Articolo estratto dal volume II del 1969 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
I problemi della stampa d’informazione ci toccano tutti: giornalisti – agenzie, editori e scrittori – e lettori: attuali o potenziali. Forse anche questo spiega l’insolito successo – tre edizioni in due mesi – di Giornali in crisi, indagine sulla stampa quotidiana in Italia e nel mondo, di Del Boca1.
Quali le cause di questa crisi? La prima risiede nell’esplosivo progresso tecnologico, che sta liquidando quanto resta dell’era gutenberghiana della stampa. Le ormai lente fonditrici meccaniche (linotypes), che ottant’anni fa sostituirono la secolare composizione a mano di caratteri mobili, vengono a loro volta sostituite da teletypes e da fotocompositrici (fototypes): «fredde» e capaci di trentamila caratteri al minuto; anzi dagli optical character readers, in grado di leggere e fissare dattiloscritti alla velocità di ventottomila parole al minuto. Ordinatori elettronici (computers) vanno soppiantando l’arcaica impaginazione manuale sul bancone; inoltre: non più il tardo ed ingombrante trasporto, per ferrovia o aereo, di giornali stampati da un’unica tipografia, a lontani centri di distribuzione, ma la teletrasmissione, via satelliti, da un punto all’altro del globo, in qualche minuto, delle matrici da stampare in loco, con rotative offset superveloci, al ritmo di centomila copie l’ora. Insomma: ancora due o tre anni ed il giornale del futuro – quale lo descrive l’inventore del termine automation, John Diebold – apparterrà non più alla fantascienza ma alla realtà.
«La redazione non ha più nulla in comune con quella di oggi: assomiglia piuttosto ad un laboratorio di ricerche. Il direttore è seduto ad un ampio tavolo, che ingloba schermi televisivi, quadranti di controllo, leve di comando, pulsanti e l’interfono con l’ordinatore. Se egli desidera avere un quadro esatto della situazione del giornale, aggiornato all’ultimo istante, non ha che da premere un pulsante e su uno degli schermi compariranno tutte le informazioni che lo interessano: le vendite del giorno prima, le curve statistiche degli ultimi sei mesi, il risultato dei sondaggi d’opinione e delle ricerche di mercato. Mentre fornisce questi dati, l’ordinatore elettronico continuerà a raccogliere la valanga di notizie necessaria per fabbricare il giornale, registrerà le foto in provenienza da ogni parte del mondo, decifrerà i dispacci di agenzia attraverso un lettore automatico, immagazzinerà altre informazioni supplementari, che avrà attinto dall’archivio e dalle telebiblioteche.
«Questo materiale, dopo essere stato vagliato, suddiviso e rimodellato dai redattori, sarà poi messo a disposizione del direttore su di uno schermo per l’approvazione definitiva. Egli potrà tagliare o correggere gli articoli grazie ad una matita elettronica, dopodiché il materiale verrà avviato su altri monitor per la messa in pagina. Con un gioco di pulsanti, infatti, l’impaginazione potrà far apparire sugli schermi i testi, le fotografie ed i titoli e potrà sistemarli come se operasse sul classico bancone. Soltanto che lo spostamento dei testi, il ridimensionamento delle foto, la sostituzione dei titoli saranno operazioni istantanee e facilmente ripetibili. Quando mancheranno pochi minuti all’ora della chiusura, il direttore premerà un pulsante e farà scorrere sullo schermo tutte le pagine del giornale per l’ultimo controllo. Quindi verrà il momento di abbassare la leva che è contrassegnata dalla parola Stamp e l’intero giornale si materializzerà. Le immagini degli schermi saranno infatti “sviluppate” e i negativi fotografici delle pagine saranno inoltrati per “telefacsimile” ai vari stabilimenti tipografici dislocati nel Paese, dove anche le ultime fasi della stampa e spedizione del giornale saranno del tutto automatizzate» (pp. 262-263).
Qualcuno sorriderà di questa visione di fantascienza. Non però i proprietari di un’industria sì atipica e rischiosa qual è l’editoria giornalistica. Pochi, infatti, sono quelli che dispongano dei finanziamenti astronomici richiesti dalle nuove apparecchiature e, tra essi, non tutti se la sentono di correre il rischio supplementare di ritrovarsele, quelle apparecchiature, non ancora ammortizzate, presto superate da innovazioni tecniche più efficienti e più costose. Di qui il primo aspetto della crisi dei giornali. Da una parte la progressiva asfissia e l’estinzione delle testate minori – in media, nel mondo, un decesso alla settimana; più di centosessanta in questo dopoguerra nella sola Italia –; dall’altra l’elefantiasi degli editori più pingui ed avventurosi, mediante la concentrazione o la fusione delle testate – gli imperi di Cccii King in U.S.A., di Lord Thomson of Fleet in Inghilterra, di Axel Springer in Germania... –, oppure totalizzando singole tirature mostruose, quali i quattro milioni e mezzo del Bild Zeitwzg in Germania, i più di cinque milioni del Daily Mirror in Inghilterra, i sette gli otto e i nove milioni, rispettivamente, dei giapponesi Mainichi Shimbun, Yomiuri Shimbun ed Asahi Shimbun.
Già i problemi economico-organizzativi di questo processo di automazione-invadenza-assorbimento si presentano numerosi e gravi. Tra quelli rilevati dal Del Boca: problemi, per esempio, di riqualificazione tecnica dei giornalisti (oltre che delle maestranze); adeguamento della loro forma mentis e del loro stile ai tempi di lettura, ridotti e convulsi, dell’uomo moderno; problemi di tirature e di distribuzione, per ridurre la resa delle copie invendute (in attesa del giornale distribuito direttamente a domicilio via radio...); problemi di tempestività e di completezza delle notizie, rese, quelle del giornale, sempre più deperibili dall’informazione istantanea ed onnipresente attuata dalla radio e dalla televisione...
Ma più preoccupanti si presentano le questioni – e siamo al secondo aspetto della crisi dei giornali – che toccano il contenuto e la qualità stessa delle notizie, e quindi mettono in pericolo il diritto dei lettori a ricevere un’informazione oggettiva; anzi, ancor prima, il diritto e le stesse possibilità concrete del giornalista di essere, lui per primo, oggettivamente informato, e di oggettivamente esprimere e comunicare quanto gli consti. A parte, infatti, il caso limite, ma tutt’altro che ipotetico, di regimi totalitari, per i quali l’informazione (e perciò anche la stampa) a senso unico è conditio sine qua non di sopravvivenza – lo squallido panorama del Del Boca sulla stampa in URSS (p. 265 ss.) è tanto più denunciatorio quanto forzosamente breve –, i problemi di libertà di opinione e di espressione, e dell’obbiettività d’informazione, preoccupano anche nei paesi dove la stampa passa per «libera».
Si pensi, per esempio, al monopolio di fatto, e perciò alle possibilità di censura e di manipolazione alla fonte stessa delle notizie, esercitato da poche grandi agenzie d’informazione, soprattutto se economicamente ed ideologicamente solidali con le concentrazioni editoriali di cui sopra. Si pensi soprattutto al condizionamento opinionale che tende ad instaurarsi là dove l’editoria giornalistica, non quadrando più i propri bilanci con la vendita delle notizie ai lettori, per sopravvivere deve ricorrere all’ossigeno di gruppi industriali o politici; oppure, caso più frequente, deve vendere il massimo possibile di spazio alla pubblicità, che così finisce con diventare la sua finanziatrice principale. Nel primo caso, sarà difficile ai giornali asfittici esprimere opinioni che possano dispiacere a chi manovra le bombole dell’ossigeno; nel secondo, s’incrementerà l’elefantiasi delle poche testate superstiti: e, addio pluralità di voci, a garanzia di un’informazione oggettiva; anzi: addio a qualsiasi espressione di opinioni «compromettenti», vale a dire che rischino di dividere, e quindi di ridurre la massa degli acquirenti, perciò anche quelle grandi tirature che sole attirano la grande pubblicità.
Un terzo aspetto della crisi, che particolarmente dovrebbe preoccupare noi italiani, è quello della tiratura complessiva dei nostri 79 giornali rispetto ai lettori reali e potenziali del Paese. Pare che essa non tocchi i sei milioni, e che gli esemplari realmente venduti non superino i 4,8 milioni: vale a dire, appena la metà di un solo giornale giapponese, l’Asahi Shimbun! Limitandoci all’Europa (la cui media è di 23 giornali su 100 abitanti): contro le 49 dell’Inghilterra, i 33 della Svizzera, i 27 della Francia, i 22 dell’Austria e dell’URSS, i 15 della Romania, dell’Ungheria, della Bulgaria e della Polonia, i 12,5 della Grecia: l’Italia, con appena 12 copie su cento abitanti, si confina al sest’ultimo posto della graduatoria, prima solo della Spagna (con 11), il Portogallo e la Iugoslavia (con 7,8), l’Albania e la Turchia (rispettivamente con 4,9 e 4,5).
Quali le cause di questa diffusione, – che il Del Boca qualifica «quasi africana» –, di appena un’unità superiore al minimum normale, stimato dall’UNESCO in almeno dieci copie su cento abitanti? L’autore, sintetizzando quanto è andato esponendo nelle pagine precedenti, ne propone questo elenco come «sufficientemente organico e completo» (p. 161 ss.):
- Il mancato rinnovamento del quotidiano (sotto tutti gli aspetti), in gran parte dovuto alla carenza di editori «puri».
- Il sottosviluppo culturale e socio-economico di parte della popolazione del nostro Paese.
- L’aumento progressivo dei costi di produzione e di distribuzione.
- La sfiducia verso un mass-medium, che limita il diritto all’informazione completa ed obiettiva
- La concorrenza della televisione (come mezzo di informazione e come strumento pubblicitario).
- La concorrenza dei settimanali in rotocalco.
- La gestione economico-finanziaria antiquata ed empirica (scarsa applicazione della contabilità industriale, ignoranza del controllo budgetario e dei vantaggi della programmazione).
- La bassa produttività, causata dall’imperfetto sfruttamento degli impianti tipografici e della mancata introduzione dell’automazione in alcuni reparti.
- L’ostilità dei tipografi all’introduzione nell’azienda giornalistica di nuove macchine e di tecniche più avanzate.
- La distribuzione del quotidiano, arcaica e difettosa.
- L’incapacità del quotidiano ad esprimere nuove forme di pubblicità per se stesso.
- La scarsa conoscenza dei gusti e delle esigenze dei lettori.
- La mancata diversificazione dei quotidiani (in «popolari», «d’informazione», «d’opinione», ecc.).
- La dipendenza del quotidiano, sempre più condizionante, dagli introiti della pubblicità.
- Le difficoltà logistiche per la natura del Paese.
- L’insufficiente preparazione civica impartita dalla scuola italiana.
Tra queste ragioni meritano – ci pare – particolare attenzione: la seconda, come diagnosi; la quinta e la sesta, come sintomo; e l’ultima, come anamnesi profilassi e terapia di un quadro morboso che ci umilia. Poco varrà, infatti, nella crisi della nostra stampa d’informazione, ovviare alle carenze redazionali tecniche2 quand’essa continuasse a rivolgersi ad una popolazione che, allergica alla lettura, batte in Europa i non invidiabili record assoluti delle frequenze cinematografiche e del consumo dei rotocalchi, dei fumetti e dei giornali sportivi, e che si avvia a battere anche quello del consumo televisivo di evasione. Meglio varrebbe, senza ignorare i problemi tecnico-organizzativi interni ed esterni al giornale, puntare sulla sensibilizzazione e formazione dei potenziali lettori; formazione non soltanto civica, bensì anche e prima di tutto culturale – generale, ed anche specifica riguardo al giornale –, mobilitando i due strumenti più efficaci e, oggi come oggi, insostituibili: la scuola d’obbligo e la televisione.
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Questi pochi punti che siamo andati rilevando nel saggio del Del Boca valgano a spingere i giornalisti e i pubblicisti, che ancora non lo conoscessero, a procurarselo. Non se ne pentiranno. Esso completa ed aggiorna, specialmente riguardo all’Italia, alcune opere che non dovrebbero mancare nella biblioteca di ogni nostro buon giornalista, quali quelle di Terrou, Kaiser e Voyenne, di Scodro, Weiss, Barbieri, Stagno, Gaeta, Mottana, Schwoebel: oltre tutto, poggia su documentazione inchieste e testimonianze di prima mano3, si raccomanda per esemplare chiarezza e correttezza espositiva e redazionale, accompagna le sgradite diagnosi con proposte concrete, propone e difende opinioni largamente condividibili4. Insomma, si offre come utile sussidio per quanti vogliano assolvere, con senso di civile responsabilità e secondo le esigenze dei nuovi tempi, la loro alta missione di onesti ed efficaci informatori.
1 ANGELO DEL BOCA, Giornali in crisi. Torino, AEDA, 1968, 8º°, 386. L. 3.000. Dopo la Prefazione, di ENZO FORCELLA, e l’Introduzione, dello stesso Del Boca, il volume, nella Parte prima tratta della Crisi in Italia (la stampa quotidiana in Italia e nel mondo; classificazione del quotidiano in Italia; sue caratteristiche; ritratto del lettore italiano; tentativi di svecchiamento: la gestione dell’azienda giornalistica; libertà di stampa tra il potere politico e quello economico; cause della crisi). Nella Parte seconda tratta della Crisi nel mondo (con panoramiche sul quotidiano in Francia, Germania Federale, Inghilterra, Svizzera, Giappone, Stati Uniti e U.R.S.S.). Nella Parte terza prospetta quale sarà il Quotidiano degli anni settanta. Seguono, in Appendice: l’elenco delle testate italiane aggiornato al marzo 1958; l’elenco dei quotidiani scomparsi in Italia tra il 1944 e il 1967; una sostanziale Bibliografia e vari Indici.
2 Tra queste ci sembrano degne di particolare attenzione due. La prima è quella di un linguaggio aulico, da iniziati, al quale indulgono ancora troppi giornalisti italiani, più solleciti di venir compresi da chi li impiega nel giornale, o dai propri colleghi, che dai lettori comuni, ai quali, in teoria, il giornale dovrebbe rivolgersi. L’altro è quello della scarsa o nulla partecipazione dei giornalisti al potere, spesso ancora dittatoriale, del direttore e del proprietario del giornale. Scrive U. Ronfani, de Il Giorno (p. 288): Un quotidiano moderno attinge alla realtà globale di ogni giorno, su scala planetaria, e un uomo solo non arriva più a dirigerlo. Bisogna rivalutare le, “gerarchie del settore” (capi-servizio, capo-cronista, responsabili di edizioni regionali, titolari di rubriche, ecc.), oggi ancora mal definite (anche sindacalmente) e prive di poteri di decisione. E bisogna cominciare a porre il problema della “comproprietà morale” da parte di quanti “fanno” il giornale, così come si è verificato in Francia presso Le Figaro e Le Monde, attraverso la costituzione di una “Società giuridica dei redattori” nel primo caso, e mediante una conduzione di tipo cooperativistico nel secondo». Su questo argomento, cfr quanto più avanti (p. 604) andiamo rilevando a proposito del Quinto Convegno UCSI a Recoaro, e (p. 614) del volume di J. SCHWOEDEL, La presse, le pouvoir et l’argent. A suo tempo, poi, riferiremo che sul volume di PH. BOEGNER, Presse, argent, liberté, che nello stesso titolo si annuncia in polemica col primo.
3 Si veda a p. VII ss. il lungo elenco dei qualificatissimi colleghi e collaboratori, tra i quali, nel suo giusto posto d’onore, la Fondazione Giovanni Agnelli, «che ha consentito ad un giornalista, forse per la prima volta in Italia, di potersi dedicare per quasi un anno, a full time, ad un solo argomento di studio, libero da ogni altra preoccupazione di carattere professionale». Se ne trovassero, in campo cattolico, di siffatti illuminati e moderni mecenati!
4 Però, sul piano dell’opinabile, crediamo che si possa discutere, per esempio, sull’eccessivo (non il «giusto») risalto, di stampo americano, dato all’informazione («la notizia») rispetto all’opinione («il commento»); nonché sul suo paragonare la stampa cattolica ad una qualsiasi stampa d’opinione, e perciò il suo giudicare i legittimi interventi della gerarchia, vale a dire del Magistero quale il cattolico deve intenderlo, come «pressioni» contro la libertà d’informazione. Mentre sul piano d’informazione oggettiva, possiamo assicurare che quanto il Del Boca afferma circa la recente vicenda dell’Avvenire (p. 146) non risponde del tutto a verità; e che la Civiltà Cattolica – checché ne pensi Ignazio Silone – non è «organo centrale della Compagnia di Gesù» (p. 147).