Articolo estratto dal volume III del 1983 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
In Italia, sino a una decina d’anni fa, quasi increduli di tanta rozzezza civile e culturale, ne parlavamo come di uno sconcio delle televisioni USA1. Ma da quando – con la nascita delle Regioni nel 1970, e con le due sentenze della Corte Costituzionale nn. 225 e 226 del 1971 – di fatto e di diritto s’è dissolto il monopolio della RAI-TV, dentifrici e formaggini, detersivi e carte igieniche, deodoranti e scatole di pelati hanno infarcito i film anche sui nostri teleschermi. Telespettatori e autori dobbiamo proprio rassegnarci a tanto strazio? Oppure possiamo sperare in qualche intervento liberatorio, prima legislativo e poi della magistratura? Questi i quesiti discussi dal romano Istituto giuridico dello spettacolo e dell’informazione nell’Incontro del 28 ottobre 1982 presso l’ ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini)2: incontro che, per titoli e competenze dei suoi partecipanti3, merita bene qualche rilievo e commento.
Telespettatori disarmati?
Il primo, e poco gradevole, dato che vien fatto di rilevare è che noi telespettatori, per quanto impietosamente infastiditi da siffatti inserti pubblicitari, al presente ci troviamo sprovvisti di ogni difesa giuridica, senza poterne sperare di future. Infatti, nell’ipotesi che la pubblicità – come qualcuno ha sostenuto4 – possa e debba considerarsi mera informazione, la sua piena libertà d’esercizio resterebbe tutelata dall’art. 21 della Costituzione5; il quale, se ipotizza interventi censori, lo fa esclusivamente rispetto a eventuali contenuti contrari al buon costume. Dato, invece, e concesso che – come altri con maggior ragione pensano – la propaganda costituisca attività essenzialmente economica, il suo libero esercizio resta ancora tutelato, questa volta dall’art. 41 della Costituzione6; salvo il caso che esso si svolga «in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana». Caso, in verità, difficilmente ipotizzabile7, e più difficilmente dimostrabile, a proposito d’inserti pubblicitari nei film, per due circostanze di fatto.
La prima sta nella pratica impossibilità di fissare in dottrina, e di dimostrare in fatto, quando gli inserti raggiungano nel telespettatore il limite dell’insopportabilità, dipendendo questa – come meglio rileveremo in seguito – dalla qualità, frequenza, durata e altre modalità d’interruzione degli stessi. L’altra circostanza sta nel fatto che, in ogni caso – a differenza della RAI-TV, che offre i suoi programmi dietro versamento di un congruo canone di abbonamento – le televisioni libere li offrono gratuitamente. Perciò, a prescindere se queste ultime assolvano anch’esse un «servizio pubblico» quale si presume che venga assolto dalla RAI-TV8, e a prescindere anche dalla natura – tributaria o «di prezzo»? – del canone suddetto9, per liberarsi dal fastidio, allo spettatore non resta altro che cambiare canale. Come, del resto, avviene in USA, dove il fastidio degli inserti pubblicitari è ripagato dalla gratuità del servizio, mentre i servizi a pagamento – quali la pay-tv (tv a pagamento) e la toll-tv (tv a pedaggio) – ne vanno del tutto esenti.
Danni morali e materiali degli autori?
Al fastidio causato nel telespettatore dall’invasione della pubblicità nei film, praticata dalle teletrasmittenti libere, verosimilmente si accompagna la lesione di legittimi interessi morali e materiali degli autori dei film; interessi che, però, trovano nella legislazione italiana e internazionale un’iterata tutela. Per esempio: nell’art. 35 della Costituzione: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni»; nel n. 27, § 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (ONU, 10 dicembre 1948): «Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore»; e soprattutto negli artt. 18 e 20 della Legge sul diritto d’autore, n. 633 del 21 aprile 1941 – modificato, l’art. 20, dal d.P.R. dell’8 gennaio 197910 –, che sanciscono «il diritto esclusivo dell’autore di introdurre nell’opera qualsiasi modificazione», e il diritto di «opporsi – indipendentemente dai diritti di utilizzazione esclusivamente economici – a qualsiasi modificazione dell’opera che possa essere di pregiudizio al suo onore e alla sua reputazione».
Tutto questo, però, resta più che altro sulla carta, perché nella pratica quotidiana, almeno nel caso della pubblicità interpolata nei film, per varie ragioni ogni tutela risulta incerta e laboriosa. Intanto perché risultano incerti i soggetti che possano e vogliano avvalersene, per esempio – sempre che il termine di tutela non ne sia decorso – per percepire adeguati compensi economici per lo sfruttamento delle loro opere, all’occasione sollecitando – in Italia per tramite della SIAE – le relative azioni civili e penali previste dalla legge. Secondo questa, infatti, «gli autori del film sono quattro: il soggettista, lo sceneggiatore, il regista e il direttore della musica; inoltre è dispersivo tanto il loro associazionismo quanto quello delle imprese private» (Fragola, 42. e 6)11; per non ipotizzare altri eventuali risarcimenti morali o materiali accampabili magari dagli attori (come fa Caruso, 37), o dai produttori (come fa Lucisano, 36). E soprattutto perché resta arduo precisare, per legge o in giurisprudenza, quanti e quali inserti siano necessari e sufficienti per far ritenere sostanzialmente alterata l’omogeneità e l’integrità dell’opera, e con ciò far ritenere «pregiudicati l’onore e la reputazione del suo autore»12.
Tanto per cominciare, la questione riguarda soltanto i rari film che risultino propriamente qualificabili – ma: come? e da chi? – «opere d’arte», la cui corretta fruizione, cioè, resti strettamente legata all’integrità dei mezzi espressivi usati dall’autore; mentre esula dalla massa dei film ordinariamente in programma: agglomerati più o meno coerenti, in funzione o di grosso spettacolo, o di bassa mostra di violenza e di erotismo. Anzi, dato che, in questi film, quello del lucro sovrasta ogni altro scopo, anche nell’ipotesi che inserti pubblicitari ne turbino in qualche misura l’andamento, è da ritenere che i loro autori – attori e produttori – non solo non se ne daranno per danneggiati nel proprio onore, ma se ne terrano gratificati, qualora – come, ancora una volta, è nella prassi USA13 – dagli stessi inserti, liberamente concordati con le teletrasmittenti libere, riescano a ricavare un utile economico aggiunto a quello della programmazione dei loro film. Ma anche nell’ipotesi di film indiscutibilmente «opera d’arte», le cose non restano ancora così chiare, dato che
«le lesioni del diritto morale dell’autore potrebbero essere di varia entità, in relazione alla scelta del punto d’interruzione del film, alla frequenza delle interruzioni stesse, alla durata delle stesse [...], secondo il cit. art. 20 della Legge avendo rilevanza [...], non tutti i danni arrecati all’opera, ma solo quelli che giungano – [qui sta il punto!] – a causare pregiudizio all’opera e alla reputazione dell’autore» (Carosone, 32).
Se, dunque, saranno senz’altro da ritenere rilevanti le interruzioni operate nel vivo delle sequenze filmiche, alterandone il ritmo narrativo figurativo e sonoro, lo saranno poco o nulla quelle operate, supponiamo, tra una sequenza e l’altra o, meglio, tra un tempo e l’altro, del film; e, se sarà da ritenere senza dubbio rovinato un film frastornato da venti e più inserti di trenta e passa secondi l’uno, c’è da chiedersi se lo sia anche un film interrotto da solo quattro spot, di appena sette secondi l’uno14.
Ma non finiscono qui le perplessità sull’accertamento di illecite e illegali manomissioni televisive di film «opera d’arte». Invero, per quante e quali esse siano, occorre poi appurare se, di fatto, arrechino pregiudizio proprio «all’onore e alla reputazione del loro autore». Ferma, infatti, restando «l’identificazione dell’onore col complesso delle qualità morali del soggetto, e quella della reputazione col buon nome, la fama e la stima dello stesso» (Fuzio, 15), c’è da dubitare che il fastidio causato dagli inserti nei telespettatori porti questi a sminuire l’onore e la reputazione proprio dell’autore del film. Almeno tra noi in Italia, sapendolo estraneo allo scempio della sua opera, la loro avversione si volgerà presumibilmente tutta e sola contro le libere trasmittenti, che senza ritegno lo perpetrano15.
Interventi legislativi o autocontrollo?
Quali le direttive dell’Incontro-’82 per una soluzione, se possibile, ottimale della pubblicità nei film televisivi? Esse partono da questi tre dati fuori discussione: 1) che – avvenga essa, o non avvenga, in parallelo con quella della RAI-TV – anche in Italia l’emittenza televisiva libera venga senz’altro ammessa e con ogni mezzo favorita, quale esercizio effettivo, sia della libertà di manifestazione del pensiero e di libertà d’informazione, sia d’iniziativa economica di rilevante interesse sociale; 2) che non potendo – a differenza della RAI-TV – contare su proventi finanziari derivanti da un’imposta-canone, è normale che le televisioni libere ricorrano, quanto e come possono, a quelli pubblicitari; 3) che però questa servitù-provento non le esime dalla tutela dei legittimi interessi, così degli spettatori, come di quanti di fatto concorrono nella diretta realizzazione dei programmi.
Nel merito, poi, alcuni partecipanti all’Incontro propendono per interventi legislativi, i quali, nel regolamentare – finalmente! – l’attuale selvaggio proliferare e strutturarsi dell’emittenza privata, vi tutelino insieme la trasmissione delle opere d’ingegno protette, quelle filmiche comprese.
Nota Fuzio, 18: «Tra le proposte operative per una disciplina della pubblicità commerciale possono indicarsi: 1) l’estensione dei limiti di legge esistenti per le televisioni via-cavo; 2) il raggruppamento degli inserti pubblicitari in appositi spazi concordati; a esempio: coincidenti con gli intervalli dei film, come si verifica nelle sale cinematografiche; 3) l’introduzione di un limite di pubblicità elastico e proporzionale alla produzione propria di ogni televisione privata. Tale rapporto costituirebbe un giusto riconoscimento alle televisioni più impegnate e garantirebbe sufficienti fondi alle stesse, premiando le più meritevoli imprese locali».
Invece altri partecipanti, «stante anche la cronica “latitanza” del legislatore italiano in materia di televisioni private», propendono piuttosto verso un’autoregolamentazione di tutti gli aventi parte in causa16.
Continua Fuzio, 19: «La creazione di un codice di comportamento , se non offre alcuna garanzia concreta di effettività, appare peraltro vantaggiosa, quanto meno come base di una futura regolamentazione legislativa. Inoltre questa proposta potrebbe trovare consenzienti gli stessi titolari delle televisioni private, ai quali potrà essere offerta come contropartita la momentanea rinuncia alle azioni giudiziarie da parte degli autori. In proposito, si propone anche la creazione di una speciale commissione competente a esercitare un obbligatorio tentativo di conciliazione di qualsiasi controversia in tema di pubblicità, tentativo che potrà essere condizione necessaria prima di ogni giudizio dinanzi all’autorità giudiziaria».
Due proposte decisamente fantascientifiche, in un mondo come quello del cinema e delle televisioni libere, in cui – business are business! - «non è il diritto a regolare la materia, ma sono le forze economiche ad adattare il diritto alle proprie esigenze [...], e in cui si va facendo strada l’idea di compensare le perdite dei diritti con contropartite economiche» (Bizzarri, 37).
In questo caso, a noi telespettatori disarmati non resterà che esercitare l’opera di misericordia spirituale di «sopportare pazientemente le persone moleste», al più cercando di evitare gli inserti pubblicitari nei film, giocando avanti al teleschermo con la provvidenziale pulsantiera; mentre agli autori non resterà che rassegnarsi alla manomissione dei loro interessi economici; in quanto, poi, alla manomissione di quelli morali, resterà loro soltanto il magro ripiego di disconoscere la paternità delle loro opere manomesse.
1 Uno dei casi più clamorosi si verificò con la mini-serie Olocausto, in cui – come scrisse il critico del New York Times John O’Connor – «una scena che mostra gli ebrei di fronte alle camere a gas è interrotta da un messaggio di Lysol sulla sua utilità nell’uccidere i germi e, dopo alcune scene con perversi ufficiali nazisti che guardano fotografie di assassinii in massa, viene offerto uno stacco pubblicitario sulla Polaroid (C. SARTORI, L’Occhio universale, Rizzoli, Milano 1981, 23).
2 Gli Atti sono nel quaderno Film in tv e pubblicità, GEA, Roma 1983, alle cui pagine rimandano i rinvii nel testo.
3 Presidente l’avvocato A. Fragola, ne sono stati relatori: G. Aversa, della Direzione generale dell’Informazione presso la Presidenza del Consiglio; P. Bafile, magistrato amministrativo; A. Bonomo, del Foro di Milano; O. Carosone, L. Conte e M. Fabiani: rispettivamente dirigente, presidente e consigliere giuridico della SIAE; R. Fuzio, pretore; E. Galtieri, già della Presidenza del Consiglio; T. Mazzarocchi, del Ministero del Turismo e dello Spettacolo; E. Pessina, docente di diritto della comunicazione sociale. Sono intervenuti nel dibattito: A. Incrocci, autore, più noto come AGE; A. Angeli; G. Assumma, avvocato; L. Bizzarri, docente e critico; D. Bonaccorsi, della Procura di Roma; P. Caruso, attore; L. De Laurentiis, vice presidente dell’ANICA; F. De Luca, della presidenza dell’AGIS; C. Gessa, consigliere di Stato; V. Giacei, critico cinematografico; F. Lucisano, presidente dell’Unione produttori; P. Vivarelli, regista; e F. Zeno, del Centro Calamandrei.
4 Col bel sillogismo: «L’informazione è assistita da garanzia costituzionale (art. 21); ma la pubblicità è essenzialmente informazione; dunque la pubblicità non può essere sottoposta a interventi censori, pubblici o privati» (Bonomo, 22). Al quale, tuttavia, 1) si potrebbe osservare che, propriamente parlando, il cit. art. 21 non parla d’informazione ma di «libera manifestazione del proprio pensiero», a proposito del quale, poi, nel caso di «manifestazioni contro il buon costume», demanda alla «legge di stabilire provvedimenti adeguati a prevenire e a sopprimere le violazioni»; 2) che lo stesso Autore inficia il suo sillogismo quando, affermato che «la premessa minore (pubblicità = informazione) non può essere messa in dubbio», è costretto a ridimensionarla ammettendo che «al di fuori dell’equazione anzidetta, non c’è pubblicità, ma réclame menzognera e comparativa, che costituisce concorrenza sleale»; 3) infine che (come rileva Gessa, 35), «Oggi [erroneamente!] si ragiona sulla base degli artt. 41 e 21 della Costituzione: l’iniziativa economica di cui all’art. 41 viene innestata erroneamente nel disposto dell’art. 21, e pertanto l’operatore si avvale dell’art. 41 per occupare spazio pretendendo quindi di esercitare un diritto d’iniziativa economica con la garanzia dell’art. 21: tesi infondata perché la pubblicità non è trasmissione di pensiero, ma supporto dell’iniziativa economica».
5 «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione[...]. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni».
6 «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
7 Dissente Pessina, 27, il quale scrive: «Una disciplina legislativa risponderebbe a principi affermati dalla Corte Costituzionale, secondo cui “la garanzia della libertà d’iniziativa economica, dichiarata in via generale dalla Costituzione, non esclude, anzi espressamente prevede, l’intervento in materia del legislatore ordinario, per realizzare nel miglior modo possibile, coordinandole fra loro, le finalità dell’art. 41 (Corte Cost. 18 maggio 1959 n. 32)”. Perciò sarebbero legittime limitazioni di legge, volte a impedire che essa si esplichi in contrasto con l’utilità sociale, o rechi danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (nel caso: lèggi spettatore-destinatario della comunicazione sociale).
8 «La natura tributaria del c.d. canone di abbonamento è fortemente radicata nella giurisprudenza [...]. Nondimeno deve essere coltivata e sostenuta l’opinione secondo la quale tratterebbesi di “prezzo” quale corrispettivo del servizio» (A. FRAGOLA, Casistica giudiziaria sulla radiotelevisione pubblica e privata, GEA, Roma 1981, 30).
9 «Il tribunale di Roma (sent. 7 nov. 1978) ha negato che la RAI svolga una pubblica funzione, bensì un pubblito servizio: distinzione di grande rilievo, in quanto la funzione pubblica rientra originariamente tra i fini connaturali ed essenziali dello Stato, inerendo allo Stato medesimo; mentre il pubblico servizio, per quanto aderente alle finalità dello Stato, può essere perseguito, come accade sovente, attraverso soggetti privati» (ivi, 25). Tener presente che la Corte Costituzionale (con sentenza n. 148, del 21 luglio 1981), sia pure per via implicita, ha riconosciuto la natura di servizio pubblico essenziale anche alle televisioni private locali via etere.
10 «Vi si riconosce all’autore il diritto di opporsi non solo a deformazioni, mutilazioni o altre modificazioni dell’opera, ma anche a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possa essere di pregiudizio all’onore o alla reputazione dell’autore» (Fabiani, 8). «Il legislatore italiano, con questa revisione dell’art. 20, ha voluto conformarsi al dettato dell’art. 6-bis della Conferenza di Unione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche, ripreso e completato alla successiva Conferenza Diplomatica di Bruxelles del 1948” (Varrone, 46). «La modifica dell’art. 20 ha ampliato il grado di tutela del diritto d’autore, così che non pare che ci possano essere dubbi sull’astratta ipotizzabilità di un’azione inibitoria da parte dell’autore di un film, in ordine all’interruzione operata sullo stesso dai titolari delle imprese di telediffusione private per la messa in onda delle inserzioni pubblicitarie» (Fuzio, 16).
11 Commenta Galtieri, 20: «Nell’esercizio dei diritti di cui all’art. 20 della Legge da parte dell’autore o, in caso di sua morte, dalle persone elencate dall’art. 23 (coniuge, figli e, secondo il caso, ascendenti, discendenti e collaterali) [...], in caso di opere straniere [...] non poche difficoltà si presentano in pratica per la repressione dell’illecito, del quale i predetti non sono solitamente neppure a conoscenza».
12 Nota Aversa, 11: «Nell’ipotesi che gli autori non ne siano consenzienti, si pongono due quesiti di compresenza di due effetti: 1. L’interruzione breve delle sequenze di un’opera cinematografica può configurarsi un atto giuridicamente rilevante a danno dell’opera stessa? 2. Ammesso che tale interruzione sia da ritenersi lesiva nei confronti dell’opera, può da tale danno derivare pregiudizio all’onore e alla reputazione dell’autore? Anche la giurisprudenza non porta ad affermare che le due ipotesi illecite ricorrano sempre».
13 «Nell’ordinamento statunitense si ammette che l’inserzione pubblicitaria, se non consentita espressamente dall’autore, lede il diritto dell’autore dell’opera (Zeno, 41). «È ben conosciuta la soluzione americana, dove gli spots pubblicitari durante i film sono preordinati di comune accordo con il titolare dei diritti e, spesso, col regista dell’opera» (Conte, 8).
14 Nota Fuzio, 17: «Una rilevazione personale di questa sera mi ha fornito questi dati: quattro interruzioni in un’ora, ogni dodici minuti e mezzo. Cinque o sei shorts pubblicitari per ogni tornata, per complessivi dieci minuti per ogni ora di trasmissione di film. Ciò porta quasi ad affermare che il film sia un semplice veicolo per fare della pubblicità».
15 Nota Assumma, 41: «Perché ricorra questa fattispecie [della violazione dell’onore e della reputazione dell’autore], il fatto contestato deve suscitare nel consumatore una reazione negativa nei confronti dell’autore; ma l’introduzione di spots pubblicitari, se suscita una reazione nell’utente, è nei confronti della televisione privata, e non dell’autore».
16 Vi è propenso Fragola, 6: «Perché non affidare a un “decalogo”, a un “codice di comportamento”, a un’autodisciplina interprofessionale, nella quale sia peraltro presente anche la voce dell’utenza, e con il controllo di un collegio arbitrale?»; il quale Autore, nel cit. Casistica giurisdizionale sulla radiotelevisione privata e pubblica, 59-60, come esempio cita le Convenzioni con la SIAE dell’UNIET e della FIEL, rispettivamente del 4 luglio e del 11 dicembre 1982. In proposito è utile leggere la Normativa concordata a Milano il 25 ottobre 1982 tra emittenti private e l’UPA (Utenti Pubblicità Associata) per la pubblicità televisiva, riportata in Film in tv e pubblicità, cit., 13. Si mostrano scettici Carosone, 33: «Dato che ci si troverà a dover affrontare questioni giuridiche, e soprattutto notevoli e specifiche questioni tecniche»; Pessina, 27: «Dato che gli interessi in gioco sono rilevanti e discordanti»; e specialmente Bafile, 29, che opportunamente nota: «A parte le difficoltà di condurre al tavolo delle trattative le TV private, e ammesso che ci si accordi di non effettuare interpolazioni sulle opere cinematografiche: non spunterà, prima o poi, l’inserzionista-committente che si crede più furbo degli altri, e che, pagando di più, chiede l’immissione degli spots nei film, nella convinzione (o nell’illusione) di dare più forza al proprio messaggio pubblicitario? O il produttore più furbo, che consente le immissioni nel proprio film per “venderlo” più facilmente, o a migliori condizioni che alla RAI-TV? O il network più furbo, che torna a praticare le immissioni per rastrellare più pubblicità? Quale sarà la “sanzione” per chi viola il “Codice di comportamento”? Il pagamento di una penale? E a chi? L’espulsione dalla propria associazione di categoria? Ma sono sanzioni “persuasive”?».