Articolo estratto dal volume III del 1978 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Prima a proposito di diritti fondamentali dell’uomo e poi presentando una ventina di autori che più o meno direttamente ne avevano scritto, abbiamo già trattato l’argomento «informazione»1: ma poco più che delibandolo. Il nulla di fatto con cui, segnatamente a causa di esso, s’è svolta, in cinque mesi di schermaglie e di intimidazioni, la recente riunione di Belgrado sulla Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE)2, ci sollecita di trattarlo più compiutamente; in particolare per rilevare le cause, oggi come oggi ineliminabili, che in argomento rendono impossibile qualsiasi intesa tra i Paesi del mondo, diciamo cosi, liberale-occidentale e quelli della galassia marx-comunista.
Verso i diritti dell’uomo come persona
Per rilevare appieno l’irriducibile contrasto che circa l’informazione oppone queste due facce della Luna, conviene prima considerare le irriducibili loro visioni del concetto stesso di «diritti fondamentali dell’uomo».
Com’è noto, in Europa le prime Dichiarazioni (o Carte) di diritti compaiono nel tardo Medio Evo e, più che altro, come doni o concessioni dell’autorità sovrana in favore, non tanto di uomini, o di cittadini, soggetti autonomi di diritti indipendentemente da re o da feudatari, quanto di ceti particolari, di città o di istituzioni che, o li pagavano, o li strappavano3. Tale, ad esempio, la Magna Charta delle libertà angliche con la quale Enrico III, nel 1225, «dava ed accordava, di sua propria e buona volontà, le libertà sotto specificate agli arcivescovi, vescovi, abati, priori, conti e baroni» (p. 11), i quali gli avevano ceduto – come si vede, siamo ad un vero e proprio contratto, e non ad un atto di diritto pubblico – la quindicesima parte di tutti i loro mobili; mentre «a tutti gli uomini liberi» (p. 11) e «a tutti gli uomini del Regno» (pp. 17 e 19) concedeva appena qualche briciola generica.
Tuttavia, in quattro secoli, il diritto consuetudinario inglese erode fortemente i poteri già assoluti del re. Nel Bill of Rights del 1689 e nell’Act of Settlement del 1701 sono i Lords ed i Comuni – «che costituiscono la rappresentanza piena e libera della Nazione» – a voler «assicurare i propri diritti e libertà» (p. 27), ed a «reclamarli» (p. 29) come «i veri, antichi e incontestabili diritti e libertà del popolo di questo Regno, considerati, riconosciuti, consacrati e creduti come tali» (p. 31), dato che «le leggi inglesi sono i diritti originari del popolo» (p. 33). Ma, come si vede, siamo ancora molto lontani da una dichiarazione di principi universali, validi sempre e per tutti; dato pure che vi si usa «popolo» in accezione per lo meno riduttiva, riconoscendosi solo ai protestanti il diritto al trono (p. 31) e quello di armarsi a propria difesa (p. 27), e solo ai liberi proprietari quello di essere eletti a giurati (p. 29).
Invece, un riconoscimento formale dell’esistenza di diritti nativi dell’uomo in quanto tale, quindi anche inamissibili e di tutti gli uomini senza eccezione, si trova, settant’anni dopo, nel Preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America (4 luglio 1776). Vi si riconoscono, infatti, «come incontestabili ed evidenti per se stesse», tra le altre, queste verità:
«Che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dotati dal Creatore di diritti inalienabili»; che, per tutelare gli stessi, «gli uomini hanno istituito tra loro dei governi, la cui giusta autorità emana dal consenso dei governati»; e che «gli stessi uomini si sono riservati di cambiarne ed abolirne la forma quando divenisse distruttiva dei fini per i quali sia stata stabilita» (p. 38).
E nello stesso anno 1776 questo riconoscimento di principio per la prima volta diventava vero e proprio diritto costituzionale nel Bill of Rights della Virginia, sul quale poi si modellarono le Costituzioni di altri sei Stati USA (p. 49), ed anche la Costituzione del 1787 (p. 103). Infatti, il detto Virginia’s Bill recitava (p. 45):
«1. Tutti gli uomini sono da natura egualmente liberi e indipendenti, ed hanno alcuni diritti innati, di cui, entrando nello stato di società, non possono, con disposizioni di legge, privare o spogliare la loro posterità [...].
«2. Tutto il potere è nelle mani del popolo e, in conseguenza, da lui derivato; i magistrati sono i suoi fiduciari e servitori [...].
«3. Il governo è, o deve essere, istituito per la comune utilità, protezione e sicurezza del popolo, della nazione o comunità [...]. Quando un governo appaia inadeguato o contrario a questi scopi, la maggioranza della comunità ha un sicuro, inalienabile e indefettibile diritto a riformarlo mutarlo o abolirlo, in quella maniera che sarà giudicata meglio diretta al bene pubblico».
Si discute ancora sulla dipendenza o meno degli «Immortali principi» della Rivoluzione Francese dalle Carte americane; vale a dire: se queste ne siano state il modello, per tramite o no del La Fayette4, oppure se e queste e quelli non siano stati altro che derivazioni parallele della «Scuola del diritto naturale»: maestri J. Locke con l’Epistola de tolerantia (1689) e con Two Treatises on Government (1690), C.-L. Montesquieu con L’esprit des lois (1748) e J.-J. Rousseau col Contrat social (1762). Certo è che l’esistenza di diritti fondamentali dell’uomo trovò in detti «Principi» l’affermazione più efficace. Infatti, nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen l’Assemblea Nazionale del Popolo Francese, «considerato che l’ignoranza, la dimenticanza o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le sole cause delle sventure pubbliche e della corruzione dei governi», e stabilito di esporre «in una Dichiarazione solenne i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo», riconosceva e dichiarava (p. 119):
«1. Gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.
«2. Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo [...].
«3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente.
«4. [...] L’esistenza dei diritti naturali di ciascun uomo non ha altri limiti che quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti [...].
«5. [...] Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina.
«6. [...] La legge deve essere la stessa per tutti, sia che protegga sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici [...]»5.
Dopo la parentesi napoleonica (1799-1814/’15), con la restaurazione borbonica resterà pacifico che «tutti i Francesi sono uguali davanti alle leggi, quali che siano i loro titoli o ranghi» (p. 145) e che «la sovranità del popolo è la risultante dell’unione dei diritti di tutti i cittadini» (p. 147). A sua volta, la Costituzione della Seconda Repubblica (1848) si fonderà sul principio – fondamentale nella nostra trattazione – che «esistono diritti (e doveri) anteriori e superiori alle leggi positive» (p. 151). Inoltre, tanto la Costituzione del 1832 (Secondo Impero) quanto quella del 1870 (Terza Repubblica) si apriranno riconoscendo, confermando e garantendo «i grandi principi proclamati nel 1789 come fondamento del diritto pubblico dei Francesi» (p. 157). I quali principi, del resto, attraverso le conquiste rivoluzionarie e napoleoniche – il suo Codice Civile! – erano andati costituendo il fondamento di tutti gli assetti costituzionali europei e non europei dell’Ottocento; per poi continuare a diventarlo anche in tutti quelli del nostro secolo6; eccezion fatta per quelle mostruosità, anche giuridiche, che furono il fascismo e il nazismo e che, come vedremo, furono e sono tuttora i regimi comunisti.
Perdurò, è vero, sino alla seconda guerra mondiale, la concezione liberale secondo la quale i diritti umani erano concessioni dello Stato, adottando per essi – ad esempio V. E. Orlando – la teoria dell’autolimitazione. Ma negli anni immediatamente seguenti, mentre in dottrina detti diritti cominciarono ad essere concepiti come anteriori allo Stato in quanto legati alla persona, vennero riconosciuti e tutelati anche in solenni strumenti internazionali7.
Primo venne, nel 1945, lo Statuto delle Nazioni Unite (ONU), o Carta di San Francisco, che come primo scopo si dette, appunto, quello di «riaffermare la fede nei fondamentali diritti dell’uomo, nella dignità e valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini» (p. 29). Seguì, nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nella quale, «considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo [...] , e che, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione, è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da norme giuridiche», l’Assemblea Generale dell’ONU proclamava, tra l’altro (p. 363):
«1. Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti [...].
«2. Ad ogni individuo spettano tutti [questi] diritti [...] senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
«3. Tutti sono uguali dinanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una uguale tutela da parte della legge».
Ma, di fatto, con questa Dichiarazione l’ONU non attuava autentiche norme giuridiche nell’ordinamento internazionale; soltanto ne auspicava e ne poneva le premesse. Un gran passo in avanti lo fece nel 1966 con un vero e proprio Patto internazionale sui diritti civili e politici8. In esso, infatti, considerato ancora una volta (p. 368) che detti «diritti derivano dalla dignità inerente alla persona umana» e che «l’ideale dell’essere umano libero [...] può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali permettano ad ognuno di godere dei propri diritti», si conviene, tra l’altro, che (p. 268):
«Ciascuno degli Stati parti del Patto s’impegna a rispettare e a garantire a tutti gli individui che si trovino nel proprio territorio [...] i diritti in questo riconosciuti [...] e a compiere, in armonia con le proprie procedure costituzionali [...] i passi necessari per le misure legislative o d’altro genere che possano occorrere per rendere effettivi i diritti riconosciuti»; restando inteso che nessuna disposizione del presente Patto può essere interpretata nel senso d’implicare un diritto [...] d’intraprendere attività o di compiere atti miranti a sopprimere uno dei diritti o delle libertà riconosciute nel Patto stesso».
Ma, a distanza di dodici anni, questo Patto è ancora giuridicamente inoperante, dato che alle almeno trentacinque ratifiche occorrenti per farlo entrare in vigore (art. 49: p. 399) a tutt’oggi ne mancano ancora diciotto.
Miglior sorte, invece, ha avuto nel frattempo la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, del 4 novembre 1950. Sedici Stati su diciassette del Consiglio d’Europa9 vi hanno trasformato in obbligazioni giuridicamente operanti diciotto dei Principi sui diritti fondamentali, civili e politici, dell’uomo proclamati dall’ONU, affiancando alla Convenzione una Commissione ed una Corte Europea (art. 19: p. 467) abilitate ad accogliere e a risolvere denunce, anche da parte di privati, di eventuali violazioni delle stesse (art. 24 ss.: p. 468). Orbene:
«Per riconoscere ad ogni individuo soggetto alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti dalla Convenzione le Alte Parti Contraenti» partono dalla considerazione che uno dei mezzi per conseguire il fine del Consiglio d’Europa «è lo sviluppo dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali [...] che costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo, e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall’altra, su una concezione e un comune rispetto dei diritti dell’uomo a cui essi si appellano» (p. 461); e riconfermano, tra l’altro (art. 14: p. 466), che «il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere garantito senza distinzione alcuna per ragioni di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica e di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione».
Nel chiudere questa panoramica sulla progressiva trisecolare affermazione e tutela liberale dei diritti e libertà fondamentali dell’uomo sorvoliamo sulle riserve che come credenti e, pensiamo, anche in sana filosofia, potremmo muovere sia sulle idee-guida che le hanno ispirate, sia sulle contraddizioni che non vi mancano, sia su alcune legittimazioni che non condividiamo; anche perché, stando ai risultati ai quali l’evoluzione è approdata, non possiamo non ritenerla sostanzialmente conforme alla visione cristiana dell’uomo e della società10. Giova, invece, chiuderla col consuntivo altamente positivo di un eminente giurista cattolico, il quale, del resto, ci immette nell’altra, inumana, faccia della Luna che ci resta da esplorare. Scriveva, dunque, l’allora giudice costituzionale Giuseppe Capograssi a proposito della Dichiarazione dell’ONU del 194811:
«Con questo atto è stata operata una scelta tra due vie, due concezioni, due direzioni, due sistemi di finalità pratiche: due concezioni diverse dell’ordine politico e giuridico che la storia contemporanea ha messo innanzi alla scelta delle forze sociali e degli Stati.
«C’è una concezione, la quale mette capo a valori collettivi e impersonali, come società, nazione, sangue, razza, classe, Stato e simili: questi valori sono considerati come supremi e quindi posti come il fine verso il quale deve essere diretta ogni politica dello Stato e ogni attività sociale. Conseguenza è che l’individuo, l’individualità umana, le libere formazioni sociali, sono posti e trattati come mezzi, perché in sostanza non hanno valore in sé e per sé, ma traggono valore da ciò che è stato posto come valore supremo, e non hanno altra funzione che di servire di mezzo a quel fine. L’altra concezione è più nota, perché più antica, e coincide con le spontanee certezze della coscienza comune. Valore supremo è la persona umana: e quindi fine inviolabile, non riducibile per nessun modo a mezzo; e tutto il resto, realtà naturali e collettive, politiche e sociali, società e Stato sono mezzi e valori strumentali per questo fine.
«[...] Le Nazioni Unite come organizzazione, e ogni loro membro come singolo, hanno eliminato il dubbio e fatta la scelta. Tra l’una e l’altra concezione hanno scelto la concezione che coincide con le certezze della coscienza umana e comune. Qui è l’immensa portata della Dichiarazione. [...] La concezione sulla quale si fondavano le pratiche che la Dichiarazione qualifica ora come negazioni e violazioni del diritto [...] ha dato vita, non solo a dottrine politiche, ma soprattutto a legislazioni positive, a istituzioni giuridiche, a consolidate prassi di Stati. Viene ora la Dichiarazione e proclama che sono fuori della verità, fuori del diritto, fuori della legittimità, queste legislazioni, queste istituzioni e queste prassi».
Diritti non «dell’uomo», ma «dei proletari-lavoratori»
È noto quale posto principe occupi nel pensiero scientifico comunista il Manifesto del 1848. Orbene, già in esso ogni diritto personale dell’uomo e del cittadino viene ignorato e negato. E non perché – come poi, non del tutto a torto, si obietterà – le pompose dichiarazioni borghesi tutelerebbero, sì, quei diritti nella teoria, ma nella prassi li lascerebbero svuotare e strangolare dal prepotere capitalista; ma semplicemente perché, in una serie di asserzioni dogmatiche, l’uomo e il cittadino scompare nel nudo proletario-lavoratore, semplice strumento della collettività socialista: unico soggetto e detentore di diritti.
Il Manifesto12, infatti, rifiuta «ogni principio metafisico escogitato o scoperto da altri [non comunisti] rinnovatori del mondo» (p. 184). Secondo esso «le accuse contro il comunismo, che muovono da considerazioni religiose, filosofiche o altrimenti ideologiche, non meritano alcun esame», perché «le idee dominanti di un dato tempo non sono altro che le idee della classe dominante», mentre «la rivoluzione comunista rompe nel modo più radicale con le idee tradizionali», dato che, «mutandosi le condizioni di vita [...] si mutano anche le vedute, le nozioni e le concezioni, il che vuol dire che si muta la coscienza degli uomini». (p. 189).
Chiuso in questa irrazionale botte di ferro e dogmi, restano: primo, che tutta la storia dell’umanità si riduce a contrasti di classi, di sfruttati contro sfruttatori e, oggi, di proletari contro capitalisti; secondo, che interessi dei proletari e interessi dei comunisti sono un tutt’uno e che, anzi, «i comunisti [...] si avvantaggiano sulla rimanente massa del proletariato per via dell’intendimento netto che essi hanno, così delle condizioni e dell’andamento, come dei risultati generali del movimento proletario» (p. 184), il Manifesto proclama tondo e netto che:
«L’intento prossimo del comunismo è [...]: la formazione del proletariato in classe, la rovina della signoria borghese, la conquista del potere politico da parte del proletariato» (p. 184): «intenti che non possono essere raggiunti se non per via di una violenta sovversione del tradizionale ordinamento sociale» (p. 200).
E se la borghesia obietta che questa sovversione è anche l’abolizione della personalità e della libertà, i comunisti del Manifesto ribattono: «Appunto! Perché si tratta proprio di abolire la personalità, la indipendenza e la libertà borghese [...]: questa persona dev’essere senza dubbio soppressa» (p. 186). «Astenetevi dal discutere con noi, giacché voi applicate [...] i vostri criteri borghesi della libertà, della cultura, del diritto e così via. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei vostri rapporti borghesi» (p. 187).
S’illuse il Governo Provvisorio rivoluzionario russo del marzo 1917 di poter temperare questo programma di Marx in una specie di Déclaration dell’89 francese, parlando di «diritti pubblici riconosciuti a tutti i cittadini» (p. 201). Il miraggio svanì con l’insurrezione bolscevica dell’ottobre. La Costituzione del 10 luglio 1918, Magna Charta del comunismo russo, sulla quale si modellarono tutte quelle delle Repubbliche componenti l’URSS13, non tratterà di «cittadini», ma soltanto di «deputati, operai, soldati e contadini» (art. 1: p. 204), di «unione di tutto il proletariato», di «popolazione operaia del Paese»: alla quale appartiene tutto il potere (art. 10), e scopo della quale è «schiacciare la borghesia» (art. 9: p. 206). La Costituzione successiva, dell’11 maggio 1925, la ricalcherà, proponendosi anch’essa di «garantire la dittatura del proletariato allo scopo di schiacciare la borghesia» (art. 3), ed iniziando tutti i suoi articoli sui diritti costituzionali con un monotono: «Allo scopo di assicurare ai lavoratori la piena libertà...» (p. 207). E la ricalcherà anche quella, meno rozza, del 5 dicembre 1936, qualificando l’URSS «uno Stato socialista degli operai e dei contadini» (art. 1: p. 212). Vero è che, poi, parla di cittadini, ed anche della loro uguaglianza giuridica:
«Art. 123 – L’uguaglianza giuridica dei cittadini dell’URSS, indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti i campi della vita economica, statale, culturale e sociale-politica, è una legge irrevocabile. Qualsivoglia limitazione, diretta o indiretta, dei diritti o, al contrario, qualsivoglia concessione di privilegi, indiretti o diretti, ai cittadini [...] sono punite dalla legge (p. 215)»;
ma in realtà – e il caso dei diritti alla libertà di parola, di stampa e di associazione (art. 125) ce ne offrirà un esempio cinico – questi suoi «cittadini tutti uguali» sono esclusivamente «i lavoratori e le loro organizzazioni». Né pare che siano andate molto meglio le cose con la Costituzione più recente, del 1977: la quale continua, sì, a garantire libertà e diritti ai cittadini sovietici, ma ancora a patto che diritti e libertà siano «in conformità con le mete della costruzione del socialismo» (artt. 50 e 51); conformità che viene decisa esclusivamente dal PCUS: «forza dirigente e centro del sistema politico» (art. 6).
Concludendo: è palese l’irriducibile contrasto tra le due concezioni dei diritti dell’uomo. In quella liberale e democratica i diritti fondamentali dell’uomo, come s’è visto, sono concepiti come anteriori allo Stato, che nasce come sintesi delle volontà singole, ed a loro tutela; mentre in quella comunista essi sono messi in essere dallo Stato, esclusivamente in funzione di un interesse collettivo; e non di tutta una comunità, ma di un regime. Sicché le Costituzioni vi nascono, non come espressione della volontà di un popolo, ma di un gruppo che, impadronitosi del potere, lo giustifica a posteriori con un’ideologia di partito, escludendone tutti gli altri gruppi portatori di ideologie diverse. Insomma: più che di Costituzioni si può parlare di prosecuzioni di un programma rivoluzionario e di un insieme di misure per la sua attuazione.
Informazione o indottrinamento?
Quale, in queste due concezioni, il posto del diritto all’informazione? noto che in Occidente esso s’è venuto chiarendo passo passo con l’evolversi, prima lento e locale poi rapido e generale, della cultura e dell’interazione sociale e politica (socializzazione). Infatti nei primi Bill inglesi non ce n’è traccia. Anche il Licensing Act del 1695, abolendo la censura, tutelava, più che altro, la libertà di pensiero e di espressione dei pochi intellettuali che in Inghilterra potevano scrivere, e non un diritto vero e proprio, allora neanche avvertito, del pubblico ad essere informato. E più o meno lo stesso vale per la libertà di stampa affermata dal Virginia’s Bill del 1776, e poi dalle altre Costituzioni degli USA, quale «uno dei capisaldi della libertà, che non può essere limitata se non da governi dispotici». E vale anche delle Déclaration e Constitution francesi dell’89 e del ’91 – poi recepite come s’è visto, in gran parte di quelle degli Stati moderni –, secondo le quali: «La libera circolazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei più preziosi diritti dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e pubblicare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge». (art. 11)14.
Ripetiamo: era in causa, non il diritto del popolo all’informazione nel senso odierno – vale a dire: su ciò che si verifica nel mondo –, ma il diritto, ancora, alla libertà di pensiero e di espressione e, dati i limiti della stampa di allora, più che altro da parte di élite intellettuali e politiche; il tutto, per giunta, nel chiuso di singole nazioni.
Le cose cambiano soltanto con la Dichiarazione e con la Convenzione dell’ONU del 1948 e del 1966, che finalmente, non senza qualche incertezza15, trattano dell’informazione, e con apertura, appunto, universale.
Recita l’art. 19 della Dichiarazione: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione, e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere».
E recita l’art. 2 della Convenzione: «[...] Ogni individuo ha il diritto alla libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo a sua scelta».
E in URSS? Nella sua effimera illusione il Governo Provvisorio del ’17 si era proposto, sì, di ispirare la propria condotta al principio «della libertà di parola e di stampa» (art. 2: p. 201) per tutti i cittadini; ma le Costituzioni del ’18 e del ’36, tutte intente, come s’è visto, a «schiacciare la borghesia», corressero quel proposito eretico.
Infatti stabili quella del 1925: «5. Allo scopo di assicurare ai lavoratori la piena libertà di esprimere le loro opinioni, la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa sopprime la dipendenza della stampa dal capitale, e rimette tra le mani della classe operaia e dei contadini tutti i mezzi tecnici e materiali necessari per la pubblicazione di giornali, opuscoli, libri ed altri prodotti della stampa, e ne assicura la libera diffusione attraverso il Paese». Quindi, a scanso di ogni equivoco, precisò: «14. Ispirandosi agli interessi dei lavoratori la Repubblica [...] priva gli individui e i gruppi particolari dei diritti di cui essi usufruirebbero a danno degli interessi della rivoluzione socialista».
E stabilì quella del 1936: «Art. 125 – In armonia con gli interessi dei lavoratori e allo scopo di consolidare l’organizzazione socialista [non si parla più di rivoluzione!], si garantiscono ai cittadini dell’URSS: a) la libertà di parola; b) la libertà di stampa [...]. Questi diritti dei cittadini vengono resi effettivi mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni le tipografie, le provviste di carta, gli edifici pubblici, le strade, i mezzi di comunicazione e le altre condizioni materiali che sono necessarie per attuarli»16.
Figurarsi se, con questa visione comunista, l’URSS poteva accettare, in argomento, la Dichiarazione e la Convenzione dell’ONU, di cui pur era uno dei quattro «Grandi»! In quella sede, il diritto convenzionale alla libertà di pensiero e di stampa s’integrava col nuovo e più ampio diritto alla e della libera informazione, comprendente il diritto di liberamente cercarla, di liberamente comunicarla e di liberamente farla circolare17; inoltre si trattava di riconoscere valido detto diritto, non solo per i «cittadini» nel chiuso dell’URSS, ma anche e soprattutto nei loro rapporti con tutti i cittadini degli Stati membri dell’ONU! Ed ecco l’opposizione irriducibile dell’URSS e di tutti i Paesi comunisti tanto contro la Dichiarazione quanto contro la Convenzione dell’ONU, ovviamente da nessuno di essi sottoscritte18; e poi il loro decennale ostruzionismo (1966-1975) contro ogni progetto di Convenzione che riguardasse la libertà d’informazione, ed in particolare la raccolta e la trasmissione internazionale delle notizie.
Vero è che ad Helsinki otto capi di Stato o di governo comunisti – precisamente: di Bulgaria, Cecosìovacchia, Jugoslavia, Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Romania, Ungheria e URSS-, insieme con ventisette altri capi di Stato o di governo, diciamo cosi, d’altra ideologia19, hanno firmato principi liberali come questi20:
Sui principi e le libertà fondamentali dell’uomo: «Gli Stati partecipanti rispettano i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, di coscienza, religione e credo, per tutti [...]. Essi promuovono ed incoraggiano l’esercizio effettivo di [detti] diritti [...], che derivano tutti dalla dignità inerente alla persona umana [...]. Riconoscono il significato universale dei [detti] diritti [...], il cui rispetto è fattore essenziale della pace, della giustizia e del benessere necessari ad assicurare [...] la cooperazione fra loro, come fra tutti gli Stati [...]. Confermano il diritto dell’individuo di conoscere i propri diritti [...] in questo campo e di agire in conseguenza. Nel campo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [...] agiscono conformemente [...] alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo».
Ed in particolare circa l’informazione: «Gli Stati partecipanti, consapevoli del bisogno di una sempre più larga conoscenza e comprensione dei vari aspetti della vita negli altri Stati partecipanti [...] , e riconoscendo l’importanza della diffusione dell’informazione proveniente dagli altri Stati partecipanti e di una migliore conoscenza di tale informazione [...], si propongono [...] in particolare: 1) di facilitare la diffusione dell’informazione orale [...]; 2) di facilitare il miglioramento, sul loro territorio, dei giornali e delle pubblicazioni stampate, periodiche e non periodiche, degli altri Stati partecipanti [...] e di migliorare l’accesso del pubblico a [dette] pubblicazioni [...]; 3) di promuovere il miglioramento della informazione filmata e radiotrasmessa [...]; [ed anche] di ampliare le possibilità dei giornalisti degli Stati partecipanti di comunicare personalmente con le loro fonti d’informazione, comprese tra queste le organizzazioni e le istituzioni ufficiali; di accordare ai giornalisti degli Stati partecipanti il diritto di importare [...] l’attrezzatura tecnica (macchine fotografiche e cinematografiche, registratori, mezzi radio e televisivi) necessaria per l’esercizio della loro professione».
Ma, nonostante la genericità di molti di questi enunciati – evidenti compromessi di due anni di contrasti soprattutto da parte comunista -; e, in ogni caso, nonostante il loro valore puramente morale e non giuridico; dati i precedenti si stenta a capire come l’URSS (per mano di Breznev) e satelliti, non solo abbiano potuto sottoscriverli, ma menarne vanto. Il fatto è che essi non furono altro che lo scotto pagato per ottenere dagli occidentali riconoscimenti ben più sostanziosi21; scotto, tutto sommato, di modico prezzo perché, soprattutto per i comunisti, non ogni promessa è debito.
Ma gli è andata male, perché l’Atto finale di Helsinki gli si è ritorto come un boomerang. Nota ancora J. Schwobel:
«È accaduto che proprio in seno ai Paesi dell’Est, i quali vantavano di aver dato agli accordi di Helsinki una pubblicità ben maggiore che in Occidente, alcuni intellettuali hanno colto l’occasione per invocare pubblicamente per se stessi l’applicazione delle clausole riguardanti il rispetto “dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” e la libera circolazione degli uomini e delle idee. Pubblicamente, allo scopo di farsi ascoltare dagli altri Paesi firmatari dell’Atto finale e ottenere da essi, se possibile, aiuto e protezione. Il fatto non mancò di mettere nell’imbarazzo i loro governi. Infatti, i Paesi occidentali hanno approfittato, con palese soddisfazione, di questa insperata opportunità di poterli mettere in difficoltà e di contrastare in modo efficace la loro ideologia di sovversione. All’inizio del 1977 si è, quindi, assistito a un’offensiva generale dei mass media occidentali in difesa dei dissidenti nell’URSS e negli altri Paesi socialisti [...], minacciati di venir messi alla gogna in occasione della prossima Conferenza di Belgrado».
È noto come hanno reagito i sovietici e gli altri Paesi comunisti. Con cinque mesi di ostruzioni e di intimidazioni hanno praticamente insabbiato la Conferenza, opponendo: primo, che scopo principale dell’Atto finale di Helsinki non era quello di assicurare la difesa dei diritti dell’uomo, ma di migliorare le relazioni tra gli Stati partecipanti e che, perciò, chi tentava di mettere sotto accusa i Paesi dell’Est era chiaro che voleva compromettere la distensione; secondo, che in ogni caso, lo stesso Atto finale impegnava ogni Paese partecipante a non immischiarsi negli affari interni degli altri, e che la faccenda dei dissidenti rientrava appunto in questi22.
Diagnostica e profilassi
Come si vede, sull’informazione, e specialmente sulla libera circolazione delle notizie, siamo ad un vero e proprio dialogo, diciamo, tra sordi ideologici. Ne possiamo sintetizzare così il quadro clinico23:
In teoria, per i Paesi liberal-occidentali:
In teoria e nella pratica, per Paesi comunisti:
1. l’informazione oggi è un diritto fondamentale della persona umana;
1. il cittadino comunista ha il diritto fondamentale all’informazione utile, sana e autentica;
2. suo scopo è contribuire allo sviluppo integrale dell’uomo e metterlo in condizioni di poter partecipare responsabilmente al progresso della società;
2. l’informazione utile, sana e autentica è soltanto quella che contribuisce alla crescita del socialismo;
3. solo la libertà dell’informazione garantisce la pace internazionale;
3. solo un’informazione socialmente orientata garantisce la distensione internazionale;
4. lo Stato ha solo il dovere e il diritto di tutelare a tutti i cittadini e i gruppi le condizioni necessarie di un’informazione libera ed oggettiva;
4. solo il partito, portavoce degli interessi del proletariato, ha il diritto e il dovere di preservare i cittadini da ogni informazione nociva;
5. in particolare: dato il prepotere dei mass media nella dinamica delle pubbliche opinioni, lo Stato deve limitarne al minimo gli oligopoli e, soprattutto, i monopoli;
5. dato che non esiste un’informazione neutra, ma che, almeno implicitamente, ogni informazione è portatrice di valori ideologici, tutti i mass media devono essere gestiti dallo Stato proletario;
6. nella pluralità delle opinioni e delle ideologie del mondo d’oggi, la migliore via per avere una visione meno distorta degli eventi e delle situazioni è quella della libera circolazione di tutte le notizie, anche tra gli Stati;
6. dato che la libera circolazione delle informazioni dei Paesi capitalisti creerebbe infiltrazioni sul fronte ideologico dei Paesi comunisti e vi alimenterebbe il dissenso, è naturale e legittimo che lo Stato proletario se ne difenda;
7. dunque, rispetto all’informazione, tutto il mondo dev’essere un «villaggio globale»;
7. dunque: l’informazione deve essere gestita esclusivamente nel rispetto delle leggi di ogni singolo Stato (socialista);
8. in sintesi: la verità dev’essere cercata nell’esercizio della libertà di pensiero e di espressione.
8. in sintesi: la verità dev’essere comunicata soltanto da chi la possiede.
A questo punto sarebbe semplicistico e da ipocriti riversare, noi dei Paesi liberal-democratici, tutta la colpa di questo dialogo tra sordi, e dei danni sociali che ne derivano, esclusivamente sui Paesi comunisti, dell’Est o dell’Ovest che siano. Certo, non possiamo non condannare questa loro dottrina e questa loro prassi sull’informazione come un’offensiva continuata contro l’intelligenza e contro ogni più elementare rispetto dovuto alla persona umana; ma dobbiamo anche riconoscere che facciamo il loro gioco perché ci attacchino, non solo – e si capisce! – sulla nostra teoria, ma anche sulla pratica oltraggiosamente egoistica che troppo spesso ne facciamo, in casa nostra e rispetto agli altri Paesi. Sorvoliamo sul come poi, anch’essi, una volta raggiunto lo sviluppo tecnologico, lo adoperino a loro volta; ma l’accusa ci viene ritorta pure dai Paesi non allineati né con quelli dell’Ovest né con quelli dell’Est. Come nota giustamente V.-Y. Ghabali (p. 156):
«La libera circolazione dell’informazione [...] ha senso, in linea teorica, soltanto fra partners di forza uguale. Applicata incondizionatamente diviene alienante perché legittima la libertà dei potenti di dominare i deboli. Visto il grado di sviluppo della loro cultura e il monopolio di fatto dei loro mass media sul piano internazionale, le grandi potenze – e, in fin dei conti, i blocchi – esercitano su gli altri Paesi un dominio culturale i cui effetti sono più insidiosi e durevoli di una penetrazione economica. Ne consegue che una libera circolazione dell’informazione deve essere equilibrata; altrimenti è meglio che non ci sia, perché se non è equilibrata potrebbe creare, mantenere e rinforzare una corrente a senso unico formata da messaggi etnocentrici. L’interesse di questo argomento sta nel fatto che non vale soltanto per il Terzo Mondo, ma è valido per tutti quei Paesi di piccola o di media importanza che si preoccupano di preservare la propria profonda identità culturale».
E conclude l’Autore: «Come diritto fondamentale dell’uomo, l’informazione corrisponde a un bisogno sociale. Essa deve essere data come un servizio sociale sulla base di alcuni criteri minimi. Ma sarebbe errato che tali criteri riflettessero esclusivamente gli interessi dei detentori dei mass media chiunque essi siano: gruppi privati o Stati».
Raggiungere questo equilibrio è arduo, perché implica, insieme, e la revisione di dottrine irrazionali ed inumane, e il rifiuto di egoismi altrettanto irrazionali ed inumani. Un’ottima via, in argomento, la indica – ci sembra – il Decreto del Vaticano II sui mass media. Affermato che, «per usarli rettamente, è assolutamente necessario che tutti quelli che li adoperano conoscano ed osservino fedelmente, anche in questo settore, le norme dell’ordine morale» (n. 4), esso rileva che oggi «l’informazione è diventata necessaria a causa dello sviluppo della società odierna e delle sempre più strette relazioni d’interdipendenza tra i suoi membri». Questa – prosegue il Decreto – «offre infatti ai singoli uomini quella adeguata e continua conoscenza degli eventi e delle situazioni che li mette in grado di contribuire efficacemente al bene comune, e di promuovere insieme con gli altri un più rapido progresso di tutta la società». Proclama, quindi, che «appartiene, dunque, alla società umana il diritto all’informazione su quanto, secondo le rispettive condizioni, convenga alle persone, singole ed associate» (n. 5); e, richiamato lo Stato al «suo compito di proteggere e difendere, nel suo ambito, quella vera e giusta libertà d’informazione che è indispensabile all’odierna società per il suo progresso» (n. 12), precisa che «il retto esercizio di questo diritto esige che l’informazione, nel suo contenuto, sia sempre vera e, fatte salve la giustizia e la carità, sia anche intera» (n. 5).
Poche parole. Ma c’è tutto per sostituire il persistente dialogo tra sordi, nelle e tra le Nazioni, con un dialogo autenticamente civile.
1 Civ. Catt. 1976 II 324; 1977 II 260.
2 Cfr ivi, 1978 I 488; II 83,
3 Cfr BATTAGLIA, Le carte dei diritti, Firenze 1946. A questa Raccolta rinviano i rimandi del testo fino alla nota 7.
4 Marc-Joseph-Paul-Yves-Gilbert de Motier, marchese di La Fayette (1757-1834), di fatto, l’11 luglio 1787, due anni prima della convocazione degli Stati Generali (1789), propose un primo progetto di Dichiarazione di diritti, in applicazione delle idee di libertà da lui sentite proclamare in America, quando, negli anni 1777-’79 e 1780-’82, aveva combattuto, accanto al generale Washington, con gli insorti contro l’Inghilterra.
5 La stessa strada batterono la Costituzione Francese del 1791, quando ancora si pensava alla continuità della Monarchia (p. 123), ed anche l’altra Dichiarazione dei diritti dell’uomo adottata dalla Convenzione Nazionale del 1793, quando ormai (art. 26) «la sovranità nazionale risiedé essenzialmente nel popolo intero» (p. I 27). E la batterono pure l’Atto Costituzionale dello stesso anno (p. 132), nonché la Costituzione della Repubblica Francese emanata dal Direttorio nel 1795 (pp. 137).
6 Tra le rielaborazioni più notevoli sono da ricordare la Costituzione di Cadice del 1812, quella belga del 1831 e, dopo il primo dopoguerra, quella social-democratica di Weimar del 1919 (p. 227). Per l’Italia è da ricordare lo Statuto di Carlo Alberto, secondo cui: «Tutti i regnicoli [...] sono uguali avanti alla legge» (p. 269); e l’odierna Costituzione (1947), secondo cui: «[...] La sovranità appartiene al popolo [...]. 2. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle forme sociali [...]. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge».
7 In argomento, cfr nella nostra rivista: A. MESSINEO, La dichiarazione internazionale dei diritti dell’uomo (1949 II 380), La persona umana e l’ordinamento internazionale (1949 III 493), I diritti dell’uomo nell’ordinamento internazionale (1949 IV 33), L’attività sociale del Consiglio d’Europa (1960 II 3), In difesa della persona umana (1960 III 249), Dalla Convenzione dei diritti dell’uomo alla Carta Sociale Europea (1961 IV 29), La Carta Sociale Europea (1962 II 417); [B. SORGE], Nel XXV della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1973 IV 417). – Per i testi della maggior parte degli strumenti internazionali in argomento, cfr E. GALLINA, La Chiesa cattolica con le organizzazioni internazionali dei diritti umani, Roma 1968. A questa raccolta rinviano i rimandi nel seguito del testo.
8 In realtà si tratta di tre strumenti distinti, cioè di due Convenzioni (approvate all’unanimità): la prima sui diritti economici, sociali e culturali, la seconda sui diritti civili e politici; con annesso un Protocollo facoltativo (approvato a maggioranza) circa i diritti civili e politici.
9 Cioè: Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Francia, Inghilterra, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Olanda, Repubblica Federale Tedesca, Svezia. Non l’ha ratificata la Svizzera. Com’è noto la Convenzione è entrata in vigore il 3 settembre 1953, ed è divenuta norma interna dello Stato Italiano con la Legge n. 848, del 3 agosto 1955.
10 Cfr GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, 144-145; Discorso di PAOLO VI all’ONU, 4 ottobre 1965; SINODO DEI VESCOVI 1971, Documento sulla giustizia nel mondo, n. 66.
11 G. CAPOGRASSI, Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Padova, Cedam, 1950.
12 Seguiamo il testo riportato in F. BATTAGLIA, op. cit., 173.
13 Cfr, ad esempio, la Costituzione della Repubblica Sovietica Armena, del febbraio 1922: ivi, 209.
14 Né fa eccezione l’eccellente Costituzione tedesca di Weimar del 1919 (soppressa dal nazismo), che all’art. 118 fissava: «Ogni tedesco ha il diritto, nei limiti delle leggi generali, di esprimere liberamente la sua opinione a mezzo di parole, scritti, stampe, figure o in qualunque altra maniera [...]. Non esiste censura».
15 Nota B. VOYENNE, Il diritto all’informazione, Roma 1971, 91: «La Dichiarazione [...] è l’atto di nascita ufficiale del diritto d’informazione: e non senza esitazioni, sintomatiche del periodo di transizione. Infatti la Dichiarazione comincia col riaffermare la libertà d’informazione [...]. Non si vede molto bene come la prima libertà, tradizionale, implichi la seconda, completamente nuova [...]. Tuttavia, nonostante queste esitazioni [...], il diritto di “cercare, ricevere e diffondere le informazioni” è evidentemente lo stesso diritto di informazione, anche se non è ancora chiamato col suo nome».
16 Affermava Lenin nel 1921: «La libertà di stampa è la libertà per le organizzazioni politiche della borghesia e dei suoi accoliti socialdemocratici e socialisti rivoluzionari. Dar loro un’arma come la libertà di stampa significherebbe facilitare la lotta dell’avversario, aiutare il nemico. Noi non vogliamo suicidarci e perciò non introdurremo la libertà di stampa» (cit. da I. WEISS, Politica dell’informazione, Milano 1961, 91).
Pedissequa di questa «libertà» comunista fu la «libertà» fascista. Declamava Mussolini il 10 ottobre 1928: «La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana [...]. Il giornalismo italiano è libero, perché serve soltanto una causa e un regime; è libero perché, nell’ambito delle leggi del regime, può esercitare ed esercita funzioni di controllo, di critica e di propulsione» (in I. WEISS, op. cit., 26). E in pieno regime così delirava il Corriere della sera: «In un regime totalitario, come deve essere necessariamente un regime sorto da una rivoluzione trionfale, la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime. Ecco perché la stampa italiana è fascista, e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio. Ciò che è nocivo si evita, ciò che è utile al regime si fa. Le vecchie accuse sulla soffocazione della stampa da parte della tirannia fascista non hanno più credito alcuno. La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana» (M. DARDANO, Il linguaggio dei giornali italiani, Bari 1973, 275).
17 J. FOLLIET (L’information moderne et le droit à l’information, Lyon 1969, 160) sintetizza così le condizioni di un realistico diritto alla e dell’informazione: «Il principio del diritto all’informazione comporta conseguenze, insieme, morali e giuridiche, che si attuano in libertà sanzionate dal diritto pubblico e dal diritto internazionale. E sono: la libertà di cercare le informazioni: che è quanto dire che nessun paese o gruppo può limitarne la ricerca; la libertà nella circolazione delle informazioni: cioè il loro libero scambio tra paesi e tra gruppi; e libertà di comunicazione: cioè di libera espressione di parola, di scritto e di stampa. Senza queste tre libertà il diritto all’informazione resterebbe un principio astratto [...]. Se il diritto le affermasse a parole, e nei fatti restassero inapplicate, e magari inapplicabili, sarebbero una pura beffa».
18 Dei 58 Stati membri, allora, dell’ONU, 48 votarono a favore ed 8 si astennero, tra i quali la Bielorussia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, la Polonia, l’Ucraina e l’URSS.
19 Cioè: Austria, Belgio, Canadà, Cipro, Danimarca, Finlandia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Grecia, Inghilterra, Irlanda, Islanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Monaco, Norvegia, Olanda, Portogallo, San Marino, Santa Sede, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia e USA.
20 Cfr Atto finale della Conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa (Helsinki: 3 luglio 1973 – 1° agosto 1975), in Relazioni Internazionali, 1975, 32/33, 800 ss.; ed anche, ma solo per il decalogo generale e le clausole sull’informazione, in Problemi dell’informazione, 1877, n. 1. – Per informazioni sull’argomento cfr Civ. Catt. 1973 IV 527; 1974 II 319; 1975 III 527.
I passi qui riportati si trovano sotto il titolo Questioni relative alla sicurezza in Europa, nel Capitolo A) Dichiarazione sui principi che reggono le relazioni tra gli Stati partecipanti, al Paragrafo che tratta del Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione e credo (p. 801), e al Paragrafo che tratta dell’Informazione (p. 811).
21 Scrive il redattore diplomatico di Le Monde, SCHWOEBEL (Le prospettive della Conferenza di Belgrado, in Problemi dell’informazione, 1977, n. 2, 146): «I lavori [...] diedero agli occidentali la possibilità di esercitare una pressione continua e vigorosa sui Paesi dell’Est, e quindi sull’Unione Sovietica, per ottenere che, in cambio del riconoscimento delle frontiere post-belliche (comprese quelle delle due Germanie) e quindi del loro impegno formale di non minacciarle né di cercare di metterle in causa (quantomeno con la forza) e anche in cambio di una maggiore cooperazione nel campo economico e tecnologico secondo le aspirazioni dei Paesi socialisti dell’Est, questi ultimi consentissero di aprire al massimo le proprie frontiere alla libera circolazione degli uomini e delle idee».
22 Questo bel cavillo serve all’URSS come cavallo di battaglia da almeno trenta anni. Scrive D. VOLCIC (Belgrado, o dei piccoli passi, in nº 0, 1978, n. 1, 36): «Sin dal 1948, quando all’ONU, nel dibattito sui diritti umani, per la prima volta l’allora delegato permanente sovietico disse che il problema era da considerare un affare interno e non poteva essere affrontato se non nel pieno rispetto delle prerogative dei singoli governi, la posizione sovietica non è cambiata: se un dissidente pubblica un volantino per criticare il sistema ciò rappresenta, nell’ottica dell’Est, un peccato contro la Costituzione. Non è un delitto di opinione, come da noi, ma una violazione della legge nazionale, in quanto la sua attività non è “conforme”». A ,rinforzo, cosi sentenziava il giornalista sovietico Kusmiciev: «Le dissertazioni sull’oggettività e completezza dell’informazione sono tutto un trucco liberale. Scopo dell’informazione è educare la grande massa dei lavoratori ed organizzarli sotto la direzione esclusiva del Partito, per compiti precisi. Questo scopo non può essere raggiunto con un’informazione oggettiva degli eventi. Libertà ed oggettività sono fisime. L’informazione è lo strumento per guidare la lotta di classe, e non lo specchio che deve riflettere gli eventi oggettivamente» (E. GABEL, L’enjeu des média, Paris 1971, 199).
23 Seguiamo liberamente l’eccellente analisi: Le diverse concezioni sulla circolazione dell’informazione nell’Europa di Helsinki, svolta da V.-Y. GHEBALI nel Club Europeo dei Giornalisti di Ocrida (Zagabria) il 23/24 aprile 1977, riportata in Problemi dell’informazione, 1977, 2, 151.