Articolo estratto dal volume I del 1959 pubblicato su Google Libri.
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Siamo, ogni anno, ottocento milioni in Italia, tredici miliardi nel mondo, a far ressa avanti ai botteghini dei cinema, ma forse non uno su mille tra noi sa che, acquistando un biglietto per un film in programma, il più delle volte è molto, ma molto lontano dal compiere un atto pienamente autonomo; e se, ingenuamente, noi lo credessimo, non saremmo nel vero, perché, di fatto, la nostra “libera” scelta è stata analizzata nei suoi elementi psicologici e sociali, statisticamente preveduta e quasi individualmente determinata da organismi che sanno quel che vogliono ed hanno i mezzi per ottenerlo. E magari fossero organismi culturali! Sono, invece, organismi prevalentemente economico-industriali (quando non politici), che manovrano la produzione, la distribuzione, la pubblicità, la critica e l’esercizio cinematografici, imperando col danaro e sensibili soltanto ad esso. Questo, almeno, è l’insegnamento che si ricava dalle tre storie economiche del cinema di recente rese note anche in Italia; ed è tale che, per convincersene, vale la spesa di affrontare le cifre, i calcoli, gli specchietti comparativi e i diagrammi, non sempre di facile lettura, di cui tutti gli studi di questo genere formicolano. Delle tre, la prima e più importante, perché più impegnata e più esauriente, è quella di Henri Mercillon, pubblicata in francese nel 1953 e tradotta in italiano nel 19561.
Il lettore profano non equivochi. Il sottotitolo: Le cinéma aux Êtats-Unis, non ne restringe affatto la portata; prima di tutto perché, dato l’imperio che il cinema U.S.A., da ormai un quarantennio, esercita in tutto il mondo, – solo i paesi d’oltre cortina esclusi, – in pratica, “cinema” e “cinema americano”, se non sono sinonimi poco ci manca; poi perché il condizionamento psicologico esercitato da quel cinema sul comportamento individuale e nel costume pubblico mondiale dipende anche dalle condizioni politico-demografiche-economiche-industriali proprie di quella nazione, ma principalmente dalla natura stessa del cinema: linguaggio-spettacolo essenzialmente connesso con tecniche sempre più complesse e costose: quindi affamato di capitali sempre più astronomici, quindi tale che, insieme, può e deve assolutamente raggiungere, e tenersi saldamente aggiogate, masse sempre più vaste di spettatori. Questo è così vero che la stessa dinamica interna che ha condotto l’industria cinematografica americana a situazioni di “oligopolio” – neologismo adottato dal Mercillon per significare il monopolio di pochi – e al più spregiudicato uso dei mezzi atti a mantenerlo, primo fra tutti il divismo, in scala proporzionalmente ridotta determinò e determina parallele esperienze anche in altri paesi, quali l’Italia e la Germania, ogni qual volta il ciclo produzione-distribuzione-esercizio cinematografici ha ubbidito a sollecitazioni unicamente economiche. Ma non preveniamo l’analisi e le conclusioni del magistrale saggio del Mercillon, primari pregi del quale sono la densità della materia, la ricchezza dei dati, il rigore del dettato e la chiara divisione delle parti.
Nella prima di queste l’autore traccia la curva dello sviluppo storico dell’industria cinematografica U.S.A.: dalla sua nascita, caotica ed avventuriera (1896-1908), al periodo di libera concorrenza (1909-1929), caratterizzato dalle lotte per il possesso e la difesa dei brevetti e dei mercati, i primi tentativi di trust, l’influsso determinante di A. Zukor e dello Star-System da lui perfezionato e sfruttato, l’ingresso delle piccole banche nella produzione e nell’esercizio cinematografici, l’ingerenza definitiva del capitale industriale e delle alte banche (Morgan, Rockefeller, Dupont, Giannini...), prima con l’introduzione del sonoro e lo sfruttamento dei suoi brevetti e poi col modus vivendi imposto dalla televisione e dalle compagnie elettriche che la controllano; fino alla odierna situazione di “oligopolio” di fatto, caratterizzata dalla concentrazione orizzontale e dall’integrazione verticale di poche imprese ad interessi collegati, capace di assicurare, contro ogni indipendente (New-comers), lo sbocco alla produzione dei Majors mediante il quasi totale controllo dell’esercizio, sia sul mercato interno sia su quelli mondiali, specialmente l’inglese e il tedesco: che per possibilità e per volontà degli interessati erano in grado di ostacolarne il dominio.
Su questi dati storici e di fatto l’autore innesta l’analisi della seconda parte, studiandovi e documentandovi prima le cause generali della concentrazione, – divise in tecniche, economiche e sociali, – poi le condizioni proprie degli Stati Uniti, vale a dire la potenza della domanda di quel mercato, la specificità della produzione e, finalmente, i gravami economici insiti nella produzione industrializzata dei film, specialmente in rapporto alle sempre più pesanti esigenze sindacali, alla fluttuazione degli impieghi e alla rigidità dei salari. Nella terza parte il Mercillon tenta una sintesi più congeniale alla sua specializzazione di docente di diritto economico, il quale solo per interessi contingenti si è interessato di cinema, col rapportare le forme e le conseguenze della concentrazione del cinema U.S.A. alla teoria generale economica introdotta da François Perroux2, prospettante l’esistenza di una forma intermedia, appunto l’oligopolio, tra le due estreme individuate dall’economia classica: la concorrenza di mercato e il monopolio vero e proprio, e conclude affermando, rispetto al cinema, che «oggi vige nel mondo una struttura oligopolistica di tipo internazionale, a preponderanza americana» (p. X).
Il volume, nel suo rigore scientifico e nella sua apparentemente distaccata analisi di dati – rincalzata in appendice da una preziosa raccolta di tavole e di diagrammi e da un’esemplare sintesi bibliografica –, suscita nel lettore attento molti problemi del più alto interesse culturale, sociale e morale, e ne suggerisce le risposte, del tutto contrastanti con quelle di certa polemica nostrana, tanto “politica” e settaria quanto ignorante della realtà dei fatti. Basti accennare alla vacua retorica che tra noi inficia certe difese dell’arte e della libertà dei cittadini – ma sì, lo sappiamo, garantite dalla Costituzione italiana –, se viste alla luce di queste conseguenziali conclusioni del Mercillon: «Siamo costretti ad ammettere che il cinema non è che un’industria, ed il film non è che una merce... (p. 176). Il film non è prodotto per se stesso, né è un mezzo di espressione artistica. La standardizzazione del prodotto dimostra che un criterio commerciale è alla base di tutti gli stadi dell’industria... I costi e gli investimenti hanno un ruolo determinante nell’industria del cinema: servono ad imporre il prodotto, in disprezzo molto spesso del suo contenuto intellettuale, morale e sociale» (pp. 173-174).
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Alle stesse poco retoriche conclusioni arrivava lo studio dell’economista svizzero Peter Bächlin, al quale, del resto, il Mercillon spesso si rifà, qualche volta seguendo molto da vicino le sue linee di sviluppo. Per quanto piuttosto vecchiotto – l’originale tedesco è del 1945, la traduzione francese è del 1947 – il suo volumetto contiene tuttora molte idee da suggerire a chi vorrebbe esaurire la complessa problematica sociale dei fatti cinematografici e filmici o soltanto rapportandoli alle componenti psicologiche degli individui che li subiscono, o unicamente giudicandoli col metro di certo estetismo idealistico, incautamente adottato da critici anche cattolici o marxisti. Per questa ragione non possiamo che rallegrarci che finalmente ne sia stata approntata anche la traduzione italiana3.
La dissertazione dottorale – tale infatti era in origine il saggio del Bächlin – si divide in due parti: storica la prima, analitica l’altra. La parte storica distingue lo sviluppo dell’industria cinematografica in tre periodi: 1) dal 1896 al 1914: anni della tecnica e della produzione pionieristiche, del rapido affermarsi di alcune cinematografie europee (Francia, Italia, Germania...) e del primo organizzarsi di quella americana; 2) dal 1914 al 1929: l’industria americana assalta e travolge quelle europee, stremate dalla guerra; 3) dal 1929 al 1945: periodo caratterizzato dai monopoli ideologici del nazismo e del fascismo, dalla recessione americana: da cui, però, quella produzione si rià lanciando il colore e il sonoro e vincendo su piano mondiale la battaglia dei brevetti relativi alle due innovazioni, in tal modo consolidando la sua dominazione monopolistica.
Nella parte analitica, il Bächlin, prima studia il film come prodotto industriale, secondo questi cinque momenti: 1) la tecnica della produzione; 2) il finanziamento; 3) la conquista dei mercati; 4) le relazioni tra produzione, distribuzione e consumo; 5) la concentrazione delle imprese e la creazione dei monopoli; quindi, in un capitolo conclusivo, tratta del film come valore di scambio, passando in rivista i mezzi escogitati dall’industria cinematografica per ridurre i costi e i rischi conseguenti (standardizzazione del prodotto, aumento e continuità della produttività, riduzione delle spese specialmente salariali), e per aumentare i proventi (sfruttamento sistematico dell’attore come merce, specialmente mediante il mito del divismo; accaparramento dei soggetti e loro livellamento in generi stereotipi e in film a serie; condizionamento forzato dei gusti del pubblico con l’appianare quanto possibile le differenze su standard a basso livello; creazione e rafforzamento del movie-habit negli spettatori mediante la più orchestrata e dispendiosa pubblicità).
A questo punto anche il Bächlin ritira i remi in barca affermando che la dinamica interna all’industria cinematografica, là dove è sollecitata da scopi economici prevalenti su quelli culturali e politici, la induce a piegare non la produzione alla domanda, ma la domanda alla produzione; quindi anche a creare artificialmente la domanda, a mantenerla e a pianificarla quand’essa o non esistesse, o tendesse a saturarsi e a sviarsi, o a differenziarsi, contrariamente alle esigenze del prodotto standard. Riusciranno infallibilmente a ciò appunto i milioni di dollari profusi nella pubblicità. Loro effetto sarà, prima che di assicurare il successo a un film particolare, quello di «creare il bisogno del film, radicarlo ed estenderlo continuamente in tutti gli strati della società...; quindi persuadere agli spettatori che quel film risponde a quanto essi attendono, cioè è dotato, per loro, di un preciso valore d’uso». Dunque, «in realtà, la grande maggioranza degli spettatori non va al cinema per una libera scelta, ma per effetto di un’abitudine creata artificialmente» (p. 177).
Ma, a differenza della diagnosi del Mercillon, in quella del Bächlin non manca un accenno di terapia: «In teoria — egli scrive — il film deve essere considerato... simultaneamente un valore d’uso e un valore culturale...»: di fatto «esso non viene prodotto per se stesso, sibbene per consentire al produttore o al finanziatore di far fruttare i propri capitali: perciò, fin dall’inizio, l’industria cinematografica lo considerò non come un mezzo d’espressione artistica ma come una merce». Quindi «... nel cinema ogni lavoro di creazione è commercializzato, dalla sceneggiatura fino alla consegna delle copie agli esercenti». Tutto dipende dal fatto che «i princìpi finanziari e tecnici che sono alla base della realizzazione e della diffusione del cinema presuppongono un consumo in massa. E bisogna rilevare, per concludere, che la massa dei consumatori non è ancora nelle condizioni necessarie per esser raggiunta da un’opera d’arte: il film non potrà, dunque, diventare veramente artistico che il giorno in cui una domanda sufficiente si pronunzierà in tal senso, cioè quando il genere di vita ed i bisogni intellettuali della maggioranza del pubblico saranno trasformati: due fenomeni correlativi fra loro» (pp. 181-184).
E ci pare che questa conclusione, di massima condivisa da noi, meriti che si perdonino al Bächlin alcune lacune e stonature del suo lavoro. Alle prime appartiene il troncare che egli fa, necessariamente, la sua sintesi storica all’anno 1945, e il suo limitarsi ad illustrarci quasi soltanto le strutture economico-industriali delle cinematografie tedesca ed americana, ignorando, per esempio, la pur interessante esperienza cinematografica italiana. Egli, poi, sembra non conoscere l’apporto dato da qualche nostro studioso a questo genere d’indagini4. Vero è che a queste lacune, forse spiegabili con le difficoltà di documentarsi incontrate dal Bächlin durante la guerra mondiale, quando appunto egli preparava la sua dissertazione dottorale, ha cercato di rimediare il traduttore, prima aggiungendo di suo un capitolo sul periodo storico 1945-1956, e poi integrando lo studio con un Profilo di storia economica del cinema italiano; però egli lo fa conferendo al volumetto – non per nulla edito dal Feltrinelli5 – un fastidioso tono polemico, mentre invece il Bächlin, pur citando occasionalmente alcuni aforismi del Capitale di Carlo Marx con la fiducia cieca di un muftì che si documenti sulle Sure del Corano, e pur stipando di voci marxiste la sua Bibliografia, aveva avuto cura di tenersi saldo ai fatti lasciando ad essi il compito d’illuminare il lettore sulle imprese evidentemente schiavistiche di un capitalismo corsaro6.
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Non pago di aver curato la traduzione del Bächlin e di aver contribuito, mediante diversi saggi, a diffonderne la conoscenza, come pure del Mercillon, Libero Solaroli, in collaborazione col Bizzarri, come lui Libero, ci ha dato recentemente un suo lavoro originale nel volume L’industria cinematografica italiana7. Esso si compone, grosso modo, di tre blocchi. Il primo, a carattere storico descrittivo, gira una panoramica del cinema italiano dall’età dell’oro d’anteguerra alla sua prima crisi del primo dopoguerra, all’opera del fascismo e all’affermazione neorealistica del secondo dopoguerra, terminandola nella crisi in atto del periodo 1950-1956; il secondo blocco contiene un’analisi strutturale della nostra industria cinematografica, articolata nei settori del noleggio, dell’esercizio, della produzione e del commercio con l’estero, integrandosi quest’ultimo con un capitolo sugli accordi italoamericani; il terzo blocco è costituito dall’appendice documentaria, la quale, con i suoi molti pezzi e dati inediti, costituisce forse la parte più interessante del volume. Ricevutolo in grazioso omaggio dagli autori – di che li ringraziamo – una volta superata la diffidenza causataci dal nome dell’editore, specializzato in libelli di autori marxisti, spretati o avversi contro quanto sa di religione e di Chiesa, ne abbiamo iniziata la lettura fiduciosi di trovarvi, come nei due volumi del francese e dello svizzero, rigore scientifico, razionalità redazionale e completezza; e pensavamo che la nostra fiducia poggiasse bene sulle competenze complementari dei due autori: il Bizzarri, laureatosi in scienze economiche e commerciali proprio con una tesi sull’industria italiana del cinema, e il Solaroli, già capo dei servizi di produzione della Cines-Pittaluga e poi direttore di produzione di alcuni film di rilievo8. Purtroppo, a lettura terminata, dobbiamo dichiararci delusi.
Intanto ci è parso che l’apparato redazionale del volume, sovraccarico di divisioni e suddivisioni in capitoli, premesse, appendici, sezioni, numeri e paragrafi, sia sproporzionato rispetto al modesto contenuto; poi le ripetizioni e i frequenti rimandi, per giunta fatti usando, non la numerazione delle pagine ma quella dei suddetti capitoli e paragrafi, nonché un certo squilibrio tra notizie accessorie, riportate piuttosto diffusamente, ed alcuni dati di maggior rilievo, trattati invece sommariamente, ci hanno dato l’impressione che quello dei due italiani, più che un lavoro organico e ponderato, sia una raccolta poco maturata e non decantata9.
Ma il difetto più rilevante del volume ci è parsa l’animosità polemica con la quale i due autori vi si battono. Liberi, essi, di avere le loro idee e di difenderle con gli argomenti che preferiscono; noi, tuttavia, opiniamo che, tutto sommato, anche la loro causa si sarebbe avvantaggiata se, invece che per un compromesso tra la documentazione e la polemica, avessero optato per una delle due vie, pubblicando o uno studio definitivo come quelli del Mercillon e del Bächlin, perché oggettivo ed esauriente, sull’industria cinematografica italiana, o una requisitoria d’interesse contingente. Di fatto essi hanno abbondato piuttosto nella seconda via, indulgendo ad attacchi, suspicioni ed accuse contro bersagli, per lo più politici, nominati ed innominati, ma facilmente individuabili, e qualche volta anche in difese reclamistiche; nei quali e nelle quali non diremmo che la qualità più rifulgente sia l’equanime visione e difesa della verità. Per esempio: non saremo certo noi a negare, né tanto meno a prenderne le difese, il sistematico rimbecillimento mondiale che sta compiendo certa prevalente produzione U.S.A., e siamo d’accordo con loro nell’auspicare che si tenti il tentabile per frenare tanto nostro danno civile e morale, rispetto al quale l’emorragia della nostra bilancia economica diventa un minor male; ma sono poi certi i due autori che le limitazioni quantitative da essi proposte eviterebbero i guai lamentati? Non potrebbe, invece, avvenire che una volta frenata l’invasione dei film di quella provenienza, dovessimo poi sopportare i danni insiti alla produzione cinematografica industrializzata come tale, almeno stando alle risultanze degli studi del Bächlin e del Mercillon? È vero: dovremmo ovviare anche con la qualità dei film prodotti in casa nostra! Ed anche su questo siamo d’accordo. Ci permettiamo, tuttavia, dubitare sul velel e sul posse della nostra produzione, o delle nostre co-produzioni, non disponendo noi di dati sufficienti per giudicare se finora i film più immorali, più idioti e più fallimentari, sia come singoli sia come prodotto medio, si contino nella produzione americana o in quella nostrana10.
Riguardo, poi, ai luoghi comuni: del neorealismo combattuto e soffocato dalla nostra censura, della collusione tra il capitalismo americano e il governo democristiano, della determinante opera meritoria del Circolo del cinema, dell’efficacia di certe manifestazioni di piazza, delle possibilità risolutive di certa Conferenza economica, perciò boicottate dal governo clericale ecc. ecc. – idee fisse anche di Cinema Nuovo, di Filmcritica, del Contemporaneo e, in genere, della stampa marxista e laicista – ci permettano il Bizzarri e il Solaroli di ritenerli logori espedienti polemici, su piano logico-culturale doppiamente senza valore; primo, perché tentano di semplicizzare – dunque li falsano – problemi e situazioni tra i più complessi; secondo, perché essi sono munizioni di normale dotazione alle truppe marxiste, delle quali conosciamo senza ombra di dubbio sia i falsi scopi, confessati (la cultura, la libertà e la dignità della nazione ecc.), sia l’unico vero scopo (il trionfo a tutti i costi della più antireligiosa ed antiumana delle ideologie).
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Ad altra occasione il tirare le conseguenze che su piano culturale, sociale, morale, religioso e politico, innegabilmente germinano dalla cruda realtà economico-industriale del cinema quale lo svizzero prima, il francese poi, infine i due italiani ci hanno inequivocabilmente documentato; per il momento, mentre plaudiamo a questo genere di pubblicazioni, indispensabili per ridurre certi pretenziosi esclusivismi estetico-psicologici nell’apprezzamento del complesso fenomeno cinema, non possiamo non rammaricarci che i due autori italiani, presi dalla polemica e un po’ dalla fretta, non ci abbiano dato, come potevano, uno studio, per compiutezza d’indagine, obiettività di dati e sistematicità di struttura, pari a quelli ottimi di Mercillon e di Bächlin.
1 Henri MERCILLON, Cinéma et monopoles. (Le cinéma aux Êtats-Unis - Étude économique), Paris, Librairie Armand Colin, 1953, in-8º, pp. XII-203. – Cinema e monopoli. Roma, Bocca, 1956, pp. 190. L. 800. (In questo articolo, i rimandi alle pagine si riferiscono a questa traduzione. La più equilibrata recensione di essa l’abbiamo letta in Rivista del Cinematografo, febbraio 1957, a firma W. MAGLIETTO, il quale, bontà ma, per carità patria, non rileva il giocondo seminio di refusi tipografici che l’allietano).
2 Il Solaroli nota opportunamente che la teoria dell’oligopolio, prima che al Perroux, risale allo Sraffa (1926), al Robinson e al Chamberlin (1933).
3 Peter BÄCHLIN, Il cinema come industria. (Storia economica del film), a cura di L. SOLAROLI. Milano, Feltrinelli, 1958, in-16º, pp. XIV-209. L. 450. (Nell’articolo, i rimandi alle pagine si riferiscono a questo volume); dall’originale Der Film als Ware (Basel 1945). Traduzione francese: Histoire économique du cinéma, di MULLER-STRAUSS. Paris, La Nouvelle Édition, 1947, in-16º, pp. 205.
4 Ci riferiamo, tra gli altri, al volume di N. OTTAVI: L’industria cinematografica e la sua organizzazione, 1936 (per parecchi anni libro di testo al Centro Sperimentale di Cinematografia), ed agli articoli comparsi su Bianco e Nero dello stesso OTTAVI (1937 e 1940), e di G. LOVERSO (1938), e alla Storia economica del cinema italiano, di U. DE FRANCISCI, inserita nella Longanesiana Storia del cinema, del 1942. Ci consta anche l’esistenza dei volumi: E. CAUDA, Il film italiano (1932); R. MAGGI, Filmindustria (1934), giudicato dal Solaroli «il migliore saggio economico italiano sull’industria cinematografica, perché condotto con rigorosità di metodo su criteri d’una purezza scientifica assoluta». Posteriore all’edizione originale del Bächlin già abbiamo presentato, sulla nostra rivista, l’ottimo, per quanto piuttosto teorico e scolastico, Economia cinematografica, di E. GIANNELLI (Civ. Catt. 1956, III, 420).
5 Benemerito del cinema marxista, o almeno “democratico”, infesto a quello americano ed alla censura, intollerabile di quanto è D.C. e “clericale”. A questa sua collana appartiene anche il volume di J. H. LAWSON, Il film nella battaglia delle idee, da noi recensito in Civ. Catt. 1956, III, 530. Al Feltrinelli apparteneva la rivista di cultura (marxista) Cinema nuovo, ridotta ormai al lumicino, con nessun rimpianto, secondo quanto recentemente scriveva e dimostrava la Rivista del cinematografo, della vera cultura.
6 Ecco un passo che, sotto questo aspetto, ci pare esemplare: «È innegabile che i grandi bisogni di capitali dell’industria cinematografica sono indipendenti dall’organizzazione politica ed economica del paese ove essa agisce, nulla prova che un cambiamento di struttura o di regime (cooperative di produzione e di consumo, nazionalizzazione ecc.) porterebbe ad una più razionale utilizzazione delle possibilità artistiche e documentaristiche del film. Tutto quello che si può dire, senza téma di esser contraddetti, è che i risultati sino ad oggi ottenuti dalla produzione capitalista non ci danno, salvo qualche rara eccezione, alcuna idea di ciò che il film potrebbe e dovrebbe essere» (p. 182).
7 L. BIZZARRI e L. SOLAROLI, L’industria cinematografica italiana. Firenze, Parenti, 1958, in-16º, pp. 262. L. 1.200.
8 Saggio eccellente della sua esperienza è il volume: Come si organizza un film (Roma, Ateneo, 1951), ampliamento del saggio sopraccitato di N. OTTAVI, in Bianco e Nero.
9 Concorrono a fomentare questa impressione i numerosi refusi tipografici, piaga di certa deteriore editoria. Rileviamo, tra gli altri, un Al Johnson (= Al Jolson) a p. 30, un SIAIE (= SIAE) a p. 47, e un 6:1 (= 1:6) a p. 85.
10 Altri esempi. Giustamente i due autori osteggiano l’illiberalità del fascismo, ma noi avremmo gradito se, insieme con i torti evidenti, avessero rilevato anche le innegabili benemerenze dei fascisti nel cinema italiano, quali poi siano stati i fini intesi dal regime. Ora questo non avviene. A p. 26 i due scrivono: «Si deve sottolineare che l’acuirsi della crisi del nostro cinema fu contemporanea allo scatenarsi della reazione fascista, che andava soffocando o corrompendo, in tutto il paese, i veri valori culturali e artistici con il fine di eliminare ogni germe possibile di libertà»: orbene, a parte il fatto che l’affermazione nella prima parte è contestabile, la contemporaneità di due eventi, di norma, non implica affatto un rapporto di causalità, neanche nel cinema; basti ricordare la presenza di capolavori, di film buoni o mediocri, e di cascami retorici, tanto nei paesi d’oltre cortina, dove il cinema è cosi libero che è monopolio di Stato, quanto nei paesi al di qua della suddetta, dei quali tutto si potrà dire meno che la libertà vi sia minore di colà. Molto più saggiamente il Mercillon (p. 130, nota 12): «Beninteso, talvolta il prodotto li rivela opera di grandi qualità artistiche, e ciò – noi teniamo a sottolinearlo – qualunque sia il regime politico ed economico». Viceversa, a p. 38, i due notano che «durante l’occupazione di Roma, gran parte delle attrezzature di Cinecittà venne presa e portata in Germania, ma poi fu ricuperata», e a p. 39, ragionevolmente, rilevano l’utile apporto culturale di Bianco e Nero e del Centro Sperimentale, «ideato da Luigi Chiarini» nel 1936; ma neanche qui, a parte la forzatura dell’ultima affermazione, perché non notano, i due, onestamente, che il recupero fu tutto merito di ferventissimi fascisti in lotta con i tedeschi (cfr L. FREDDI, Il cinema, 1949, vol. II, p. 468 ss.), e che tutta l’attività del Centro e di Bianco e Nero, sotto il fascismo, fu fascista al cento per cento? Alle pp. 44, 208 e 216, seguendo il Chiarini, i due affermano che la vigente legge sulla censura, del 1949, praticamente rimanda alla legge fascista del 1923: ma questo non è esatto, perché, in realtà, alcune disposizioni differenziano la legge 1949 da quella fascista del 1923, la quale, poi, era tutt’altro che originale, mutuando il suo nucleo essenziale dalle leggi del 1920, 1917, 1914 e 1913, approvate da governi socialisti e massoni, sì, ma non fascisti (cfr L. FREDDI, op. cit., vol. I, p. 97 ss.; L. CHIARINI, Cinema quinto potere, 1954, pp. 66-67). Per finire, a p. 69 leggiamo: «Una posizione particolare occupa, nel quadro delle organizzazioni di noleggio, la San Paolo Film, che, sorta con la modesta veste di distributrice di film a passo ridotto, si sta organizzando per essere all’altezza di una casa di distribuzione di film a 35 mm. Già in partenza la San Paolo Film può contare sulle oltre 5.000 sale parrocchiali, che ormai in Italia rappresentano il 17,20% degli incassi totali dei cinema, e sull’attività della casa di produzione omonima, che conta ormai dieci anni di attività e di esperienze. Si può ben dire che i cattolici hanno realizzato e stanno rafforzando un’autentica organizzazione cinematografica integrata: produzione-noleggio-esercizio, con la quale potranno imporre le loro esigenze». Permettano i due autori che noi, con la San Paolo, commentiamo questa loro spassosa fantasia con un «Magari fosse vero!», perché, credano pure, le cose non stanno esattamente come loro pensano, o mostrano di pensare.