NOTE
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1 Cfr E. BARAGLI, Nasce la censura ecclesiastica sulla stampa, e L’Imprimatur: una costante preoccupazione pastorale della Chiesa, in Civ. Catt. 1974 III 242 ss.; 1975 II 436 ss.

2 Per la documentazione in argomento, ed anche sulla Dichiarazione seguente, F. BATTAGLIA, Le carte dei diritti, Firenze 1946; E. GALLINA, La Chiesa cattolica con le organizzazioni internazionali per i diritti umani, Roma 1968.

3 Sotto il fascismo, così farneticava il Corriere della Sera: “In un regime totalitario, come deve essere necessariamente un regime sorto dalla rivoluzione trionfante, la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime. Ecco perché la stampa italiana è fascista, e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio. Ciò che è nocivo si evita, ciò che è utile al regime si fa. Le vecchie accuse sulla soffocazione della libertà di stampa, da parte della tirannia fascista, non hanno più credito alcuno. La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime” (cit. in M. DARDANO, Il linguaggio dei giornali italiani, Bari 1973, 275).
Per Kruscev, in URSS: “Compito della stampa è abbattere i nemici della classe operaia, gli avversari del popolo lavoratore. Come l’esercito non può combattere senza armi, così il Partito non può compiere il suo lavoro ideologico senza l’arma efficace e potente che è la stampa [...]. Noi non possiamo dunque lasciare la stampa in mani poco sicure. Essa deve essere affidata a quelli che sono i più fedeli, i più degni di fiducia, quelli che hanno le convinzioni politiche più salde e che sono interamente devoti alla nostra causa” (cit. in A. DEL BOCA, Giornali in crisi, Torino 1968, 265).

4 La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU il 10 dic. 1948, era ferma ancora al semplice diritto: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione [...] e a quella di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza limite di frontiere” (Art. 19); del resto, appunto Dichiarazione e non Convenzione, si limitava ad enunciare principi generali senza imporre obblighi agli Stati firmatari, tra i quali, ovviamente, sono stati assenti tutti i Paesi comunisti. Invece, vera e propria Convenzione, il Patto Internazionale sui diritti civili e politici, applicativo di quella Dichiarazione, approvato dall’ONU il 16 dic. 1966, ribadito il diritto delle libertà di cui sopra, precisava: “L’esercizio delle libertà previste [...] comporta doveri e responsabilità speciali. Esso può essere pertanto sottoposto a talune restrizioni, che però devono essere espressamente stabilite dalla legge, ed essere necessarie: a) al rispetto dei diritti e della reputazione altrui; b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale”.
Non diversamente aveva precisato la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Trattato di Roma: 4 nov. 1950), entrata in vigore il 3 sett. 1953, la quale, all’art. 12, riaffermato che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione” e che “tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”, anch’essa precisava: “L’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali, o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario” (nn. 1 e 2).
Da notare che questa Convenzione è diventata norma interna dello Stato Italiano (Legge n. 848, del 4 ag. 1955), che in materia disponeva solo della norma costituzionale (Art. 21): “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o a censure [...]. Sono vietate le pubblicazioni a stampa [...] contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni“. – In argomento cfr G. VEDOVATO, Europa difficile, Firenze 1974, 61 ss., 97 ss.

5 Per l’Italia: nel giugno 1957 le Federazioni della Stampa e degli Editori concordavano dieci punti di deontologia giornalistica, poi in parte recepiti nella Legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti; cfr in merito LUCATELLO, Giornalismo a misura dell’uomo, Roma 1974 (Civ. Catt. 1975 II 411).
Ad un codice deontologico mondiale dell’informazione, incluso nel programma di lavoro dell’UNESCO 1973-1974, accenna la Lettera della Segreteria di Stato al X Congresso mondiale dell’UCIP-Buenos Aires: 18-22 nov. 1974 (in Oss. Rom., 22 nov. 1974).

6 Per cinema e marxismo, cfr BARAGLI, Disavventure della critica marxista e Marxisti e cinema in Italia, in Civ. Catt. 1957 III 288 ss.; 1962 I 452 ss., 547 ss.
– Per cinema e nazismo: D. S. HULL, Il cinema del Terzo Reich, Roma 1972 (con ampia Bibliografia), e V. HAILAN, Le cinéma allemand selon Goebbels, Parigi 1974. – Per cinema e fascismo: L. FREDDI, Il cinema, Roma 1949; G. TINAZZI (a cura di), Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, Padova 1966.

7 Anche per quanto immediatamente segue, cfr, per l’Italia, E. BARAGLI, L’autodisciplina cinematografica in Italia?, e Verso la nuova legge di revisione cinematografica, in Civ. Catt. 1961 II 157 ss., 378 ss., 598 ss. – Per gli Stati Uniti d’America: Morale e censura nel cinema americano, Il Production Code di autodisciplina cinematografica e La Legion of decency dei cattolici americani: Civ. Catt. 1960 IV 483 ss.; 1961 I 148 ss., 382 ss., 592 ss.; ed anche il volume con ampia bibliografia: E. BARAGLI, Codice di Hays - Legion of decency: due esperienze USA, Roma 1968, 148.

8 Ciò avvenne soprattutto ad opera dell’americano Martin Quigley, il quale, giunto a Roma nel 1944 al seguito delle truppe alleate, con l’aiuto dell’avv. Eitel Monaco compilò un Codice della cinematografia per l’Italia. Questo servì di modello al Freiwilliger Kodex des Deutschen Filmindustries Entwurf, che, affidato nel 1949 dalle forze alleate alla Freiwillige Selbstkontrolle der Filmswirtschaft, operò nelle zone di occupazione inglese, francese ed americana della Germania. A cura poi dello stesso Quigley Jr., nel 1947 il Bharat Jyoti di Bombay pubblicava un articolo sull’argomento; l’anno seguente, i due maggiori centri di produzione del cinema indiano, Bombay e Madras, adottavano a loro volta un codice sul modello americano; nel giugno 1949 lo stesso faceva l’associazione dei produttori del Giappone (cfr M. QUIGLEY Jr., Les codes de production dans les pays étrangers, in Revue Internationale du Cinéma, 1951, n. 7, 19 ss.).

9 Testo integrale in BARAGLI, Codice Hays-Legion of decency, cit., 52 ss.

10 Supplemento alla Raccolta di Concordati su materie ecclesiastiche tra la Santa Sede e le Autorità Civili, Città del Vaticano 1953, 59 ss.

11 Cosl Pio VII a Luigi XVIII, il 29 aprile 1814: “La nostra sorpresa ed il nostro dolore non sono stati minori quando abbiamo letto l’articolo 23° della Costituzione, che mantiene e permette la libertà di stampa, libertà che minaccia alla fede ed ai costumi i più grandi pericoli ed una rovina certa. Se qualcuno poteva avere dei dubbi, l’esperienza di quanto è successo basterebbe da sola per persuaderlo. E un fatto del tutto appurato: questa libertà di stampa è stata il mezzo principale che, prima ha corrotto la morale del popolo, poi ne ha corrotto e minato la fede, infine ha fatto scoppiare le sedizioni, i disordini e le rivolte” (Cit. da E. GABEL, L’enjeu des média, Parigi 1971, 245).

12 In data 2 giugno 1848, Pio IX disponeva che “in avvenire, sino a nuove disposizioni di questa Sede Apostolica, i censori ecclesiastici di questo Stato Pontificio dovranno prendere in considerazione soltanto gli scritti che riguardino le Sacre Scritture, la sacra teologia, la storia ecclesiastica, il diritto canonico, la teologia naturale, l’etica e le altre discipline religiose e morali; ed, in genere, gli argomenti che tocchino direttamente la religione e la morale” (Epistola In Sessione X, in Pii IX m. Acta, 1 [1854]. 99ss.). – Questa riduzione, poi sostanzialmente conservata per tutta la Chiesa nel Codice di diritto canonico (Can. 1385), è perdurata sino al recente Decreto della S. C. per la Dottrina della Fede Sulla vigilanza dei Pastori della Chiesa riguardo ai libri, del 19 marzo 1975 (cfr AAS 67 [1975], 281).

13 Nella cit. Lettera In Sessione X, Pio IX notava che “il numero dei libri e soprattutto dei periodici, va tanto aumentando da rendere quasi impossibile ai censori ecclesiastici esaminarli tutti con la diligenza che si richiede”, e parlava di “fogli ed opuscoli stampati alla macchia”, che arrecavano “ai fedeli maggiore danno e scandalo in quanto detti scritti vengono ritenuti come esaminati e approvati secondo il prescritto delle leggi vigenti”. – Il 18 agosto 1885, l’arcivescovo di Vienna J. Othmar Rauscher scriveva alla Segreteria di Stato: “Fino al 1848 in Austria vigeva una censura preventiva severissima [...], ma di fatto risultava del tutto inefficace a prevenire e a reprimere il male. L’Austria ha troppo grande estensione, e mille sono i modi per eludere la vigilanza della polizia” (Raccolta di concordati..., cit., Roma, 1919, p. 834).

14 Il Can. 1384 del Codice di diritto canonico (1917), riaffermato il principio che “La Chiesa ha il potere di esigere che i fedeli non pubblichino libri che essa, a suo giudizio, non abbia prima approvato, e di proibirne, per giusta causa, di già pubblicati”, precisava che, quanto sotto il titolo Della previa censura “viene prescritto circa i libri, salvo che consti del contrario, si applica anche ai giornali, ai periodici e ad ogni altro stampato”.

15 Cfr Concordato con Massimiliano I Giuseppe, re di Baviera (14 novembre 1817);
Concordato con Ferdinando I, re delle due Sicilie (16 febbraio 1818);
Concordato con Isabella, regina di Spagna (16 marzo 1851);
Concordato con Leopoldo II, granduca di Toscana (25 aprile 1851);
Concordato con la Repubblica di Costarica (7 ottobre 1852);
Concordato con l’imperatore d’Austria (18 agosto 1855).

16 Alludeva soprattutto al governo fascista, il quale esercitava una censura cinematografica moralistica molto meno occhiuta di quella dei Paesi comunisti. Il 21 aprile di quello stesso anno 1936 aveva detto ai congressisti della FIPRESCI (Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica): ”Egli voleva dapprima congratularsi con S.E. Alfieri, il quale nel Congresso aveva precisamente fatto questo rilievo: che in genere si può notare qualche progresso – e specialmente in Italia, ed il Papa ne è particolarmente contento – soprattutto in tema di controllo [...] della produzione cinematografica [...]; e, diceva Sua Santità, il controllo è una delle grandi necessità e il gran mezzo – pur non dovendosi trascurare senza dubbio il cercarne degli altri – uno dei più efficaci per incanalare tutta la grande produzione del cinematografo e tenerla in quelle linee ove deve stare, sotto pena di enorme e grande colpevolezza” (in Oss. Rom., 23 apr. 1936).

17 Cfr Segreteria di Stato, Lettera a mons. Martin J. O’Connor (24 aprile 1953), n. 23; Lettera al sac. Jean Bernard, presidente OCIC (10 giugno 1954) n. 1.

18 Pio XII, Discorso «Sommamente gradita» (20 settembre 1942) n. 21; cfr anche Discorso «Il santo tempo quadragesimale» (23 marzo 1949), n. 17.

 

19 Pio XI, Lettera enciclica «Vigilanti cura» (29 giugno 1936) n. 25-26,44.

20 Nell’ordine: Pio XII, Discorso «Siate i benvenuti» ai concessionari delle librerie nelle stazioni (2 ottobre 1958) n. 5; Paolo VI, Radiomessaggio «Ci è assai gradito» all’olandese Katholieke Radio Omroep (15 novembre 1965), n. 2; Discorso «La vostra venuta» alla Federazione Nazionale Stampa Italiana (23 giugno 1966) n. 5; Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali, Istruzione pastorale «Communio et progressio» (23 maggio 1971), n. 41.
Altri interventi di Paolo VI sulla pubblicità sono nella Lettera apostolica «Octogesima adveniens» (14 maggio 1971) n. 9; e, posteriore all’Istruzione pastorale, il Discorso «À l’occasion de votre Congrès» al Top European Advertising Media (15 maggio 1972).

21 Si hanno presenti specialmente gli ottimi saggi di Fusi: La legislazione sulla pubblicità commerciale, Milano 1957; La comunicazione pubblicitaria nei suoi aspetti giuridici, Milano 1970; Il nuovo Codice di lealtà pubblicitaria, Milano 1971 (cfr Civ. Catt. 1973 I 407); Aspetti particolari del procedimento avanti al giurì del nuovo Codice di lealtà pubblicitaria, in Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 1971, n. 3, 457 ss.; Dobbiamo credere nel nuovo Codice di lealtà pubblicitaria?, in Panorama Pubblicità Marketing, 1972, n. 1, 55 ss.; Evoluzione della norma pubblicitaria, in SIPRA, 1974, n. 6, 63 ss.; Panorama internazionale dell’autodisciplina pubblicitaria, in Rivista di diritto industriale, 1975, n. 1, 62 ss. Inoltre: BORRELLI, Osservazioni sul Codice di lealtà pubblicitaria, in Atti dello VIII Congresso Nazionale della Pubblicità, Milano 1967, 136 ss.; G. COTTINO, Possibilità di un codice della Pubblicità, in AA.VV., Pubblicità e televisione, Roma 1968, 94 ss.; R. FRANCESCHELLI, Il nuovo Codice di lealtà pubblicitaria, in Il diritto delle radiodiffusioni..., cit. 411 ss.; G. LANCELLOTTI, La repressione della concorrenza sleale negli Stati Uniti, Padova 1961; MENICHETTI, Natura giuridica e funzioni del Codice di lealtà, Milano 1969; G. NASCIMBENI, La pubblicità si dà una regola, in Corriere della Sera, 1° apr. 1975; SORDELLI, Problemi giuridici della pubblicità Commerciale, Milano 1968; E. ULMER, La repressione della concorrenza sleale negli Stati membri della C.E.E., in Diritto comparato, Milano 1968; VACCÀ, Indicazioni per una politica di controllo della pubblicità, in Mondo economico, 1963, 12, 15 ss.; A. VANZETTI, La repressione della pubblicità menzognera, in Rivista di diritto civile, 1964, 584 ss., e in Sacra doctrina, 1965, 85 ss.

22 Per esempio, in Italia, a censura preventiva è stata sottoposta la pubblicità dei medicinali e del settore turistico; alla repressione penale la pubblicità ingannevole dei prodotti alimentari, mentre il divieto di pubblicità è stato applicato ai prodotti da fumo e alle pratiche antiprocreative.

23 Il testo è in M. FUSI, Panorama internazionale..., cit., 77, Nota 27. – La proposta era stata avanzata dieci anni prima da E. ULMER, La repressione della concorrenza..., cit. 279.

24 Breve introduzione e testo in Civ. Catt. 1966 III 521 ss. – Per i testi dei Codici del 1971 e dell’attuale (1975) cfr, rispettivamente, Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 1971, n. 3, 545 ss., e SIPRA, 1975, nn. 1-2, 89 ss.

25 Oltre che dalla RAI-TV e dall’OPA (= Utenti Pubblicità Associati), è composta dalle tre Federazioni:

26 SIPRA, 1975, nn. 1-2, 104.

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Articolo estratto dal volume I del 1976 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Che i cosiddetti mass media – stampa, cinema, radio e televisione –, nelle loro funzioni di spettacolo, d’informazione e di propaganda-pubblicità, spesso oltrepassino i limiti del lecito, non si può negare. Che, poi, la collettività possa e debba in qualche modo intervenire per difendersi dai loro eccessi più dannosi è pacifico, o almeno dovrebbe esserlo. Le opinioni, invece, possono divergere, e di fatto divergono, sui modi d’intervento.

Ci si chiede: è da preferire quello legislativo e amministrativo – repressivo o preventivo – delle autorità pubbliche, oppure l’autodisciplina delle rispettive categorie professionali? E, se coesistenti, quale la connessione ideale tra i due modi d’intervento? C’è, forse, qualche esemplare collaudato di autodisciplina che, nel settore dei mass media, abbia prevenuto, o reso superfluo, l’intervento pubblico? La recente entrata in vigore, in Italia, nel nuovo Codice di autodisciplina pubblicitaria (1° marzo 1975) offre, ci pare, una buona occasione per trattare dell’argomento.

Stampa ed autocontrollo

È noto che la stampa di Gutenberg – preannunzio della comunicazione popolare poi attuata dai mass media – sino, si può dire, dai suoi inizi finì sotto il controllo dei poteri assoluti, secolari ed ecclesiastici, del tempo; i quali, a tutela dei valori religioso-morali dei popoli, e poi anche degli interessi politico-economici dei Principi, ne fissarono la secolare legislazione in questi termini: soli autorizzati ad esercitare l’arte gli stampatori muniti di “Privilegio”: regio, della Camera Apostolica, delle Università, della Serenissima...; obbligatorio l’esame previo di ogni scritto (“censura”) per il necessario permesso di stampa (“Imprimatur”); divieto di commerciare libri ed altri stampati fuori legge, e distruzione, normalmente col fuoco, degli stessi; infine, pesanti sanzioni – pecuniarie, spirituali e personali – agli stampatori e librai contravventori1. Ma è anche noto che stampatori e librai, lungi dal pensare ad un autocontrollo, s’affrettarono a tutelare i loro più o meno legittimi interessi – di lucro, ma anche religiosi (stampe dei Riformati nei Paesi cattolici, e viceversa) e politici (Libelli famosi e Lettere d’Avviso: antenati dell’odierna stampa d’informazione)–, stampando alla macchia edizioni anonime o pseudo-estere; il che, se per un secolo e mezzo ridusse di molto la reale efficacia censorio-repressiva dei poteri secolari ed ecclesiastico, non ne diminul affatto la volontà e gli apparati.

Soltanto verso la metà del secolo XVIII, almeno quelli dei poteri secolari cominciarono ad incepparsi, per poi essere smantellati, di fatto e di diritto, quasi dappertutto in Europa e altrove, nei tre secoli seguenti. In Inghilterra, contro un’ennesima ordinanza censoria parlamentare sulla stampa, nel 1644 il poeta ed erudito John Milton propugna nell’Areopagitica l’abolizione di ogni regime di autorizzazione; nella stessa direzione segue, nel 1689, l’Epistola de tolerantia del filosofo John Locke; ancora sei anni e il 18 aprile 1695, con l’abolizione del Licensing Act, “la letteratura inglese – al dire dello storico Thomas Macaulay – viene emancipata per sempre da ogni controllo governativo”. Con circa un secolo di ritardo, Svezia (1766) e Danimarca (1770) seguono l’esempio dell’Inghilterra; e gli Stati Uniti d’America lo superano, includendo per la prima volta la libertà di stampa, in termini di diritti di moderne libertà costituzionali, nel Bill of Rights della Virginia (12 giugno 1776), poi modello alle Costituzioni degli altri Stati: “La libertà di stampa è uno dei capisaldi della libertà, e non può essere limitata, se non da governi dispotici” (Art. 12).

Infine, del 1789 è la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen formulata dalla Costituente francese, e poi recepita nella Costituzione del 3 settembre 1791, quindi anche in gran parte di quelle degli Stati moderni; Dichiarazione che, rispetto ai Bills americani, dai quali chiaramente dipende, mentre universalizzava il diritto di libera stampa, non ne ignorava i possibili abusi: “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei più preziosi diritti dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare scrivere e stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge” (Art. 11)2.

Da notare come la battaglia contro il controllo secolare fu condotta e vinta da élites di filosofi e letterati, e poi anche da rivoluzionari e politici: tutti più che altro gelosi, se non pure fanatici, della (propria) libertà di pensiero e di espressione, negati perciò, anche più degli stampatori e librai, all’idea di autocontrolli. Né le cose sono mutate da quando, in questo ultimo secolo, a quelle élites sono subentrati i professionisti della stampa, e poi anche quelli del cinema e della radio-televisione. Infatti una comprensibile deformazione professionale – di cui, del resto, risentono anche le recenti Dichiarazioni e Convenzioni internazionali in materia –, li ha portati a disconoscere la prevalente funzione sociale dei (tre) mass media, diversa da quella della stampa tradizionale, ed a mostrarsi perciò più solleciti di un generale proprio diritto (che, poi, è piuttosto un dovere) d’informare, che non di quello della società ad essere informata, nella tutela di altri impreteribili diritti personali e collettivi.

Ai nostri giorni, mentre nei Paesi a regimi totalitari – neri o rossi non fa differenza – ogni contesa in merito è stata soffocata, di fatto e di diritto, pareggiando l’informazione alla propaganda ideologica ed avocandola al partito al potere, con la beffa per giunta di farne passare il controllo tirannico come entusiastica autodisciplina3, negli altri Paesi più o meno democratici la vertenza non rallenta. Da una parte, infatti, i poteri pubblici, anche a livello sopranazionale, riconoscendo e sancendo il diritto di libertà di stampa ed, in genere, d’informazione, insistono nell’ipotizzare restrizioni al suo esercizio4; dall’altra i professionisti dell’informazione continuano a diffidare di ogni ipotesi di controllo pubblico ed, insieme, ad ignorare le timide e rare proposte di autocontrollo sino ad oggi avanzate5.

Autocontrollo nel cinema

Anche rispetto al cinema, negli ottant’anni da quando questo esiste, nei Paesi a dittatura ideologica l’alternativa tra intervento pubblico ed autocontrollo professionale – come già per la stampa, e poi per la radio e la televisione – non si è posta. Dichiarato “di tutte le arti la più importante” da Lenin (1921) e “grande strumento di agitazione delle masse” da Stalin (1924 e 1936), “uno dei mezzi più efficaci per costruire un mondo migliore” da Goebbels e “l’arma più forte” da Mussolini: “prenderlo nelle proprie mani” (Stalin) ed “impadronirsene per assicurarsi i suoi vantaggi” (Goebbels) è stata ed è la prima cura dei partiti al potere, i quali di fatto hanno controllato e controllano tutto nel cinema: produzione distribuzione ed esercizio, teoria e critica6.

Altrove, invece, l’alternativa si è posta spesso, condizionata dalla natura del nuovo mezzo, visto, specie nei primi decenni, soltanto quale spettacolo popolaresco e non come veicolo (anche) d’informazione. Infatti – siamo verso il 1910 – alle reazioni scandalizzate di certi pubblici avanti ai suoi primi eccessi reali o presunti, di cui certa stampa si fece eco, i poteri pubblici intervennero estendendo agli spettacoli cinematografici le leggi già vigenti per quelli teatrali: perciò perseguendone penalmente i reati, generalmente di oscenità, e vietando la programmazione dei film incriminati. Si dava però il caso che il cinema non era il teatro: non solo per la sua suggestività sugli spettatori, di cui si preoccupava l’autorità, ma soprattutto per gli interessi ed i rischi economici dei produttori: di qui le loro reazioni.

Per tenere presenti solo due casi tipici: mentre in Italia essi si affrettarono a sollecitare una censura preventiva unica per tutta la Penisola, che li mettesse al riparo dagli innumerevoli ed imprevedibili interventi, penali e amministrativi, economicamente disastrosi, delle istanze locali; negli USA per circa un decennio il mondo del cinema non si preoccupò troppo dei rari interventi giudiziari, e neanche degli otto uffici censòri statali e dei settantasette municipali; ma si allarmò quando – siamo negli anni 1920-’21 –, sotto la pressione dell’opinione pubblica, indignata per l’immoralità dei film ed anche delle vicende scandalose di alcuni divi, vide profilarsi la minaccia di una censura preventiva federale, che avrebbe esteso il controllo, dagli otto Stati, a tutti gli altri quaranta della Confederazione7. Prima, dunque, che fosse troppo tardi, alla fine del 1921 i maggiori produttori e distributori del trust M.P.P.D.A. (Motion Picture Producers and Distributors of America) corsero ai ripari imponendosi un autocontrollo, che – dal nome di William Harrison Hays, per più di trent’anni loro presidente – s’identificò prima (1924) con l’Ufficio Hays e poi (1930) col famoso e – per molti, anche cattolici – famigerato Codice Hays. Ma i risultati, com’è noto, furono piuttosto deludenti, tanto negli USA quanto in altri Paesi, Italia inclusa, dove se ne tentò il trapianto8: e per ovvie ragioni.

La prima fu che, non aperti alla cultura, e tanto meno interessati ai valori civili e morali della collettività, ma affaristi e mercanti, gli operatori del cinema – che si erano piegati all’autocontrollo solo come a male minore, extrema ratio – cercarono sempre di sottrarvisi dove e quando gli interventi pubblici divenissero meno probabili o meno rischiosi, e di fatto non ne tennero conto alcuno in momenti di gravi crisi di mercato; per esempio, in quella degli USA negli anni 1930-’33, quando soltanto l’efficace boicottaggio posto in atto dalla Legion of decency contro la valanga dei film ignobili li riportò a rispettare, e solo per pochi anni, il Codice che avevano firmato. L’altra causa di insuccesso fu la partigianeria delle grandi case di produzione e di distribuzione della M.P.P.D.A., le sole che se l’erano imposto; infatti, i membri delle commissioni di appello incaricati di farlo osservare, scelti tra gli stessi interessati, mentre si sostenevano a vicenda nel far passare i propri film, infierivano contro quelli delle case indipendenti, colpevoli – a loro giudizio, non del tutto immotivato – di concorrenza sleale. La terza causa, almeno in parte, fu il carattere stesso del Codice adottato per l’autocontrollo.

In teoria, per compilarlo erano possibili due vie. La prima – limitarlo a soli pochi principi etici generali – era la più dignitosa e semplice, ma finiva con l’affidarne tutta l’applicazione alla discrezionalità delle commissioni censorie, per giunta composte di membri non si sapeva quanto preparati ad applicare quei principi generali alla disparata casistica dei contenuti narrativi e formali dei film. Il Codice Hays optò dunque per la seconda, affiancando ai pochi principi etici generali – un breve Preambolo e tre Norme generali – una prolissa serie di disposizioni particolari e di divieti tassativi9. Ma ciò, se soddisfece la richiesta di certezze pratiche circa il lecito e l’illecito da parte di mercanti pressoché digiuni di questioni morali, non fu senza svantaggi. Intanto portò ad equivocare tra autentiche ed immutabili norme morali e mutevoli comportamenti – se non anche pregiudizi – convenzionali, per giunta cristallizzandoli rispetto all’evolversi del costume; inoltre indusse troppi mercanti di pellicola a scavalcare il Codice attenendosi esclusivamente alla lettera dei suoi divieti, eludendo – dolosamente o meno – spirito e lettera delle sue Norme generali; infine – particolare che certo non ne agevolò l’applicazione – gli procurò una pessima stampa da parte di quanti, anche cattolici – pure questi, purtroppo, ignorando Preambolo e Norme generali, e gli occhi aperti soltanto sui divieti –, ebbero buon gioco nel denunciarlo quale monumento di moralismo formalistico e di decenza ipocrita.

Da allora le cose sono cambiate poco o nulla. Oggi non c’è Paese al mondo in cui l’autocontrollo cinematografico renda superflui gli interventi pubblici; e le rare proposte che qua e là ne vengono avanzate hanno tutta l’aria di raggiri per affrettare lo smantellamento delle residue censure amministrative, ed assicurare così ai mercanti del cinema la massima libertà – magari anche rispetto al potere giudiziario – nell’escalation della violenza e dell’osceno, dell’anarchia e della dissacrazione, alla quale, e non soltanto in Italia, stiamo assistendo.

Questa deludende esperienza fa forse ritenere ormai improponibile ogni autodisciplina professionale? Dopo una sommaria illustrazione del pensiero cattolico in argomento, vedremo che almeno l’autodisciplina recentemente proposta ed attuata dai pubblicitari induce, in qualche misura, a confidare.

Autocontrollo nel Magistero

Il pensiero della Chiesa circa il controllo della stampa, ecclesiastico e dei “Principi cristiani”, ai primi albori del giornale moderno veniva precisato nel Concordato tra Pio VI e Ferdinando di Borbone, duca di Parma, Piacenza e Guastalla (29 luglio 1780)10:

“Della impressione e pubblicazione delle stampe, e della introduzione di quelle che vengono da altri paesi. – Non si può da un cattolico contrastare che il deposito della vera Dottrina che egli deve professare, sì riguardo ai dogmi di fede che riguardo a tutto quello che, o mediamente o immediatamente, ha relazione colla fede istessa, o connessione con lei, risieda privat[iv]amente presso la Chiesa: siccome adunque in ogni parto d’umano ingegno esservi ponno proposizioni, principj, opinioni che, o direttamente o indirettamente, non convengono alla cattolica Fede, non si può neppure contrastare che il giudizio d’ogni parto di umano ingegno, prima che al pubblico si esponga debba essere della Chiesa, conciosiaché questa sola debba, sappia e possa con verità conoscere se le opinioni che riproducono siano conformi ai principi del vero, del giusto e dell’onesto che Dio ci ha rivelato nelle S. Carte, e che ha affidato alla medesima sua Chiesa, acciò ne sia geloso custode [ ...].
“Con questo provvedimento però non s’intende derogato al diritto sovrano di vedere ed esaminare le composizioni da imprimersi, ed usare le necessarie cautele nell’introduzione de’ libri forestieri, anzi si vuole od suo pieno vigore, perché così esige il buon regolamento dello Stato, potendo accadere che qualche libro, quantunque di buona e sana dottrina, in certe circostanze per l’abuso che se ne potrebbe fare, fosse pernicioso alla pubblica quiete, di cui un Principe ne deve essere soprattutto gelosissimo. Per la qualcosa, come sempre mai si è praticato, non si potrà dare alle stampe alcuna composizione, se prima lo stampatore non ne avrà anco riportato il sovrano beneplacito [...]”.

Figurarsi se, ferma a questa dottrina, e nella persuasione che la stampa era stata la fonte unica o quasi di tutti i guasti politici religiosi e morali del secolo, Roma potesse proporre autocontrolli. Cercò, invece, dopo l’avventura napoleonica, che la sua dottrina venisse riaccolta nelle Costituzioni che l’avevano rigettata11 e, per suo conto, sia pure riducendone le materie12, non solo mantenne la tradizionale disciplina preventiva e repressiva sulla stampa, ma – nonostante che proprio l’avvento e la diffusione del nuovo mezzo d’informazione ne andasse dimostrando la progressiva inefficacia13 – la estese anche ai giornali14, sollecitando per essa l’appoggio del braccio secolare finché trovò “Principi” che ancora la praticassero15.

Anche rispetto al cinema, almeno sotto Pio XI, nel Magistero Romano l’ipotesi di autocontrolli tarda ad affiorare. Nell’enciclica Vigilanti cura, del 1936, il Pontefice ricorda bene quello tentato dalla industria cinematografica americana, ma senza mezzi termini ne rileva le cause e gli effetti dell’insuccesso (nn. 7-9):

“7. A tutti chiaramente consta che i progressi del cinema, quanto più meravigliosi erano divenuti, tanto più perniciosi ed esiziali si mostravano alla moralità ed alla religione, anzi alla stessa onestà della società civile.
“8. Tant’è vero che gli stessi dirigenti dell’industria cinematografica degli Stati Uniti lo riconobbero, pubblicamente confessando la propria responsabilità, non solo rispetto ai singoli, bensì anche rispetto alla società intera; perciò, nel marzo del 1930, con un libero accordo, sancito dalle loro firme e promulgato nella stampa, s’impegnarono di tutelare nell’avvenire l’onestà dei frequentatori del cinema; in particolare, poi, con lo stesso accordo promisero di non produrre più nessun film capace di abbassare il livello morale degli spettatori, o di porre in discredito la legge naturale ed umana, o da indurre alla violazione di essa.
“9. Tuttavia, nonostante una sì saggia determinazione, tanto i firmatari quanto i produttori e i registi si dimostrano, o incapaci, o piuttosto non disposti, ad osservare ciò cui spontaneamente si erano impegnati; così, a causa della scarsa efficacia della loro promessa, continuandosi nel cinema l’esibizione del vizio e del delitto, sembra ormai precluso ad ogni onesto partecipare ai film disano svago”. !J

Quali, nel pensiero del Papa, i rimedi? – Non esclude l’autocontrollo, ma ha più fiducia nel boicottaggio da parte dei cattolici e di tutti gli onesti; in ogni caso rileva la necessità dell’intervento censorio pubblico (nn. 30 e 31):

“30. È una delle necessità supreme del nostro tempo vigilare ed operare con ogni mezzo perché il cinema non sia più scuola di corruzione, ma si trasformi in strumento di sana educazione e di elevazione morale dell’umanità.
“31. E qui merita che ricordiamo – e lo facciamo con grande compiacimento – come qualche governo, impensierito del grande influsso morale ed educativo del cinema, ha istituito con persone oneste, e specialmente genitori, apposite commissioni di revisione, correzione e programmazione dei film”16.

Con Pio XII la dottrina si evolve, sia nel considerare i mass media sempre più nel loro insieme – stampa e cinema, durante il suo pontificato, si sono integrati nella radio e nella televisione –, sia nel comporre doveri e diritti di controllo pubblici con le preferenziali possibilità di autocontrolli. Dapprincipio egli si limita a confidare ”che le pubbliche autorità [...] bandiscano dalla stampa e dallo schermo tutto quello che potrebbe causare scandalo e perdizione alla gioventù”; ad affermare che “quando lo Stato, con le sue leggi, pone barriere contro il turpiloquio, contro le illustrazioni e gli spettacoli cinematografici [...] , esso compie un suo elementare dovere”; ed a lodare che “in non pochi paesi i pubblici poteri hanno preso provvedimenti, legislativi e amministrativi, vòlti ad arginare lo straripamento dell’immoralità”17, pur notando che “nel campo morale l’azione esteriore delle autorità, anche le più potenti, per lodevole utile e necessaria che sia, non è mai che da sola valga“18; poi, però, nei Discorsi sul film ideale (1955) e nell’enciclica Miranda prorsus (1957)19 offre una dottrina, si può dire, completa sull’autocontrollo, anteponendolo agli interventi pubblici, pur rilevandone realisticamente i limiti.

Nei Discorsi, dopo aver ancora una volta affermato, da una parte, che “la vigilanza e la reazione dei pubblici poteri [è] pienamente giustificata dal diritto di difendere il comune patrimonio civile e morale” (nn. 18, 20) e, dall’altra, “che lo spirito del nostro tempo, insofferente più del giusto dell’intervento dei pubblici poteri, preferirebbe una difesa che partisse direttamente dalla collettività” (n. 18), così esorta i rappresentanti dell’industria cinematografica italiana (nn. 21-22):

“21. Non sarebbe forse opportuno che la onesta valutazione ed il rigetto di ciò che è indegno o scadente fosse già da principio ed in modo particolare nelle vostre mani? Non si potrebbe certamente, allora, muovere il rimprovero d’incompetenza o di prevenzione, se voi, con maturità di giudizio formato a saggi principi morali, e con serietà di proposito, riprovaste quel che arreca danno alla dignità umana, al bene dei singoli e della società, e specialmente della gioventù.
“22. Nessuno spirito assennato potrebbe ignorare o deridere il vostro coscienzioso e ponderato verdetto in materia concernente la vostra propria professione. Fate, dunque, largamente uso di quella preminenza ed autorità che il vostro sapere, la vostra esperienza, la dignità dell’opera vostra vi conferiscono [...]. Avrete con voi il consenso e il plauso di quanti hanno sano intelletto e retto volere, e soprattutto quello della vostra personale coscienza”.

Nella Miranda prorsus l’esortazione diventa netta formulazione dottrinale estesa a tutti i mass media (nn. 38-41):

“38. Sull’autorità civile senza dubbio incombe il grave dovere di vigilare anche su questi strumenti [...].
“39. E questa vigilanza dello Stato non può essere considerata una ingiusta oppressione della libertà dei singoli individui, perché si esercita, non circa la loro persona privata, ma rispetto a tutta 1a società umana, nella quale questi strumenti [...] l’intervento in forma di autocontrollo esercitato dagli stessi gruppi professionali interessati, se può lodevolmente prevenire quello del pubblico potere e impedire in radice eventuali danni morali, non può assolutamente avversare il gravissimo dovere di vigilanza che ad esso compete.
“41. Perciò, come il nostro predecessore, così noi stessi abbiamo lodato i gruppi professionali per siffatti interventi cautelativi, in nulla tuttavia pregiudicando le competenze dello Stato. Crediamo infatti che questi strumenti, allora soltanto potranno diventare validi mezzi di formazione della personalità di quanti ne usufruiscono, quando [...] lo Stato e la stessa professione uniranno opportunamente le forze e collaboreranno per raggiungere lo scopo desiderato”.

La dottrina viene ripresa dal Magistero conciliare e post-conciliare. L’Inter mirifica (1963), prima di giustificare ancora una volta l’intervento del pubblico potere, “soprattutto quando mancassero sufficienti garanzie da parte delle categorie professionali che operano nei rispettivi settori” (n. 12), raccomanda a tutti i promotori dei mass media – giornalisti, scrittori, attori, registi, editori e produttori, programmatori, distributori, esercenti, venditori, critici..., e quanti altri in qualsiasi modo partecipino alla preparazione e alle trasmissioni delle comunicazioni –, che (n. 11):

“Regolino i propri interessi economici, politici ed artistici in modo di non andare mai contro il bene comune”. Ed aggiunge: “Per conseguire più facilmente questo intento è auspicabile che diano la loro adesione alle associazioni professionali, i membri delle quali s’impongano – se necessario anche impegnandosi ad un codice morale – il rispetto di norme morali nelle proprie attività e doveri professionali”.

Nella nota indulgenza – alcuni l’hanno detta parzialità – verso le categorie professionali dei mass media, la recente istruzione pastorale Communio et progressio (1971) sfuma quanto più può nel generico i compiti dei poteri pubblici, mentre insiste nel rilevarne i limiti:

“si chiede il concorso di tutti i tutori del bene comune” (n. 22). “spetta alle autorità civili assolvere i propri compiti” (n. 6.3). “Le autorità vi hanno doveri precisi” (n. 84). Ma “l’intervento dell’autorità sia piuttosto positivo, e non soltanto negativo. Non si creda quindi che il suo compito primario sia quello di impedire e di reprimere, benché in qualche caso debba pure intervenire per punire e per ammonire [...]. ‘All’uomo va riconosciuta la libertà più ampia possibile, da non limitare se non quando e quanto’ lo richieda il bene comune. Perciò la censura dovrà limitarsi ai casi estremi. Inoltre, le autorità devono rispettare il principio del potere partecipato, detto ‘di sussidiarietà’ [...], secondo il quale l’autorità non deve prendere o condurre iniziative quando altri, individui o gruppi, possono altrettanto bene, e forse meglio, attuarle e compierle” (n. 86).

Viceversa l’Istruzione rivendica il più ampio campo all’iniziativa privata, sprona le associazioni dei promotori ad imporsi positivi codici di autocontrollo, e sollecita l’autorità pubblica ad agevolarne la messa in opera.

“Innanzi tutto si riconosca a tutti gli uomini, singoli ed associati, la libertà d’iniziativa, sicché [...] si governino e si regolino con i loro propri mezzi. Sarà bene, e spesso anche necessario, creare associazioni con questo programma (n. 85).
“Le associazioni dei promotori supereranno più agevolmente e meglio le difficoltà inerenti al loro lavoro [...] se, partendo da saldi principi e dalla loro esperienza, elaboreranno una dottrina o codice deontologico sulle prestazioni ed iniziative professionali nel rispetto integrale delle esigenze della comunicazione sociale. Le norme e le disposizioni pratiche di tali codici siano piuttosto positive che negative, e non si limitino a rilevare quel che va evitato, ma indichino quel che va fatto per meglio giovare al pubblico (n. 79).
“Ai professionisti delle comunicazioni e alle associazioni che s’interessano a queste attività si raccomanda di istituire comitati con propri statuti, allo scopo di interessarsi a tutto questo settore, chiamando a collaborarvi delegati dei vari gruppi e categorie sociali di tutta la nazione. Ciò varrà, da una parte a respingere l’indebita ingerenza dell’autorità e la pressione del padronato economico; dall’altra, a promuovere la collaborazione tra i promotori per una migliore resa di tutta l’attività degli strumenti della comunicazione sociale al bene comune. Anzi non si esclude che, in qualche luogo, sia la stessa autorità ad istituire siffatti comitati di vigilanza: in questo caso si assicuri giuridicamente la rappresentanza di tutte le opinioni e di tutte le voci della comunità” (n. 88).

Questo, dunque, a tutt’oggi nel Magistero Romano il pensiero sull’autocontrollo professionale; né vi mancano riferimenti ed appelli a singole categorie20. In particolare: per i pubblicitari la stessa Communio et progressio recita:

“60. I pubblicitari che reclamizzano prodotti e servizi nocivi o del tutto inutili, che vantino false qualità delle merci in vendita, o che sfruttino le tendenze più basse dell’uomo, danneggiano la società umana e finiscono col perdere essi stessi in credibilità e reputazione. Ma recano pregiudizio alle persone ed alle famiglie anche i pubblicitari che creino bisogni fittizi, o che continuino ad inculcare l’acquisto di beni voluttuari, privando così gli acquirenti dei mezzi per provvedere alle loro necessità primarie. Inoltre occorre che essi evitino gli annunci pubblicitari che spudoratamente sfruttino a scopo di lucro richiami erotico sessuali, o che ricorrano alle tecniche dell’inconscio che attentino alla libertà degli acquirenti. Perciò bisogna che i pubblicitari s’impongano alcune norme limitative, atte ad impedire alla prassi commerciale di ledere la dignità umana e d’invilire la società”.

Farà piacere notare, in quanto segue, che questa categoria, in Italia e nel mondo, ha prevenuto l’appello dell’Istruzione ed è stata di esempio alle altre categorie professionali dei mass media nel soddisfarlo con qualche efficacia.

 

La pubblicità tra disciplina giuridica ed autodisciplina21

Quasi sconosciuta ai tempi della produzione artigianale, la pubblicità commerciale si è resa sempre più necessaria via via che concentrazione industriale e dilatazione dei mercati andavano allontanando i produttori dai potenziali consumatori, per imporsi, in questo secolo – nei paesi ad economia di mercato –, non solo come l’anima di ogni industria e commercio, e cardine del sistema, ma come formidabile manipolatrice delle opinioni e del comportamento delle masse, soprattutto da quando s’è appropriata, condizionandoli, di tutti i mass media, e da quando, attuando tecniche psico-sociali “scientifiche” – quali le ricerche motivazionali e le analisi di mercato –, è stata in grado di mobilitarli in massicce “campagne”.

Data, allora, la sua modestia, per tutto l’800 i poteri pubblici cercarono di disciplinare giuridicamente il fenomeno attenti soltanto alla conflittualità concorrenziale delle aziende e dei loro prodotti; ma poi, al suo gonfiarsi, s’indussero a disciplinarlo considerando la pubblicità anche come attività informativa e persuasiva dalla quale era la collettività intera, “il pubblico”, che poteva subire danni: o diretti, reclamizzandogli prodotti e servizi nocivi; o di frode e truffa, adescandolo con miraggi bugiardi; o, infine, condizionandone la libertà col creargli falsi bisogni, reso cavia delle capacità produttive e delle voglie di lucro della grande industria.

Questo controllo pubblico poteva battere tre vie: quella della censura preventiva, quella della repressione penale a posteriori, e quella del puro e semplice divieto di pubblicità; e, di fatto, cumulativamente o meno, prima in USA e poi un po’ dappertutto altrove, le ha battute tutte e tre22; ma – a parte il suo ripetuto degenerare in più o meno larvati controlli ideologici – scarsamente soddisfacendo tanto i destinatari quanto i pubblicitari e le imprese utenti. I primi perché se, per lo più, vi hanno visto tutelata la propria incolumità e salute fisica, poco o nulla vi hanno visto rispettati i superiori valori personali etico-culturali, sia per il genere dei prodotti e servizi reclamizzati, sia e soprattutto per i lenocini usati per reclamizzarli; i secondi perché le normative pubbliche si sono formate per accumulo di interventi sporadici e casuali per singoli settori merceologici, sicché, salvo tentativi recenti di sistemarle organicamente – per esempio in Francia (1963), in Spagna (1964), in Germania (1965), in Inghilterra (1968) e in Svezia (1970) –, e nonostante una recente esortazione del Consiglio d’Europa (18 febbraio 1972) ad unificare le legislazioni nazionali almeno su quanto concerne la disciplina della pubblicità ingannevole23, sono risultate del tutto scollegate e lacunose. E proprio queste sconnessioni e lacune degli ordinamenti pubblici, più che intenti moralistici, hanno indotto i pubblicitari a proporsi tempestive forme di autodisciplina.

Il primo buon esempio pare che sia venuto dalle aziende d’affissione d’Inghilterra nel lontano 1890. Seguirono, nel 1905, gli USA con l’Advertising Club of America e, nel 1913, la Chambre Syndicale de Publicité; di Parigi. Replicano, nel 1924, gli Stati Uniti con l’American Association of Advertising Agencies, che pubblica uno Standard of Practice a tutt’oggi in vigore. Del 1926 è l’inglese Advertising Association: la prima a riunire i tre settori della pubblicità: utenti, agenzie e media. Finalmente, del 1937 è il primo organico schema di autodisciplina: il Code de Pratiques Loyales en matière de publicité; redatto dalla Chambre de Commerce Internationale di Parigi, che nelle sue quattro successive revisioni – l’ultima è del 1972 – ispirerà i regolamenti di autodisciplina di vari paesi: prima settoriali, a cominciare dai media, e poi estesi a sempre maggior numero di operatori.

In Italia i primi tentativi risalgono ai Codici UPA (Utenti Pubblicità Associati) e FIP (Federazione Italiana Pubblicità), rispettivamente del 1951 e del 1953; i quali, però, impegnando soltanto gli aderenti alle due Associazioni, non sortirono efficacia pratica. Efficace, invece, fu il Codice di lealtà pubblicitaria firmato nel 1966, oltre che dalle due Associazioni, anche dalla FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali) e dalla RAI-TV, perché si estese a tutti i soggetti interessati a questa attività – media, utenti e ceti professionali –; inoltre, perché non si limitò a “raccomandare” norme deontologiche agli aderenti, ma incaricò un organo giudicante – il Giurì – della loro applicazione; infine, perché consentì anche ai soggetti estranei – dal singolo cittadino alla stessa Amministrazione dello Stato – di denunciare a detto Giurì ogni forma di scorrettezza pubblicitaria.

Riveduto una prima volta nel 1971, nel 1974 è stato adeguato all’ultima edizione del Code della Chambre de Commerce Internationale24; e, diventato Codice di autodisciplina pubblicitaria, il 28 febbraio 1975 è stato promulgato dalla Confederazione Generale Italiana Pubblicità25; per entrare in vigore, come s’è detto, il 10 marzo.

Il Codice di autodisciplina pubblicitaria

Dato che, anche secondo questo nuovo Codice, “chiunque [del pubblico] ritenga di subire pregiudizio da attività pubblicitarie contrarie [ad esso] può richiedere l’intervento del Giurì; nei confronti di chi, avendolo accettato [ ... ] , abbia commesso attività ritenute pregiudizievoli” (Art. 36), vorremmo contribuire a diffonderlo pubblicandone anche noi integralmente il testo, non facilmente reperibile altrove: ma lo spazio non ce lo consente; come non ci consente di farne un’analisi comparativa rispetto ai due, già pregevoli, Codici precedenti per dimostrarne tutto il miglioramento. Ci limitiamo perciò a pochi rilievi circa la sua normativa riguardante più direttamente gli interessi socio-etico-morali del pubblico.

Già nella Premessa il nuovo Codice privilegia questo aspetto affermando che la pubblicità svolge, sì, il suo “ruolo particolarmente utile nel processo economico”, ma deve essere “realizzata soprattutto come servizio d’informazione del pubblico con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore”; di qui la possibilità, da parte dei singoli media, “di rifiutare [...] la pubblicità difforme da criteri, da loro eventualmente stabiliti, più rigorosi di quelli del Codice.

Nelle Norme Generali il nuovo Codice esige che la pubblicità, anche prima di “evitare tutto ciò che possa screditarla”, sia sempre “onesta, veritiera e corretta” (Art. 1). Eviti, perciò, “ogni dichiarazione o rappresentazione che sia tale da indurre in errore i consumatori” (Art. 2), ed ogni uso di termini scientifici, testimonianze e garanzie che non siano controllabili e dimostrabili (Artt. 3-6). Vieta, inoltre, la cosiddetta pubblicità redazionale: “La pubblicità deve essere sempre riconoscibile come tale”; perciò quella inserita in media che comunicano “al pubblico informazioni e contenuti di altro genere [...] deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti” (Art. 7).

Ovviamente, anche il nuovo Codice si preoccupa che la pubblicità non pregiudichi “la salute e la sicurezza propria e della collettività”; perciò dispone che “quando si tratta di prodotti suscettibili di presentare pericoli [...] deve indicarli con chiarezza. Comunque, essa non deve contenere descrizioni o rappresentazioni tali da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza” (Art. 12). Ma, prima, s’interessa ad altri primari valori personali e collettivi, vietando “ogni forma di sfruttamento della superstizione, della credulità e [...] della paura“ (Art. 8), “affermazioni o rappresentazioni di violenza fisica, o morale, o tali che, secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori, debbano ritenersi indecenti, volgari o ripugnanti” (Art. 9); inoltre, disponendo che “la pubblicità non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose dei cittadini” (Art. 10); infine, prescrivendo una “cura particolare [...] nei messaggi che si rivolgono ai bambini e agli adolescenti, o che possono essere da loro ricevuti” (Art. 11).

Dodici Norme Particolari, parte nuove e parte aggiornate, tutelano i consumatori più creduli da artifici e silenzi più o meno truffaldini, sia nei sistemi di vendita: a credito, per corrispondenza, per forniture non richieste, liquidazioni e concorsi od operazioni a premio (Artt. 17-21), sia rispetto ad alcuni settori merceologici: o rischiosi, come quello delle bevande alcooliche (Art. 22), o “miracolistici”, quali quelli dei cosmetici, dei trattamenti estetici e curativi (Artt. 23-25), oppure fertili di miraggi fraudolenti, quali i corsi d’istruzione, le operazioni finanziarie ed i viaggi organizzati (Art. 26-28).

Circa, infine, il Giurì ed il Comitato di accertamento è da rilevare, nella loro composizione, l’esclusione di “esperti che esercitano la loro attività professionale in materia di autodisciplina pubblicitaria”, e l’inclusione, invece, “di uno o più membri scelti fra persone esperte dei problemi dei consumatori” (Artt. 29 e 30). Da notare, inoltre, l’abolizione del (deterrente!) versamento connesso alla domanda d’intervento del Giurì, previsto, invece, dai due Codici precedenti (Artt. 12 e 29); ed, infine, la notificazione al pubblico, attraverso gli organi d’informazione, da parte dello stesso Giurì, di quanti non si attengano alle sue decisioni (Art. 42).

Giustamente è stato rilevato che questo nuovo Codice rispetta le tre condizioni ideali di un sistema volontario di autodisciplina, recentemente indicate dal Bureau Européen des Unions des Consommateurs (BEUC)26:

  • che sia imparziale: non vi deve essere rappresentato soltanto il settore pubblicitario;
  • che sia in grado di indagare a fondo con accesso alla conoscenza di dati e di informazioni sui prodotti;
  • che sia efficiente: deve avere il potere di far cambiare i testi degli avvisi e di fermare le campagne pubblicitarie ingannevoli.

Ma quanto siamo andati esponendo mostra che esso quadra bene anche col pensiero del Magistero cattolico. Merito indubbio di un settore economico che nell’autocontrollo professionale è stato pioniere ed ha dimostrato una lealtà che, invece, è mancata al mondo dei cinematografari; il quale, soprattutto oggi in Italia, con la sua pubblicità sconcia e dissacrante, sembra che consideri il cinema tutto, meno che “mezzo di espressione artistica e di formazione culturale”, quale sarcasticamente lo definisce la vigente Legge n. 1213, del 4 novembre 1965.

Non resta, dunque, che augurarsi che la normativa del nuovo Codice sia pregiuridica, non solo in quanto riguarda situazioni e rapporti ancora non regolati dalla legge, ma anche – come auspica M. Fusi – in quanto contribuisca a formare il tessuto connettivo – principi, norme e procedure – della legge italiana in gestazione (le cui due Proposte parlamentari non sono un capolavoro di coerenza); e poi anche di quella legislazione unificata sulla pubblicità, proposta, come s’è detto, tre anni fa dal Consiglio d’Europa.

1 Cfr E. BARAGLI, Nasce la censura ecclesiastica sulla stampa, e L’Imprimatur: una costante preoccupazione pastorale della Chiesa, in Civ. Catt. 1974 III 242 ss.; 1975 II 436 ss.

2 Per la documentazione in argomento, ed anche sulla Dichiarazione seguente, F. BATTAGLIA, Le carte dei diritti, Firenze 1946; E. GALLINA, La Chiesa cattolica con le organizzazioni internazionali per i diritti umani, Roma 1968.

3 Sotto il fascismo, così farneticava il Corriere della Sera: “In un regime totalitario, come deve essere necessariamente un regime sorto dalla rivoluzione trionfante, la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime. Ecco perché la stampa italiana è fascista, e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio. Ciò che è nocivo si evita, ciò che è utile al regime si fa. Le vecchie accuse sulla soffocazione della libertà di stampa, da parte della tirannia fascista, non hanno più credito alcuno. La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime” (cit. in M. DARDANO, Il linguaggio dei giornali italiani, Bari 1973, 275).
Per Kruscev, in URSS: “Compito della stampa è abbattere i nemici della classe operaia, gli avversari del popolo lavoratore. Come l’esercito non può combattere senza armi, così il Partito non può compiere il suo lavoro ideologico senza l’arma efficace e potente che è la stampa [...]. Noi non possiamo dunque lasciare la stampa in mani poco sicure. Essa deve essere affidata a quelli che sono i più fedeli, i più degni di fiducia, quelli che hanno le convinzioni politiche più salde e che sono interamente devoti alla nostra causa” (cit. in A. DEL BOCA, Giornali in crisi, Torino 1968, 265).

4 La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU il 10 dic. 1948, era ferma ancora al semplice diritto: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione [...] e a quella di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza limite di frontiere” (Art. 19); del resto, appunto Dichiarazione e non Convenzione, si limitava ad enunciare principi generali senza imporre obblighi agli Stati firmatari, tra i quali, ovviamente, sono stati assenti tutti i Paesi comunisti. Invece, vera e propria Convenzione, il Patto Internazionale sui diritti civili e politici, applicativo di quella Dichiarazione, approvato dall’ONU il 16 dic. 1966, ribadito il diritto delle libertà di cui sopra, precisava: “L’esercizio delle libertà previste [...] comporta doveri e responsabilità speciali. Esso può essere pertanto sottoposto a talune restrizioni, che però devono essere espressamente stabilite dalla legge, ed essere necessarie: a) al rispetto dei diritti e della reputazione altrui; b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale”.
Non diversamente aveva precisato la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Trattato di Roma: 4 nov. 1950), entrata in vigore il 3 sett. 1953, la quale, all’art. 12, riaffermato che “Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione” e che “tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”, anch’essa precisava: “L’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica, per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali, o per garantire l’autorità e la imparzialità del potere giudiziario” (nn. 1 e 2).
Da notare che questa Convenzione è diventata norma interna dello Stato Italiano (Legge n. 848, del 4 ag. 1955), che in materia disponeva solo della norma costituzionale (Art. 21): “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o a censure [...]. Sono vietate le pubblicazioni a stampa [...] contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni“. – In argomento cfr G. VEDOVATO, Europa difficile, Firenze 1974, 61 ss., 97 ss.

5 Per l’Italia: nel giugno 1957 le Federazioni della Stampa e degli Editori concordavano dieci punti di deontologia giornalistica, poi in parte recepiti nella Legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti; cfr in merito LUCATELLO, Giornalismo a misura dell’uomo, Roma 1974 (Civ. Catt. 1975 II 411).
Ad un codice deontologico mondiale dell’informazione, incluso nel programma di lavoro dell’UNESCO 1973-1974, accenna la Lettera della Segreteria di Stato al X Congresso mondiale dell’UCIP-Buenos Aires: 18-22 nov. 1974 (in Oss. Rom., 22 nov. 1974).

6 Per cinema e marxismo, cfr BARAGLI, Disavventure della critica marxista e Marxisti e cinema in Italia, in Civ. Catt. 1957 III 288 ss.; 1962 I 452 ss., 547 ss.
– Per cinema e nazismo: D. S. HULL, Il cinema del Terzo Reich, Roma 1972 (con ampia Bibliografia), e V. HAILAN, Le cinéma allemand selon Goebbels, Parigi 1974. – Per cinema e fascismo: L. FREDDI, Il cinema, Roma 1949; G. TINAZZI (a cura di), Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, Padova 1966.

7 Anche per quanto immediatamente segue, cfr, per l’Italia, E. BARAGLI, L’autodisciplina cinematografica in Italia?, e Verso la nuova legge di revisione cinematografica, in Civ. Catt. 1961 II 157 ss., 378 ss., 598 ss. – Per gli Stati Uniti d’America: Morale e censura nel cinema americano, Il Production Code di autodisciplina cinematografica e La Legion of decency dei cattolici americani: Civ. Catt. 1960 IV 483 ss.; 1961 I 148 ss., 382 ss., 592 ss.; ed anche il volume con ampia bibliografia: E. BARAGLI, Codice di Hays - Legion of decency: due esperienze USA, Roma 1968, 148.

8 Ciò avvenne soprattutto ad opera dell’americano Martin Quigley, il quale, giunto a Roma nel 1944 al seguito delle truppe alleate, con l’aiuto dell’avv. Eitel Monaco compilò un Codice della cinematografia per l’Italia. Questo servì di modello al Freiwilliger Kodex des Deutschen Filmindustries Entwurf, che, affidato nel 1949 dalle forze alleate alla Freiwillige Selbstkontrolle der Filmswirtschaft, operò nelle zone di occupazione inglese, francese ed americana della Germania. A cura poi dello stesso Quigley Jr., nel 1947 il Bharat Jyoti di Bombay pubblicava un articolo sull’argomento; l’anno seguente, i due maggiori centri di produzione del cinema indiano, Bombay e Madras, adottavano a loro volta un codice sul modello americano; nel giugno 1949 lo stesso faceva l’associazione dei produttori del Giappone (cfr M. QUIGLEY Jr., Les codes de production dans les pays étrangers, in Revue Internationale du Cinéma, 1951, n. 7, 19 ss.).

9 Testo integrale in BARAGLI, Codice Hays-Legion of decency, cit., 52 ss.

10 Supplemento alla Raccolta di Concordati su materie ecclesiastiche tra la Santa Sede e le Autorità Civili, Città del Vaticano 1953, 59 ss.

11 Cosl Pio VII a Luigi XVIII, il 29 aprile 1814: “La nostra sorpresa ed il nostro dolore non sono stati minori quando abbiamo letto l’articolo 23° della Costituzione, che mantiene e permette la libertà di stampa, libertà che minaccia alla fede ed ai costumi i più grandi pericoli ed una rovina certa. Se qualcuno poteva avere dei dubbi, l’esperienza di quanto è successo basterebbe da sola per persuaderlo. E un fatto del tutto appurato: questa libertà di stampa è stata il mezzo principale che, prima ha corrotto la morale del popolo, poi ne ha corrotto e minato la fede, infine ha fatto scoppiare le sedizioni, i disordini e le rivolte” (Cit. da E. GABEL, L’enjeu des média, Parigi 1971, 245).

12 In data 2 giugno 1848, Pio IX disponeva che “in avvenire, sino a nuove disposizioni di questa Sede Apostolica, i censori ecclesiastici di questo Stato Pontificio dovranno prendere in considerazione soltanto gli scritti che riguardino le Sacre Scritture, la sacra teologia, la storia ecclesiastica, il diritto canonico, la teologia naturale, l’etica e le altre discipline religiose e morali; ed, in genere, gli argomenti che tocchino direttamente la religione e la morale” (Epistola In Sessione X, in Pii IX m. Acta, 1 [1854]. 99ss.). – Questa riduzione, poi sostanzialmente conservata per tutta la Chiesa nel Codice di diritto canonico (Can. 1385), è perdurata sino al recente Decreto della S. C. per la Dottrina della Fede Sulla vigilanza dei Pastori della Chiesa riguardo ai libri, del 19 marzo 1975 (cfr AAS 67 [1975], 281).

13 Nella cit. Lettera In Sessione X, Pio IX notava che “il numero dei libri e soprattutto dei periodici, va tanto aumentando da rendere quasi impossibile ai censori ecclesiastici esaminarli tutti con la diligenza che si richiede”, e parlava di “fogli ed opuscoli stampati alla macchia”, che arrecavano “ai fedeli maggiore danno e scandalo in quanto detti scritti vengono ritenuti come esaminati e approvati secondo il prescritto delle leggi vigenti”. – Il 18 agosto 1885, l’arcivescovo di Vienna J. Othmar Rauscher scriveva alla Segreteria di Stato: “Fino al 1848 in Austria vigeva una censura preventiva severissima [...], ma di fatto risultava del tutto inefficace a prevenire e a reprimere il male. L’Austria ha troppo grande estensione, e mille sono i modi per eludere la vigilanza della polizia” (Raccolta di concordati..., cit., Roma, 1919, p. 834).

14 Il Can. 1384 del Codice di diritto canonico (1917), riaffermato il principio che “La Chiesa ha il potere di esigere che i fedeli non pubblichino libri che essa, a suo giudizio, non abbia prima approvato, e di proibirne, per giusta causa, di già pubblicati”, precisava che, quanto sotto il titolo Della previa censura “viene prescritto circa i libri, salvo che consti del contrario, si applica anche ai giornali, ai periodici e ad ogni altro stampato”.

15 Cfr Concordato con Massimiliano I Giuseppe, re di Baviera (14 novembre 1817);
Concordato con Ferdinando I, re delle due Sicilie (16 febbraio 1818);
Concordato con Isabella, regina di Spagna (16 marzo 1851);
Concordato con Leopoldo II, granduca di Toscana (25 aprile 1851);
Concordato con la Repubblica di Costarica (7 ottobre 1852);
Concordato con l’imperatore d’Austria (18 agosto 1855).

16 Alludeva soprattutto al governo fascista, il quale esercitava una censura cinematografica moralistica molto meno occhiuta di quella dei Paesi comunisti. Il 21 aprile di quello stesso anno 1936 aveva detto ai congressisti della FIPRESCI (Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica): ”Egli voleva dapprima congratularsi con S.E. Alfieri, il quale nel Congresso aveva precisamente fatto questo rilievo: che in genere si può notare qualche progresso – e specialmente in Italia, ed il Papa ne è particolarmente contento – soprattutto in tema di controllo [...] della produzione cinematografica [...]; e, diceva Sua Santità, il controllo è una delle grandi necessità e il gran mezzo – pur non dovendosi trascurare senza dubbio il cercarne degli altri – uno dei più efficaci per incanalare tutta la grande produzione del cinematografo e tenerla in quelle linee ove deve stare, sotto pena di enorme e grande colpevolezza” (in Oss. Rom., 23 apr. 1936).

17 Cfr Segreteria di Stato, Lettera a mons. Martin J. O’Connor (24 aprile 1953), n. 23; Lettera al sac. Jean Bernard, presidente OCIC (10 giugno 1954) n. 1.

18 Pio XII, Discorso «Sommamente gradita» (20 settembre 1942) n. 21; cfr anche Discorso «Il santo tempo quadragesimale» (23 marzo 1949), n. 17.

 

19 Pio XI, Lettera enciclica «Vigilanti cura» (29 giugno 1936) n. 25-26,44.

20 Nell’ordine: Pio XII, Discorso «Siate i benvenuti» ai concessionari delle librerie nelle stazioni (2 ottobre 1958) n. 5; Paolo VI, Radiomessaggio «Ci è assai gradito» all’olandese Katholieke Radio Omroep (15 novembre 1965), n. 2; Discorso «La vostra venuta» alla Federazione Nazionale Stampa Italiana (23 giugno 1966) n. 5; Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali, Istruzione pastorale «Communio et progressio» (23 maggio 1971), n. 41.
Altri interventi di Paolo VI sulla pubblicità sono nella Lettera apostolica «Octogesima adveniens» (14 maggio 1971) n. 9; e, posteriore all’Istruzione pastorale, il Discorso «À l’occasion de votre Congrès» al Top European Advertising Media (15 maggio 1972).

21 Si hanno presenti specialmente gli ottimi saggi di Fusi: La legislazione sulla pubblicità commerciale, Milano 1957; La comunicazione pubblicitaria nei suoi aspetti giuridici, Milano 1970; Il nuovo Codice di lealtà pubblicitaria, Milano 1971 (cfr Civ. Catt. 1973 I 407); Aspetti particolari del procedimento avanti al giurì del nuovo Codice di lealtà pubblicitaria, in Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 1971, n. 3, 457 ss.; Dobbiamo credere nel nuovo Codice di lealtà pubblicitaria?, in Panorama Pubblicità Marketing, 1972, n. 1, 55 ss.; Evoluzione della norma pubblicitaria, in SIPRA, 1974, n. 6, 63 ss.; Panorama internazionale dell’autodisciplina pubblicitaria, in Rivista di diritto industriale, 1975, n. 1, 62 ss. Inoltre: BORRELLI, Osservazioni sul Codice di lealtà pubblicitaria, in Atti dello VIII Congresso Nazionale della Pubblicità, Milano 1967, 136 ss.; G. COTTINO, Possibilità di un codice della Pubblicità, in AA.VV., Pubblicità e televisione, Roma 1968, 94 ss.; R. FRANCESCHELLI, Il nuovo Codice di lealtà pubblicitaria, in Il diritto delle radiodiffusioni..., cit. 411 ss.; G. LANCELLOTTI, La repressione della concorrenza sleale negli Stati Uniti, Padova 1961; MENICHETTI, Natura giuridica e funzioni del Codice di lealtà, Milano 1969; G. NASCIMBENI, La pubblicità si dà una regola, in Corriere della Sera, 1° apr. 1975; SORDELLI, Problemi giuridici della pubblicità Commerciale, Milano 1968; E. ULMER, La repressione della concorrenza sleale negli Stati membri della C.E.E., in Diritto comparato, Milano 1968; VACCÀ, Indicazioni per una politica di controllo della pubblicità, in Mondo economico, 1963, 12, 15 ss.; A. VANZETTI, La repressione della pubblicità menzognera, in Rivista di diritto civile, 1964, 584 ss., e in Sacra doctrina, 1965, 85 ss.

22 Per esempio, in Italia, a censura preventiva è stata sottoposta la pubblicità dei medicinali e del settore turistico; alla repressione penale la pubblicità ingannevole dei prodotti alimentari, mentre il divieto di pubblicità è stato applicato ai prodotti da fumo e alle pratiche antiprocreative.

23 Il testo è in M. FUSI, Panorama internazionale..., cit., 77, Nota 27. – La proposta era stata avanzata dieci anni prima da E. ULMER, La repressione della concorrenza..., cit. 279.

24 Breve introduzione e testo in Civ. Catt. 1966 III 521 ss. – Per i testi dei Codici del 1971 e dell’attuale (1975) cfr, rispettivamente, Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 1971, n. 3, 545 ss., e SIPRA, 1975, nn. 1-2, 89 ss.

25 Oltre che dalla RAI-TV e dall’OPA (= Utenti Pubblicità Associati), è composta dalle tre Federazioni:

  • FEDERPRO (= Federazione Professionale della pubblicità), costituita dall’OTIPI (= Associazione Italiana delle Agenzie di Pubblicità e Marketing a servizio completo), dalla TP (Associazione Italiana Tecnici Pubblicitari) e dall’ANIPA (Associazione Nazionale Imprese Pubblicità Audiovisiva);
  • FIEG (=Federazione Italiana Editori Giornali);
  • FIP (= Federazione Italiana Pubblicità), costituita dall’APS (= Associazione Pubblicità Stampa), AAPI (= Associazione Aziende Pubblicitarie Italiane), APD (= Associazione Aziende Italiane Pubblicità Diretta), APV (= Associazione Italiana Promozione Vendite e Pubblicità Punto Vendita), ANACAP (= Associazione Nazionale Aziende Concessionarie Affissioni e Pubblicità), ACPI (= Associazione Consulenti Pubblicitari Italiani), AIAP (= Associazione Italiana Artisti e Grafici Pubblicitari), ACAUP (= Associazione Capi Aziende Pubblicitarie), e ANAP (= Associazione Nazionale Agenti di Pubblicità).

26 SIPRA, 1975, nn. 1-2, 104.

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2870, vol. I (1970), pp. 155-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2739, vol. III (1964), pp. 246-254
n. 2729, vol. I (1964), pp. 422-435
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408