), n. 1.
5 Pubblicato da Pio IV con la Bolla «Dominici gregis», del 24 marzo 1164, aggiornato con le Costituzione «Sollicita ac provida» di Benedetto XIV, del 9 luglio 1753, e Costituzione apostolica «Officiorum ac munerum» di Leone XIII, del 21 gennaio 1897, trattato infine nel Codice di diritto canonico pio-benedettino del 1917, perdeva la forza di legge ecclesiastica nel 1966 con la Dichiarazione a riguardo dell’“Indice dei libri proibiti” della S. Congregazione per la Dottrina della fede del 14 giugno, e col relativo Decreto del 15 novembre (cfr. AAS 58 (1966) 441 e 1186).
6 Quale la scomunica, per quanti li leggessero o detenessero senza licenza, già stabilita nella citata Bolla «Dominici gregis» di Pio IV (n. 3 e finale della X regola X), e ancora comminata nel can. 2318 del Codice del 1917.
7 Come nel Codice del 1917, per la lettura di tutti i libri all’Indice, «con le necessarie cautele» venivano esentati «i Cardinali, i Vescovi, anche titolari, e gli altri Ordinari» (can. 1401); mentre, soltanto per alcuni libri, venivano esentati «quanti si occupavano di studi di teologia e biblici» (can. 1400).
8 Pio IV, Motu proprio «Cum inter crimina», del 27 agosto 1564. Lo stesso procedimento seguirà Gregorio XIII nella bolla Ut pestiferarum opinionum del 13 settembre 1572; e anche Clemente VIII nella Costituzione «Sacrosanctum catholicae fidei», del 17 ottobre 1595.
9 Gli stessi filosofi ed enciclopedisti francesi avevano disprezzato il giornale, preferendogli il libro. Avevano, infatti, scritto in questo, rifiutandosi di scrivere in quello. Diderot dichiarò: Tous ces papiers sont la páture, des ignorants; e Rousseau: Un livre, périodique est un ouvrage éphémère, sans mérite et sans utilité, dont la lecture négligée et méprisée par la gens de lettres ne sert qu’à donner aux femmes et aux sots de la vanité sans instruction.
10 Tra i documenti di rilievo, per Gregorio XVI cfr la Lettera enciclica «Mirari vos», del 1820), contro, senza nominarli, Félicité Robert de Lammennais e il suo giornale L’Avenir. Contro di essa il Lamennais scrisse l’opuscolo Paroles d’un croyant, poi condannato dallo stesso Gregorio X VI, nel 1834, nella Lettera enciclica «Singulari nos». Per il pontificato di Pio IX, da segnalare la nascita, nel 1850, de La Civiltà Cattolica (cfr Pio IX, Lettera «Exemplar perlibenter» e Breve «Gravissimum supremi») e, nel 1861, de L’Osservatore Romano (Regolamento de “L’Osservatore Romano”).
11 Leone XIII, Discorso «Ingenti sane laetitia» a circa mille rappresentanti della stampa cattolica, del 22 febbraio 1878.
12 Pio XII, Lettera «Ea considerans» (20 giugno 1957); Congregazione Concistoriale, Circolare «Le vive preoccupazioni» (1º luglio 1957)
13 Istruzione «Nessuno ignora», firmata dal Mariano Rampolla, del 27 gennaio 1902, e pubblicata per ordine del Papa dalla Congregazione degli Affari Straordinari.
14 Lettera enciclica «Pieni l’animo», del 28 luglio 1906, all’episcopato italiano, «per ovviare allo spirito d’insubordinazione e d’indipendenza del clero». E nella Lettera enciclica «Pascendi dominici gregis» contro il modernismo, dell’8 settembre 1907, ribadirà: «È ufficio dei vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo, o ad esso favorevoli, si leggano se sono già pubblicati [...]. Qualsivoglia libro, o giornale, o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere né agli alunni dei seminari né agli uditori delle università cattoliche; il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano» (n. 10).
15 Motu proprio Sacrorum antistitum, del 1º settembre 1910, «per debellare il modernismo” (in AAS 2 [1910] 668). Seguiva, il 10 ottobre 1910, una Lettera del card. Gaetano De Lai, della S. Congregazione Concistoriale, al cardinale primate di Ungheria C. Vaszary, in cui si precisava: «La mente di Sua Santità è che resti ben ferma la legge con la quale vengono proibiti i giornali e le riviste, anche ottime, che si occupano delle questioni politiche agitate nell’attualità, oppure parlano delle questioni sociali e scientifiche che vengono discusse nella vita quotidiana, senza che sia ancora stato possibile giungere a soluzioni sicure. Quando, invece, si tratti di questioni scientifiche, niente vieta che gli stessi superiori e docenti del seminario li leggano agli alunni, e li mettano nelle loro mani in propria presenza, perché vi leggano gli articoli utili od opportuni alla loro istruzione. Previa l’approvazione dei dirigenti dei seminari, possono invece essere lasciate nelle mani degli alunni quelle riviste che non contengano nulla di controverso, ma solo notizie religiose, disposizioni e decreti della S. Sede, atti e disposizioni dei vescovi, oppure altri periodici che non siano altro che lezioni utili alla crescita della fede e della pietà» (in AAS 1 [1910] 855).
16 Benedetto XV, Lettera «Cum semper» (10 febbraio 1921).
17 Giovanni XXIII, Allocuzione «Ad vobiscum iterum» (26 gennaio 1960) nella II Sessione del Sinodo Romano.
18 Decreto degli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio I del 27 aprile 389 (Codex Theodosianus, XV, 7, 5). E tre secoli dopo, nel 692, il Sinodo Trullano (Quinisesto) ripeteva nei Canoni su spettacoli, libri eretici, immagini (nn. 24 e 100): «A quanti appartengono all’ordine sacerdotale [...] si proibisce di prender parte alle corse dei cavalli, o di fare da attori nei teatri. Se poi qualche chierico viene invitato a qualche festa di nozze, non appena si presentano i teatranti chiamati a divertire il pubblico, s’alzi e se ne vada, secondo quanto è stato prescritto dai nostri padri. Se poi qualcuno venisse trovato colpevole: o si corregga o venga deposto» ).
19 Uno in Germania (Sinodo di Magonza) e due in Francia (Sinodo di Tours III e Sinodo di Chalons-sur-Saône).
20 Col Concilio di Parigi, dell’829, la normativa volge a trattatello ascetico: «Se, come l’Apostolo afferma, tutti i cristiani devono evitare ogni vaniloquio ed ogni scurrilità, molto più conveniente che se ne guardino i sacerdoti del Signore, i quali devono essere di esempio agli altri ed aiutarli a salvarsi. In realtà siffatte cose dovrebbero essere del tutto estranee a persone consacrate, alle quali converrebbe piuttosto piangere che sghignazzare alle scurrilità e alle sciocchezze, alle oscenità degli istrioni e ad altre siffatte vanità, fatte apposta per snervare l’animo cristiano dal vigore della virtù [...]. Perciò, noi tutti qui riuniti, abbiamo giudicato che i sacerdoti che finora si fossero dati a queste vanità, d’ora in poi, con l’aiuto del Signore, devono astenersene del tutto» (Sinodo di Parigi VI, Capitoli sul comportamento dei sacerdoti, n. 38). Sulla questione, nel 1215 legifererà addirittura il Concilio ecumenico Lateranense IV: «I chierici non assistano a spettacoli di mimi, di buffoni e di istrioni, ed evitino del tutto le osterie, se non fosse per necessità in viaggio; non giuochino ai dadi, né assistano a tali giuochi» (n. 16).
21 Su cui sorvola il nuovo Codice del 1983, che in proposito, nel can. 281, si limita a disporre: «I chierici si astengano da tutto ciò che è sconveniente al loro proprio stato, secondo le disposizioni del diritto particolare».
22 Nel nuovo Codice gli è parallelo il can. 276, che seguendo la costituzione conciliare Lumen Gentium al n. 41 e il decreto Presbyterorum ordinis al n. 12, dispone: «Nella loro condotta di vita i chierici sono tenuti in modo peculiare a tendere alla santità, in quanto, consacrati a Dio per un nuovo titolo mediante l’ordinazione, sono dispensatori dei misteri di Dio al servizio del Suo popolo».
23 Pio X, Decreto «Una delle principali» (15 luglio 1909); poi ribadito dal Decreto «Essendoci noto» del 25 maggio 1918, del cardinal vicario Basilio Pompilj. Un esempio di simile disciplina nelle Chiese Orientali si ha nel contemporaneo Sinodo dell’Esarcato di Pietrogrado (31 maggio 1917), che stabilisce: «Al clero è assolutamente proibito frequentare i teatri, i cinema [...] e tutte le altre riunioni del genere».
24 Pio IV, Bolla «Dominici gregis» (24 marzo 1564).
25 Paolo VI, Motu proprio «Ecclesiae Sanctae» (6 agosto 1966).
26 Congregazione Concistoriale, Circolare «Le vive preoccupazioni» (1º luglio 1957) e Pio XII, Esortazione apostolica ai vescovi italiani «I rapidi progressi» (1º gennaio 1954).
27 Paolo Vi, Lettera ai Rettori dei seminari di Italia (19 giugno 1964).
La seguente tabella è ordinata per peso magisteriale e giuridico:
29 Gli altri, attinenti, sono i nn. 7, 17 e 39. Capitale resta, in argomento, il n. 3: «Condizioni dei presbiteri nel mondo» del decreto conciliare Prebyterorum ordinis, con il passo dell’enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam, riportato nella nota 20.
30 Cfr, in argomento, anche i nn. 15, 18(89), 20, 25 e 42.
31 Sono i nn. 5, 6, 18 (4 e 69), 21 e 27.
32 Sono i nn. 2, 3, 7, 9, 11, 19, 22 (15, 65, 66, 69, 67 e 107), 33 e 42.
33 Sono i nn. 7, 10, 11, 18 (68), 22 (110) e 23.
34 Sono i nn. 7, 9, 12 (5), 22 (106), 24, 26, 27, 29, 32, 38, 40, 41 (747 e 779) e 42.