Articolo estratto dal volume III del 1961 pubblicato su Google Libri.
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Fino ad una decina di anni fa era difficile documentarsi ed orientarsi nella selva delle teorie – elaborate o grezze, ragionevoli, artificiose o palesemente bislacche –, proposte, in circa mezzo secolo, da saggisti, di casa o avventizi, nella letteratura cinematografica mondiale; molte di esse, infatti, erano in scritti difficilmente reperibili, oppure di non agevole comprensione, stanti le lingue, le disparate esperienze culturali e professionali, e i diversi o contrastanti interessi dei loro autori. Ma nel 1951 «il primo tentativo di una Storia delle teoriche del film e di una sistemazione attuale delle stesse» (p. 74), di Guido Aristarco, venne a ridurre di molto la difficoltà; anzi, impostata come fu con rigore filologico direttamente sui testi degli scrittori, e redatta – nel testo e nelle esaurienti bibliografie, per date, rimandi e grafia di nomi e di titoli –, con una esattezza certo non comune nei libri di cinema, ed esemplare anche tra quelli di cultura in genere, essa prese un posto primario tra gli strumenti della cultura filmologica, e fu correntemente citata, per quanto, specie all’estero, con disinvolta faciloneria1.
Esaurita la prima, ne esce ora una nuova edizione, che qui presentiamo2. Contrariamente a quanto afferma il frontespizio, che la dà per «completamente riveduta ed ampliata», essa è, sì, molto «ampliata» (di circa un terzo) rispetto alla precedente, ma non «riveduta», almeno riguardo ai criteri di metodo ed ideologici che informavano la prima; perciò, a parte quello dell’aggiornamento nella informazione, invariati ne restano i pregi, ed identiche le posizioni, a nostro giudizio, discutibili, nonché le scelte ideologiche, culturalmente parziali ed erronee.
Tra i molti incrementi, quasi tutti già pubblicati dall’autore nella rivista Cinema Nuovo da lui diretta, il più corposo occupa le cinquanta pagine della Prefazione 1960, nella quale l’Aristarco presenta e discute gli autori e le opere di maggior rilievo attinenti al cinema comparsi dopo il 1951, e particolarmente la Storia sociale dell’arte, di Arnold Hauser (Torino 1955), Cinema arte figurativa, di Carlo L. Ragghianti (Torino 1952-1957), Il film nella battaglia delle idee, di Luigi Chiarini (Milano 1954), le Opere di Vladimir Majakovskij (Roma 1958), quelle di A. Gramsci e di G. Lukács... Tutti gli altri riguardano la parte centrale ed informativa del volume. Così, nella categoria I precursori – diventati, ci pare su suggerimento del Chiarini, Gli iniziatori –, a Canudo, Delluc, Richter (qui più ampiamente trattato) e Dulac viene aggiunto ex novo il francese L. Moussinac; nuovo è il capitolo Dall’avanguardia al montaggio sui due russi D. Vertov e L. Kulešov; nel capitolo più impegnativo I sistematori, dove prendono posto Pudovkin ed Eisenstein, Balázs ed Arnheim, i primi due contano qualche pagina in più; nel successivo I divulgatori, ai due inglesi Rotha e Spottiswoode viene aggiunto il teorico e documentarista scozzese J. Grierson; sotto l’insegna Il contributo italiano, A. Gerbi e G. Debenedetti vengono affiancati al Barbaro ed al Chiarini; sostanzialmente immutato è restato il capitolo Gli altri, mentre «unico ad esser rimasto, e volutamente, nella stesura primitiva» è il capitolo conclusivo e programmatico Crisi di una teoria ed urgenza di una revisione, il quale «trova nella Prefazione 1960 il suo logico sviluppo» (p. 340).
La rilettura dell’opera ci conferma sul suo rilevante valore informativo e sugli indiscutibili meriti dell’Aristarco, documentatissimo collazionatore e lucido espositore di testi e di sistemi, scrittore sempre diligente e preciso3. Gli diamo volentieri atto di questo suo veramente esemplare e non comune rigore con se stesso di questo suo rispetto verso il pubblico. Inoltre rileviamo che abbondano, specie nell’ultimo capitolo già ricordato, molte posizioni dottrinali che non solo condividiamo, ma contiamo tra i dati ormai definitivamente acquisiti alla cultura filmologica; tali la negata totale distinzione tra estetica cinematografica ed estetica generale, e la conseguente inclusione di quella in questa; il ripudio di certe teorizzazioni intorno a “specifici filmici” e a “fattori differenzianti”; la denuncia del grossolano eppur comune equivoco del cinema come movimento meccanico sullo schermo; l’asserita non necessaria coincidenza tra cinematograficità ed artisticità del film, ed insieme la critica all’insostenibile teoria del cinema come arte figurativa del Ragghianti; l’assoluta libertà dell’artista rispetto alla scelta dei suoi mezzi espressivi in funzione di stile, sicché ogni opera resta essenzialmente irripetibile, così nel suo farsi come nel suo giudicarsi, indipendente da qualsiasi regola estetica vincolante; la necessità di svincolare gli studi e la critica cinematografica da un certo feticistico ed esclusivistico interesse per i valori artistici e di portare gli uni e l’altra a contatto con tutte le realtà ed i problemi della vita, e, conseguentemente, la possibilità e l’opportunità di una critica “totale” dei film, vale a dire che spazi oltre i limiti della pura estetica.
Invece, sulla giustezza di molti altri punti, fondamentali e secondari, ci permettiamo di dubitare; a cominciare dai titolo, i cui tre sostantivi ci sembrano usati in sensi impropri, se non arbitrari. Infatti il volume, più che la storia, contiene l’esposizione (ed in parte la critica); non di teoriche, cioè di prammatiche, bensì ora di teorie, ora di poetiche, ora di più o meno generiche e liriche fantasie; non tanto, o almeno, non tutte del film, nel senso arbitrariamente assegnato a questo termine da Gerbi, Lebedev, Moussinac e Chiarini, bensì di tutte le specie di film prodotti dal cinema, si aureolino essi o meno col nimbo dell’Arte.
Spigolando poi qua e là nel contenuto del volume, giudichiamo eccessiva l’attenzione prestata dall’Aristarco all’Hauser ed al Majakovskij, il valore delle cui opinioni ci sembra molto contingente; come pure non condividiamo la sequela da lui professata di maestri e guide quali il De Sanctis, il Gramsci ed il Lukács, per le ragioni che presto diremo. Sproporzionato anche ci pare, rispetto alla statua, il piedistallo da lui eretto ad Eisenstein, che stimiamo grande, sì, come autore di film, ma mediocre come teorico, genialoide ed arruffone alquanto in rinascenza italiana, in psicanalisi, in giapponese ed in molte altre disparate cose; così pure, rispetto all’economia di tutto il volume ci sembra esagerata la parte che, nel Contributo italiano, egli dedica al Barbaro ed al Chiarini; se, infatti, è doveroso riconoscere che molti pregi della critica italiana, rispetto a quelle di altri paesi, sono merito anche della serietà e del rigore dei loro scritti e del loro insegnamento, è altrettanto doveroso lamentare che, se oggi in Italia critica ed estetica cinematografica si trovano incastrate in un punto morto tra le estenuazioni dell’idealismo e le grossolanità del marxismo, ciò si deve in non piccola parte proprio al Chiarini, sempre radicato nelle prime, ed al Barbaro, lancia spezzata delle seconde. Al contrario abbiamo notato lo scarso rilievo dato al May, ed il silenzio totale osservato sul Ghelli, sul Bazin e sul grande Clair, tutti certamente di più alto fusto che non certo sottobosco, pur esplorato, o almeno notato, dall’Aristarco4.
Infine, dato e non concesso che la divisione degli autori in Iniziatori, Sistematori e Divulgatori sia qualcosa di più che una pura divisione di comodo, lo Spottiswoode ed il Grierson noi li vedremmo meglio tra i sistematori che tra i divulgatori...
Ma non indugiamo oltre su questi rilievi ed altri, in fondo, secondari, per dedicare il poco spazio che ci resta ad una questione di fondo, qual è la revisione della critica cinematografica – e perciò anche dell’estetica –, urgentemente proposta dall’Aristarco, il quale, professatosi seguace della trimurti De Sanctis-Gramsci-Lukács, combatte per una «metodologia... militante... problematica e storicistica in una direzione ben precisa» (p. 62). Quale sia questa direzione lo chiarisce l’alternativa da lui posta: Crocianesimo o materialismo?, dopo aver consegnato al ferravecchio «molte altre correnti, come a esempio il neo positivismo... il pragmatismo, per non parlare di movimenti irrazionali o mistici tali da non influire concretamente nell’alternativa in questione» (p. 61). La sua risposta è: – Non il primo, «data l’insufficienza diffusamente sentita degli schemi crociani» (p. 59), dunque il secondo –5. Ostava, è vero, «l’ancora imperfetta elaborazione di un’estetica marxista» (p. 59), ma a ciò egli ha ovviato col suo «chiarimento di un’estetica materialistica, ottenuto mediante l’estensione alla critica cinematografica, da lui per primo tentata, di certi principi appunto del Lukács, quali il “rispecchiamento del reale” in senso dialettico e non meccanicistico, il concetto di “tipico” e di “particolarità”, la distinzione, che si rifà alla tesi del rispecchiamento, tra fantasia e fantasia, fantastico e fantastico, ecc.» (p. 63), e di altri cosiffatti bisticci da iniziati abbondantemente prolificati anche dall’idealismo. Di questi armato come di un passe-partout, non c’è serramento che, a suo dire, non gli ceda, non esclusi «certi problemi riguardanti il neo realismo italiano»6, che, come ognun sa, è considerato dai marxisti un pozzo petrolifero da essi soltanto individuato e perforato, quindi soltanto da essi lecitamente sfruttabile.
Ancorata, dunque, saldamente alla «cultura del realismo» (non è certo la coerenza che, come al Barbaro, manca al Nostro), la «revisione critica» dell’Aristarco ricalca i luoghi comuni dell’estetica marxista: produzione artistica essenzialmente fondata nella collaborazione, valore determinante della tesi, concretata in un contenuto, quindi valore a sé stante dello scenario, ecc. ecc.
Non è questa semplice recensione l’occasione più indicata per confutare la validità teorica e l’utilità pratica della “revisione” proposta dall’Aristarco; ci limitiamo perciò a farla oggetto di quattro rilievi più elementari. Primo: inficiamo la sua alternativa tra crocianesimo e materialismo, permettendoci di opinare che tra, mettiamo, presbiopia e miopia possa mediare anche la visione normale dell’uomo sano. L’etichettare, nella maniera con la quale egli lo fa, come irrazionalistiche e mistiche alcune correnti che non quadrano con i suoi dommi e quindi rimuoverle in gran dispitto, può essere esigenza di credo dialettico, non certo di cultura illuminata ed equanime7. Secondo: sempre per rispetto alla cultura ed alla ragione, preferiremmo che certi «È pacifico» ed «È evidente» cedessero il posto a logiche e probanti dimostrazioni, sì da non aver l’aria di voler far passare per indiscusso ed indiscutibile quel che, invece, notoriamente, ad altri molti ragionevolmente sembra di poter porre in dubbio o di negare8. Terzo: inserire il cinema nella cultura e nella realtà della vita, sta bene, purché non si pretenda restringere la cultura alla politica marxista e la realtà a quella del materialismo dialettico, come fa l’Aristarco in questo volume e nella rivista Cinema Nuovo, che egli dirige; infatti, su quali premesse mai si ignora o si minimizza la più complessa realtà del cinema e del film con tutta la sua più ricca problematica, per esempio, tecnico-industriale, economico-commerciale, psicologica, didattica, sociologica, e morale? Quarto: proprio stando alla “realtà”, quel che l’arte e la critica formalmente marxiste finora hanno reso dovrebbe indurre l’Aristarco a dubitare della validità della sua “revisione” toccasana: la censura esercitata in U.R.S.S. sui film di Eisenstein e di altri non mediocri artisti, la probante denuncia del rapporto Krusciov e la conseguente pietosa polemica sul Giuramento, cui offri degna sede la sua rivista, ed altre culturalmente non gloriose vicende, scoprono i dubbi vantaggi di una estetica e di una critica che, mentre non si nutrono ai principi di una metafisica e non seguono le norme di una libera logica, attendono le pillole dei LunaÄarskij, Stalin, Sdanov, Malenkov e Krusciov di turno, ridicolmente confettate di storicismo dialettico...
Per concludere, crediamo che occorre sì una revisione sia nell’estetica applicata al cinema, sia nella critica cinematografica, sia nella storia stessa del cinema, a cominciare da quella del Sadoul, ma che il secondo corno del dilemma – il materialismo – sarà per essere altrettanto, se non più, inutile e dannoso alla bisogna che il primo – l’idealismo; e con altrettanta e più fiducia che la sua noi riteniamo che l’unica revisione veramente utile dovrebbe esser tentata in campo cattolico, integrando l’estetica applicata al cinema – e perciò anche la critica cinematografica – nella nostra Philosophia perennis9, ma – oltre che con rigore logico – con la serietà d’informazione e di redazione di cui ci danno eccellente esempio, insieme con ’l’Aristarco, altri non pochi del campo avversario.
1 Cfr, per esempio, quanto abbiamo scritto a proposito di H. AGEL, Esthétique du cinéma, in Civ. Catt. 1960, II, 519.
2 G. ARISTARCO, Storia delle teoriche del film, Torino, Einaudi, 1960, in-8º, pp. 438. Con 91 ill. f.t. L. 3.500.
3 Per quanto quandoque bonus dormitat Homerus! Tra le piccole sviste abbiamo notato un Ruskowski, invece del corretto Ruszkowski, tanto nel testo quanto nell’indice dei nomi (pp. 334 e 432), un Gramsi a p. 390; sotto la bibliografia di U. Barbaro, alla voce Giovanni Bianca, una riga ripetuta; sotto la voce Luigi Chiarini, a p. 417, manca il titolo Fascismo e letteratura, 1936, particolarmente significativo di alcune posizioni estetiche dell’autore; a p. 419 mancano molti altri articoli dello stesso, nonché il suo volume Panorama del cinema contemporaneo (Roma 1957), ed il lungo articolo L’attore teatrale e l’attore cinematografico da lui pubblicato in Cinema e teatro (Roma 1957), mentre i due volumi Cinema quinto potere e Il film nella battaglia delle idee sono erroneamente dati come scritti in collaborazione con U. Barbaro (p. 419); a proposito dello stesso Chiarini viene citato il nostro secondo articolo Un maestro dialettico, e non il primo, pubblicato in Civ. Catt. 1958, II, 382 a.; a p. 63, – e naturalmente la prova d’autorità vale quello che vale – scrive: «È comunque un fatto che la critica cinematografica... militante e viva, va a sinistra, come ha affermato, e non da oggi, Chiarini», quando, salvo nostre sviste, in realtà, nel 1950 (e non prima) il Chiarini ha affermato quel «va a sinistra» non della critica, ma «del cinema, del buon cinema, del vero cinema» (cfr Bianco e Nero, 1951, n. 7, p. 27, riportando una conferenza detta l’11 aprile 1950); infine un po’ tirato via l’indice dei film: i titoli, infatti, vi sono riportati, senza regola, quando in originale quando tradotti, Il ritorno di Vassili Bortnikov di p. 437 diventa semplicemente Bortnikov a p. 435; Die Strasse, di K. Grune, vi è dato come traduzione di La strada, inducendo il lettore a confonderlo col noto film di Fellini, ecc.
4 René Clair è, sì, ricordato una decina di volte, ma per i suoi film, non mai per Réflexion faite, né per altri suoi scritti, pur ricchi di cose sensate e non caduche. Avremmo gradito anche un giudizio, intorno alle singolari teorie estetico-cinematografiche di G. Bianca, ricordato dall’Aristarco in bibliografia; come anche, sia pure nel sottobosco, avremmo desiderato una menzione di N. V. Lindsay, uno che, dipenda o meno da lui il Canudo, col suo The art of the moving picture, del 1915, è stato tra i primi a scrivere e a teorizzare, sia pure ingenuamente, sul cinema.
5 Per dirla con la trionfante oratoria del Barbaro: «Un pieno e motivato ripudio dell’estetica idealistica e... la fondazione della filosofia dell’arte, non solo conseguente a tutti i suoi postulati e consona alle caratteristiche dei vecchi e dei nuovi film, ma consona soprattutto alle esigenze profonde di una concezione del mondo che, per essere la sola filosoficamente e scientificamente valida, e la sola confermata dalla realtà sempre, è anche la più alta e la più umanamente degna» (p. 57).
6 Lo studio fatto con esemplare acutezza dal Lukács soccorre senza dubbio per chiarire i termini di “cronaca” e di “storia” nel nostro cinema del dopoguerra. Dalle indicazioni di Lukács anche la critica cinematografica può trarre gran giovamento: e spiegarci ad esempio perché il bozzettismo affiori in certi capolavori di De Sica e Zavattini, e anche di Rossellini e come invece nel Visconti si possano trovare personaggi magari tronchi, incompiuti, ma non, o assai raramente, figure bozzettistiche; e .. si determini la degenerazione del neorealismo in bozzettismo, in particolari autonomi» (p. 63).
7 Spesse volte lo abbiamo sorpreso nei suoi scritti tanto facile a criticare le cose religiose, e nostre in genere, quanto maldestro nel parlare di esse, rivelando così un disprezzo, più fondato sull’inscienza e sul pregiudizio che motivato con cognizione di causa. Si veda, per esempio, in questo volume, il brano del Grierson che egli riporta a pp. 249-250, commentandolo: «e sembrano parole di un marxista», quando i concetti ivi espressi, rettamente intesi, si trovano pari pari nei... documenti pontifici.
8 Scrive a p. 383: «Sostenere che non si deve tralasciare la vita reale per un “formalismo acuto” o per “effetti eccentrici”, che occorre delineare la storia dei personaggi in stretto legame con la storia del paese cui i personaggi stessi appartengono, che l’arte è destinata a svolgere un’importante funzione d’avanguardia nella vita sociale...: sostenere tutto questo, e altre cose del genere, dovrebbe essere pacifico. Così come si dovrebbero prendere in considerazione l’“oggettività delle forme” (ossia la forma come espressione sociale: Lawson) e il romanticismo rivoluzionario nell’accezione gorkiana... E si dovrebbe pure sostenere il carattere “politico” dell’opera d’arte...»; ed a p. 384: «È evidente, che, nel momento stesso in cui avviene questa scelta, a essa non può essere estraneo un determinato intento a carattere sociale».
9 Perciò, se di massima concordiamo con la critica che di questo volume dell’Aristarco muove M. AROSIO (in Cronache del cinema e della televisione, 1960, n. 32, p. 158 ss.), ne dissentiamo verso la fine, quando egli si rifà, seguendo il Bazin, alla «mediazione fotografica come elemento primario della struttura» del linguaggio cinematografico, e quando, in un tentativo di engagement sociale, propone «di reinserire la categoria estetica nel circolo vitale dell’unità sostanziale della persona», elaborando «una metafisica della persona, che sostituisca allo Spirito assoluto ed astratto dell’idealismo lo spirito concreto individuo, un individuo, quindi, relazionale, in comunione col tutto naturale e sociale» (ivi, p. 161).