Articolo estratto dal volume II del 1960 pubblicato su Google Libri.
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Forse non c’è al mondo una materia tanto opinabile quanto l’estetica cinematografica. Basta, per pensarlo, scorrere i giudizi che i critici vanno scrivendo sui film, ora concordi, eppur derivati da estetiche discordi, ora contrari e nemici, eppur espressi da critici clienti di una medesima estetica. Se ciò disorienta il pubblico non cólto stimola quello cólto a cercare, sul molto che in argomento si viene stampando, un terreno solido su cui fondare i propri giudizi critici. Ricerca non facile, perché, se la critica d’arte suppone, oltre al gusto, spesso anche un’estetica, vale a dire una teoria generale del bello, e questa, a sua volta, suppone un’ontologia, la critica cinematografica suppone in più la conoscenza della natura e della prassi del linguaggio cinematografico ed è fortemente condizionata dalle più svariate situazioni psicologico-culturali. Insomma, concorrono troppe variabili per attendersi convergenza, se non uniformità, di teorie e di giudizi; di qui il probabile disorientamento definitivo, e questa volta su piano di teoria, anche del pubblico cólto, e in alcuni la speranza che finalmente si addivenga ad un colloquio costruttivo tra gli esponenti di estetiche che si rifanno, o almeno non li osteggino, ai sommi principi della philosophia perennis.
Queste considerazioni andavamo volgendo nel leggere alcuni scritti di estetica e di critica cinematografica, che qui presentiamo.
Sulle orme dello Stefanini
L’ultimo scritto di Luigi Stefanini porta il titolo Linee di un’estetica del cinematografo. Letto dal compianto maestro alla Mendola nel luglio del 1955, fu pubblicato postumo nel 1956 nel secondo numero della Rivista di estetica, da lui stesso fondata1. In esso, ribaditi alcuni suoi concetti fondamentali: – arte come parola, che ha valore in sé, distinta dalle parole-segno delle altre attività umane, le quali hanno valore di mediazione; funzione determinante della persona nell’efficienza artistica –, lo Stefanini si riferisce al cinema quasi soltanto per allusioni, ora rilevandone la comunanza degli elementi espressivi con le altre arti, ora opponendo ad alcune categorie estetiche correntemente applicate al cinema, il suo personalismo, riducendo appunto all’individualità della persona la pluralità della collaborazione, l’armonia tra il facere dell’arte e l’agere della moralità, tra la libertà interiore dell’ispirazione poetica ed i condizionamenti esterni della tecnica, la solitaria contemplazione dell’artista e la missione comunitaria dell’arte, tra i valori di bellezza, che qualificano l’opera d’arte, e gli altri valori culturali che possono accompagnarla... Sono pagine che si leggono con gaudio spirituale per il vigore metafisico che le sostanzia e per lo splendore della forma che vi traluce, ma che non vanno più in là di premesse generali ad un’estetica del cinema, bastanti per farci rimpiangere quel di più che lo Stefanini avrebbe potuto scriverne se la morte non ne avesse interrotta la feconda attività.
Dello Stefanini segue fedelmente le idee di fondo Alberto Pesce, autore di tre note di estetica e critica cinematografica, uscite su Humanitas negli anni 1957 e 19592. Egli inizia la prima rilevando, contro l’opportunistica e sbrigativa concessione del Croce, la necessità di rifarsi ad un’estetica generale per ammettere o meno l’artisticità del cinema; distinta, quindi, l’espressione dall’arte, e posta questa come espressione assoluta, adeguamento tra espressione-forma e contenuto, espone i vincoli tra intuizione poetica e tecnica compresente, gli eccessi possibili dei valori formali su quelli di contenuto e viceversa, prima che nella critica, nel fare stesso dell’artista, quindi la necessaria sua presenza tra forma formans e forma formata, implicitante vitali concordanze tra il suo mondo e quello espresso; alla fine risolve due obiezioni classiche in materia, ammettendo la collaborazione, ma unificata nell’artista-persona, e rigettando la tecnica come “macchina”, ma rivalutandola come strumento espressivo: caso particolare dell’attività spirituale-incarnata dell’uomo.
Nella seconda nota egli riferisce sull’unità stilistica del fùm, precisando il concetto di stile ed il posto che in esso detengono il soggetto e la struttura narrativa; quindi, di nuovo demandata all’artista-persona la fusione degli elementi propri del soggetto, sia originale sia derivato, in unità stilistica, egli la distingue in unità narrativa, unità figurativa ed unità di ritmo, il tutto esemplificando con film recenti e significativi, con ciò mostrando la prassi di quella metodologia critica del film, cui è dedicata la nota terza e conclusiva; nella quale, rilevate le relazioni tra il che cosa, il come ed il chi dell’opera d’arte, afferma che «una metodologia di un’estetica personalistica non può procedere che per la linea contemplante-opera-autore, dove il godimento estetico del critico... di fronte all’opera d’arte... per l’unità ritmica del film, è il punto di partenza di un approfondimento, che dallo stile... ci porta all’autore... e alla sua personalità» (p. 665). Per giungere a questo termine occorre nello spettatore la capacità e la volontà dell’emozione estetica, cioè l’atteggiamento “autentico”, che lo difenderà da tutte le suggestioni estraestetiche, le quali potrebbero falsarne il giudizio, tra le altre: la suggestione puramente psicologica delle immagini filmiche, l’equivocità del loro essere e gli interessi collaterali di qualsiasi ordine. Perciò egli insiste sulla necessità di educare il gusto dello spettatore e d’inserirlo in un quadro di cultura generale e specifica, quindi, concludendo, imposta su alcune linee maestre il suo metodo critico.
Additiamo queste pagine del Pesce tra quelle più chiare, accessibili e pratiche che abbiamo letto in argomento. Non tutto in esse ci sembra a punto; per esempio: alcuni termini adoperati nello spiegare i rapporti collaborazione-autore unitario non ci sembrano del tutto felici, e l’interpretazione piuttosto benevola con cui egli espone l’importanza da Blasetti attribuita ai soggetto ci sembra non suffragata dalle dichiarazioni del regista; ma sono particolari largamente compensati da più numerosi punti che ci paiono eccellenti e non comuni, quali la ragionevole riduzione del valore attribuito al “montaggio russo”, la differenza di scopi e di metodo tra critica giornalistica, immediata, e critica distesa, ed il senso di misura con cui egli scrive di “eticità” rispetto all’autenticità del soggetto conoscente. Tutte buone qualità che ci fanno attendere, e quanto prima, un saggio più ampio e metodico di estetica e critica cinematografica3.
Ancora sulle orme dello Stefanini incontriamo l’elegante volumetto La critica del film4, del nostro confratello A. Covi. Uno sguardo all’indice-schema finale ne manifesta la complessa organicità del disegno.
Il cap. primo enuclea il concetto di arte ed i fattori differenzianti le singole arti; il secondo spiega come il cinema s’inserisca tra quelle e quale ne sia lo “specifico”; col cap. terzo il Covi introduce il lettore nella critica dei film distinguendo tra analisi non estetiche ed analisi estetica; descritte, nel quarto, le fasi creative del film: ideazione (sceneggiatura), e realizzazione (ripresa e montaggio), egli si addentra nei tre tempi del metodo critico da lui proposto, vale a dire: esame e critica della composizione (cap. quinto), individuazione e critica del tema (cap. sesto), analisi e critica dello stile (cap. settimo) nei sei mezzi espressivi che egli enumera: ripresa, scenografia, recitazione, sonoro, montaggio e regia; nel cap. ottavo termina col giudizio estetico conclusivo, cui segue un cap. nono sulle responsabilità della critica, ed un decimo ed ultimo, composto di tre esempi di critiche di film.
Per non ripetere quanto ampiamente Renato May ne ha riferito sulla rivista Letture5- che noi sostanzialmente condividiamo – rimandiamo i lettori a quelle pagine, le quali, tra l’altro, ci paiono una felice sintesi ed eco di quanto una volta, questo nostro valoroso teorico e critico, andava scrivendo intorno al cinema, prima che i più recenti interessi televisivi ne lo distogliessero. Tuttavia, a mo’ di complemento, lodiamo, tra l’altro, il suo insistere sulla necessaria unità interna dell’opera d’arte, fondata sull’unità personale dell’artista – dottrina che egli espressamente riconosce come ereditata dallo Stefanini (p. 266) –, alcune sue precisazioni circa i rapporti spazio-tempo cinematografici, la relazione anche da lui avvertita tra il “conflitto” tematico di Eisenstein e del Lawson e la dialettica materialistica delle loro ideologie (p. 82), ed altri particolari di dottrina comunemente accettati. Circa altri punti, invece, ci permettiamo qualche riserva6, come pure circa il metodo generale seguito dall’autore; ci pare infatti, che lo schematismo da lui adottato, se da una parte «possa giovare ai giovani e a quanti cominciano a discutere un film nei nostri cineforum», favorendone una certa automaticità di giudizi, secondo che il film verifichi o meno alcune condizioni fissate una volta per tutte, dall’altra può far dimenticare che l’analisi critica di un’opera d’arte è susseguente e completiva dell’esperienza estetica da essa causata nel contemplante, e che ogni artista ed ogni opera d’arte in tanto sono tali in quanto creanti e creati in un linguaggio-stile unico ed irrepetibile. Infine, ci permettiamo dissentire dal Covi anche nell’impostazione primordiale del suo libretto. Riteniamo che, sia logicamente, sia socialmente, culturalmente e moralmente, il cinema non ponga affatto una problematica prima di tutto d’arte, ma che esso s’inserisca su quella generale del linguaggio, e perciò che l’analisi del cinema come linguaggio debba premettersi a quella del cinema come arte, con la conseguenza di non attribuire a questa i problemi di quello; visti in quest’ordine di cose, altri saranno i problemi anche morali posti dal cinema come strumento della comunicazione sociale, ed altri quelli specifici del film come opera d’arte più o meno valida. Ma a ciò abbiamo già accennato. Non ci resta, pertanto, che rilevare l’utilità pratica di questa guida, soprattutto se interpretata con ragionevole fiducia.
Due scritti molto utili...
Salvo sviste, Elementos de Cinestética, del padre Guido Logger SS.CC., è il primo volume che sia apparso in lingua portoghese su questa materia7. Nella prima parte esso tratta dell’estetica in generale, nelle altre quattro di quella cinematografica, e cioè: del contenuto del racconto filmico (tema, struttura drammatica, situazioni e caratteri), della fotografia (elementi visivi ed elementi sonori), del ritmo (previsto nella sceneggiatura ed attuato nel montaggio), e di quattro questioni varie. Vi abbiamo letto molte cose buone, ed altre discutibili; rileviamo queste prima di passare con maggior piacere alle prime.
Non vediamo quale vantaggio ci sia a tradurre “estetica del cinema” in “cinestetica " (termine che in qualche lingua già designa l’insieme delle sensazioni muscolari, ossia di movimento), anche perché esso, una volta adottato nel senso del Logger, legittimerebbe altri neologismi strani, quali poesiestetica, teatrestetica ecc.; qualche eccesso di schematismo e di precettistica, forse causato dalle esperienze pratiche di critica e di dibattiti da cui presumibilmente l’autore l’ha derivato, portano il volumetto a sconfinare dall’estetica propriamente detta alla poetica; alcune posizioni dottrinali ci sembrano necessitare di qualche ritocco, per esempio là dove le cause strumentali dell’opera d’arte vengono assimilate alla causa materiale piuttosto che a quella efficiente (p. 21), dove non si rileva sufficientemente la differenza tra emozione artistica e commozione prevalentemente “psicologica” (p. 22), o quando sembra che si attribuisca il ritmo cinematografico al montaggio esterno e non anche a quello interno all’inquadratura (p. 105), o quando, ricorrendo al suggestivo paragone dei geroglifici egiziani (del resto già usato da Eisenstein), l’autore rischia di creare confusione tra montaggio concettuale proprio di quelli e montaggio narrativo-espressivo del cinema (p. 115). Personalmente poi preferiamo non seguire il Logger quando, con altri, asserisce che «il linguaggio cinematografico è di sua natura poetico» (p. 136), ritenendo che nell’asserzione si equivochi tra immagini-forma del sentimento, proprie dell’espressione artistica, ed immagini semplice mezzo di espressione-comunicazione indifferenziata; come pure dissentiamo dall’autore quando attribuisce al verbo cinematografico anche i modi congiuntivo ed imperativo (p. 142).
Tra le sue cose migliori ne rileviamo alcune che non è sempre agevole trovare anche in saggisti e teorici molto noti. Intanto ci piace il suo ritorno all’uso scolastico che attribuisce ad arte il significato generico di recta ratio factibilium, includente quelli specifici di arti utili e di arti belle, col vantaggio di connotare sempre nel cinema l’insopprimibile elemento del fare tecnico, comune ad ogni artefice, prima della (soltanto probabile) contemplazione artistica disinteressata, propria dell’artista, con maggior aderenza alla concreta qualità della produzione cinematografica corrente, che è mille miglia lontana dalle eccelse qualità attribuite da certe estetiche all’arte più idealizzata. Molto opportunamente poi il Logger scrive dell’attore cinematografico non come di un interprete, bensì come di un materiale, sia pure consapevole, in mano del regista; sostiene che il linguaggio del cinema è del tutto autonomo rispetto ai linguaggi delle altre arti, rileva i valori dinamici e temporali (ritmici) di tutti i suoi elementi, compresi il colore, la composizione ecc., riduce in termini ragionevoli la portata dell’asincronismo, ribatte sulla differenza tra ritmo cinematografico e ritmo del moto reale fotografato, sostiene la necessaria unicità dell’autore e la non concettualità del linguaggio cinematografico, accenna alla dipendenza del “conflitto” eisensteiniano dal materialismo dialettico di Marx, ed al valore psicologico della parola in se stessa che può concomitare quello logico, finalmente torna di frequente a rilevare i valori di linguaggio della realtà filmica in quanto mediata dal regista e da lui trasfigurata... Di grande utilità è anche la documentazione illustrativa, che accompagna l’operetta, la quale assolve bene al suo compito d’iniziare elementarmente ad un’estetica del cinema8.
* * *
In Italia, tra i cattolici, uno dei più fecondi scrittori di questi argomenti è il prof. Nino Ghelli. Prevalentemente sulla rivista Bianco e Nero egli è venuto esponendo i suoi principi di estetica generale, recentemente ordinati e raccolti nel volume Problematicità dell’arte9, ed anche di estetica e di critica cinematografica10. Tra questi, come più rilevante ai fini della presente rassegna, ricordiamo l’ampio saggio Lineamenti di una metodologia critica applicata al film11. Argomento e scopo ne è il giudizio critico da darsi circa l’opera d’arte compiuta; ma di fatto la maggior parte delle sue considerazioni valgono anche a lumeggiare la dinamica della creazione artistica. Egli vi tocca, infatti, delle condizioni soggettive, più o meno variabili, dello spettatore, dipendenti da valori estrinseci al linguaggio cinematografico, quale, ad esempio, il divismo, e da altri interni ad esso; quindi dei tre livelli di conoscenza precedenti il giudizio critico vero e proprio, vale a dire: quella sensoria, inerente alle immagini filmiche in se stesse, con la loro impressione di “realtà”, ed i fenomeni d’integrazione da parte dello spettatore nel creare soggettive continuità narrative attraverso il montaggio; quella intellettiva, riguardante i vari temi filosofici, religiosi, storici, scientifici, sociologici e culturali in genere, che possono strutturare un’opera non d’arte o concomitare un’opera d’arte, e quella specificamente artistica. Rileva il valore necessario della figurazione concreta nell’opera d’arte ai fini della sua comprensione; quindi, nello spettatore, la necessità di una “autentica” attuale disposizione interiore e di una previa educazione del gusto per formulare il giudizio artistico indipendentemente da condizionamenti “psicologici” e da ogni altro giudizio di valori culturali o morali concomitanti, risalendo, senza ristagni di interessi non autentici, dalle sensazioni al racconto, dal racconto al tema vitalmente coesistente nei valori formali, individuati nelle costanti stilistiche usate dall’artista; infine, occasionalmente, esemplifica circa altri usuali argomenti di estetica, anche comparata. Sono pagine ricche di chiarezza e di rigore concettuale, che forniscono un coerente e sicuro metodo di critica dei film, in quanto lo fondano sulle caratteristiche espressive del linguaggio, sui fattori essenzialmente soggettivi ed immanenti dell’esperienza artistica e sulle motivazioni oggettive fornite dalle “scelte” stilistiche. In esse ci piace rilevare soprattutto questo concetto fecondo di “stile”, nonché la distinzione che il Ghelli formula tra giudizio totale di un film e giudizio strettamente artistico, come parte di quello. Anche qui egli suppone la coincidenza tra valore artistico e valore etico di un’opera, tuttavia senza risalire espressamente alle premesse ontologiche della sua estetica, sulle quali pensiamo che sia lecito liberamente discutere12.
... e due un po’ meno
Henri Agel, insieme con sua moglie Geneviève e con Cl. Mauriac, Bazin ed A. Ayfre, fa parte del benemerito gruppo di cattolici che in Francia detengono nella critica cinematografica un posto molto onorevole13. Perciò abbiamo iniziato la lettura del suo volumetto Esthétique du Cinéma14 nella fiducia di trovarvi una sintesi estetica d’interesse pari all’acume non comune che guida le sue analisi ed i suoi giudizi critici, morali e religiosi; tanto più che, diversamente da quello del Logger, questo, per quanto di divulgazione, si direbbe più impegnato su piano di cultura; ma all’attesa non ha risposto il risultato.
L’impostazione del volumetto ci sembra felice ai fini di un’estetica cinematografica; infatti, ragionevolmente supposta la fantasia come anima di ogni espressione artistica e dato il “realismo” come elemento caratterizzante un linguaggio che è tutto strutturato di dati fenomenici, egli riduce autori, stili e correnti cinematografiche a due classi: l’una tendente verso l’estremo del “sogno” (cap. I: Promotion du rêve), l’altra polarizzata verso l’estremo opposto del “reale” (cap. II: Les équivoques du réalisme); ma poi i capitoli si susseguono secondo criteri, a nostro parere, piuttosto generici. Non si comprende bene con quale trapasso logico, il terzo è dedicato all’espressionismo tedesco, il quarto, quinto, sesto e settimo ai “grandi teorici”: B. Balazs, V. Pudovchin, M. Eisenstein e R. Arnheim, l’ottavo alla cosiddetta scuola italiana, il nono ed il decimo, piuttosto frettolosi, a questioni varie. Solo nell’appendice finale, in armonia col suo titolo, il volumetto viene a trattare esplicitamente di quelques problèmes d’esthétique, e precisamente del montaggio a priori e a posteriori, della direzione dell’attore, dei rapporti tra cinema e teatro, tra musica e film; per tutto il resto l’interesse oscilla tra la metafisica e la psicanalisi, la psicologia, la sociologia e l’etnologia, senza che l’autore, tra una ridda di teorie disparatissime, alcune addirittura visionarie, indichi differenze di livelli e di valori. Gli manca anche la completezza e l’omogeneità dell’informazione, che è abbondante e spesso di prima mano quando si tratta di teorici e registi suoi connazionali – alcuni dei quali d’importanza del tutto secondaria –, ma di seconda mano e sommaria quando si tratta di cose e di nomi stranieri, dipendendo egli frequentissimamente, anche quando non lo cita, dal nostro Aristarco, e ,poi, di volta in volta, da altri, quali J. Mitry (per Eisenstein), L. Eisner e S. Krakauer (per l’espressionismo), ecc., purtroppo senza curare la fedeltà testuale alle fonti utilizzate, spesso così forzandole a veri e propri controsensi15. Un certo utile il volumetto potrà procurarlo al lettore che vi cerchi quel che contiene, vale a dire la documentazione di una tendenza frequente a molti teorici francesi – da Faure, a Epstein, a Morin, ecc. – di sconfinare, scrivendo di cinema, verso l’alogico, il lirico ed il misticheggiante16, il che in parte spiega alcune costanti della critica cinematografica di molti autori d’oltr’Alpe, cattolici e non cattolici, che del film fanno il punto di partenza per considerazioni tanto acute quanto soggettive e quanto espresse con originalità di forma, invece che l’oggetto di analisi attraverso le componenti stilistiche.
Raramente ci è capitato di leggere un libro sorprendente come Il cinema ed il problema estetico, di Giovanni A. Bianca17, tanto le sue idee sull’argomento ci sono sembrate insolite. Sul principio abbiamo temuto che ci sfuggissero i sensi che certamente dovevano celarsi dietro ipotesi tanto elementari, ma presto la forma espositiva, di una esemplare linearità scolastica, ci ha convinto dell’infondatezza dei nostri dubbi; né ci fu lecito supporre nell’autore la nescienza delle teorie più correnti ed accettate e da lui disinvoltamente contraddette, stante la sua lodevole fedeltà nel citare gli autori prima di confutarli. Che, dunque, la sua ipotesi, tanto semplice e risolutiva, sia l’uovo di Colombo nel millenario certame delle teorie artistiche ed in quello ormai mezzo secolare dell’estetica cinematografica? – Dio lo volesse, se fosse lecito rinnegare i dati più pacifici nell’esperienza artistica e le esigenze più elementari di quella che ci sembra la buona filosofia.
Il Bianca si pone i tre quesiti abituali agli autori che si sono chiesti se il cinema sia arte e quale arte, vale a dire: 1) se riproduca la “realtà” fenomenica esterna cosi com’è, o se invece la informi sì da proiettarne sullo schermo una sua interpretazione; 2) quale parte abbia la tecnica nella produzione di un film; 3) se questo sia opera di collaborazione. In ogni quesito, prima discute la questione sotto il profilo dell’arte in genere, quindi sotto quello particolare del cinema, via via citando e discutendo teorie, autori: Baudelaire, Arnheim, Barbaro, Proust, Giovannetti, Cecchi, Brandi, Chiarini, Croce, Balázs, Ragghianti e Lukacs per il 1); Croce, Gentile, Chiarini, Barbaro e Balázs per il 2); Chiarini, Barbaro, Amheim e Pudovchin per il 3). Per quanto interessante, sarebbe troppo lungo seguirlo in tutti i meandri del suo ragionare; ci basti notare, per dar ragione della nostra sorpresa, che sembra che egli concepisca la bellezza come una specie di platonico “bello innato”, presente nelle cose, sì di natura come artificiate, in misura più o meno rilevante; l’artista sarebbe quell’uomo capace di trovarlo, come il cercatore d’oro nelle sabbie aurifere, sceverarlo e fonderlo in un tutt’uno; decisamente avverso alla metafora della “creazione” artistica, egli quindi propone di spiegare tutto nell’opera d’arte col metodo quantitativo: nella pittura, nella poesia, nella scultura e, naturalmente, anche nel cinema. Perché un montaggio è bello? Perché composto di un’inquadratura bella+ un’altra inquadratura bella! E un’inquadratura a sua volta è bella perché allinea un fotogramma bello ad altri fotogrammi belli! La bellezza di un documentario è data dall’insieme delle singole riprese che erano già belle in natura; quella del critofilm dalla bellezza già esistente nell’opera d’arte; quella del film a soggetto dalle bellezze insite parte nelle scene riprese dal vero parte nelle scene prodotte artificialmente. Usando questo metro quantitativo, non solo la collaborazione non fa più difficoltà, bensì giova all’arte: perciò, di collaboratori, più ce n’è e meglio è; l’unità ne soffrirà un po’, ma la quantità certo no! Nessuna difficoltà sorge nel tradurre la bellezza di un quadro in quella di una partitura, o quella di un romanzo in un film, dato che la bellezza si trasporta, si accumula, si traduce, non si crea, più o meno come l’oro, che passa, senza diminuire di pregio, da una medaglia del Cellini alla sua celebre saliera. Veramente il caso limite della musica lo mette in imbarazzo: ma egli, imperterrito, tira dritto, lasciando noi in imbarazzo nell’impresa impossibile di ridurre a valori quantitativi le opere, poniamo, di Clair, di Dreyer, di Chaplin, di Rossellini, di De Sica...
Resistiamo alla tentazione di citare tutti i passi più mirifici del volume, perché non la finiremmo più, anche perché, insieme con quelli che prospettano soluzioni tanto semplici di grossi problemi, dovremmo riportarne altri in cui l’autore mette gli avversari con le spalle al muro sparando loro addosso certi dilemmi, la forza stringente dei quali confessiamo di non afferrare. Preferiamo chiudere il libro – che pur contiene molte cose eccellenti – manifestando la nostra gratitudine all’autore che ce lo offre come una “semplice ipotesi”, intesa ad “aprire una discussione piuttosto che offrire delle soluzioni” (p. 7). Crediamo, infatti, che il suo scopo sia pienamente raggiunto, dato che di materia per discussioni ne affiora ad ogni pagina, se non proprio ad ogni riga. Tuttavia, circa l’utilità di siffatte discussioni nutriamo i nostri dubbi, perché temiamo che per la più parte verterebbero in precisare concetti e in chiarire verità psicologiche e metafisiche circa i quali e le quali la retta filosofia già da secoli ha raggiunto posizioni soddisfacenti ed acquisite per sempre. Mentre, invece, crediamo che l’estetica e la critica cinematografica abbiano tutto da guadagnare ancorandosi su alcune certezze di fondo e tenendosi fedelmente al rigore logico della philosophia perennis, e che perciò ai cattolici, i quali si rifacciano ad essa, spetti in siffatte discipline una presenza difficilmente sostituibile.
1 Rivista di estetica, anno I, maggio-agosto 1956, pp. 3-27. Cfr, nello stesso fascicolo, la diligentissima nota bio-bibliografica circa lo Stefanini redatta da M. CHECCHINI, pp. 231-238. La nostra rivista ha scritto due volte a lungo su di lui; cfr R. LOMBARDI, La filosofia dell’arte (Civ. Catt. 1944, II, 98-106), e G. BORTOLASO, Uno spiritualista cristiano (ivi, 1956, I, 295-304).
2 Introduzioni al Problema estetico del film (Humanitas, 1957, n. 5, pp. 388-398); Considerazioni sull’unità estetica del film (ivi, n. 8, pp. 639-650); Elementi per una metodologia critica del film (ivi, 1959, n. 8, pp. 664-674). Ci ha sorpreso leggere la sua firma anche in fondo a due articoli di Schermi, rivista anticattolica ed antireligiosa, che reputiamo del tutto indegna della collaborazione di cattolici, come reputiamo disdicevoli le firme di atei e di laicisti in riviste che vogliono essere cattoliche, o almeno non avverse al cattolicismo. In tanto dilagante confusione di idee non si avverte davvero il bisogno di ulteriori ibride collusioni. Ma queste, purtroppo, continuano. Mentre andiamo in macchina leggiamo i nomi dei cattolici B. Cavallaro, E. G. Laura e E. S. Uccelli tra quelli dei molti marxisti e laicisti che collaborano alla nuova rivista Film Selezioni, la quale, dal campionario illustrativo e polemico del suo primo numero, tutto promette meno che il rispetto alla morale ed ai valori cristiani.
3 Un augurio dello stesso genere vorremmo formulare a proposito del nostro confratello, il padre NAZARENO TADDEI, il quale, sulla rivista Letture, negli anni 1957 e 1958, pubblicò una serie di articoli, purtroppo restati senza seguito, trattandovi dell’avvio alla lettura del film, poi delle possibilità del cinema ad esprimere «idee», quindi dei fattori tecnici determinanti l’immagine filmica, infine dell’idoneità del cinema a formare attitudini e credenze, e delle condizioni che ne normano l’uso pastorale (Leggere il film, 1957, n. 1, p. 7 ss.; Il cinema può pensare?, ivi, n. 2, p. 125 ss.; La realtà del cinema, ivi, n. 4, p. 289 ss.; I film e dicono, ivi, n. 7, p. 529 ss.; Predicazione nell’epoca dell’immagine, 1958, n. 6, p. 405 ss.). Enucleando le caratteristiche del cinema come linguaggio autonomo, qui forniscono un’impostazione del tutto necessaria, antecedente e complementare, dei problemi di estetica e di critica artistica del film, che non abbiamo trovata altrove. Tuttavia, essi trattano solo per inciso degli aspetti che qui teniamo presenti.
4 A. COVI, La critica estetica del film, Milano, Selecta, 1959, in-16º, pp. 240. L. 750. Del Covi, già regista di documentari cinematografici e televisivi, oltre ai suoi servizi ordinari su Letture, conoscevamo Il cinema come espressione artistica estratto dalla sua tesi di laurea, pubblicato su Bianco e Nero (1940, n. 10, pp. 13-36), ed il volumetto Nasce il film (2ª ediz. Roma, 1956). – A proposito di tesi di laurea sul cinema, secondo Bianco e Nero (1940, n. 10, p. 13) la prima si sarebbe avuta, in Italia, presso l’Università di Padova, nel 1933. Noi, tra le altre presentate poi in Italia, ne ricordiamo una presentata nel 1941 dall’oggi professor Fr. NICOLI all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano sugli Elementi artistici della rappresentazione cinematografica. Volta più che altro a smontare i pregiudizi correnti sul carattere contestato del cinema come espressione autonoma di linguaggio, la tesi innesta sulla teoria generale dell’arte di G. Zamboni – un moderato scolasticismo con caute integrazioni crociane – un’estetica cinematografica nel suo insieme ancor oggi sufficientemente valida (originalità del cinema come linguaggio spazio-temporale, sua creatività espressiva che non si esaurisce nel tema o nel soggetto, ma perdura anche oltre la sceneggiatura, quindi preferenza per la «novella cinematografica» di Eisenstein contro la «sceneggiatura di ferro» di Pudovchin; posto ridotto del «reale» e dell’attore nel cinema, interessi paralleli a quelli estetici nell’opera d’arte ecc.). Dati i tempi ormai... remoti, gli si perdona qualche ingenuità, come l’attribuire al superficiale libro di Margrave intenti d’arte (?!), il pessimismo con cui nega l’esistenza di opere d’arte cinematografiche «piene», ritenendole quasi tutte trasposizione di altre arti, il ritenere che la macchina del cinema sia «materia» del film, strana idea condivisa dal Logger.
5 Ancora dello specifico filmico, in Letture, 1959, n. 4, pp. 290-294; esempio di polemica signorile tenuta su piano di cultura, da utilmente confrontarsi con la villana stroncatura con cui ha gratificato il Covi una rivistucola non tenera verso «la masnada di chierichetti» ed il «pelottone dei critici cattolici». Noi vi siamo stati nominati onoratamente; ce ne dispiace, perché, data la sensibilità morale che dimostra, riteniamo molto più onorifico essere insultati da essa.
6 Per esempio, non affermeremmo che il regista l’unico creatore (pp. 40 e 75), senza la precisione opportunamente dal Covi una volta introdotta (p. 80); eviteremmo la dizione «estetica cristiana» (p. 18), supponendo che possano coesistere varie estetiche di cristiani (o di cattolici) in quanto non discordanti dai principi cristiani (o cattolici); ameremmo vedere precisati meglio i concetti di bello ontologico, bello estetico e bello artistico (cfr il recente V. FAGONE, L’oggetto estetico, Civ. Catt. 1959, IV, 251-266), che noi sostanzialmente condividiamo, tra universale fantastico ed universale sussistente, tra oggetto estetico ed oggetto etico, perciò tra moralità d’ogni agire umano in quanto tale e moralità di tale agire umano, al da evitare sia l’identità attuata arte-morale, che sic et simpliciter riteniamo insostenibile, sia una tal quale confusione tra le responsabilità del critico in quanto uomo, et quidem sociale, e quelle del critico d’arte in quanto tale; onde, a parte l’apparato dottrinale usatovi, la nostra perplessità circa il modo, insieme superfluo (rispetto al titolo del volume), e sommario (rispetto all’importanza e complessità dell’argomento), con cui nel volumetto si tratta del dovere sociale del critico d’arte.
7 PE. GUIDO LOGGER SS.CC., Elementos de Cinestética, Rio de Janeiro 1957, in-16º, pp. 128.
8 A parte gli errori di grafia, con i quali trascrive molti nomi italiani, quali De Sicca, Blasett, Galloni, Ciello sulla palude, ecc.
9 Cfr Civ. Catt. 1960, I, 198.
10 Tra gli altri, di estetica cinematografica: Funzione estetica della scenografia nel film (Bianco e Nero, 1952, n. 4, p. 48 ss.), Funzione estetica del colore nel film (ivi, 1954, n. 2, p. 110 ss.), Il problema dell’autore del film nel quadro della filosofia dell’esistenza (ivi, 1953, n. 3, p. 66 ss.); e di critica cinematografica: Pudovchin: il teorico e l’artista (ivi, 1953, n. 7, p. 62 ss.).
11 Ivi, 1955, n. 8, pp. 1-33.
12 Ci riferiamo al suo articolo: Per una metodologia cattolica, in Rivista del Cinematografo, 1956, nn. 6-7, p. 11 ss., e, più, al suo Problematica dell’arte, cit.
13 Di lui conoscevamo già: Le cinéma a-t-il une âme?, del 1952 ; Le cinéma et le sacré, del 1953; Le prêtre à l’écran, 2ª ediz. del 1953; Le cinéma, del 1955; Vittorio de Sica, del 1956; Miroirs de l’insolit, dans le cinéma français, del 1958. Suo e della sua signora: Précis d’initiation cinématographique, del 1956, da noi recensito in Civ. Catt. 1957, I, 426.
14 HENRI AGEL, Esthétique du Cinéma, Paria, Presses Universitaires de France, 1957, in-16º, pp. 128.
15 Ecco alcuni esempi. G. ARISTARCO (Storia delle teoriche del film, p. 20) scrive: «Due sono per Canudo le arti fondamentali: l’architettura e la musica. La pittura e la scultura sono complemento della prima...», e H. AGEL traduce (p. 8): «Les deux arts fondamentaux sont pour lui l’architecture et la musique: peinture et sculpture sont complémentaires des deux premiers... >; G. ARISTARCO (p. 31) nota: «Il ritmo in se stesso e lo sviluppo di un movimento costituiscono due elementi sensibili e sentimentali, che sono alla base della drammaturgia dello schermo», e H. AGEL, equivocando (p. 13), afferma: «Le rythme est le développement d’un mouvement constitué d’un élément physique et d’un élément affectif»; G. ARISTARCO (p. 64) rileva cinque metodi di montaggio sostenuti da Pudovchin, ed H. AGEL (p. 75) ne ricorda quattro, dimenticando l’analogia; di R. Arnheim, G. ARISTARCO asserisce che «pur allontanandosi da alcuni enunciati fondamentali dei russi, ha, con questi, punti di contatto» (p. 87), ed H. AGEL semplifica: «le conduit aux mimes affirmations que Poudovkine et Balász» (p. 79) ecc. Conservando poi l’abitudine già da lui dimostrata in Le cinéma a-t-il une âme? e in Vittorio De Sica (cit.), ci regala un piatto regale di qui pro quo: Cezare per Cesare (p. 12), Bellanci per Bellonci (p. 101), Raggianti per Ragghianti (p. 101), Pazzolini per Prezzo/ini (p. 102), Lucioni per Luciani (.p. 105); divan per bara (p. 121) ecc.
16 Basti per esempio questa autocitazione dell’AGEL dal volume Le cinéma (cit.):
«L’image, loin d’avoir la matité d’un objet, s’est mis à exister au delà d’ellemême, en se spiritualisant dans une échappée indéfinie de profondeurs. Elle n’a plus été un tout circonscrit clos sur lui-même. Elle est devenue ouverte et perméable aux jeux les plus irisés de l’intuition. Elle s’est muée en signe, mais en signe vivant, harmonieux et mouvant. Elle a dégagé, comme une fleur dégage un parfum difficile à défìnir, une sorte d’odeur mentale ou spirituelle» (p. 112).
17 GIOVANNI A. BIANCA, Il cinema e il problema estetico. Messina-Firenze, G. D’Anna, 1959, in-8º, pp. 234. L. 1200. Le sorprese cominciano con la sconsolata dedica di p. 5, dove l’attributo «ingiusto», se riferito ad un «destino» irrazionale, è un non-senso, e se ad una Provvidenza divina, è assurdo; e terminano nella penultima pagina, dove l’autore avanza la ingenua proposta di una produzione di Stato per formare il gusto estetico delle masse.