Articolo estratto dal volume II del 1988 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Il best seller del 1970 Future Shock, del sociologo e futurologo americano Alvin Toffler, venne prontamente divulgato in Italia come Lo choc del futuro1: titolo che, anche tra noi, è invalso a diagnosticare l’odierna epocale sofferta «crisi di adattamento di milioni di uomini, consapevoli di vivere tra profondi cambiamenti tecnologici, susseguentisi in tempi sempre più accelerati». Invece, il successivo e complementare best seller 1980, dello stesso Toffler, The Third Wave – benché subito divulgato in tutto il mondo, Cina compresa (dove è secondo solo ai Pensieri di Mao) soltanto nel 1987 lo è stato in Italia, come la Terza ondata2. E il titolo già va scalzando i termini meno coloriti di «postindustriale» e di «postmoderna», per designare l’epoca dei processi tecnologici, soprattutto microelettronico-informatici, che in tutta la famiglia umana stanno invadendo quanto ancora vi sopravvive delle due precedenti «ondate». La prima, iniziata un 10.000 anni fa, quando l’uomo, da nomade e dedito alla caccia e alla pesca, con l’uso dei suoi primi utensili, passava dallo stato di «natura» a quello di «prima cultura»: artigiana e sedentaria; e la seconda, avviata invece appena 3 secoli fa, quando – specialmente nei Paesi europei e nordamericani – quella prima cultura veniva traumaticamente aggredita e fagocitata da quella urbanistico-industriale, perdurata sin verso la metà di questo secolo XX.
Come per il primo, anche per questo secondo volume del Toffler non si tratta di uno spuntino, bensì di un pasto per stomachi robusti. Per farsene un’idea basta scorrere, come aperitivo, le 26 pagine di ben 34 dati bibliografici, distribuiti in 26 serie o settori culturali; e poi, come dessert, le altre 30 fittissime pagine di note relative ai 28 capitoli. Tuttavia esso ripaga l’impegno di leggerlo e di studiarlo per due ragioni. La prima sta nell’accurata anamnesi, diagnosi e prognosi che l’Autore – alquanto incline alla monocausalità tecnologica dell’Innis3 – vi tenta dell’odierna epoca economico-culturale, e di crisi postindustrale; l’altra sta nel modesto luogo e compito che secondo l’Autore – piuttosto alieno dalla monocausalità comunicazionale di McLuhan4 – nell’incombente crisi epocale occuperebbero e assolverebbero in particolare le comunicazioni massmediali, ormai avviate a integrarsi tutte nell’elettronica informatica.
Cercheremo, quindi, d’inquadrarne la visuale e la problematica psico- e socioculturale in quelle complementari di altri tre autori: l’Havelock5, l’Ong6 e l’Eisenstein7. I quali, più attenti, appunto, a queste innovazioni comunicazionali che non a quelle generalmente tecnologiche, trattano di due diversi antecedenti passaggi epocali umani: quello, cioè, dall’oralità alla scrittura e quello dai manoscritti alla stampa di Gutenberg. Così fornendo, se non proprio avalli alle previsioni, più o meno apocalittiche o palingenetiche, che oggi pullulano a ridosso della Terza ondata del Toffler, almeno elementi e ragioni per prevenire, o ridurre, in noi il suo choc del futuro.
Dall’oralità alla scrittura
Di Erich Alfred Havelock – nato a Londra nel 1903, professore di letteratura greca e latina, prima alla Yale University (New Haven, Conn.) e poi all’Harvard University (Cambridge, Mass.) – 25 anni fa l’Harvard University Press pubblicava lo studio oggi ancora insuperato, Preface lo Plato, divulgato in Italia soltanto tre anni fa sotto il titolo più dichiarativo del suo contenuto: Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone. In una rigorosa esegesi-confronto dei testi omerici, esiodei e socratico-platonici, corredata da un centinaio di pagine, fitte di note, di bibliografie e di indici, l’Autore infatti vi s’impegna – come precisa nella presentazione Bruno Gentili – a definire «i caratteri, gli aspetti e la funzione culturale della poesia greca da Omero all’età di Platone» (p. IX). Vale a dire: dai secoli IX-VIII a.C., quando i primi elementi della scrittura sillabica passavano dai fenici ai greci, sino ai secoli V-IV a.C., quando «tutta la classe colta della Grecia si era trasformata in una comunità di alfabetizzati» (p. 39).
Nel lettore umanista riaffiora certo dai ricordi scolastici un Platone paradossale: reazionario e, insieme, incoerente. Il quale, infatti, mentre bandiva dai «guardiani» della sua Repubblica l’oralità della poesia e dei poeti, seguendo, poi, l’analfabeta re Thamous, nel Fedro 8 (e nella, a lui attribuita, VII Lettera) optava per l’atavica memoria orale, «tutta dal di dentro», e rifiutava l’invenzione della scrittura, perché «tutta dal di fuori», offertagli dal dio Theuth quale «farmaco del sapere»9. Ma, intanto, non esitava a ricorrere alla stessa scrittura, per trasmettere a lettori remoti nello spazio e nel tempo il pensiero di Socrate e suo. Ebbene, l’Havelock ci restituisce in due tempi un Platone debitamente riveduto. Prima precisando la natura e la funzione didattico-enciclopedica dell’epico-mimetica poesia omerica, propria della passata cultura greca mitico-orale alla quale il Filosofo si riferiva; quindi rilevando i nuovi contenuti della prosa logico-dialettica propri dell’allora nascente cultura greca grafico-alfabetica; così individuando nell’introduzione della scrittura una, insieme, causa e conseguenza di quel complesso transito socioculturale.
Senz’addentrarci nella doviziosa documentazione storica e filosofico-letteraria di questa revisione dell’Havelock, conviene rilevarvi due dei particolari più rapportabili anche all’epocale passaggio comunicazionale odierno. Il primo riguarda la speciale sensibilità intuitiva con la quale il Socrate platonico, se non l’unico, fu certo tra i pochi sophoi del suo tempo al quale il passaggio dall’oralità alla scrittura (del «mezzo») – per le sue macroimplicazioni psicologiche e culturali-politiche (il «messaggio») – «fece problema». Sensibilità intuitiva che poi, invece, difettò a tutti, si può dire, gli operatori nel successivo transito dal chirografo allo stampato, e che oggi, al contrario, inquieta e turba quanti siano consapevoli del trapasso dall’umana comunicazione massmediale all’informatica elettronica. L’altro riguarda la difficoltà, invece, non superata dal Socrate platonico, di pensare, almeno come possibili, schemi e parametri, situazioni e soluzioni psicologiche e sociopolitiche, dissimili da quelle proprie della cultura orale dalla quale egli proveniva.
Un esempio sta nella sua diffidenza nei confronti della poesia. Ignorata, infatti, quella creativo-personale – «d’arte» in senso odierno – egli la identifica esclusivamente con quella eroico-didascalica omerica del suo tempo. Oggetto, sì, di educazione, in quanto silloge di tutte le conoscenze allora utili: una specie di enciclopedia dell’etica, religione, politica, storia e tecnologia, su cui la macchina politica e sociale del tempo contava per il suo funzionamento; ma, per lui, «patologia dell’ascoltatore», in quanto, sia nei contenuti da essa trasmessi, sia nella sua dinamica della conoscenza e dell’apprendimento, inferiore rispetto a quelli e a quella della retorica filosofica. I poeti si limitano, infatti, alla mimesi delle situazioni, fatti e cose sensorialmente percepibili, per generare negli uditori emozioni di gruppo, «opinioni», contando più che altro sul ritmo emotivo dei versi, del canto e della mimica dell’aedo; i parlatori filosofi, invece, spaziano nella intuizione delle idee e delle essenze atemporali e aspaziali e, per fondare e comunicare certezze, contano soltanto su evidenze concettuali e sul «dialogo socratico» logico-razionale.
L’altro esempio, per dir così, di chiusura previsionale del Socrate platonico sta nel suo assolutizzare e mitizzare ruolo e funzione della mnemonica umana, quasi che qualsiasi accessorio ad essa esterno sia necessariamente a scapito dell’umano «essere interiore» e del più autentico «sapere»; e non anche, invece – come la storia da allora ha provato, e come dell’odierna evoluzione tecnologica è lecito auspicare – prezioso sussidio di cultura autenticamente umana, individuale e sociale. Oggi, infatti, anche leggendo i provvidenziali «scritti» di Platone, ci chiediamo a che punto si troverebbe la nostra cultura e civiltà se l’umanità, per tutti questi 25 secoli rimasta analfabeta, avesse potuto affidare soltanto alla trasmissione mnemonica orale le sue esperienze da... preistoria. Forse i giuristi del Medioevo, che dovevano imparare a memoria tutto il Codice di Giustiniano, si avvantaggiavano su quelli di oggi, che i codici li consultano stampati? E forse i musulmani, che oggi possono leggere il Corano, devono invidiare i loro proavi, costretti a memorizzarlo tutto?
Molto attento anche a quanto indagato e proposto dall’Havelock10, viene, principe tra i cultori del settore11, il gesuita americano Walter Jackson Ong. Nato nel 1911, per molti anni docente di Humanities e poi di Humanities Psychiatry nella St. Louis University (Missouri), nel 1982 pubblicava presso la Methuen di Londra-New York il suo Orality and Litteracy (The Technologizing of the Word), soltanto nel 1986 tradotto in italiano come Oralità e scrittura (Le tecnologie della parola).
Introducendolo, la prof. Rosamaria Loretelli lo qualifica: «Un libro di storia psicoculturale. Da una parte esso tratta del “sensorio” – l’interagire dei nostri sensi nel loro affrontare sinergicamente il mondo – e delle sue trasformazioni storiche in rapporto a quella dei mezzi di comunicazione della conoscenza; dall’altra esso osserva il nesso tra queste trasformazioni e i sistemi concettuali, le forme del discorso, i valori delle diverse epoche e culture» (p. 8). E lo valuta «importante opera di sintesi, che magistralmente delinea la storia delle varie tappe del cammino percorso dalla civiltà occidentale nel suo trascorrere dall’oralità alla completa interiorizzazione della scrittura. L’Ong vi raccoglie e sintetizza le attuali conoscenze nel campo, la cui morfologia egli stesso ha contribuito a foggiare in questi quarant’anni di ricerca. L’estrema lucidità, il modo disteso e analitico con cui illustra un pensiero complesso e tutt’altro che scontato, che si muove interdisciplinarmente tra psicologia cognitiva, linguistica storica e discipline umanistiche ne rendono agevole la lettura [...]. Per comprenderlo non occorrono conoscenze specialistiche che il libro stesso non fornisca in qualche sua parte» (p. 11)12.
Dal canto suo lo stesso Ong chiarisce: «Argomento di questo libro è la differenza tra oralità e scrittura; o meglio – poiché i lettori di questo, come di ogni altro libro, conoscono la cultura scritta dal suo interno – si parlerà innanzitutto del pensiero e della sua verbalizzazione in una cultura orale, e solo successivamente del pensiero e dell’espressione scritta in rapporto all’oralità» (p. 19). Precisato, quindi, che conviene «accostarsi all’oralità e alla scrittura, sia in modo sincronico, mettendo cioè a confronto le culture orali e quelle chirografiche (basate sulla scrittura) coesistenti in un certo periodo di tempo, sia in modo diacronico o storico, vale a dire nel confronto tra periodi successivi»: modo nel quale «il passato e il presente, Omero e la televisione, possono illuminarsi vicendevolmente» (p. 20); opportunamente conchiude: «Solo ora, nell’era elettronica, ci rendiamo conto delle differenze esistenti tra oralità e scrittura; sono state, infatti, le diversità fra i mezzi elettronici e la stampa che ci hanno reso consapevoli di quelle precedenti fra scrittura e comunicazione orale. L’era elettronica è anche un’era di “oralità di ritorno”, quella del telefono, della radio, della televisione, la cui esistenza dipende dalla scrittura e dalla stampa. Il passaggio dall’oralità alla scrittura, e da questa all’elaborazione elettronica, comporta un mutamento nelle strutture sociali, economiche, politiche, religiose, ecc.; ma di questo il libro si occupa solo indirettamente, per interessarsi piuttosto alle differenze tra la “mentalità” delle culture orali e quella delle culture alfabetizzate» (p. 21).
Anche soltanto elencare tutti gli originali rilievi analitici dell’Ong sulla «psicodinamica dell’oralità» (cap. III) porterebbe molto oltre i modesti limiti di questa rassegna. Tuttavia conviene rilevarvi almeno alcune caratteristiche del pensiero-espressione orale, più utili «per giungere a una migliore comprensione di quello basato, invece, sulla scrittura, sulla stampa e sull’elettronica» (p. 6).
In una cultura e oralità primaria – nota, per esempio, l’Ong – il pensiero e l’espressione, di base mnemonica, tendono ad essere paratattici, cioè di frasi giustapposte (come nell’inizio del Genesi), invece che ipotattici, cioè di subordinate; formulaico-aggregativi, cioè di sintagmi ripetitivi, piuttosto che analitici; conservatore-tradizionalisti e poco innovativi; enfatici e partecipativi, piuttosto che oggettivi e distaccati; omeostatici, cioè in un autoequilibrio che elimina memorie non più di rilievo per il presente, dato che «la mentalità orale non si interessa alle definizioni, le parole acquisiscono il loro significato solo dal proprio habitat effettivo e costante, che non è rappresentato, come in un dizionario, semplicemente da altre parole, ma include anche i gesti, l’inflessione della voce, l’espressione del viso e l’intero ambiente umano ed esistenziale. I significati delle parole emergono continuamente dal presente, benché quelli passati abbiano influito in modi diversi e non più rintracciabili» (p. 77).
L’Ong chiude la sua indagine storica e filologico-culturale proponendo nove ipotesi specialistiche, per rilevare, tra l’altro, «come alcune attuali scuole filosofiche e d’interpretazione letteraria abbiano che vedere con il passaggio dall’oralità alla scrittura» (p. 219). Sono nell’ordine: origine e sviluppo della storia letteraria, New Criticism inglese e formalismo russo, strutturalismo, testualisti e decostruzionisti, teoria degli atti linguistici e teoria della risposta estetica, scienze sociali, filosofia e studi biblici, oralità, scrittura ed esseri umani, i media e la comunicazione umana e, infine, la svolta interiore: coscienza e testo, che chiude con questo illuminante spunto di teologia della comunicazione:
«Le principali religioni del mondo sono state interiorizzate grazie alla presenza dei testi sacri: Veda, la Bibbia, il Corano. Nell’insegnamento cristiano, la polarizzazione oralità-scrittura è particolarmente marcata, probabilmente più che nelle altre tradizioni religiose, perfino in quella ebraica. Infatti nell’insegnamento cristiano la seconda Persona della Trinità [...] è conosciuta non solo come il Figlio, ma anche come il Verbo di Dio. Secondo questo credo, Dio Padre “parla” o pronuncia il suo Verbo, suo Figlio; Egli non lo “scrive”. La Persona del Figlio è tutt’uno con il Verbo, la parola del Padre. Eppure, al centro dell’insegnamento cristiano c’è anche la parola scritta di Dio, la Bibbia che, dietro ai suoi autori umani [...], ha Dio come vero autore. In che modo i due significati della “parola” di Dio sono legati l’uno l’altro e con gli esseri umani nella storia? La domanda è oggi più che mai oggetto di attenzione» (pp. 245-246).
Ma non mancano, nello studio dell’Ong, alcuni riscontri sull’oralità secondaria, di ritorno, propria della nuova cultura creata dalla «trasformazione elettronica dell’espressione verbale, che ha accresciuto quel coinvolgimento della parola nello spazio, iniziato con la scrittura» (p. 190).
Intanto – egli commenta – «l’elettronica non sta uccidendo il libro stampato, ma anzi ne incrementa la produzione [...]. Tuttavia, «con il telefono, la radio, la televisione e i vari tipi di nastri da registrare, l’elettronica ci ha condotto in un’era di “oralità secondaria” [...] molto simile, ma anche molto diversa da quella primaria». Tra l’altro, «l’oratoria vecchio stile, derivata da quella primaria, se n’è andata per sempre [...]. Oggi solo gli anziani possono ricordare com’era l’oratoria quando manteneva vivo il contatto con le sue radici dell’oralità primaria. Gli altri certamente ascoltano un maggior numero di discorsi pubblici [...], più di quanto la gente di solito non facesse un secolo fa. Ma ciò che essi ascoltano darà loro un’idea ben inadeguata dell’oratoria antica, dei due millenni e più prima dell’avvento dell’elettronica e dello stile di vita orale, delle strutture mentali orali da cui tale oratoria ebbe origine». (pp. 191-193).
Dagli amanuensi al torchio di Gutenberg
Per vari decenni docente di storia, prima all’American University di Washington e poi in quella del Michigan, nel 1979 Elizabeth L. Eisenstein perveniva a fama mondiale tra gli esperti pubblicando, presso la Cambridge University Press (Mass.), il suo poderoso The Printing Press as an Agent of Change (La stampa come fattore di cambiamento): dal 1986 ormai noto anche tra noi come La rivoluzione inavvertita.
Di tutto rispetto vi è il numero delle pagine – quasi 900 –: ampie, dense e prive di spazi di respiro. Né l’impresa di percorrerle si presenta più agevole rilevando che un centinaio di esse non sono propriamente da leggere, ma soltanto da consultare: 23 di esse sviluppano una bibliografia-fiume di ben 1.500 titoli e di 880 autori, e le altre 68 ammassano ben 966 tra note dichiaratorie del testo e rimandi bibliografici. Non per nulla – come informa la Prefazione – l’impresa è frutto di 10 anni di ricerche e di 15 di lavoro, «dedicati in primo luogo alla conoscenza della letteratura specialistica sulla stampa e la storia del libro» (p. 5), e la redazione di una mezza dozzina di articoli e saggi preliminari, pubblicati tra il 1968 e il 197113, «per stimolare reazioni degli studiosi e trarre vantaggio dalle critiche autorevoli, prima di pubblicare il libro». (ivi).
A spiegare da chi e come la «rivoluzione» sia passata «inavvertita» soccorre la tesi dell’Autrice, secondo la quale molti, sì, sono stati gli autori che hanno trattato degli effetti indotti, in cinque secoli, nel mondo e nelle culture postgutenberghiane dalla stampa14; ma l’hanno fatto – essa precisa – o rifacendosi alle masse analfabete e incolte, dal ritrovato di Gutenberg portate all’apprendimento e a personali consapevolezze psicosociali, oppure attenti ai complessi sociali rivoluzionati dalla stampa nelle loro strutture religiose, economiche e politiche.
L’Eisenstein, invece, più che alle masse incolte si fa attenta alle élites culturali e si limita a indagare sull’impatto tra «cultura degli amanuensi», del secolo XV, e «cultura dei primi maestri-stampatori», del secolo XVI, con una breve incursione sul secolo di Galilei, per così «vedere completata la rivoluzione copernicana, e avviata la pubblicazione periodica [i giornali], preludio adeguato al pensiero illuminista» (p. 8)15.
A quest’intento l’Autrice divide la trattazione in tre parti. Incentrando la prima, «Introduzione a una trasformazione elusiva», appunto sul passaggio dalla scrittura a mano alla stampa nell’Europa occidentale, cercando di delineare i caratteri precipui di questa «rivoluzione inavvertita». Nella seconda parte, «Un nuovo rapporto con le tradizioni classiche e cristiane», e nella terza, «Il libro della natura trasformato», affrontando il rapporto tra questa rivoluzione e gli altri tre sviluppi culturali e intellettuali che di solito vengono considerati il momento di transizione dal periodo medievale alla prima età moderna: il Rinascimento, la riforma luterana e la rivoluzione copemico-galileiana. Ricapitola il tutto, in 70 pagine, la perentoria conclusione: «Scrittura e natura trasformate».
Non tutto, per la verità, vi risulta perfetto. Oltre, infatti, a qualche menda – forse di traduzione16, ma anche d’incetta documentazione storica religioso-cattolica17 (nonché sui gesuiti18) –, tutta l’esposizione risente di un’inadeguata riduzione e riorganizzazione del troppo ridondante materiale che l’Autrice è andata accumulando nei suoi 25 anni di ricerche. Commentarlo tutto non è possibile. Bastino, perciò, due rilievi.
Il primo: sull’opportuno ridimensionamento che l’Autrice opera del (già celebratissimo) «Profeta dei mass media»; Marshall McLuhan; l’altro: sul riscontro tra l’odierna globale rivoluzione teleinformatica e quella librario-culturale di quattro secoli fa. Di proposito o di passaggio l’Eisenstein tratta di McLuhan in una dozzina di luoghi19, onestamente riconoscendogli qualche merito. Non foss’altro quello di averla spinta a interessarsi e a trattare della stampa e dei suoi storici esiti psicosociali20; e di «aver reso un servizio preziosissimo rendendoci più consapevoli del fatto che, sia la mente sia la società, furono influenzate dalla stampa» (p. 140), «sottolineando con grande enfasi l’evidente cecità di molti storici rispetto agli effetti prodotti dal mezzo che osservano ogni giorno» (p. 30). Confessa: «Devo ammettere con riluttanza che sembra valida l’ardita formula di McLuhan: non fu un messaggio nuovo, ma un nuovo mezzo di comunicazione, a cambiare nel modo più profondo la natura della vita domestica» (p. 471).
Ma poi vengono le critiche. La prima è contro il determinismo monocausale col quale McLuhan applica il suo slogan-paradosso «Il mezzo è il messaggio»: prima alla sola stampa di Gutenberg, causa, infatti, per lui, di tutte le mutazioni nel mondo e nella cultura europea del Quattro- e Cinquecento; poi ai soli media elettronici: causa, questi, di tutte le mutazioni in divenire nel mondo e nelle culture di oggi. Più oculata, invece, nel suo assunto l’Eisenstein precisa: «L’idea stessa di analizzare gli effetti prodotti da qualche innovazione particolare desta il sospetto che si sia favorevoli a un’interpretazione monocausale, o che si inclini al riduzionismo e al determinismo tecnologico»; ma il mio sottotitolo «La stampa come fattore di mutamento» va inteso come un fattore, non come il fattore [...] di mutamento nell’Europa occidentale» (p. 9).
La seconda critica va contro la linearità della pagina a stampa, che McLuhan adduce quale sola determinante le mutazioni psicosociali dell’uomo gutenberghiano, «altro» dal precedente uomo, non lineare, della cultura orale. L’Eisenstein, pur ammettendo che, sì, «i pensieri dei lettori sono anche guidati dal modo in cui sono disposti e rappresentati i contenuti dei libri» (p. 106), per parte sua individua il fattore delle mutazioni indotte dalla stampa piuttosto nell’uniformità e perduranza dei testi nello spazio e nel tempo, tali da permettere, sia l’accumulo e la conservazione delle conoscenze, sia l’approccio simultaneo alle stesse da parte di molti, sia infine il confronto critico dei vari testi.
Un’altra e più ricorrente critica va contro il modo di (s)ragionare di McLuhan, quando – fuori della propria competenza di critico letterario – posa a storico, sociologo e poeta. In apertura del volume, dissociandosi da lui, l’Eisenstein scrive:
«Il fatto che questo tema sia stato trascurato dagli studiosi coscenziosi l’ha fatto finire in mani incaute. Nonostante che il lavoro di Marshall McLuhan abbia stimolato la mia curiosità storica, per numerosi miei colleghi è stato controproducente, scoraggiando uno studio ulteriore della cultura della stampa o dei suoi effetti. Probabilmente oggi l’interesse per questo tema è considerato con sospetto, definito “mcluhanista” e subito liquidato. Spero che il mio libro contribuisca a superare tale pregiudizio e a mostrare che il tema non è incompatibile con il rispetto per il mestiere di storico» (p. 11).
Nel testo, poi, lo critica come «autore che ha risolto le sue difficoltà col semplice, sia pure inelegante, stratagemma di fare completamente a meno di una sequenza cronologica e del contesto storico [...]. Sviluppi manifestatisi nel corso di cinquecento anni, che interessano regioni diverse e penetrano a più riprese in diversi strati sociali, sono mescolati a caso e trattati come un unico avvenimento, definito, forse in modo appropriato, come un happening». Quindi rileva come «la sua preparazione specialistica, non nell’elettromagnetica, ma in letteratura e filosofia [?!], e il suo attento studio, non di Einstein ma di James Joyce», gli abbiano «fatto eludere il difficile compito di organizzare in modo coerente il suo materiale» (pp. 51-53). Si tratta – continua l’Autrice – di «affermazioni radicali e sensazionali» (p. 207), e di giochi di parole usati come argomenti, ignorando che con questi, come suggeriscono le etimologie medievali, si può dimostrare pressoché tutto», e che «la differenza tra un trattato di ottica e uno sulla cronologia deve essere valutata con maggior attenzione» (p. 221). Insomma, a McLuhan sembra da preferire «il padre Ong [...], meglio disposto verso i metodi del ragionamento storico» (p. 63, nota 97).
Storica e non futurologa, al contrario del «Profeta di Toronto», l’Eisenstein non indugia nel rilevare differenze o paralleli tra quanto, di culturale, di religioso e di politico fu causato, quattro secoli fa in Europa occidentale, dalla stampa, e quanto le comunicazioni computer-informatizzate verosimilmente starebbero per causare nell’odierno «villaggio cosmico». Il che, però, non vieta al lettore un po’ familiare con i vichiani «corsi e ricorsi» di rilevare nelle sue pagine spunti su differenze e, insieme, su analogie tra i due susseguenti periodi storici.
Una differenza, per esempio, sta nello spazio limitato – la sola Europa occidentale mediterranea – interessato dalla prima rivoluzione, rispetto all’estensione, invece, globale – la Terra intera, spazi eterei compresi – propria della seconda. Mentre un’analogia sta tra il condizionamento di tutte le attività culturali, religiose e scientifiche, operate dalla stampa nel mondo postmedievale, e quello, similmente, di tutte senza eccezione le attività e le espressioni dell’odierna (e prossimo futura) esistenza umana – dalle lettere, i linguaggi, le arti, le scienze..., al commercio e l’industria, il diritto e la politica, l’arte militare e le medicina... – compiuto dalla tecnotronica-informatica.
Due di questi paralleli analoghi avrebbero, forse, meritato maggiore attenzione; quelli, cioè, della stampa rispetto alla Riforma, e dei mass media in funzione di odierno totalizzante «quarto potere». L’Autrice, è vero, s’intrattiene a lungo sui rapporti tra stampa e Bibbia, tra stampa e Riforma21. Ma le sfugge l’influsso determinante che le diffuse letture individuali e in volgare della Bibbia e, in genere, dei libri a stampa, dovettero esercitare per sganciare i fedeli cristiani da ogni autoritativo magistero orale, preparando psicologicamente le masse ad accedere al «libero esame», dei riformati. Inoltre, l’Eisenstein s’intrattiene a lungo sul passaggio da tradizionali «autorità costituite» – il principe, il prete, i genitori, il maestro – a quella dei prototipografi e cartolai, resisi più validi nel diffondere idee e dottrine che non gli stessi autori dei libri a stampa; lasciando al lettore di chiedersi se oggi – più che il potere politico, la Chiesa, la famiglia e la scuola – a formare le opinioni pubbliche e a potenziarne la dinamica in tutti i settori della vita associata non siano – «quarto e supremo potere» – i detentori e i manipolatori dei mass media in via d’informatizzazione.
Due culture in rotta di collisione
Se personali specializzazioni storico-filologiche hanno indotto – come si è visto – autori quali l’Ong e l’Eisenstein a individuare nelle diverse tecniche di comunicazione intenzionale il fattore differenziante le diverse epoche psico- e socio-culturali umane, non meraviglia che altre specializzazioni, magari in contesti storici diversi, abbiano indotto altri autori a integrare, se non anche a surrogare, detti fattori con altri. Così, ad esempio, già Francesco Bacone, che – filosofo e giurista – riferendosi al mondo del suo tempo (1561-1623), di poco posteriore a quello esplorato dalla Eisenstein, ne attribuiva, sì, i radicali mutamenti all’invenzione della stampa, ma integrandola nelle invenzioni della polvere da sparo e della bussola. E così, oggi, il Toffler, che ne La terza ondata individua l’odierna globale crisi epocale nell’urto frontale di due «ondate» tecnologiche: l’odierna, trentennale, tecnotronica-informatica, contro la trisecolare, meccanico-energetico-industriale. Nel volume infatti – data come nota a tutti la millenaria «prima ondata», dell’uomo passato dallo stato «di natura» a quello di «prima cultura» – in 9 capitoli descrive i fatti e le caratteristiche, oggi in recessione, della «seconda ondata»; quindi, in altri 14, quelli dell’oggi vincente «terza ondata»; per riservare gli ultimi due a previsioni e proposte operative concernenti l’incombente dilagare di questa.
Nell’impossibilità, anche solo di sintetizzarne l’esuberante e strutturata informazione, basti rilevarne tre particolari. Primo viene quello delle quattro «sfere» – distinte, ma tutte tra loro interferenti – nelle quali l’Autore inquadra, nelle due ondate, le rispettive tecnologie.
Precede, ovviamente, la tecnosfera, con i suoi quattro momenti: produzione; materie prime e fonti energetiche; mercato e consumo; separazione tra pro/duttore e con/sumatore (di massa) con il sorgere dell’autosufficiente, individuo o gruppo, prosumatore.
Viene, poi, l’infosfera, composta dalla differenziata quantità e qualità dell’informazione, in quanto attuata e condizionata dalle due differenti tecnologie di comunicazione: cioè quelle – interpersonale e di massa – della posta, del telegrafo, telefono e mass media, e quella – ubiquitaria e «distribuita» – della computer-informatica.
Segue la sociosfera: dei rapporti, cioè, tra gruppi umani più o meno estesi (dalle «masse» di ieri e di oggi, alla «casa elettronica» di domani), più o meno pluralisticamente complessi (ideologico-politici, etnico-culturali, religiosi, di lavoro) e più o meno giuridicamente istituzionalizzati (sindacati, partiti, nazioni, imprese inter- e multinazionali).
C’è, infine – risonanza e, insieme, condizionante delle tre precedenti – la psicosfera: del mondo interiore della «persona», fatto di diverse appercezioni (del tempo e dello spazio, di «natura», «donna», «progresso»...) e di diverso sapere (oggettivale o logico), di apprendimento, di memoria e di sentimenti (nostalgie, attese) e anche di valori; con riscontri in tutti i comportamenti umani.
L’altro rilevante assunto del Toffler sta nello specificare i sei criteri operativi che – «conseguenze inevitabili della radicale separazione tra produttore e consumatori, e del sempre più esteso ruolo del mercato» (p. 77) – «le persone della Seconda Ondata istintivamente applicano e difendono, mentre quelle delle Terza mettono in discussione e combattono» (p. 60).
1) della standardizzazione, introdotta in ogni aspetto della vita quotidiana, stante la tesi di F. W. Taylor, che «vi è un modo migliore (standard) per svolgere un compito, uno strumento migliore (standard) per eseguirlo, e un tempo prestabilito (standard) per portarlo a termine (pp. 62-63); 2) della conseguente specializzazione, con l’estinzione dei «tuttofare» e degli «enciclopedici», e la proliferazione delle professioni e competenze ripetitive «per mansioni che non richiedono una persona intera, ma soltanto una sua parte» (p. 65); 3) della sincronizzazione. Se, infatti, la misura del tempo una volta «era prevalentemente organica e naturale, fluendo dai ritmi delle stagioni e del battito del cuore; in un sistema di mercato – dove il tempo è danaro, e le macchine, molto costose, non possono stare ferme – ogni prestazione umana va sintonizzata col ritmo di queste» (p. 67); 4) della concentrazione: delle fonti di energie, delle popolazioni e del lavoro (urbanizzazione industriale), dei servizi sociali, delle risorse finanziarie (cartelli, monopoli); 5) della massimizzazione nelle dimensioni delle imprese, come riflesso della massimizzazione dei profitti di scala; 6) infine della centralizzazione del potere, a livello di singole aziende e di interi settori industriali, dell’economia nel suo complesso (banche centrali), della politica degli Stati.
All’allenato lettore la fruttuosa fatica di seguire l’Autore nello sviluppo più copioso del suo volume, dove egli analiticamente descrive e documenta l’inarrestabile variare di questi sei principi della Seconda Ondata in quelli, contrapposti, della Terza. Vi apprezzerà, tra l’altro, l’acribia culturale con la quale egli sfugge a ogni tentazione di semplificare problemi e situazioni complessi e connessi; il buon senso con cui – rifiutato il suo giovanile credo marxista – egli rileva, insieme, pecche, errori e possibilità, tanto nel mondo capitalista quanto in quello socialista. Vi apprezzerà, infine, una visuale sui valori umani, etici e religiosi meno carente che nel suo Choc del futuro; come pure un apprezzabile equilibrio tra prospezioni «apocalittiche» e «integrate», pur non mancando di assommare numerosi elementi e fattori tanto aperti sulle prime quanto propensi sulle seconde. Rifiutando, in ogni caso, ogni carismatico «complesso del messia» (p. 511), in chiusura egli invita tutti noi ad aprire gli occhi sul nostro mondo che cambia, per poter prender parte di persona, con responsabile fiducia, agli esiti che in esso ci riguardano.
«Oggi, in tutti i campi della vita sociale – si tratti della famiglia o della scuola, dell’impresa o della Chiesa, dei nostri sistemi energetici o delle nostre reti di comunicazione – anche noi tutti ci troviamo ingaggiati a creare nuove forme adeguate alla Terza Ondata, mentre in molti paesi milioni di persone ci si trovano implicati. Tuttavia, in nessuna parte le strutture appaiono così pericolosamente decrepite, così deficiente l’immaginazione e la sperimentazione, così ostinata la ripugnanza a cambiamenti radicali [...]. Eppure, «mai nella storia ci sono state tante persone in condizione di avvalersi di un sufficiente livello di educazione, e di un così ampio comune capitale di sapere. Mai tanti uomini hanno goduto di tanto benessere [...]. E soprattutto, mai tante persone si sono trovate in condizione di profittare facendo sì che i necessari cambiamenti, per quanto radicali, si attuino pacificamente [...]. In definitiva dobbiamo cominciare a cambiare noi stessi, imparando a non chiudere la nostra mente a ciò che è nuovo, sorprendente e, si direbbe, rivoluzionario [...]. Se ci mettiamo all’opera senza indugi, potremo, con i nostri figli, partecipare alla magnifica impresa di ricostruzione, non soltanto delle nostre sorpassate strutture politiche, ma della stessa cultura e civiltà [...]. Il nostro destino è, dunque, di crearlo noi stessi»22.
Fa piacere constatare con quanto anticipo nel Vaticano II – con la Gaudium et spes, del 1965 – la Chiesa cattolica, «realmente e intimamente solidale col genere umano e con la sua storia [...], e nel suo dovere permanente di scrutare i segni dei tempi» (nn. 1 e 4), abbia prevenuto molte delle analisi e intuizioni, problemi e prospezioni, del sociologo e futurologo americano. Ma con quali risonanze pratiche – attese anche le deduzioni dell’Havelock, dell’Ong e della Eisenstein – sulle sue attività pastorali? – È una domanda che sollecita bene una risposta.
1 A. TOFFLER, Lo choc del futuro, Rizzoli, Milano 1972, 550; cfr E. BARAGLI, «Lo choc del futuro», in Civ. Catt. 1977 IV 349.
2 lD., La terza ondata. Il tramonto dell’era industriale, la nascita di una nuova civiltà, Sperling & Kupfer, Milano 1987, 623, L. 39.000. Con questo, nel 1984, l’Autore contava 10 milioni di libri venduti in 25 Paesi.
3 Cfr E. BARAGLI, Harold A. Innis, sociologo e massmediologo, in Civ. Catt. 1983 II 463.
4 Cfr E. BARAGLI, Il caso McLuhan - L’uomo, le opere, il pensiero, in Civ. Catt. 1980 IIII 433. Il Toffler lo ricorda una sola volta, di passaggio, alla p. 445.
5 E. A. HAVELOCK, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari 1983, 353, L. 19.000.
6 A. J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986, 148, L. 18.000.
7 L. EISENSTEIN, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, ivi, 1986, 893, L. 50.000.
8 Egli vi racconta come «Il dio Theuth, inventore, tra le altre cose, anche della scrittura, si recò dal re Thamous a Tebe in Egitto per proporgli di far dono delle proprie invenzioni agli egiziani suoi sudditi. Il re gli chiese quali vantaggi le stesse fossero per arrecare. Quindi, mentre il dio esponeva, egli qui lodava, là biasimava. Arrivati alla scrittura, il dio Theuth disse: “Questa invenzione, o re, eccellente rimedio della memoria e del sapere, farà gli egiziani più capaci di apprendere e di ricordare”. Ma il re a lui: “O ingegnosissimo Theuth: sarai capace di inventare, ma non è affar tuo giudicare delle tue invenzioni! Proprio perché ne sei l’inventore, tu t’inganni sulle possibilità della scrittura. Infatti, l’introduzione di essa causerà la perdita della memoria in quelli che impareranno a leggere, in quanto, fidandosi ormai dello scritto, non ricorderanno più di dentro, da se stessi, bensì soltanto da segni estranei, dal di fuori. La tua invenzione, quindi, non porta a sapere, bensì a ritrovare. Del sapere, tu, ai tuoi acquirenti non procuri la realtà, ma l’apparenza. Così avverrà che gli uomini, fatti lettori senza apprendere, si riterranno sapienti quando saranno ignoranti; e, divenuti saccenti invece che saggi, si renderanno insopportabili» (Fedro, 724c-725b, cap. 59).
9 Cfr J. DERRIDA, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985.
10 Citato e lodato, per esempio, nelle pp. 52, 80, 121, 132, 150, 154, 187, 198, 228, 232 2 238.
11 Quali, ad esempio: R. FINNEGAN, Oral Poetry, University Press, Cambridge 1977; J. Goody, Literacy in Traditional Societies e The Domestication of the Savage Mind, University Press, Cambridge 1968 e 1977; A. B. LORD, The Singer of Tales, Harvard University Press, ivi, 1960; A. R. LURIA, Cognitive Development, Harvard University Press, London 1976; M. McLUHAN, The Gutemberg Galaxy, University Press, Toronto 1962; M. PARRY, The Making of Homeric Verse, Clarendon Press, Oxford 1971; B. PEABODY, The Winged Word, State University of New York Press, 1975.
12 Per una sintesi delle ricerche dell’Ong, cfr Oralità e scrittura, cit., 11-12. e anche E. BARAGLI, Il caso McLuhan, La Civiltà Cattolica, Roma 1980, 137 ss.
13 Cfr p. 832.
14 Dai pionieri W. N. Ivins (1926/’53), L. Mumford (1934), A. Taylor (1941), H. J. Chaytor e D. McMurtrie (1943), H. Innis (1950/’52), L. Fabvre e J. Martin (1958)... ai meno annosi S. H. Steinberg (1961), McLuhan (1962), J. Lewis (1970), J. Blumenthal (1973), E. J. Kenney (1974)...
15 L’Autrice precisa: «La mia trattazione riguarda soprattutto gli effetti della stampa sui documenti scritti e sulle idee di élites già colte, e quando parlo di una “rivoluzione inavvertita” alludo al passaggio tra un tipo di cultura, appunto, di élite ad un altro, e non da una cultura orale a una scritta. É necessario sottolineare in modo particolare questo punto perché va contro le attuali tendenze» (p. 6).
16 Si devono forse al traduttore i termini equivoci evangelistici ed evangelisti delle pp. 35, 141, 698, 749 e 795, 802 e 803, probabilmente equivocati con evangelici (=protestanti), oppure biblisti; nonché gli improbabili conclavi ecclesiastici della p. 213, le grandi missioni e l’ufficio di propaganda della p. 401; infine gli ollandisti (invece di bollandisti) della nota 98 alla p. 498.
17 Per esempio a p. 395, dove si parla di un decreto di censura di Leone X, al posto di un corretto costituzione; alla p. 424, dove si parla di preti secolari «ai tempi di Pietro e Paolo»; e alla p. 483, dove si oppone il Mammona del Vangelo di San Matteo (6,24), non a Dio, ma a Cesare.
18 Per esempio dove si tratta d’improbabili rapporti tra il Loyola e la stampa a 401, tra censura gesuitica e rovina della Fiera di Francoforte a p. 411, di Loyola e le streghe a p. 481 e dove si presenta come paranoico il, più che altro, genialoide eruditissimo Jean Hardouin a p. 496.
19 Vale a dire nelle 4 e 5, 9, 11, 30, 51-53, 63, 105, 140, 160, 207, 221, 471 e 495. Purtroppo, però, almeno esplicitamente lo fa riferendosi soltanto al McLuhan di La galassia di Gutenberg, del lontano 1962; una volta sola (p. 160) accennando al precedente – e «tutt’altro»! – McLuhan di La sposa meccanica (1951), e poi ignorando tutti gli altri «tutt’altri» McLuhan seguenti; da quello dei «media hot/cool» di Gli strumenti del comunicare, del 1964, sino al penultimo, e più attendibile McLuhan, degli «emisferi cerebrali» (cfr E. BARAGLI, Dopo McLuhan, ElleDiCi, Leumann [TO] 1981, 36).
20 Come la stessa Autrice precisa nella nota 4 di p. 15, a richiamare la sua attenzione sul Gutenberg Galaxy fu il saggio Between two Galaxies di Fr. Kermode, apparso sulla rivista Encounter nel 1963.
21 Tra l’altro riportando, nella bibliografia, 17 titoli sulla prima, e ben 30 sulla seconda.
22 È una nostra versione delle pp. 539-543 del testo francese.