Articolo estratto dal volume III del 1990 pubblicato su Google Libri.
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Nessuna meraviglia se, a quanti ancora s’interessano al retto uso e al corretto evolversi della lingua italiana, il celebrato, ma più che secolare1, Dizionario dei sinonimi di Niccolò Tommaseo (1802-1874) risulti oggi non poco carente; e se, quindi, viva sia l’attesa con la quale vengono accolte opere che, per quanto possibile, lo aggiornino. È il caso del nuovo Dizionario dei sinonimi e dei contrari, portato a termine, dopo dieci anni d’incessante lavoro, dal lessicografo fiorentino Renato Rosselli, e che meritatamente, in meno di un anno, esce in seconda edizione2. Esso ci appaga per la ricchezza e la varietà del contenuto. Infatti, pur omettendo di proposito tutta la sterminata terminologia scientifica, che notoriamente non ammette approssimazioni o alternative sinonimiche, nelle sue 1.440 pagine, alla media di 17/18 per pagina, in non meno di 2.000 lemmi o voci, raccoglie largamente la parte corrente del nostro lessico.
In particolare: ogni lemma viene trattato compiutamente come in un dizionario generale della lingua e perciò viene fornito di tutte quelle indicazioni che permettono per prima cosa una chiara comprensione dei suoi significati. Vale a dire: 1) l’inquadramento nelle categorie grammaticali (con le necessarie indicazioni delle reggenze e, per i verbi intransitivi, del relativo ausiliare); 2) l’etimologia, sufficientemente illustrata (a volte con un minimo di storia della cosa e della parola); 3) la spiegazione delle varie accezioni (specificate in «proprie», «estensive» e «figurate»), e talora accompagnate da indicazioni sui «limiti d’uso», mediante definizioni esplicite, esempi e fraseologia3. Seguono i possibili «sinonimi», ben distintamente segnalati per le singole accezioni, e i «contrari», indicati in fonte alla voce, con riferimento alle diverse accezioni4.
A una consultazione anche sommaria, la Guida palesa tutta la sua affidabilità per l’indubbia diligenza e competenza che l’Autore vi ha dedicato. Soltanto un pignolo potrà formalizzarsi nel rilevare, in così vasto e vario materiale, qualche inevitabile neo: o per l’assenza di alcune voci5, o nell’incompletezza di qualche nozione6, o per qualche più o meno giustificata diversione critica7 aneddotica8 o tecnico-scientifica9.
È, perciò, e opera nel giusto quel noto Autore, «che si arrabatta da oltre mezzo secolo a esercitarsi a scrivere», quando afferma: «Il valore educativo di un libro di questo genere mi sembra indubitabile. Per i giovani, perché imparino a distinguere, a classificare, a dare ordine al loro spesso ingombrante ingorgo espressivo (il famoso ricorrere al “cioè” è la metafora del bisogno del sinonimo giusto)». Per «mio conto ho preso l’abitudine di leggere ogni giorno qualche riga di questo libro (libro, più che dizionario, perché alla qualità dell’analisi accoppia lo stimolo dell’associazione delle idee)»10.
Ma, a parte questa sua pratica utilità linguistica, a chi ne scorra con diligenza le pagine, la Guida offre materia a due rilievi meno immediati. Il primo attiene al fenomeno stesso della sinonimia, segno – riteniamo – di quella meraviglia che è l’intelligenza umana, radicalmente ineffabile («in-dicibile») nelle sue esperienze più immanenti; l’altro riguarda il servizio, anche religioso-morale, che la Guida assolve con la sua esattezza concettuale-terminologica riguardo alla dottrina e al culto cristiano-cattolici.
Una ricchezza, ma insufficiente
Tanto il Pampaloni nel pezzo citato, quanto Francesco Sabatini11 nella Presentazione di questo Dizionario, affrontano l’opinabile questione se i sinonimi, di cui peculiarmente abbonda il nostro italiano, ne costituiscano una ricchezza o un ingombro. Ed entrambi rilevano l’avviso negativo di due «autorità» di un secolo e mezzo fa. Del Leopardi (1798-1837), che, in Zibaldone: 1486-1487, per ragioni letterarie lamentava: «Questa è povertà, non ricchezza»; e del Manzoni (1785-1873), che per ragioni sociopolitiche e patriottiche – la comunicazione linguistica quale momento essenziale dell’unità nazionale – nella Lettera a Giacinto Carena del 1847, scriveva: «Questa facoltà di scegliere è la nostra miseria». Personalmente riteniamo che, in ogni caso, meritatamente opera il Rosselli offrendosi come Guida, utile così nella ricchezza come nell’ingombro. Individui/persone, fatti a Sua immagine e somiglianza (Gn 1,27; 5,1), tutti viviamo ogni giorno esperienze immanenti, riposte cioè nel nostro mondo più interiore: sentire, intendere, volere... Ma, esseri sociali (cfr Gn 2,18; 9,1), siamo portati a come «trarle fuori» di noi (ex-premere), per palesarle e comunicarle ai (e con i) nostri simili. Con più o meno approssimazione ci riusciamo ricorrendo a convenzionali codici di segni sensorialmente percepibili. Tra questi, quello socio-culturalmente più funzionale si è dimostrato il «linguaggio» propriamente detto; per centinaia di migliaia di anni soltanto fono-auricolare («parlato»), e soltanto da sei/cinque millenni anche grafico-visivo («scritto»). Questo linguaggio si è andato via via configurando in «lingue» (Gn 11,8), distinte nello spazio e nel tempo. Da quelle ormai fossilizzate («morte») a quelle ancor oggi vitali: assiemi concettuali-simbolici di elementi mutuati o derivati dalle prime e di continui apporti delle successive evoluzioni socioculturali, soprattutto dei secoli più recenti, e di questi ultimi decenni.
Sotto questo aspetto il nostro italiano risalta sulle altre lingue sorelle per aggregazioni e per stratificazioni di calchi, di echi e di residui delle tante vicende storico-culturali che per tre millenni hanno inciso sulla nostra penisola. Dalle remote culture filosofica e artistica ellenistica, e giuridico-politica della romanità, a quella bimillenaria, socioreligiosa, del cristianesimo; e poi da quelle delle varie genti e potenze che per secoli l’hanno invasa e dominata, impedendone, con quella politica, anche l’unificazione culturale e linguistica. Tanto che, ancora sulla fine del secolo scorso «non più di un dieci per cento degli abitanti d’Italia era in grado di usare “normalmente” la lingua italiana, essendo peraltro questa schiera formata per due terzi dai popolani di Toscana, italofoni solo “per natura”, e quindi portatori di tutti i loro idiotismi e delle loro ovvie limitazioni culturali. L’italiano relativamente ricco e “corretto” [...] era in bocca, a voler abbondare, a un tre per cento della popolazione»12.
Da allora, solo in questi ultimi decenni, con l’accresciuta mobilità delle popolazioni e con l’espandersi delle comunicazioni massmediali, decine di milioni di italiani sono andati via via uscendo dai loro dialetti per familiarizzarsi con un italiano corrente, sì, ma in continua crescita, per gli incrementi e mutamenti lessicali e semantici recati dagli stessi.
Di qui l’affollarsi, non tanto di «sinonimi» propriamente detti, guanto di termini tra loro affini, analogici, conformi, assomiglianti, similari...: cioè le cui accezioni risultano non rigidamente «denotative» – come avviene nei codici «chiusi», ad esempio, scientifici –, ma più o meno «connotative»13; sia rispetto agli àmbiti socioculturali dai guaii gli stessi termini provengono, sia e soprattutto rispetto al complesso di tutte le funzioni che interessino la coscienza, i sentimenti, il subcosciente e l’inconscio – insomma: il mondo più interiore – della «persona» che con essi cerchi di «esprimersi»; mondo interamente pervio solo al «Signore, che scruta i cuori e penetra ogni intimo pensiero», «prova mente e cuore» (1 Cor 28,9; Sal 7,10). E di qui, perciò, anche la necessaria, e non sempre agevole esegesi, per comprendere esattamente termini e testi culturalmente lontani nel tempo e nello spazio; come pure la ricerca, tanto faticosa quanto, molto spesso, insoddisfatta, tra «sinonimi», da parte di chi voglia esprimere/comunicare contenuti appunto propriamente «personali».
Ad esempio: più o meno sinonimici di «amore» e di «amare» si offrono: affetto e tenerezza, attrazione e passione, inclinazione e predilezione, dilezione e carità, adorazione e culto...; voler bene e avere a cuore, desiderare, preferire, prediligere. Ma quale di questi renderà appieno quanto, invece, spesso giungono a «dire» un solo sguardo, una stretta di mano, una carezza? E quando riuscirà a compiere qualcosa di simile la, pur mirabile, «intelligenza artificiale» della computer-informatica?
Un’eco del «Catechismo» di san Pio X
Come si è detto, l’altro rilievo sulla validità di questa Guida del Rosselli riguarda la sua esattezza concettuale-terminologica rispetto a quella dottrina e a quel culto cristiano-cattolico, cui – come si è rilevato – cultura e lessico italiani sono da almeno otto secoli debitori. Non è che il solito pignolo non riesca a scovare, anche qui, qualche inesattezza14; e, in particolare, qualche ritardo rispetto alle innovazioni del nuovo Codice di diritto canonico del 1983 e, in genere, del postconcilio15. Ma si tratta di mende risarcite a usura da ottime voci come queste.
Cristiano: «Chi professa la religione cristiana, seguace di Cristo. Battezzato, fedele [...], proposti da alcuni non sono accettabili. Battezzato significa, è vero, che uno ha ricevuto il primo sacramento, il battesimo, che sancisce il suo ingresso nella famiglia cristiana (in particolare cattolica). Però nel concetto di cristiano è implicita l’accettazione di un modo di vivere conforme alle prescrizioni del Vangelo; cosa che, spesso, è completamente ignorata dai “battezzati”...» (p. 334).
Contrizione: «In teologia morale, sentimento perfetto di cocente dolore per i peccati commessi in quanto hanno offeso Dio. Si distingue dall’attrizione, che significa, sì, dolore per le proprie colpe, ma di natura imperfetta, perché determinato dalla paura del castigo» (p. 306).
Penitenza: «1) Con senso religioso: il sentimento di chi si pente delle proprie colpe [...]. 2) Il sacramento istituito da Gesù Cristo, col quale il sacerdote rimette i peccati dopo che gli sono stati confessati [...]. 3) Ciò che il confessore impone al penitente come atto espiatorio dei suoi peccati» (p. 889).
Venerare: «Adorare, proposto da alcuni, non può essere considerato sinonimo, perché, secondo l’insegnamento religioso, l’adorazione è dovuta solamente a Dio» (p. 1.406).
Celebrare: «L’espressione “celebrare le nozze”, o “il matrimonio”, propriamente è riferibile solo agli sposi, che sono i ministri di questo sacramento; anche se largamente nell’uso, tale espressione è riferita al sacerdote che presenzia la cerimonia e che riceve soltanto la volontà degli sposi» (p. 220).
Matrimonio: «Il particolare rapporto di convivenza fra un uomo e una donna, regolato dalle leggi civili e canoniche, avente, fra gli altri fini, anche quello di procreare figli legittimi» (p. 770).
Messa: «Funzione sacra, celebrata all’altare dal sacerdote cattolico o dal pope ortodosso, per rinnovare il sacrificio di Gesù sulla croce con l’offerta del Suo Corpo e del Suo Sangue sotto le specie del pane e del vino. Dalla formula Ite, Missa est (Andate, l’offerta è compiuta), che il sacerdote pronunciava alla fine della funzione quando questa veniva celebrata nella lingua latina» (p. 780).
Eucaristia: «Sacramento principale della religione cattolica, che rinnova il sacrificio di Gesù sulla croce e l’unione mistica dei fedeli con Dio, attraverso la presenza viva di Gesù stesso nelle specie del pane e del vino, consacrati dal sacerdote» (p. 466).
Ostia: «Nella religione cristiana, Gesù Cristo che si offre vittima al Padre per riscattare i peccati dell’uomo. Dischetto di fior di farina [...], che, per effetto della consacrazione da parte del sacerdote durante la Messa, si trasforma nel Corpo di Gesù» (p. 856).
In questo movimentato postconcilio, pare che l’ottuagenario Catechismo (1905/1913) di san Pio X venga considerato tra le guide cattoliche più sorpassate. Fa, perciò, piacere ritrovare in questa Guida del Rosselli un’eco della precisione, insieme dottrinale e linguistica, di quello.
1 Compilato, infatti, e rielaborato dal Tommaseo tra il 1830 e il 1867, arricchito venne ristampato da Giuseppe Rigutini nel lontano 1904.
2 R. ROSSELLI, Dizionario. Guida alla scelta dei sinonimi e dei contrari nella lingua italiana, Remo Sandron, Firenze 1990², 1.440, L. 51.000.
3 Per esempio per il lemma era (p. 444) il Dizionario precisa che si tratta di un sostantivo femminile, risalente al tardivo latino aera, plurale di aes, aeris (bronzo); propriamente «tavole in bronzo», ma, poi «data da cui si fa partire una cronologia». Quindi ne rileva tre accezioni: 1) un vasto spazio di tempo che nella storia dell’umanità ha inizio con un evento straordinario (ad esempio era cristiana); 2) periodo di tempo caratterizzato da eventi storici importanti, o da scoperte scientifiche (ad esempio «era delle crociate, atomica, spaziale»); 3) infine l’accezione geologica: la più vasta delle divisioni dell’età della Terra, che si suddivide in diversi «periodi».
4 Per esempio, sempre per la voce era, per la sua prima accezione vengono indicati i sinonimi: epoca, età, evo, periodo; per la seconda, i sinonimi ciclo ed epoca e nessun sinonimo per la terza; e nessun contrario per tutte e tre. Mentre, sempre ad esempio al lemma verbale amare (p. 52), ai sinonimi voler bene, adorare, idolatrare, aver caro, aver a cuore, desiderare, prediligere, preferire delle prime tre accezioni, si affiancano i due contrari odiare (con i relativi aborrire, detestare, esecrare, abominare, disdegnare...) e rifuggire.
5 Mancano, ad esempio, i lemmi: (om)belico, con le varianti bellico e (om/um)belico (e i derivati ombelicale e ombelicato); palinsesto, con la duplice accezione di «codice riscritto» e di «programmazione radio-televisiva»; cultore, pur dato come sinonimo di studioso; l’infantile pipì; che, per orina, dovrebbe fare riscontro all’infantile popò; di pagina 926; l’oggi abusatissimo avverbio cioè, con i sinonimi ossia e vale a dire...; e soprattutto mancano, con le loro quattro accezioni, gli oggi socialmente attualissimi socializzare, e socializzazioni (cfr BARAGLI, Comunicazione e pastorale, SRCM, Roma 1974, 46, nota 12.).
6 Per esempio, tra i lemmi non completi si rivelano: Carosello, che ignora l’accezione di «rubrica pubblicitaria televisiva», con gli affini spot e promo; ipocrita, carente del sinonimo gesuita, pur richiamato sotto questa voce alla pagina 143; l’aggettivo succube, cui non fa riscontro il contrario incubo; oratorio, che ignora l’accezione di «composizione musicale»; denotare, che non viene affiancato, e distinto, da connotare,...
7 Peraltro spesso azzeccatissima, come, in ecologia linguistica, quella a proposito di «valido» e di «netturbino». In fondo alla prima voce scrive: «Da notare che valido è divenuto oggi un aggettivo tuttofare, abusatissimo come sinonimo di appropriato, meritorio, importante, efficace, sano e robusto, ottimo, profondo, scritto bene, pieno di idee, abile, giusto, privo di errori e via dicendo. Un’espressione, un articolo di giornale, un libro, uno spettacolo, una partita di calcio, una domanda, una risposta, un aiuto, un progetto, un professionista, un pittore, un direttore d’orchestra, un cantante, un acrobata, un ministro, tutto insomma, può essere valido, nel pigro linguaggio dell’era tecnologica» (p. 1.397). E come postilla a netturbino scrive: «Un tempo veniva chiamato spazzino o scopino, Oggi questi termini sono stati messi da parte, perché, associati per lungo tempo a un servizio umile, anche se dignitosissimo, erano sentiti come squalificanti e spregiativi. È presumibile che anche netturbino subirà un giorno la stessa sorte per la medesima ragione. Infatti già si parla di operatore ecologico, ossia di “chi opera per mantenere sano, pulito l’ambiente”. Sulle fortune di questo binomio è piuttosto difficile fare previsioni» (p. 820).
8 Appunto come esempio di aneddoto riporta: «Un filosofo, cui era stato chiesto che cosa pensasse della politica, rispose: “Ora vomito e poi ve lo dico”» (p. 63). E con l’aneddoto concorda il commento che egli fa alla prima accezione della voce politica: «I dizionari definiscono questo termine, più o meno, “arte, tecnica o scienza relativa al governo di uno Stato”: dopo tanti secoli di esperienza, tuttavia, c’è qualcuno che ritiene più esatto definire la politica: “un male a cui gli uomini devono ricorrere per evitarne un altro peggiore: l’anarchia, il disordine”; qualcosa di simile alla malaria...» (p. 923).
9 Sotto il lemma ignorare, a complemento della frase «Ignorare che cosa è una pulsar», informa: «La pulsar è una stella di neutroni che, girando rapidamente sul proprio asse, emette, a brevissimi intervalli l’uno dall’altro, getti di elettroni da due punti opposti del suo piccolo globo (corrispondenti ai suoi poli magnetici). Tali elettroni, non sfuggendo completamente all’attrazione della stella, perdono energia; e questa s’irraggia sotto forma di microonde che possono essere captate dalla Terra» (p. 181).
10 G. PAMPALONI, Orientarsi con i sinonimi tra le sfumature della lingua italiana, in Il Tempo, 13 febbraio 1990.
11 Francesco Sabatini è ordinario di storia della grammatica e della lingua italiana nell’Università di Roma e accademico della Crusca.
12 Così lo stesso Sabatini, rifacendosi all’articolo di A. CASTELLANI, Quanti erano gl’italofoni nel 1861?, in Studi linguistici italiani, 8 (1982) 3-26.
13 A prescindere dall’accezione del termine nel linguaggio degli strutturalisti, per i quali – come precisa il Rosselli –, «connotazione è il significato insolito che un vocabolo (o una frase) può assumere per volontà dell’autore che abbia voluto esprimere le sue emozioni e i suoi sentimenti in una forma svincolata dagli schemi convenzionali di una lingua» (p. 289).
14 Ad esempio: converso viene detto di «frate o monaca che non hanno ricevuto gli ordini religiosi», quando invece si tratta di voti religiosi. Per indulgenza si dà «la remissione totale o parziale della pena temporale per i peccati già confessati» (invece di già rimessi come precisa il can. 902). Sotto il lemma gesuiti, la Compagnia di Gesù viene detta fondata da sant’Ignazio di Loyola nel 1534, invece che nel 1540. Estasi viene definita «lo stato dell’anima quando, dimentica delle cose di questa terra, si concentra totalmente nelle cose divine»; quando meglio, col Palazzi, essa vale «stato dell’anima distaccata dai sensi, a causa d’intensa contemplazione di un oggetto straordinario o soprannaturale, specialmente religioso»; o, con lo Zingarelli, vale: «Supremo grado dell’ascesi e dell’esperienza mistica, nel quale l’anima è rapita nella contemplazione di Dio». Inoltre: mancano le voci curato (col sinonimo pievano), e cotta, quale indumento storico-militare, e anche liturgico. In accidente si omette l’accezione di «qualità non inerente all’essenza di una sostanza», che poteva rimandare (cfr p. 1.255) alle «specie del pane e del vino che, secondo la religione cattolica, dopo la consacrazione celano il Corpo e il Sangue di Gesù». Binare ignora l’accezione ecclesiale di «celebrare più volte la santa messa nello stesso giorno». Elevazione ignora l’omonimo momento centrale della Messa. Riduzione ignora le storiche riduzioni gesuitiche del Paraguay, celebrate, tra gli altri, da L. A. Muratori...
15 Ne sono esempi: chierica (e tonsura), che oggi nella Chiesa latina non vige più. Calendatario, anche questo abolito da tempo. Breviario e Ufficio divino, che nei cann. 1.173 ss. è passato a Liturgia delle ore. E soprattutto la 15ª accezione di Ordine: «Nella Chiesa cattolica, ciascuno degli otto gradi della gerarchia ecclesiastica (quattro detti minori: ostiariato, lettorato, esorcistato, accolitato; e quattro detti maggiori: suddiaconato, diaconato, sacerdozio, episcopato)»; quando il nuovo Codice, al can. 1.009, par. 1, specifica: «Gli ordini sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato»; e il can. 230 parla di «ministeri di lettori e di accoliti laici».