Articolo estratto dal volume II del 1983 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Su invito del collega e amico Vittore Branca, il filosofo e storico francese Etienne Gilson, nei giorni 7/9 settembre 1964, nell’isola S. Giorgio Maggiore a Venezia, teneva tre lezioni sui problemi inerenti alla riproduzione delle opere d’arte. Presto pubblicate nell’originale francese1, recentemente sono state riproposte in italiano con qualche variante, con l’aggiunta di note, e di un quarto capitolo sulle Liturgie di massa2.
Nelle tre lezioni originarie il Gilson tratta, dunque, della riproduzione e diffusione delle opere d’arte; e, in particolare, prima di quelle figurative plastico-pittoriche, poi di quelle musicali, infine di quelle letterarie: riproduzione e diffusione permesse dall’odierno progresso tecnologico, e consumate dall’odierna cultura di massa. Altri si erano interessati all’argomento prima di lui. Tra i nomi più noti ricordiamo quelli di Horkheimer e di Rosenberg-White in USA, di Benjamin e di Morin in Francia3. Il Gilson si segnala tra essi per il suo attenersi strettamente al campo dell’estetica, e per il suo astenersi da ogni giudizio di valore pro o contro la cultura di massa, riconoscendo che «la cultura include, sì, l’arte, ma ne eccede il campo» (p. 21)4, così sfuggendo alla bollatura tanto d’integrato quanto di apocalittico nel mondo dei mass media5.
Dell’esperienza estetica
Rispetto alle opere d’arte plastico-pittoriche, e a quelle musicali, la sua tesi è questa:
«Se è vero che le produzioni dell’uomo sono delle opere piuttosto che delle cose, quelle delle macchine che l’uomo ha inventato per fabbricarle ridiventano delle cose. Sono prodotte dalla macchina, anziché esserlo dalla natura, ma sono delle cose, degli oggetti culturali, invece di opere d’arte. l processi meccanici di moltiplicazione, riproduzione e diffusione delle imitazioni industriali delle opere d’arte hanno dunque per effetto di sostituire, a delle opere d’arte fatte dall’uomo, degli “oggetti d’arte” o “oggetti culturali”, il cui statuto ontologico è analogo a quello delle cose naturali. Dipendente dall’arte nella sua origine, che è l’artista, l’oggetto d’arte ne differisce per la sua causa efficiente, che è la macchina, e per il suo fine, che è il denaro. L’oggetto d’arte è inconcepibile senza l’arte; è, dunque, per la sua origine inseparabilmente legato a quest’ultima; ma il proposito di questi saggi è di prevenire la loro confusione. Sottolineando gli aspetti per i quali le cose culturali non sono vere opere d’arte, vogliamo denunciare la degradazione da cui l’sperienza artistica è minacciata a causa delle tecniche, in apparenza interamente consacrate a servirla» (p. 27).
Ovviamente, riguardo alla riproduzione di opere letterarie6, la tesi di Gilson non punta più su siffatta alterata fruizione estetica indotta nel recettore da autentiche opere d’arte degradate a oggetti culturali, per tutti restando ovvio che, in quanto a contenuto estetico, «nulla distingue le parole stampate da quelle scritte» (p. 82) dall’autore-poeta. Sulle orme, invece, del vetusto Sainte-Beuve7, egli punta sul degradamento esercitato sulle stesse creazioni del mondo letterario dalla loro eccessiva commercializzazione. Scrive:
«La principale differenza introdotta dalla stampa non è d’ordine letterario. Essa riguarda piuttosto il fatto che, a partire dal momento in cui il libro si è moltiplicato, è diventato possibile venderlo in numero di copie più o meno elevato e, di conseguenza, servirsene per guadagnare denaro. L’intervento del denaro e del possibile guadagno ha profondamente mutato le disposizioni di tutti coloro che in qualche modo sono interessati alla produzione e al commercio del libro, compresi gli autori [...]. Lo scrittore moderno è esposto a delle tentazioni che i suoi antenati non hanno conosciuto, e ciò consegue semplicemente dal fatto che la stessa cosa letteraria si è intensamente materializzata a partire dall’avvento del libro stampato» (pp. 82-83).
A conferma di questa sua tesi, il Gilson adduce la storia complessa, lunga e ancora non conclusa del Copyright:
«A partire: dal momento in cui la vendita del libro stampato rappresentò un giro d’affari apprezzabile, divenne difficile ammettere che tutti coloro che contribuivano alla produzione del libro fossero remunerati, salvo l’autore. E dal momento in cui si ebbero “autori di successo” e best sellers, gli editori corsero dietro loro e offrirono di interessarli ai profitti calcolati sulla vendita del futuro libro [...]. Nacquero così i “diritti d’autore:” [...]. Lo scrittore diventa per una parte il commerciante: dei suoi propri scritti. In questa stessa misura egli si rende anche responsabile della commercializzazione e industrializzazione delle Belle Lettere [...]. Le cose hanno cambiato aspetto con la venuta di una nuova classe di scrittori, uomini in maggior parte di talento, ma decisi a sfruttare le possibilità offerte dalla commercializzazione della letteratura. Con essi la letteratura diventò un mestiere [...]. Il “successo” commerciale è per gli scrittori di questo genere una necessità vitale» (pp. 85-87).
E adduce, inoltre, il primato che il genere romanzo, a partire dagli inizi del secolo XIX, ha occupato nella produzione letteraria dell’Europa intera:
«Il primato del romanzo nella produzione: letteraria dei Paesi moderni di civiltà occidentale è evidente. Questi Paesi sono al tempo stesso i più industrializzati. I due: fenomeni sono legati. L’editoria industrializzata deve vendere molto per abbassare il prezzo del costo del libro; ora esiste un solo genere letterario capace di trovare degli acquirenti fra tutti coloro che sanno leggere, anche se non sanno nient’altro, ed è il romanzo [...]. Poiché si rivolge alla sola immaginazione, o quasi, il romanzo è il genere letterario più frequentato dagli scrittori come dai lettori. Le donne vi eccellono. Si spiega così come il romanzo, un tempo disprezzato dagli scrittori alla ricerca della gloria letteraria, offra oggi la soluzione ideale di un problema i cui dati sono tuttora molteplici; qual è il genere di libri che probabilmente troverà maggiori lettori, che si possa di conseguenza stampare senza rischi di invenduto, nel maggior numero possibile di copie e che, per la stessa ragione, si possa vendere al miglior prezzo possibile? Il solo genere letterario che soddisfi a queste condizioni è il romanzo» (pp. 89-90).
Il nodo della riproduzione tecnica
Scorrendo queste pagine, a bella prima si ammira la versatilità del loro illustre Autore, che sugli ottanta – era nato nel 1884 – non esitava a scendere dall’empireo della filosofia e della storia medievale cristiana, al basso cielo della «massmediologia». E soprattutto si ammirano l’acume critico e la chiarezza espositiva di un filosofo scolastico, nutrito di Aristotele e di Tommaso d’Aquino, a dimostrare le sue tesi. Le quali, perciò, di primo acchito, passano senz’altro per convincenti, come dovettero giudicarle quanti, nel ’64, ascoltarono il Gilson a Venezia. Ma a una seconda lettura o, in ogni caso, ripensandoci su, qualche dubbio affiora nella mente, e l’adesione a esse si fa meno ferma. Non tanto a proposito della riproduzione e diffusione delle opere letterarie, dove, come s’è visto, si verifica un fenomeno socio-culturale magari rilevantissimo nella visuale mediologica di un McLuhan, ma poco o nulla di degradata fruizione estetica, quanto a proposito degli altri due casi di riproducibilità e diffusione di opere d’arte. A proposito, infatti, delle opere d’arte figurative, si direbbe che una prevenzione tutta elitaria e da letterato avversa alla tecnica porti il Gilson a diffidare delle odierne e delle future possibilità di riproduzioni che siano in tutto e per tutto fedeli all’originale, o almeno che lo porti a supporre che sempre e dappertutto gli originali artistici si trovino in condizione di fruibilità estetica migliori di quelle offerte dalle loro riproduzioni. Egli, infatti, sembra ignorare i casi, già realizzati o possibili, di riproduzioni perfette, sia per le dimensioni sia per i valori cromatici, per esempio, di xilografie, di miniature o di bronzi; mentre sembra ignorare le condizioni spesso proibitive di visibilità in cui si trovano sculture, pitture o mosaici molto distanti dall’osservatore, o male illuminati: condizioni non certo preferibili a quelle di una buona riproduzione, sia pure non del tutto conforme, per esempio nelle sue dimensioni, all’originale.
Il caso, poi, di una degradata fruibilità estetica di creazioni musicali in quanto tecnicamente riprodotte si presenta anche più malcerto. Il Gilson sembra quasi supporre che l’opera originale dell’artista creatore consista tutta nello spartito, quasi che ogni esecuzione non ne sia necessariamente anche un’interpretazione; e suppone poi che ogni esecuzione non comporti distorsioni toniche, timbriche o di altra natura, tali da alterare sensibilmente l’originale. Ignorando, tra l’altro, l’High Fidelity da tempo raggiunta da molti registratori e riproduttori, così per l’audizione diretta come per radio; e, in, ogni modo, la possibilità di «comporre» direttamente su nastro o su disco musiche originali mediante l’assemblaggio di suoni originati tecnicamente, e tecnicamente conservati.
Resta, è vero, la diversa fruizione – ben rilevata dal Gilson – di una musica che uditóri possano pagarsi ascoltandola di presenza, come pubblico, in appositi auditòri: tutt’altra da quella seguìta da ascoltatori solitari in casa propria o, magari, in auto. Ma quanti, ancor oggi, sono quelli che possono seguire di presenza un concerto, una sinfonia o un’opera in un auditorio o in un teatro cittadino? E, nel caso che lo possano, quanti poi sono in grado di ascoltarvi celebri cantanti, esecutori e maestri, magari da un pezzo scomparsi, offerti dai migliori dischi?
«Mass media» e Vaticano II
Nella quarta lezione, Liturgie di massa, annessa dal Gilson alle tre di Venezia-’64, l’Autore s’inoltra in questioni teologiche, o comunque ecclesiali, con esemplare partecipazione di credente e di cattolico. Tuttavia, in una lo fa con sicura padronanza della materia filosofico-teologica: ed è quella sul qualificativo consubstantialiss (= omooúsios), predicato del Figlio rispetto al Padre nel Credo niceno-costantinopolitano8; mentre in altre due lo fa con rilevanti abbagli: o su dati di fatto – ed è il caso del decreto conciliare sugli strumenti della comunicazione sociale Inter mirifica –, o su posizioni dottrinali: ed è nel suo qualificare e presentare la Chiesa cattolica quale «società di massa».
Infatti al povero Decreto conciliare erroneamente egli attribuisce il record di 503 voti sfavorevoli, e gratuitamente addossa il difetto di «essere in ritardo in rapporto alla scienza dei mezzi di comunicazione sociale» (p. 144)9. Quindi, in una serie di affermazioni tra loro incongrue10, da una parte – ignorando i già allora numerosi e notevoli documenti del Magistero romano in materia11 – egli rimprovera alla Chiesa di «non aver ancora misurato tutta l’estensione del problema» dei mass media; dall’altro mostra di pensare che, invece, ciò l’abbia fatto il Vaticano II nell’insieme dei suoi documenti, ma non col Decreto Inter mirifica, colpevole, questo, di «non dire chiaramente fino a che punto la Chiesa può essere obbligata essa stessa a farne uso, o già ne faccia uso senza averne chiara coscienza»12.
Un’altra menda del Decreto, per il Gilson, starebbe nella sua terminologia. Ignorando del tutto quanto in proposito è stato scritto e documentato13 da chi lo poteva, afferma:
«La terminologia sociologica moderna in uso non era familiare ai Padri. Alcuni la conoscevano, ma essa è ancora incerta, e siccome si traduceva male tanto in latino che in francese, non potendo decidere di parlare in americano, i Padri hanno dovuto accontentarsi di equivalenze approssimative. I mass media of information, o of communication, divengono, nel titolo del decreto conciliare, i mezzi di comunicazione sociale, traduzione che rende assai male il senso originario della formula» (p. 131)14.
Per il Gilson è certo che la Chiesa cattolica sia una «società di massa». Scrive infatti: «Se esistono società di massa, o che hanno la vocazione di essere tali, la Chiesa cattolica è una di esse» (p. 117). E così egli spiega molte iniziative pastorali della Chiesa: dai tradizionali pellegrinaggi e dal teatro (cfr p. 141), dalla liturgia e dalla sua riforma postconciliare (p. 114), all’odierno movimento ecumenico e all’uso dei mass media:
«Gli attuali sforzi per l’ecumenismo hanno come primo scopo di far sì che questa società, virtualmente universale e di massa, lo divenga attualmente e nella realtà. Come ogni società di questo tipo, la Chiesa ha bisogno di strumenti di massa per assicurare la sua estensione alle masse e la loro integrazione perfetta, che è poi il suo fine [...]. Sembra che una sorta d’armonia divina debba predestinare la Chiesa cattolica [...] a utilizzare gli strumenti di massa per realizzarsi. È inevitabile che i suoi strumenti di reclutamento siano anzitutto gli strumenti di massa e per le masse. La Chiesa è come votata ai mass media (p. 109).
Il malinteso è stato ingenerato nel Gilson da quella che egli – poco al corrente di altre definizioni, magari di «apocalittici» – ha creduto una «precisa» (p. 28) e «luminosa» (p. 107) definizione di società di massa, non per nulla proposta dall’americano e «integrato» Edward Shils, secondo il quale «la nuova società [americana e dei mass media] è una società di massa nel senso che la massa della popolazione è stata incorporata [into] nella società» (ivi)15. Infatti, commenta il Gilson:
«Probabilmente non esiste una società reale [come la Chiesa cattolica] in cui la popolazione sia completamente incorporata into, all’interno della sua stessa massa [...]. La Chiesa di Cristo, può ben essere definita [...] come il tipo perfetto della società di massa, alla quale tutti i suoi membri partecipano nello stesso senso, allo stesso livello, dotati degli stessi mezzi e con la promessa dello stesso fine soprannaturale, poiché il vero capo di questa società è Dio stesso, di fronte al quale tutti gli uomini sono uguali. Fin dalla sua creazione, la Chiesa ha voluto essere ciò che oggi si chiama una società di massa, in cui ogni cristiano sia incluso a pari titolo, e goda come ogni altro di tutti i privilegi connessi alla qualità di membro, per il solo fatto di essere parte del gruppo per mezzo del battesimo e della fede in Gesù Cristo» (p. 108).
Si direbbe che al Gilson, da una parte sfugga la connotazione negativa che – senza con ciò aggregarsi con gli «apocalittici»16 – nel parlare comune accompagna il termine massa (e il relativo massificazione), perciò esplicitamente evitato dall’Inter mirifica17: connotazione che è tutt’altra da quelle proprie degli affini pubblico, popolo, comunità, società; e che, dall’altra, gli sfugga la struttura gerarchica della Chiesa, nella quale la fondamentale uguaglianza delle persone, costituita dal battesimo, s’integra nella differenziazione gerarchica dei carismi e dei ruoli.
È la linea di pensiero di Pio XII, che, denunciando le massificazioni perpetrate dal marxismo dal nazismo e dal fascismo, rivendicava così la dignità e i diritti della persona umana nella stessa società civile:
«Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio. Si opponga all’eccessivo aggruppamento degli uomini, quasi come masse senz’anima; alla loro inconsistenza economica, sociale, politica, intellettuale e morale; alla loro mancanza di solidi principi e di forti convinzioni, alla loro sovrabbondanza di eccitazioni istintive e sensibili, e alla volubilità. Favorisca con tutti i mezzi leciti, in tutti i campi della vita, forme sociali in cui sia resa possibile e garantita una piena responsabilità personale, così quanto all’ordine terreno come quanto all’eterno»18.
Ed è la linea di pensiero del Vaticano II, che nella Lumen gentium sulla Chiesa, dopo aver ricordato le immagini «desunte, sia dalla vita pastorale o agraria, sia dalla costruzione di edifici e anche dalla famiglia e dagli sponsali», con le quali già nell’Antico Testamento veniva proposta l’intima natura della Chiesa (n. 6), si dilunga specialmente in quella di «Popolo di Dio»: che «ha per capo Cristo», «per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio», «per legge il nuovo precetto di amare», e «per fine il Regno di Dio» (n. 9).
1 Nel 29 dei Quaderni di S. Giorgio: Arte e cultura nella civiltà contemporanea, Sansoni, Firenze 1966; e anche, l’anno dopo, in E. GILSON, La societé de masse et sa culture, J. Vrin, Paris 1967.
2 E. GILSON, La società di massa e la sua cultura, Vita e pensiero, Milano 1981, 146, L. 8.000. Alle pagine di questo volume rimanda il testo di questa Rassegna.
3 M. HORKHEIMER, Art and Mass Culture, in Studies in Philosophy and Social Sciences, n. 9, 1941; B. ROSENBERG – D.M. WHITE, Mass Culture, The Free Press, Glencoe 1957; W. BENJAMIN, L’ouvre d’arte á l’époque de sa reproduction mécanique, Julliard, Paris 1959 (in italiano: L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966); E. MORIN, Lesprit du temps, Grasset, Paris 1962 (in italiano: L’industria culturale, Il Mulino, Bologna 1963).
4 Precisa sin dall’Introduzione: «Il nostro problema è di sapere ciò che accade all’esperienza estetica quand’essa verta su degli oggetti di cultura massiva [...]. Discutendo tale problema dovremo formulare alcune critiche sul valore dei risultati ottenuti, ma ciò avverrà soltanto quando la cultura di massa apparirà tale da ingannare il pubblico sulla natura degli oggetti che essa moltiplica e in effetti, pur non facendo ciò che crede o pretende di fare, è possibile che faccia qualcos’altro di legittimo e, nel suo ambito, di benefico» (p. 21).
5 Cfr U. ECO, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 1964.
6 Egli tiene presente soprattutto la marca dei tascabili (pocket book e paper bound in USA, paperback in Inghilterra, livre de poche in Francia, Taschenbuch in Germania). Non osa, invece, impegnarsi nel macrofenomeno della letteratura tipo digest (cfr nota 15, p. 105).
7 C.A. SAINTE-BEUVE, De la littérature industrielle (scritto nel 1839), in Portraits contemporains, Didier, Paris 1855. Ma l’Autore segue anche la raccolta Bowker Lectures on Book Publishing, Bowker Comp., New York 1957, e B. CERF, Publishers on Publishing, Gosset-Dunlap, New York 1961.
8 Il Con una punta di ironico distacco per i liturgisti francesi, il Gilson, introducendone la trattazione (p. 116 ss), nota: «Il caso del “consustanziale” è particolarmente degno di attenzione, perché – rimasta immutata dalla conclusione del Concilio di Nicea nel 325, incorporata dalla liturgia nel Credo della messa e nel Prefazio della Santa Trinità, inseparabile, per ogni cattolico nato prima della riforma liturgica, dalla fede stessa per la quale egli avrebbe preferito morire piuttosto che rinnegarla, mantenuta d’altra pane nel testo latino del Credo come l’autentica espressione di questa fede – questa parola “consustanziale” è stata esclusa dal testo francese dello stesso Credo. È un fenomeno degno d’attenzione e anche, in un certo senso, di appassionante interesse».
9 Per la verità, l’Autore ha un’attenuante, perché in ciò egli segue il padre Emile Gabel, commentatore, a suo modo, del Decreto. In realtà i voti negativi segnati dal Decreto nella definitiva votazione in aula, avvenuta il 4 dicembre 1963, furono 164, e non 503. In quanto, poi, al «ritardo», va notato che al tempo del Concilio non esisteva – come neanche oggi esiste – una «scienza dei mezzi». Lo stesso Gilson lo rileva notando: «Ma vi é tanta confusione in questa scienza che non sempre si rimpiangerà di avere su di essa il vantaggio di questo ritardo» (p. 144).
10 Scrive: «Non sembra che finora la Chiesa stessa abbia misurato tutta l’estensione del problema. Il Vaticano II ne ha con precisione individuata la natura; in particolare esso ha ben visto quali problemi pone al cristiano l’influenza crescente che esercitano su di lui, spesso a sua insaputa, i mezzi di informazione di massa, ma il decreto del Concilio che tratta del problema non dice chiaramente fino a che punto la Chiesa può essere obbligata essa stessa a farne uso, o già ne faccia uso senza averne chiara coscienza» (p. 131).
11 Per limitarci ai documenti anteriori al Concilio, cfr specialmente di Pio XI l’enciclica Vigilanti cura del 29 giugno 1936, e di Pio XII: i due Discorsi sul film ideale, 21 giugno e 28 ottobre 1911, e l’enciclica Miranda prorsus, 8 settembre 1917. Inoltre, dello stesso Pio XII, sulla stampa, discorso L’importance de la presse, 18 febbraio 1950, sulla televisione, esortazione I rapidi progressi, 1° gennaio 1954, sulle tecniche di diffusione in genere, cfr Lettera della Segreteria di Stato alla Settimana Sociale di Nancy, 14 luglio 1911, sulla stampa cattolica: Lettera del 22 agosto 1957 e Lettera del 30 giugno 1960 ambedue indirizzate al presidente UIPC Giuseppe Dalla Torre, e finalmente sulla socializzazione: Lettera della Segreteria di Stato alla Settimana Sociale di Lyon, 13 luglio 1960.
12 Quando il Decreto proclama esplicitamente: «Fondata da Cristo Signore per portare la salvezza a tutti gli uomini, e posta perciò nell’urgente necessità di diffondere il Vangelo, la Chiesa cattolica ritiene suo dovere predicare l’annuncio della salvezza anche con questi strumenti [...]. Spetta, dunque, alla Chiesa il diritto nativo di usare e di possedere questi strumenti, in quanto essi siano necessari o utili alla formazione cristiana e alla sua globale opera saIvifica delle anime» (n. 3). «Tutti i figli della Chiesa [...] si sforzino perché gli strumenti della comunicazione sociale, senza indugio e col massimo impegno possibile [...] vengano efficacemente adoperati nelle molteplici forme di apostolato [...]. Perciò i sacri pastori siano solleciti nell’assolvere in questo campo il loro compito strettamente connesso col loro dovere ordinario della predicazione» (n. 13). «Sarebbe vergognoso per i figli della Chiesa tollerare che la parola della salvezza resti inceppata e impedita da difficoltà tecniche e dalle spese, spesso ingentissime, che questi strumenti richiedono. Perciò il sacro Sinodo ricorda che essi hanno il dovere di sostenere e di aiutare i giornali e i periodici cattolici, le iniziative cinematografiche, le stazioni radiofoniche e televisive che si prefiggano come scopo principale la diffusione e la difesa della verità e la formazione cristiana della società» (n. 17).
13 Cfr E. BARAGLI, Alcance de los términos, in AA.VV., Instrumentos de comunicación social, Madrid 1966, 38 ss; Valore di una nuova terminologia, in AA.VV., Gli strumenti della comunicazione sociale, Torino 1967, 10 ss; La terminologia, in E. BARAGLI, L’Inter mirifica, Roma 1969, 261 ss; Terminologie e problematiche, in E. BARAGLI, Comunicazione e pastorale, Roma 1974, 38 ss.
14 Non conoscendo l’originale latino, il Gilson erroneamente suppone che vi si parli di media (= moyens), e in nota rettifica: «Sembra che il senso di media sia reso bene da strumenti nelle traduzioni [?!] dei testi conciliari. La parola francese moyens, corretta in sé, é un po’ debole per rendere le connotazioni americane di medium, media. Non si tratta soltanto di canali attraverso i quali la comunicazione passa e si distribuisce, bensì di distributori attivi della comunicazione. Nell’impossibilità di prevedere la durata di un linguaggio tecnico forse del tutto provvisorio, si è fatto bene a non vincolare a esso dei decreti destinati a restare per lungo tempo in vigore. (p. 144). E in quest’ultimo rilievo l’Autore, ancora una volta, erra. Infatti, proponendo la terminologia instrumenta communicationis socialis, ed esclusivamente usandola sin dal II Schema di Costituzione distribuito ai Padri nel luglio del ’62, era intento degli estensori del Decreto che essa venisse poi adottata anche nei futuri documenti del Magistero in argomento: In posterum etiam in iurisprudentiam et in pastoralibus documentis utendum (cfr E. BARAGLI, L’Inter mirifica, cit., 535).
15 E. SHILS, Mass Society and its Culture, in Daedalus, 1960, 288; e, in italiano, in AA.VV., L’industria della cultura, Milano 1969, 121. U. Eco, presentandolo (ivi, p. IX) nota: «Una lettura del suo contributo basta per collocarlo tra i difensori ottimisti del sistema; e come tale le sue posizioni sono già state al centro di molte polemiche della critica radicale».
16 Per esempio, per D. MacDonald: «Le masse sono nel tempo storico ciò che la folla è nello spazio: una gran quantità di persone incapaci di esprimere le loro qualità umane perché non sono legate le une alle altre né come individui né come membri di una comunità[...]. L’uomo di massa è un uomo solitario, uniforme, identico ai milioni di altri atomi destinati a formare La folla solitaria di D. Riesman. La moralità della società di massa scende al livello dei membri più primitivi [...], e il suo gusto scende al livello del meno sensibile e del più ignorante» (D. MacDONALD, Masscult e Midcult, in AA.VV., L’industria culturale, cit., 52).
17 Rileva G. STATERA (in Società e costumi di massa, Palermo 1980, 11 ss.): «Il primo affacciarsi delle “masse” sulla scena delle società europee del secolo scorso produsse reazioni diverse e contrastanti fra gli intellettuali in generale, e gli studiosi di fatti sociali in particolare. Il termine “massa” fu inizialmente associato ad alcunché di amorfo, magmatico, imprevedibile, pericolosamente instabile; “massa” era essenzialmente la “massa bruta”, soggetta alle più svariate sollecitazioni, pronta a seguire intriganti demagoghi, a piegarsi istintivamente alle parole d’ordine abilmente diffuse da questi [...]. Il termine “massa” ebbe invece una connotazione fondamentalmente positiva fra quanti variamente si rifacevano a concezioni di tipo socialista. Tanto i socialisti utopici, quanto gli anarchici, quanto infine gli esponenti del “socialismo scientifico”, colsero le potenzialità progressive e rivoluzionarie insite nelle nuove condizioni sociali strutturali che, fin dal secolo scorso, sembravano favorire l’avvicinamento di grandi masse di popolazione dall’estrema periferia verso aree meno marginali della società».
18 Pio XII, Radiomessaggio «Con sempre nuova» del Natale 1942. E lo stesso Pontefice così poi precisava la differenza tra «popolo» e «massa»: «Popolo, e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, “massa”, sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive nella pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali – al proprio posto e nel proprio modo – è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l’impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gli istinti e le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell’altra bandiera» (Radiomessaggio «Benignitas et humanitas» del Natale 1944). Cfr anche Pio XII, Discorso «Dacché piacque» (2 ottobre 1945), n. 15 e Segreteria di Stato, Lettera a Alain Barrère, presidente delle Settimane Sociali di Francia (13 luglio 1960), n. 16.