Articolo estratto dal volume II del 1961 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
PARTE PRIMA
Dopo i noti fatti di Milano1, mentre alcuni seri produttori – in materiale accordo con la morale naturale e col magistero cattolico, che vi vedono la tutela più tempestiva degli interessi culturali e morali degli spettatori –, prevalentemente a tutela dei loro interessi economici minacciati dall’alea di una censura governativa e dalle imprevedibili sortite della magistratura, hanno avanzato la proposta di ovviare essi stessi all’immoralità degli spettacoli cinematografici mediante un’autodisciplina, alcuni disturbatori hanno proposto l’abolizione pura e semplice di ogni censura governativa2.
Li qualifichiamo disturbatori perché la loro proposta non poggia su alcun valido argomento né di morale naturale né di diritto positivo; anzi contrasta apertamente all’una ed all’altro. Quindi crediamo che essa non riscuota alcuna probabilità di approvazione da parte del legislatore, mentre accresce la confusione prodotta dalle numerose proposte e disegni di legge formulati e presentati sulla censura governativa, e nei cittadini meno provveduti incrementa quel senso di libertà demagogica che farà loro avversare, quale esso in pratica sia per essere, ogni intervento preventivo dello Stato sui film.
Più, dunque, per ovviare a quest’ultimo pericolo che perché ve ne sia bisogno ai fini del rigetto della proposta, pensiamo sia utile prendere in sommario esame i quattro argomenti sui quali essa cerca di reggersi.
Il primo di essi punta contro la legge oggi vigente sulla revisione cinematografica, in quanto essa sarebbe una legge fascista; gli altri tre puntano contro ogni intervento preventivo dello Stato, o perché causa degli intollerabili inconvenienti oggi lamentati, o perché radicalmente lesivo di quelle libertà di pensiero e di espressione, soprattutto artistica, che sono beni oggi definitivamente acquisiti all’uomo nello stato democratico, nonché sanciti in Italia da categoriche norme costituzionali.
Censura fascista?
Siamo i primi a sostenere che l’odierna legislazione in materia di revisione cinematografica sia da abolire; ma non perché essa sia fascista, o clerico-fascista, come va obiettando uno dei tanti luoghi comuni della polemica politica3. Chi infatti lo afferma, o ignora il vero o scientemente afferma il falso. Valgano questi pochi dati4.
Quando, allo scorcio del secolo passato, dalla Francia il cinema passò in Italia, ad esso furono applicate le norme di vigilanza sui pubblici spettacoli allora vigenti. E si riferivano all’art. 36 del Regolamento del T.U. della legge di P.S. coordinata col Codice Penale, approvato con R.D. 8 nov. 1889 – perciò sei anni prima dell’invenzione del cinema –, che nelle pubbliche rappresentazioni vietava di esporre «oggetti offensivi al buon costume, o che possano destare spavento o ribrezzo, e di abusare dell’altrui credulità». Promotore n’era stato l’on. Zanardelli, certo non clericale, né fascista. Il 15 maggio 1907, l’allora ministro degli Interni on. Giolitti, non clericale né fascista, richiamava e le autorità a una più intensa applicazione delle facoltà che loro la legge consentiva, prendendo lo spunto da rappresentazioni di operazioni chirurgiche, per allargare il richiamo alle pellicole che possano suscitare repugnanza nella generalità del pubblico, o avere influenza dannosa sui temperamenti nervosi, particolarmente impressionabili, ovvero recare offesa al pudore con l’esposizione di nudità invereconde». Tre anni dopo, l’on. Luzzatti, non clericale né fascista, rinnovava energici richiami alle autorità, «ricordando che le rappresentazioni cinematografiche, per la loro vivezza e suggestività, possono avere influenza corruttrice più deleteria delle stampe, delle figure e dei libri».
Col 25 giugno 1913 si ha in Italia la prima legge organica «di vigilanza sulle pellicole cinematografiche» (n. 785), proponente lo stesso on. Giolitti, appoggiata, tra gli altri, dagli onn. Filippo Turati e Claudio Treves, non clericali né fascisti5. Il suo art. unico recitava: «È autorizzato il governo dei Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, siano esse prodotte all’interno, siano importate dall’estero...». Un successivo Regolamento, del 31 maggio 1914, essendo al governo l’on. Salandra, non clericale né fascista, nell’art. 1 vietava queste quattro classi di rappresentazioni al pubblico:
a) di spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; b) di spettacoli contrari alla reputazione ed al decoro nazionale o all’ordine pubblico, ovvero che possano turbare i buoni rapporti internazionali; c) di spettacoli offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, di funzionari e degli agenti della forza pubblica; d) di scene truci, repugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali, di delitti o di suicidi impressionanti, ed in generale di azioni perverse o di fatti che possano essere scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male.
Non basta. Negli anni seguenti, ulteriori leggi, disposizioni e decreti governativi – quella del 1920 è firmata dagli onn. F. S. Nitti e L. Mortara, certo non clericali né fascisti – impongono addirittura la revisione obbligatoria dei copioni e scenari dei soggetti destinati ad essere tradotti in pellicole cinematografiche!
Soltanto con la legge n. 3287, del 24 sett. 1923 – si noti: «vista la legge del 25 giu. 1913 e visto il R.D.L. del 9 sett. 1919»! – si ha la prima legge fascista in argomento, la quale, però, introduce soltanto una variante, che, in verità, almeno nella lettera, non ha proprio nulla di «fascista». Eccone il testo (la variante “fascista” è in maiuscolo, mentre quelle della legge Nitti-Mortara sono in corsivo):
Art. 3 – Il nulla osta per le pellicole da rappresentarsi in pubblico non può essere rilasciato quando si tratti della riproduzione: a) di scene, fatti e soggetti offensivi del pudore, della morale, del buon costume e della pubblica decenza; b) di scene, o fatti e soggetti contrari alla reputazione ed al decoro nazionale e all’ordine pubblico, ovvero che possano turbare i buoni rapporti internazionali; c) di scene, fatti e soggetti offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni o autorità pubbliche, dei funzionari ed agenti della forza pubblica, del Regio Esercito e della Regia Armata, ovvero offensivi dei privati cittadini, E CHE COSTITUISCANO COMUNQUE L’APOLOGIA DI UN FATTO CHE LA LEGGE PREVEDE COME REATO E INCITINO ALL’ODIO TRA LE VARIE CLASSI SOCIALI; d) di scene, fatti e soggetti truci, ripugnanti e di crudeltà, anche se a danno di animali, di delitti e suicidi impressionanti; di operazioni chirurgiche e di fenomeni ipnotici e medianici, e in generale, di scene, fatti e soggetti che possano essere di scuola e incentivo al delitto.
Le successive leggi fasciste del 1927, 1929, 1931 e 1940 praticamente lasciarono immutati i casi d’intervento censorio, occupandosi quasi esclusivamente della composizione delle commissioni di esame.
Inconvenienti della censura preventiva
Fascista o non fascista che sia – si sussume – gli inconvenienti ai quali la censura statale preventiva dà luogo sono tali e tanti che urge abolirla, ed affidare la tutela della moralità dello spettacolo alla sola repressione penale; al trar dei conti, poi, siffatti inconvenienti vengono ridotti a tre capi, cioè: all’abuso del potere politico, cui fatalmente si presta una censura governativa, all’incompetenza specifica degli organi giudicanti e all’inutilità di un nulla osta amministrativo che non escluda gli interventi repressivi della magistratura, i quali, poi, diminuirebbero nell’opinione pubblica il prestigio dello Stato, moltiplicando scandalosi casi di collisione tra il potere amministrativo e quello giudiziario.
Ad essere franchi, nell’odierna legge di revisione cinematografica, i due primi inconvenienti ci sembrano incontestabili. Ma, osserviamo con i vecchi logici, che lamentari inconveniens non est adducere argumentum. Se bastasse, per abolire una legge, o ad abbattere un’istituzione, addurre gli inconvenienti da esse occasionati, allora: dall’obbligo scolastico al servizio militare, dal codice della strada agli uffici di igiene e di polizia, dalle mutue alla previdenza sociale, dall’istituto familiare ai sindacati, ai partiti, al Parlamento, alla stessa forma istituzionale dello Stato...: che cosa mai si salverebbe? Non si tratta, dunque, di abolire, ma di correggere migliorando.
Tutt’altro discorso ci pare che meriti invece il terzo inconveniente lamentato, perché riteniamo che il clamore scandalistico sollevato intorno ai contrasti di giudizio verificatisi tra amministrazione centrale e magistratura milanese sia poco motivato su piano di diritto, e positivamente errato sul piano dei fatti. Perché mai – è stato osservato da qualcuno – scandalizzarsi dei giudizi discordanti espressi da due poteri statuali operanti indipendentemente – il primo, infatti, è chiamato ad applicare una legge dalla sfera più ampia che non sia quella del Codice Penale che giustifica l’intervento del secondo –, quando nel nostro ordinamento giuridico i «contrasti» si verificano nell’ambito di uno stesso potere? Se poi si rileva che, di fatto, l’opinione pubblica è rimasta sfavorevolmente impressionata, e che tuttora stenti ad accettare come eventi normali, in uno stato di diritto ordinato, quelli di Milano, rileviamo a nostra volta che ciò è da imputarsi soprattutto a certa stampa, la quale, lungi dall’illuminare l’opinione pubblica secondo verità, com’era suo dovere, o si è mostrata reticente sul vero stato delle cose (calcolo politico? mancanza di coraggio e di convinzioni? ignoranza?), o ha drammatizzato notizie e polemiche seguendo la deformazione professionale di dare valore soltanto al sensazionale ed allo scandalistico, o consapevolmente ha gonfiato ed aizzato scandali e polemiche, forse succube della produzione toccata sul vivo dei suoi interessi, o all’insegna del «quanto peggio tanto meglio» di certe fazioni politiche avverse al governo, o, finalmente, perché maneggiata dai pochi ma impertinenti difensori dei diritti intoccabili della licenza, convinti o stipendiati dalle fazioni di cui sopra.
Ma non escludiamo che le singolari circostanze che hanno accompagnato gli interventi – pur doverosi, coraggiosi e benèfici – della magistratura, abbiano influito a disorientare l’opinione pubblica. La prima è che, tra tanti organi giurisdizionali che potevano (e dovevano?) intervenire, soltanto quelli di Milano si siano mossi. «Vige forse a Milano una morale ed una legge — si è chiesto l’uomo della strada — diversa da quella del resto d’Italia?». Un’altra domanda se l’è posta specialmente la stampa specializzata, questa volta non sprovvista di pezze d’appoggio, che si è chiesta perché mai sequestri e denunce abbiano colpito soltanto alcuni film italiani, i quali, senza essere forse dei capolavori assoluti, pure, in valori tematici e stilistici, eccellevano sulle decine e decine di altri film, nostrani ed americani, privi di idee, sciatti di mestiere, carichi di violenza e di sudiciume, i quali invece hanno circolato, col benestare della censura e senza suscitare reazioni di magistrati... Infine, non si può negare che in alcuni interventi ci siano state almeno le apparenze di strani accomodamenti – quali l’«effetto notte» ed i tagli, suggeriti ed accettati per film già sequestrati e poi rimessi in programmazione –, che poi non è stato difficile alla stampa denunciare come aberranti rispetto alle norme giuridiche del vigente Codice di procedura penale; giacché, si è rilevato, compete, sì, al magistrato accertare l’esistenza del reato, sequestrarne l’oggetto ed incriminarne gli autori, ma non l’integrare l’eventualmente insufficiente censura governativa!
Tuttavia ci pare che l’eccessivo rilievo concesso dalla stampa a queste circostanze abbia sviato l’attenzione del pubblico su aspetti piuttosto marginali della questione di fondo, la quale, secondo noi, non consisteva né nelle esorbitanze della magistratura né nei contrasti tra potere giurisdizionale e potere amministrativo, bensì nella troppo timida e tardiva presenza del primo là dove il secondo da tempo era manifestamente inoperante. Per convalidare il nostro assunto sarà bene ricordare alcuni fatti verificatisi nel mondo cinematografico in questi ultimi anni.
* * *
Diffusasi rapidissimamente la televisione e moltiplicatisi a dismisura i mezzi privati di locomozione a motore, come all’estero così pure in Italia, il cinema si è sentito presto minacciato nella posizione da esso detenuta di quasi unico diversivo spettacolare delle masse, perché a milioni i già fedeli suoi spettatori cominciarono a disertarne le sale. Allora la produzione e l’esercizio cercarono di arrestare l’emorragia migliorando commercialmente il prodotto. Prima tentarono la via dei lenocini tecnici: schermi dilatati, profusione di colori, suono stereofonico, immagini stereoscopiche... nella speranza che gli spettatori, così assuefatti al Kolossal più smagliante, avrebbero spregiato il piccolo e pallido schermo televisivo. Ma il tentativo, nonostante le rischiose spese di produzione e di impianto affrontate, non si dimostrò risolutivo6. Allora la produzione, ricalcando noti ricorsi... storici, si buttò ad impepare i contenuti, contando sul fatto che la televisione, dato il carattere di spettacolo familiare che le era riconosciuto, si vedeva preclusi gli argomenti, le scene e le battute troppo spinti. Ma, come già al Kolossal, gli spettatori si abituarono presto ai sapori forti, e ritrovarono scipito e comune quello che in un primo tempo erano accorsi a vedere come stuzzicante ed inedito; cosicché, priva di altre risorse, la produzione si trovò avviata a sempre più osare, per trattenere spettatori cui essa stessa contribuiva rapidamente a bruciare il palato, quindi ad avvilire il prodotto cinematografico con sfrontatezze e volgarità mai prima raggiunte: lo stesso Ministro dello Spettacolo doveva riconoscere avanti al Senato (13 dic. 1960): «Vi è stata indubbiamente nel corso degli ultimi mesi una sdrucciolata... un momento nel quale è sembrato che la tematica delle cosiddette donne perdute e degli esseri ammalati di squilibri ormonici costituisse quasi l’ingrediente necessario... soprattutto dei cosiddetti film d’indagine»; e, abbozzando un bilancio della situazione ormai raggiunta, il recente comunicato della Conferenza Episcopale Italiana la sintetizzava in questi termini, purtroppo permessi da dati statistici: «Chi guarda alla produzione cinematografica attuale non può non sentirsi preso da profondo sgomento per uno stato di cose che va quotidianamente peggiorando... Nel quadro della produzione mondiale, l’Italia, purtroppo, sembra avviarsi ad un triste primato per il numero di film moralmente negativi»7.
Qualche freno a questo scadere dello spettacolo verso il turpiloquio, la pornografia e l’orrido, poteva e doveva porlo la revisione governativa; e non escludiamo che qualche cosa essa abbia tentato di fare; tuttavia, stando anche a quanto abbiamo visto con i nostri occhi, giudichiamo la sua azione praticamente quasi inesistente. Ci confermano in questa convinzione i giudizi provenienti da due settori cinematografici non sospetti in materia, quali la critica più laicista e la stessa produzione. La prima, sia pure, come abbiamo già detto, in difesa dei film perseguìti dalla magistratura, ha spesso rilevato i molti filmacci che circolano impunemente e in qualche caso ha anche rotto certo suo prudente riserbo elencando titoli ed autori incriminati8; l’altra ha ammesso, per bocca di uno dei suoi massimi esponenti, che in fatto di censura cinematografica l’Italia è il paese più libero del mondo:
Qui si parla sempre della censura, censura, censura; diciamo la verità: l’Italia in questo momento è il paese più libero del mondo. Adesso non voglio fare titoli di film; ma ci sono dei film passati in questi ultimi mesi dalla censura italiana, che personalmente vi posso garantire che non passeranno non solo alla censura spagnuola, non solo in Germania, ma in molti paesi di lingua anglosassone, compresa l’America. In Italia si tratterà di fare un taglietto qua, un taglietto là, ridoppia questa battuta, ridoppia quell’altra, ma non esiste, nelle centinaia e centinaia, forse migliaia di film prodotti nell’ultimo decennio, un film bocciato in censura, un film che non ha mai visto la luce. Esiste invece lo stesso caso in altri paesi del mondo; in Francia esiste... Quindi, questo famoso rigore della censura non esiste. Anzi, oggi, dopo gli ultimi esempi – il pericolo secondo me sta in questo – i recenti casi di estrema liberalità invoglieranno quasi certamente alcuni registi e alcuni produttori ad affrontare argomenti scabrosi... Insomma, la censura oggi in Italia mi spaventa non per i rigori, ma per la troppa liberalità, questa è la verità sacrosanta. Dobbiamo elencarli i film che sono usciti in questi ultimi due o tre mesi e che non usciranno in America, e non usciranno in Inghilterra, non usciranno in Spagna, non usciranno in Germania? Oggi l’Italia è il paese più libero al mondo. Su questo non ci sono dubbi9.
Tra i fattori che hanno portato il controllo amministrativo a tal punto di inefficienza contiamo il passaggio di un sottosegretario, durante la cui amministrazione le maglie della censura subirono squarci tali che poi fu un giuoco, per produttori ed autori spericolati, farvi passare altra merce avariata; poi mettiamo l’impopolarità che all’ufficio governativo avrebbero creata eventuali interventi restrittivi, impopolarità alla quale questo era particolarmente sensibile, dipendendo esso da governi instabili, come tali tutt’altro che bisognosi di crearsi oppositori, mentre clamorosi favori di pubblico andavano via via accogliendo film che, o avevano provocato qualche intervento della censura e della magistratura, o si dicevano tali da manifestamente richiederli; ed infine ci mettiamo il complesso di colpa e d’inferiorità creato in esso dalla stampa laicista, di cui sopra, con l’affermare, col denunciare, col gridare che in Italia non c’è libertà di pensiero, non d’espressione, non di arte, imperversandovi non una, bensì sei censure, del governo clericale e fascista10.
Fatto sta che da molta produzione e da molta critica la censura governativa veniva ormai trattata da zimbello e sfidata impunemente. – «Fatevi coraggio, uccidete in voi l’agnello che bela, alzate la voce, dimostrate di esistere come gente che ha idee, coraggio, forza, indipendenza. Sfidatela, questa censura! Non arrendetevi prima di aver provato... Qualcuno di voi, coraggio ne ha avuto, in questi ultimi tempi. Onore al qualcuno. Continui, insista, provochi. La provocazione è un’arte democratica, quando si tratta di difendere libertà e intelligenza»! – scriveva un critico non tra i più faziosi; mentre un altro scrittore, non certo clericale, notava: «Ormai siamo al punto che i produttori invocano la bocciatura di un film perché si risolve in tanta pubblicità gratuita alla pellicola, che certamente uscirà. L’ho sentito io un produttore esclamare, apprendendo la notizia che il suo film aveva avuto il visto: “Ma come? Non ha detto niente la censura?”»11. Naturalmente, per quanto saltuarie, non mancarono violente proteste di pubblico, di privati e di associazioni per alcuni film più spinti. Ma i produttori e gli esercenti non le temevano, perché sapevano che un certo art. 14 del Regolamento annesso al R.D. n. 3287, del 24 sett. 1923, secondo il quale «il ministro può, in qualunque momento, sia di propria iniziativa, sia a seguito di reclamo di autorità, di enti pubblici, di privati... richiamare le pellicole, anche se munite di nulla osta, ed ottenere una revisione straordinaria innanzi alla Commissione di Appello», non sarebbe stato applicato12; d’altra parte, i rarissimi film che vennero denunciati alla magistratura come osceni, non ebbero eccessive difficoltà ad evitare le condanne previste dall’art. 528 del c.p., grazie a molto benevole interpretazioni del «comune sentimento», al quale il successivo art. 529 commisura le offese al pudore, e grazie ad un’altra norma dello stesso articolo, secondo la quale «non si considera oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza...».
In conclusione: resa praticamente inefficiente ogni censura preventiva da parte dell’esecutivo, assicuratisi contro eventuali richiami da parte dello stesso potere, di film già immessi in programmazione, esclusa l’eventualità di interventi spontanei del potere giurisdizionale, e nulla temendo dai giudicati dello stesso su denuncia di altri, la produzione e l’esercizio, nonché la stampa compiacente, cercavano ormai di conservare la loro troppo comoda autonomia con lo slogan: «Niente censure preventive, e rimettere tutto alla repressione penale!», quando, di punto in bianco, gli interventi dei magistrati milanesi vennero a sconvolgere tutti i loro euforici calcoli. Allora, stampa, produzione ed esercizio si misero all’unisono a gridare allo scandalo: critici e scrittori dando dell’ignorante in cultura, in arte ed anche in giurisprudenza ai due magistrati; produttori ed esercenti, i quali, dietro quelli, videro profilarsi la minaccia delle cento e cento Procure e delle mille e mille Preture d’Italia, stracciandosi le vesti sull’inammissibile e scandaloso contrasto tra poteri amministrativo e giurisdizionale...
Per conto nostro, dopo quanto abbiamo detto e dopo i fatti che abbiamo riportati, torniamo a ripetere che siffatti clamori ci sembrano immotivati; e continuiamo a ragionare così: se c’è una legge che, sul buon costume cinematografico, dev’essere osservata dall’esecutivo, non si riduca questo nell’impossibilità di osservarla, bensì piuttosto, tutti quelli che lo possono, coadiuvino con esso; e si vedrà che i cosiddetti contrasti, o non si verificheranno affatto, o si verificheranno rarissimamente. Ma se qualcuno oggi porta la colpa del dannoso disorientamento patito dalla pubblica opinione, questi non è tanto il legislatore, né l’esecutivo, quanto chi ha tirato troppo la corda fino a spezzarla, spavaldamente portando lo spettacolo cinematografico a bassezze non più tollerabili in una nazione che abbia un minimo di rispetto di se stessa. In questo stato di cose, l’intervento della magistratura e i progetti di una nuova legge manifestano soltanto l’urgenza sentita da tutti gli onesti, di rimettere una buona volta in funzione gli organi di cui uno Stato ben ordinato deve poter disporre per la tutela del bene comune.
Censura e libertà democratiche
A questo punto i disturbatori che vanno proponendo l’abolizione pura e semplice della censura governativa, si spostano dalla situazione del momento, ed italiana, a quella di principio, generale ed universale, sussumendo che ogni censura è intollerabile, perché lesiva delle libertà di pensiero e di arte, intangibili conquiste dello Stato democratico.
Per tacitarli occorrerebbe, tra l’altro, rilevare le distinzioni (per noi ovvie) tra libertà e anarchia, e tra beni (diritti, poteri o interessi) individuali e bene comune; quindi rilevare l’armonia nella quale, in uno Stato di diritto, devono comporsi libertà ed ordine giuridico, beni individuali e bene comune, ed anche la necessità di rendervi forte il senso dello Stato contro le forze che tendono a dissolverlo; dipoi occorrerebbe passare a tutta la complessissima fenomenica industriale, economica, psicologica e sociologica del cinema, per concludere che non vi si tratta di attività, meramente individuali, bensì prevalentemente di pubblico interesse...: insomma, un impegno che evidentemente non siamo in grado di assolvere. Preferiamo perciò ripiegare su due argomenti ad hominem, vale a dire diretti alle ideologie particolari alle quali mostrano di ispirarsi i libertari ad oltranza.
Il primo consiste nel rilevare che oggi nel mondo, praticamente nella totalità degli Stati, vige, in una forma o in un’altra, la revisione dei film. Ne dovremmo, forse, concludere che tutti gli Stati del mondo conculcano la libertà di pensiero e dell’arte, o non, piuttosto, che, pur apprezzando e tutelando quanto meritano, cioè moltissimo, alcuni beni acquisiti e garantiti dagli Stati democratici ai singoli individui, i legislatori ed i governanti degli stessi apprezzano e tutelano anche altri beni, spirituali e morali, comuni a tutta la società, contro il tendenziale prepotere di attività prevalentemente economiche?
C’è, sì, ed è questo il nostro secondo rilievo, una vasta zona del mondo dove non si esercita alcuna revisione statale dei film. Essa comprende la Russia con annessi e connessi, dalla Iugoslavia alla Cina, dall’Ungheria alla Manciuria, dalla Bulgaria alla Corea... ; ma per la semplice ragione che in tutte le sue repubbliche, o colonie che siano, il cinema è monopolio di Stato, come da noi il chinino, il sale e le sigarette. Solamente la produzione di Stato, infatti, può produrre i film, solamente la distribuzione di Stato può distribuirli, solamente gli esercizi dello Stato possono proiettarli. Nessun privato può girare, o acquistare, o proiettare dieci metri di pellicola senza il «permesso delli Superiori». Irridendo ogni libertà di pensiero, soltanto lo Stato – o, meglio, il partito – decide quando i film devono esaltare la guerra e ridicolizzare la pace, quando devono predicare la pace ed anatematizzare la guerra; quando devono canonizzare Stalin e quando lo devono ignorare; quando devono dire che tutte le guerre sono state vinte dagli stati maggiori e quando invece devono attribuire tutte le vittorie ai militi ignoti; quando al popolo sovrano bisogna servire film eroici, ma spintarelli, come Il quarantunesimo, oppure film sempre eroici, ma da educande, come La ballata di un soldato; soltanto lo Stato-partito invia i rari film che crede all’estero e soltanto lo Stato-partito sceglie i rari film da importare, e paternamente li distribuisce dopo averli tagliati, rimaneggiati, completati ed incappellati, insomma sterilizzati o tonificati. Ed infischiandosi di libertà dell’arte e degli artisti, soltanto il partito ordina e manda, approva o archivia, soggetti, sceneggiature, film, si tratti pure di infierire contro nomi quali Eisenstein e Dovcenko, e di esaltare i vari Ciaureli e Ciukrai; e, naturalmente, soltanto il partito, per bocca dei vari Stalin, Zdanov, Malenkov e Kruscev di turno, decide quale sia l’estetica valida del momento, e quale la critica...
I marxisti di tutte le obbedienze si guardano bene dal ricordare queste edificanti cose d’oltre cortina, come pure di ammonire che, senza ombra di dubbio, non diversa da quella sarebbe la sorte che anche in Italia verrebbe fatta alle sacrosante libertà di pensiero e di arte, se mai patissimo la mala ventura di vederli giungere al potere. Evidentemente contano sull’ignoranza o sulla dimenticanza della gente per bene, che perciò li appoggia. Ma, chi sa e ricorda, giudichi della buona fede loro quando propongono l’abolizione di ogni censura statale, ed ammiri il candore dei laicisti, che, pur di corrodere quanto nella compagine statale resta di etica naturale e cristiana, preparano, facendo coro con i marxisti, la fine di ogni libertà personale e civile.
Censura e libertà costituzionali
Ci resta da rispondere all’ultima obiezione, la quale, al mantenimento dell’odierna censura preventiva in Italia, o ad una sua novella regolamentazione, oppone la lettera e lo spirito della Carta costituzionale. Ma, intuendo, dal molto che ne abbiamo letto ed udito, anche da parte di eminenti giuristi, la complessità dei concetti e dei dati di cui si struttura questo argomento, non ci avventureremo a discutere, tanto meno a definire, tutte le controversie che vi pullulano; ci limiteremo semplicemente ad orientare con qualche dato quelli dei nostri lettori che fossero del tutto nuovi alla questione, sicché possano farsi un’opinione motivata sull’infondatezza dell’obiezione.
Cominciamo con un rilievo che, per quanto estrinseco alla Costituzione, ci pare che indichi inequivocabilmente quale fosse la mens dei costituenti. Riprendendo le vicende della legge odierna sulla revisione cinematografica13, notiamo che, caduto il fascismo, il D.L.L. 5 ottobre 1945, n. 678, all’art. 2, insieme con poche altre norme “fasciste” abrogò, sì, l’obbligo della preventiva revisione dei copioni, ma all’art. 11 fece salvo «il regolamento... del 1923..., che disciplina la censura cinematografica», ed esattamente lo stesso dispose la Costituente con la legge 16 maggio 1947, n. 379; anzi, inoltre, essa reintrodusse, sia pure come facoltativa, la revisione dei copioni e, naturalmente, conservò in essere anche il famoso e scandaloso art. 14, di cui sopra. Come, dunque, si può sostenere che sia aliena dalla Costituzione ogni forma di censura preventiva quando i costituenti, mentre stendevano il testo di questa, sostanzialmente confermavano la legge oggi ancora vigente?14.
Ma veniamo al testo stesso della Costituzione. Gli artt. che più spesso ne vengono invocati, in subiecta materia, sono il 21 ed il 33; ma l’uno e l’altro, a nostro modesto avviso, conforme a quello di molti eminenti giuristi, lo sono spesso a sproposito. Infatti, se è vero che l’art. 21, al primo comma recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione», è anche vero che, dopo aver fatto, nei commi seguenti, una situazione di privilegio alla stampa, lo stesso articolo, nell’ultimo comma, stabilisce che «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». Ci sembra che si potrà discutere, come si è fatto e si fa, circa l’accezione di “buon costume”, ma che non ci sia cavillo capace di negare allo Stato il potere di promulgare leggi adeguate anche a prevenire le violazioni di esso! Tanto più che – come è stato rilevato da uno non di parte nostra –:
i lavori della Costituente, documentati dai relativi Atti, sono lì a provare, attraverso una lunga e complessa discussione, che quel comma, e la sua ultima proposizione, furono dettati soprattutto da una preoccupazione riguardante la cinematografia. Ancora prima, nella relazione della sottocommissione per i problemi costituzionali a cura del ministero della Costituente, era stato detto che si conveniva «sull’opportunità di stabilire per la cinematografia una eccezione al divieto della censura preventiva, soprattutto a scopo di tutela della pubblica moralità»15.
Dell’art. 33, invece, che nel primo comma sancisce il principio generale: «L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento», sempre seguendo la dottrina di eminenti giuristi, ci sia lecito ritenere che esso, nel contesto, si riferisce alla ricerca artistica e scientifica, nonché, come espressamente è detto, all’insegnamento di esse, e non conglobi affatto nel suo oggetto l’insieme di tutte le attività cinematografiche, perché in queste, come a tutti è notissimo, gli aspetti artistici e scientifici, almeno quantitativamente e di fatto, sono del tutto eccezionali, prevalendovi quelli spettacolari di massa. Del resto, ammesso pure che il principio costituzionale «L’arte e la scienza sono libere», tutelasse nella sua generalità anche gli spettacoli cinematografici come tali, resterebbe sempre vero che, analogamente ad altre norme costituzionali, l’esercizio di esse libertà non potrebbe essere in danno di altri superiori beni ed interessi, tutelati dalla stessa Costituzione. «Ogni diritto, nell’ordinamento giuridico — rilevano due sentenze della Corte Costituzionale (n. 1 del 1956 e n. 121 del 1957) — risulta limitato dall’esistenza di altri diritti...; e la norma che attribuisce un diritto non esclude la disciplina del suo esercizio»; ed, esemplificando, tra i superiori beni ed interessi, la stessa Costituzione garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), il pieno sviluppo della persona umana (art. 3) protegge l’infanzia e la gioventù, agevola la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi (art. 31); tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo (art. 32), ecc.
A conferma, valga quanto la stessa Costituzione dispone nell’art. 41, dove, sancito che «L’iniziativa economica privata è libera», nel secondo e terzo comma dispone che la stessa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; e perciò: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»16; e valgano due articoli del Codice Penale –0 non abrogati dalla Costituzione né da leggi posteriori, quindi ancora in vigore – che assegnano qualche limite alla diffusione degli spettacoli cinematografici, anche qualora verificassero l’ipotesi dell’opera di scienza e dell’opera d’arte. Infatti, mentre l’art. 528, comma 3, n. 2, commina pene a chi «dà pubblici spettacoli... cinematografici... che abbiano carattere di oscenità», l’art. 529, comma 2, esclude, sì, che ai fini della legge penale «si consideri oscena l’opera d’arte o l’opera di scienza», tuttavia riapplica anche ad esse quelle pene qualora per motivo diverso da quello di studio «siano offerte in vendita, vendute o comunque procurate a persona minore degli anni 18»17. Ora, è precisamente a scopo di studio che la produzione, la distribuzione e l’esercizio in Italia mettono in programma ogni anno circa 500 nuovi film, e vendono circa 800 milioni di biglietti, incassando ai botteghini circa 120 miliardi di lire? Ed è del tutto gratuita l’ipotesi che tra questi 800 milioni di spettatori annuali alcune centinaia di milioni siano costituiti da persone inferiori agli anni 18?18.
Inoltre la costituzionalità delle norme che sanciscono il principio della vigilanza governativa sui film trova una conferma nell’art. 10 della Convenzione per la difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 nov. 1950 da ben quindici Stati, e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. Essa recita:
1 – Ognuno ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere e di trasmettere idee e informazioni senza alcuna ingerenza da parte della pubblica autorità e senza tener conto delle frontiere. Il presente articolo, però, non impedisce agli Stati di sottoporre le imprese di radiodiffusione, di cinema e di televisione, a un regime di autorizzazioni.
2 – Quando l’esercizio di queste libertà comporti dei diritti e delle responsabilità, esso può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni e, sanzioni previste dalle leggi, che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e la prevenzione dei delitti, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario19.
Concludendo
Non potremmo concludere meglio questa nostra puntata sulla costituzionalità di una legge per il Controllo amministrativo dell’attività cinematografica che riportando i due contrastanti ordini del giorno posti in votazione a chiusura del recente congresso tenuto su questo argomento dal Centro Internazionale di Studi giuridici sulla Stampa e lo Spettacolo (C.I.D.I.S.): Treviso-Venezia: 30 sett. - 2 ott. 1960. Il primo, elaborato dai magistrati Berutti e Glinni, proponente la incostituzionalità, fu approvato soltanto da otto congressisti; quindi respinto dal congresso. Esso recitava:
Il Congresso, considerato che qualsiasi forma di controllo preventivo sulle opere cinematografiche è contrario ai principi costituzionali, che garantiscono la libertà dell’arte e della manifestazione del pensiero per mezzo della stampa e di ogni altro mezzo di riproduzione e di diffusione delle opere d’arte e di scienza; esprime il voto che siano abolite tutte le norme limitatrici di detta libertà e particolarmente quelle concernenti il controllo e la censura preventiva delle opere cinematografiche, ferma restando la competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria nella repressione dei reati commessi per mezzo del cinematografo.
Il secondo, elaborato dai quattro relatori del congresso: G. Rosso, G. Roehrrsen20, Grechi e P. Nuvolone, affermativo della costituzionalità della censura preventiva, fu approvato da ben quarantotto congressisti; quindi accettato come proprio dal congresso. Esso recita:
Il Congresso esprime i seguenti voti:
1) che, nei limiti in cui, relativamente alla tutela del buon costume, deve ritenersi legittima dal punto di vista costituzionale la censura preventiva, sia elaborata una disciplina legislativa che renda possibile un coordinamento tra l’attività di prevenzione e l’attività di repressione;
2) che, in sede di riforma legislativa, si elabori un corpus unico delle leggi amministrative e penali in materia cinematografica, in modo da evitare le contraddizioni e le lacune rilevabili nelle numerose leggi vigenti;
3) che vengano resi più efficaci i divieti concernenti le rappresentazioni proibite ai minorenni.
Si tratta, dunque, come dicevamo, non di abolire ma di migliorare. Quali poi siano i punti fondamentali perché la nuova legge sodisfi le esigenze sia dei cittadini gelosi dei precetti stabiliti nella Carta costituzionale, sia degli uomini rispettosi della morale naturale e cattolica, o riserviamo di esporre in un prossimo articolo.
Parte seconda
Abbiamo dimostrata inattuabile, almeno per il momento, in Italia una pur auspicabilissima autodisciplina da parte delle categorie professionali del cinema21, ed abbiamo provato che l’intervento, anche preventivo, dello Stato non è anticostituzionale22; per completare il nostro modesto contributo di chiarificazione in vista di una nuova legge sulla revisione cinematografica non ci resta che richiamare l’attenzione dei lettori sulle proposte finora avanzate e su quanto vi riteniamo degno di approvazione o meno.
Tra proposte e rimandi
Come abbiamo detto, il Regolamento di revisione cinematografica oggi vigente rimonta al D.L.L. 5 ottobre 1945 n. 678, recante norme per il «nuovo ordinamento dell’industria cinematografica italiana», rimasto sostanzialmente invariato tanto nella legge 16 maggio 1947 n. 379 quanto in quelle del 29 dicembre 1949 n. 959 e del 31 luglio 1956 n. 897. Tuttavia ci si dové render conto della necessità di ovviare al caos legislativo che si era venuto accumulando in materia cinematografica, e specialmente in argomento di censura; perciò, mentre nella stessa legge del ’56 si autorizzava «il Governo della Repubblica a riunire e a coordinare in testo unico, entro un anno... le norme sulla cinematografia contenute nella legge medesima e nei decreti legislativi» emanati dal 1945 al 1949 (art. 37), con l’art. 23 si disponeva che «le vigenti disposizioni concernenti il nulla osta per la proiezione in pubblico... restano in vigore fino alla emanazione di nuove norme sulla revisione dei film e, in ogni caso, non oltre il 31 dic. 1957». Di qui le varie proposte di riforma – salvo sviste, sette – formulate in sei anni, al fine di adeguare l’ordinamento legislativo ai mutamenti intervenuti nella realtà sociale, giuridica, psicologica e culturale del Paese.
Due di esse precedettero la stessa legge del ’56; e sono la proposta dell’on. Calabrò (n. 1518, 16 marzo 1955), la quale, ad integrazione delle norme vigenti, proponeva termini perentori, motivazione ed irrevocabilità del nulla osta; ed il disegno di legge governativo Segni-Tambroni-Moro (n. 2306, 14 giugno 1956)23, che tutelava altri valori oltre il buon costume, prevedeva un doppio grado di commissioni e di giudizi, il divieto per minori di anni 16, il termine di 30 giorni del nulla osta e la motivazione del diniego. Nulla diceva circa il richiamo in revisione dopo concesso il nulla osta.
Prorogato il termine posto dall’art. 23 della legge 897, il 15 marzo 1958, essendo sottosegretario l’on. Resta, un nuovo disegno di legge veniva approvato dalla Commissione Interni della Camera in sede deliberante dopo 15 sedute e ben 140 interventi (23 ott. 1957-14 mar. 1958). Decaduto a seguito delle vicende parlamentari, tale progetto venne riproposto come disegno di legge Fanfani-Tambroni-Gonella (n. 713, 13 dic. 1958) alla 2ª Commissione della Camera, e nuovamente approvato (15 apr. 1959); quindi passato all’esame della 1ª Commissione del Senato24. Rispetto al precedente, esso prevedeva l’inclusione di critici cinematografici tra i revisori, ipotizzava la bella trovata di «oscenità non essenziali ai fini dell’espressione artistica», e tentava il primo coordinamento tra potere amministrativo e potere giudiziario, deferendo alla Corte di Appello di Roma la pronuncia sull’esistenza di elementi oggettivi di reato perseguibili di ufficio.
Col 1959 si ebbero altre due proposte di legge, rispettivamente da parte comunista e da parte missina. La prima (n. 836, del 28 genn. 1959), ad iniziativa dell’on. Lajolo ed altri, tra le particolarità più caratteristiche restringeva la censura ai soli film da proiettarsi con scopo di lucro, e restringeva la nozione del buon costume alla sola esclusione dell’osceno e del terrificante, includeva nelle commissioni autori e critici cinematografici, faceva proprio l’impagabile inciso dell’osceno «non essenziale ai fini dell’esperienza artistica» del precedente, disponeva l’impugnativa del diniego del nulla osta con ricorso a una Sezione speciale della Corte d’Appello di Roma; la seconda (n. 1025, del 9 aprile 1959), dell’on. Calabrò ed altri, tutelava, oltre al buon costume, anche la morale, il sentimento religioso e di patria; stabiliva un termine di sette anni per la validità tanto del nulla osta quanto del suo diniego, includeva nelle commissioni, oltre ai rappresentanti degli autori e dei critici, anche quelli dei produttori, dei distributori e dell’esercizio, prevedeva la non revocabilità del nulla osta.
Nel frattempo, la proposta Resta – poi Fanfani-Tambroni-Gonella – anche in seguito ai fatti di Milano, veniva dal ministro guardasigilli on. Gonella rifusa tanto da diventare una vera e propria nuova proposta di legge organica sulla censura, quindi da discutersi ex novo. Presentata dal Governo al Senato il 25 marzo 1961, essa comporta, tra l’altro, le seguenti innovazioni: 1) intervento diretto della Magistratura nella concessione o meno del nulla osta amministrativo; 2) unicità di giudizio, per cui un film, ottenuto il nulla osta, reso esecutivo dalla Procura della Repubblica di Roma, avrebbe libera circolazione in tutta Italia, senza che possano opporvisi altre autorità; 3) elevazione ai 18 anni del limite del divieto ai minori; 4) attribuzione alla Commissione del preventivo esame del soggetto e della sceneggiatura su volontaria richiesta della produzione... Essa è ancora sub judice; ma, fatta oggetto di altri emendamenti e di pesanti critiche, sia da parte di molti giuristi, sia da parte degli stessi produttori, a tutela dei quali manifestamente è strutturata, riscuote scarse probabilità di approvazione da parte delle Camere, soprattutto dopo che i deliberati del Consiglio direttivo D.C. al Senato ne hanno impostato la discussione su una piattaforma molto più estesa e molto meno rigida di quella delineata dal testo governativo25.
Nelle more delle discussioni, giace la settima ed ultima26, per ora, proposta di legge, che reca i nomi degli onn. Borin e Simonacci. Presentata il 1° febbr. 1961, ha, purtroppo, raccolto il favore di quasi tutte le categorie interessate. Tra le varianti di maggior rilievo vi si notano: 1)la inclusione di docenti universitari e di esperti designati dai produttori, dagli esercenti, dagli autori e dai critici cinematografici nelle commissioni di censura; 2) la possibilità di contestazione da parte del regista avanti alla Commissione di revisione; 3) la irrevocabilità dell’autorizzazione; 4) la competenza funzionale per eventuali giudizi penali, determinata dal luogo ove avvenga la prima proiezione in pubblico; 5) la necessaria autorizzazione del ministro di Grazia e Giustizia per il sequestro di film muniti di autorizzazione, in caso di procedimenti per reati contro il buon costume...
Le nostre proposte
Si rassicuri il lettore, perché non è affatto nostra intenzione imbarcarlo ora nell’esame particolareggiato di tutte queste proposte di legge, e neanche delle più recenti e “possibili” tra esse. A prescindere dalla sua complessità, l’impresa distrarrebbe l’attenzione dalle questioni di fondo, di interesse morale e pubblico, verso altre, prevalentemente tecnico-legislative, politiche o di agibilità pratica, per lo più opinabili, ed essenzialmente di carattere strumentale rispetto allo scopo della legge. Lasciando, quindi, per competenza, ai giuristi il compito di formulare tecnicamente la nuova legge, ed ai politici quello di farla approvare dal Parlamento, noi ci limiteremo ad esporre le quattro condizioni che riteniamo essa dovrebbe in ogni caso sodisfare27.
I – Possibilità di un doppio intervento statale. – Pur favorendo ogni iniziativa di autodisciplina della produzione, che, tra l’altro, agevolerebbe molto l’opera delle Commissioni di revisione, esigere gli interventi e preventivo e repressivo dello Stato, in quanto essi sono richiesti dalla morale naturale e dalla Costituzione.
Quanto abbiamo già scritto sull’autodisciplina, prima rispetto alla probantissima esperienza americana e poi rispetto a quella che da più parti si va proponendo di tentare pure in Italia, dovrebbe aver provato che noi siamo tutt’altro che ostili ad essa. Siccome però non è mancato chi, polemizzando, ha attribuito, oltre che a noi, ai cattolici in generale, opinioni e propositi del tutto contrari al nostro pensiero, prendiamo l’occasione per richiarirlo senza equivoci.
Siamo favorevolissimi all’autodisciplina delle categorie interessate; né potremmo non esserlo, conoscendo la natura dei fatti cinematografici e le vicende economico-morali di essi, e stante il nostro ossequio al magistero pontificio, il quale consiglia «quest’intervento, in forma di autocontrollo esercitato dagli stessi gruppi professionali», in quanto esso soltanto «può prevenire l’intervento dell’autorità pubblica e impedire in radice eventuali danni morali» [489]28. I nostri dubbi sono soltanto intorno alla maturità di un certo mondo cinematografico italiano – autori, critici, produzione, distribuzione ed esercizio –, pur necessaria prima per accettare la proposta di un’autodisciplina e poi per porre in essere le quattro condizioni necessarie al suo funzionamento; vale a dire: 1) formazione di albi con adesione di tutte le categorie interessate; 2) elaborazione di un codice sufficientemente preciso; 3) costituzione di un organo per l’applicazione di esso; 4) garanzia che le decisioni di questo valgano per tutti indistintamente29.
Non abbiamo mai affermato, né creduto, che ciò sia impossibile. Crediamo ed affermiamo che, finché in Italia le cose resteranno come stanno, ciò sarà quanto mai improbabile. Ma le cose potrebbero cambiare! Certamente: e siamo noi i primi a desiderarlo; come saremmo noi i primi a rallegrarcene. I nostri voti più cordiali sono, dunque, che le categorie interessate, sconfessata certa stampa contraria ad ogni disciplina, d’accordo con la pubblica autorità, anzi con la sua collaborazione, si mettano quanto prima e seriamente all’opera, dimostrino con i fatti di essere capaci di far fronte alle loro responsabilità sociali e decisi a voler rispettare gli interessi culturali e morali degli spettatori. Non c’è alcun dubbio che le incognite e i rischi degli interventi della pubblica autorità, siano preventivi siano repressivi, si ridurranno al minimo, con sodisfazione, oltre che di essi, del governo, delle commissioni ministeriali, della magistratura e di tutto il pubblico onesto. Tuttavia, mentre attendiamo fiduciosi l’avverarsi del bel sogno, riteniamo ed affermiamo che, quanto più ne restano lontane, tanto meno «alle categorie professionali sarà lecito avversare il grave dovere di vigilare, che compete ai pubblici poteri» [489], così «pregiudicando le competenze dello Stato» [490]; «crediamo, infatti, che questi mezzi (quali il cinema) allora soltanto potranno diventare strumenti validi di formazione della personalità di quanti ne usufruiscono, quando la Chiesa, lo Stato e la professione uniranno opportunamente le loro forze e collaboreranno per raggiungere il loro scopo» [491]30.
Ora la morale naturale assegna alla pubblica autorità il dovere, prima del diritto, oltre che di reprimere i reati, di prevenire, con i mezzi di cui dispone, i danni che il bene comune potrebbe correre, e di farlo con tanto maggiore tempestività quanto più prezioso e più comune sia il bene, e quanto più gravi siano i pericoli che lo minaccino; è indubbio, poi, – come abbiamo visto – che la Costituzione italiana riconosca allo Stato il potere ed il dovere d’intervento, sia preventivo sia repressivo, in materia di spettacoli cinematografici. Dunque, e come cittadini e come cattolici, pur auspicando che di fatto l’uno e l’altro si verifichino il più raramente possibile, non possiamo non richiedere che, per legge, l’uno intervento e l’altro siano possibili là dove se ne ravvisasse la necessità.
II – Distinzione tra buon costume e pudore. – Sempre conforme alla Costituzione, la repressione giudiziaria accerti e colpisca i reati contemplati nel Codice Penale, mentre la revisione amministrativa tuteli «il buon costume»; ma non si faccia arbitrariamente coincidere questo con la semplice esclusione dell’osceno penale.
Con questo secondo punto, prima di tutto chiediamo che nella nuova legge competenze ed oggetto dei due interventi restino distinti, conforme alla Carta costituzionale ed ai principi più ortodossi del diritto pubblico. Perciò, che non sia riconosciuta al magistrato penale la potestà di interventi amministrativi propri dell’esecutivo, neanche là dove questo si fosse mostrato inefficace, o d’interrompere il procedimento una volta iniziata l’azione penale per scendere a patteggiamenti col presunto reo; così pure che il magistrato non venga direttamente investito della revisione amministrativa, oppure ridotto a semplice consulente delle commissioni di revisione, oppure chiamato a giudicare i reati non ancora consumati né tentati, oppure arbitrariamente escluso dal perseguire quelli che per legge sono di sua competenza: tutte aberranze che si ritrovano nelle proposte di legge tendenti a far coincidere in un modo o in un altro il momento amministrativo con quello giurisdizionale, o a restringere troppo la competenza territoriale di giudizi penali in materia di osceno cinematografico.
Pensiamo che il magistrato, in quanto tale, deve esercitare il potere giurisdizionale nella forma propria dello stesso. Quindi, diciamo, la repressione giudiziaria intervenga tutta e soltanto ad accettare e a colpire i reati contemplati dal Codice Penale. Ma, poi, anche la revisione amministrativa né vada oltre31 né resti al di qua delle sue competenze, rispettando rigorosamente l’ambito e il limite ad essa segnato dall’art. 21 della Costituzione, che è la tutela del «buon costume». Perciò, non soltanto non s’incarichi di giudizi estetici, né si faccia troppo allergica verso correnti politiche presenti, o influenti, nel governo in carica; ma neanche le si neghi il potere di difendere tutto quello che, secondo il comune senso giuridico, in Italia si comprende sotto il termine di «buon costume»32. Giacché – ed è questo l’altro rilievo del nostro secondo punto – la nuova legge risulterà priva di ogni efficacia pratica se cederà alle manovre di quanti tentano di farvi passare il buon costume come sinonimo di pudore, per giunta poi – opportunamente armeggiando col concetto di «comune sentimento», al quale l’art. 529 del c.p. commisura il senso del pudore, nonché con certe massime di giurisprudenza che sembrano convergere in loro favore –, tentano di ridurre il concetto penale dell’osceno alle sole manifestazioni più estreme di esso.
Non spetta a noi risolvere autoritativamente le complesse controversie tuttora aperte tra moralisti, sociologi, giuristi e costituzionalisti circa le accezioni, sia comuni sia giuridiche, di buon costume, di pudore, di sentimento comune e di osceno; come pure circa le correlazioni che fanno in parte coincidere ed in parte distinguere l’un concetto-realtà dagli altri; ci sembra tuttavia che il legislatore dovrebbe tener presenti a questo proposito due precisazioni che l’etica naturale, d’accordo con la psicologia e col buon senso, ammette, e alle quali il diritto positivo italiano, cominciando dalla Costituzione (il minimo che dir si possa) non contrasta. E sono: 1) che il buon costume da tutelarsi preventivamente comprende sì il pudore, ed esclude sì l’oscenità, ma non si esaurisce affatto in ciò, riguardando esso non soltanto il naturale riserbo imposto dal bene comune alle manifestazioni tipiche dell’attività sessuale – cui specificamente si riferiscono il pudore e l’osceno –, bensì anche altri beni riconosciuti come fondamentali in una ordinata società umana, anche dalle stesse Costituzioni; 2) che, dato pure e non concesso che il buon costume sia salvo quando siano prevenute tutte le offese al pudore, almeno per lo spettacolo cinematografico sarebbe del tutto arbitrario supporre che queste si verifichino soltanto là dove si verificano gli estremi del reato di oscenità. Non c’è infatti psicologo, o pedagogo, o anche spettatore di qualche maturità culturale e morale, che non sappia come, per esempio, sullo schermo può risultare soggettivamente oscena non tanto la nudità totale, o la cruda rappresentazione di alcuni atti o situazioni riferentisi all’attività sessuale, quanto altre rappresentazioni le quali figurativamente potrebbero benissimo eludere l’astratta fattispecie legale del reato.
Dunque, sia da parte del magistrato penale sia da parte del revisore (o dell’organo dell’autodisciplina), altra dovrà essere l’applicazione che la nuova legge permetterà del metro di «moralità media» e di «sentimento comune» ai fatti reali della vita, in quanto perseguibili per reato di oscenità, ed altra quella che avrà per oggetto la rappresentazione schermica degli stessi. L’opporre, come spesso è stato fatto, che certe cose ormai si leggono su tutti i libri, e si vedono su tutti i rotocalchi, su tutte le spiagge, in tutti i locali notturni e, magari, in tutte le strade, oltre ad altri fattori, non tiene conto della carica suggestiva che sullo spettatore medio esercitano le immagini cinematografiche, sia a causa delle specifiche “scelte” espressive di cui dispone l’obiettivo cinematografico, sia a causa dell’integrazione psicologica con cui gli spettatori sono portati a strutturarle secondo le condizioni, soprattutto ambientali, proprie dello spettacolo cinematografico.
III - Rischi della produzione e dell’esercizio e «bene comune». – La nuova legge tuteli, sì, gli interessi economici della produzione e dell’esercizio, ma tuteli prima e soprattutto gli interessi morali degli spettatori, ed il bene comune di tutti i cittadini; perciò tanto la composizione delle commissioni quanto la natura e la portata dei loro giudizi si ispirino a questi ultimi più che ai primi, ciò che non pare sia avvenuto nelle proposte di legge formulate, anche da parte cattolica.
Bisogna riconoscere che gli inopinati interventi della magistratura milanese, anche se all’uno o all’altro dei film perseguiti, in definitiva, hanno causato un vistoso incremento di spettatori, e quindi di incassi, molto hanno giovato alla causa della moralizzazione del cinema italiano, non foss’altro col mettere sotto pubblica accusa d’insufficiente vigilanza le commissioni governative, e soprattutto col richiamare l’attenzione della produzione e dell’esercizio sui gravi rischi personali e patrimoniali cui li avrebbe esposti la prassi del troppo osare da essi impunemente seguita. Tant’è vero che immediata e vigorosa è stata la reazione da parte della produzione, non tanto nel formulare, come si sarebbe desiderato, saggi propositi di migliorare il prodotto, quanto col denunciare come inammissibile quell’intervento della magistratura al quale produzione, esercizio e critica da anni pur si andavano fiduciosamente appellando contro gli arbitri del potere politico, quindi con l’invocare la presenza di quella legge che sì cordialmente avevano avversata, e finalmente col proporre, a difesa delle folgori della legge, il parafulmine di quell’autocensura, contro la quale – come pure contro noi cattolici, che da decenni la proponevamo, sull’esempio di quella americana – stampa e critica laiche non avevano smesso di gettare il ridicolo.
Purtroppo, però, si ha l’impressione che, in seguito a siffatta reazione – immediata, veemente e costante, rispetto a quella tarda, fiacca e dispersa di altri gruppi di opinione – non solo grande parte dell’opinione pubblica, bensì anche lo stesso legislatore, contro ogni legittima previsione del magistrato milanese, si siano impressionati e preoccupati assai delle sorti economiche dei produttori, e poco o nulla dei guasti culturali e morali corsi dal pubblico, e che, di conseguenza, troppo si sia proposto e discusso, sia in parlamento, sia sulla stampa e nei convegni, sul come evitare i rischi ed i danni all’industria e commercio cinematografici, e troppo poco sul come ridurre «la percentuale dei film moralmente inaccettabili, salita in maniera impressionante» e così togliere all’Italia «un triste primato per il numero di film moralmente negativi nel quadro della produzione mondiale»33.
Ora, siamo i primi a riconoscere i rischi della produzione e dell’esercizio connessi con l’intervento censorio, soprattutto se complicato da quello della magistratura, e per giustizia e carità cristiana, nonché di patria, siamo noi i primi ad augurarci che la nuova legge sia tale da ridurli al minimo per la produzione onesta; tuttavia ci auguriamo che il legislatore si preoccupi di questo intento, in definitiva secondario, soltanto dopo di aver assicurato la difesa più efficace del buon costume, nel senso sopra indicato; e ciò seguendo tre ordini di considerazioni, che riteniamo apodittiche.
Prima: in tanto in Italia è legittimo parlare di una legge sulla censura degli spettacoli in quanto questa, come abbiamo visto, è permessa e postulata dall’art. 21 della Costituzione; ma tale articolo non sancisce che la legge possa e debba stabilire provvedimenti atti a prevenire i rischi dei produttori e dell’esercizio, bensì «solo e a prevenire e a reprimere le violazioni al buon costume».
Seconda: non c’è, si può dire, professione o mestiere che non comporti i suoi rischi. Editori, impresari edili o teatrali, progettisti e collaudatori, militari, diplomatici, reporter, agenti di cambio, docenti e ricercatori, politici...: chi ne va immune? Tuttavia è lecito supporre che chi si immette liberamente in una professione ne conosca i rischi, ed in tanto decida di correrne l’alea in quanto al rischio corrisponda un proporzionato utile, certo o probabile; inoltre ciascuno resta libero, se non tenuto, di tutelarsi da essi attraverso i normali istituti previdenziali; né si esclude che lo Stato, occorrendo, possa, o debba, intervenire legiferando. Ma non si vede su quali titoli, a preferenza di altre categorie professionali, quella dei produttori cinematografici possa pretendere che lo Stato la tuteli dai rischi economici – stante l’art. 3 della Costituzione, secondo il quale «tutti i cittadini... sono uguali avanti alla legge... senza distinzione... di condizioni personali e sociali» –; men che meno quando i rischi dipendano non da imprevisti di mercato, bensì dalla qualità morale del prodotto, anzi addirittura dalla sua perseguibilità come reato.
Terza: ogni legge, per essere giusta, di sua natura deve tutelare il bene comune, in vista del quale tanto più si giustifica la limitazione di altri beni quanto questi sono più particolari e relativi e quanto più il bene comune sia universale ed assoluto. Ma tra i due beni da tutelarsi dalla nuova legge: buon costume degli spettatori ed interessi economici della produzione e della gestione, non ci sembra possibile un confronto, né per quantità e qualità dei soggetti interessati, né per qualità degli interessi in giuoco.
Quantità dei soggetti interessati: contro una decina di grossi produttori, qualche centinaio di “autori”, qualche migliaio di gestori, in somma, contro circa 100.000 persone direttamente interessate nell’industria e nel commercio cinematografici in Italia, si contano decine di milioni di spettatori potenziali, qualche milione di spettatori necessari perché un film di medio costo rientri nel capitale esposto, circa un miliardo di spettatori annuali, tra paganti e non paganti, nella sola Italia: vale a dire, moralmente, tutta una nazione.
Qualità di soggetti interessati. Le categorie industriali ed economiche cinematografiche sanno ottimamente che cosa difendere e, mediante le loro organizzazioni professionali e l’uso dei mezzi economici di cui dispongono, sono in condizione di efficacemente difenderlo, soprattutto incrementando, quando non anche direttamente sostenendo, la stampa e la critica, armi efficacissime, come l’esperienza sta comprovando, per intimidire l’autorità pubblica e per accaparrarsi l’appoggio dell’opinione pubblica; gli spettatori, invece, in massima parte non si rendono conto né dell’utile culturale e morale che potrebbero attingere da una produzione intelligente ed onesta, né del nocumento che soffrono dalla massa di film culturalmente e moralmente deteriori; e quelli che se ne rendono conto – specie in Italia, dove della democrazia parliamo molto, ma poco abbiamo imparato a sfruttare i mezzi e le responsabilità – raramente possono, o vogliono, far sentire la propria voce, e far valere, con la forza del numero, il proprio diritto alla libertà dall’osceno e dalla corruzione; è assai se si permettono, avanti alla ostentazione del malcostume, generiche e sterili lamentele, anche quando vedono insidiata la virtù indifesa dei loro figli...
Per qualità di interessi in giuoco: da una parte prevalentemente economici, dall’altra culturali e morali, essendo il cinema – non per vana metafora detto «Quinto potere» – forse più che la stampa e la scuola, formatore del modo di pensare e di agire della società odierna. Ancora: da una parte interessi transeunti, per quanto alle volte ingenti, dall’altra interessi permanenti ed addirittura eterni, se è vero, come è vero, che sulla moralità privata e pubblica, più che sulla floridezza economica, si fonda la civiltà di una nazione, e se vale, come vale, anche oggi e per ogni uomo l’interrogativo di Cristo: «Che cosa giova all’uomo impossessarsi di tutto il mondo se poi reca danno alla sua anima?» (Mt 16, 26): anima riscattata «non a prezzo di oro o di argento, ma col Sangue prezioso dello stesso Cristo» (1Pt 1, 19).
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Che nelle proposte di legge si sia molto tenuto conto degli interessi economici della produzione e poco della moralità degli spettacoli risulta soprattutto esaminando i due punti chiave di esse, vale a dire: le commissioni di revisione, la natura e la portata dei loro giudizi. Se si eccettua qualche timido accenno a insegnanti di pedagogia e a medici psicologi, vano è cercare nelle commissioni membri forniti di titoli che, in quanto tali 34, garantiscano soprattutto sensibilità e preparazione rispetto al compito specifico, che ad essi verrebbe demandato, della tutela del buon costume; non solo vi abbondano i funzionari, rappresentanti (?!) dei ministeri, bensì anche critici, proposti dalla Federazione nazionale della stampa, ed esperti (?!) designati proprio dai produttori, dagli esercenti, dagli autori e dalla critica...: vale a dire dalle categorie che, experientia teste, tutto saranno portate a difendere: capitali impegnati, diritti dell’arte, libertà di espressione, diritto di denuncia, meno che il buon costume! Come se, l’oggetto della legge essendo di igiene mentale, i revisori non dovessero essere degli igienisti mentali!35.
Pari discorso va fatto a proposito di tutte le proposte escogitate affin di investire dette commissioni di competenze non semplicemente amministrative. Lasciando ad altri decidere sulla molto dubbia costituzionalità ed ortodossia giuridica di esse, noi ci chiediamo: deferire tutte le competenze censorie alla magistratura ordinaria; derogare alla competenza naturale del giudice ordinario, demandando o alla Corte d’Appello di Roma, o a quella del luogo dove avviene la prima visione al pubblico, la competenza funzionale per l’accertamento e persecuzione degli eventuali reati; rendere necessaria l’autorizzazione preventiva del Ministro Guardasigilli, sentito il parere del Ministro dello Spettacolo, per il sequestro di un film sotto giudizio perché incriminato; trasformare le commissioni, di burocratico-amministrative, in veri e propri organi giurisdizionali, sezioni speciali del Tribunale di Roma, i cui giudizi, una volta definitivi, abbiano forza di cosa giudicata...: tutti questi ed altri funambolismi giuridici, intesi a far coincidere in qualche maniera il momento amministrativo con quello giudiziario, oppure ad abolire bell’e bene uno dei due, da quale scopo mai sono dettati se non unicamente da quello di tutelare la produzione?36. Ma con essi, a nostro sommesso parere, il buon costume non solo non verrebbe favorito, bensì seriamente compromesso. Infatti, come abbiamo già avuto più volte occasione di ricordare commentando quanto si è verificato nel cinema italiano e in quello americano, finché da parte della produzione non opera la più spontanea e leale buona volontà di rispettare certi valori culturali e morali degli spettatori, l’unica remora contro le tentazioni dell’auri sacra fames (come contro l’abuso che alcuni gruppi politici vorrebbero fare del cinema per scardinare le istituzioni civili) sono i rigori della legge, con i conseguenti rischi economici. Ma se la legge stessa li abolisce, o fornisce agli interessati i mezzi per abolirli, con essa incrementeranno i loro profitti non i produttori onesti, ma i furbi e i meno scrupolosi.
Opiniamo che un produttore onesto possa ritenersi sufficientemente protetto da eventuali rischi quando cerchi di osservare quei criteri fondamentali del buon costume che dovrebbero essere il metro di misura tanto delle commissioni di revisione ministeriali quanto di un eventuale autocontrollo. Tuttavia, per assicurare loro maggiore tranquillità, anche la legge molto potrà fare; per esempio: consentire, su espressa richiesta degli interessati, la revisione previa dei soggetti e delle sceneggiature; abolire l’art. 14; disporre che, salvo prova contraria, si presuma la mancanza del dolo nel gestore e negli autori eventualmente accusati di reato di oscenità per film provvisti di regolare nulla osta alla proiezione; fissare termini perentori per la concessione del nulla osta tanto in prima quanto in seconda istanza; imporre la motivazione dell’eventuale rifiuto del nulla osta stesso, e soprattutto esigere che le commissioni assolvano il loro compito con giustizia, sì, ma senza debolezze e favoritismi, perché da ciò soprattutto dipende la massima sicurezza degli stessi interessati economici, divenendo del tutto improbabile l’intervento del magistrato per imputazione di oscenità a proposito di film seriamente giudicati dalle commissioni come non contrari al buon costume, soprattutto poi per film presentati sotto la responsabilità collegiale di un’efficace autodisciplina della produzione stessa. Perciò non vediamo alcun motivo perché la legge confonda i due poteri, dato che, di norma, almeno per i reati non a querela di parte, essi funzionerebbero alternativamente: l’intervento giurisdizionale denoterebbe, e riparerebbe, l’inefficienza di quello amministrativo. Del resto, proprio la costante ed uniforme applicazione di certi criteri da parte del potere esecutivo darebbe ai produttori onesti quella sicurezza del diritto che essi giustamente invocano.
IV - Due limiti di età per i minori. – Portare l’attuale «vietato ai minori di anni 16 » ad un «permesso ai maggiori di anni 18 », integrando questo limite con un altro sui 12 anni.
Sappiamo che questa proposta è avversata non solo dalle categorie economiche cinematografiche – ed ovviamente, data l’alta percentuale degli spettatori tra i 16 e i 18 anni (pare 4 milioni), e di quelli inferiori ai 12 –, ma anche da altri, che si ispirano a considerazioni non soltanto economiche; ma la sappiamo anche sostenuta da moltissimi, che le motivano con ragioni di carattere pedagogico-giuridico. A noi basti fondarle sulle seguenti ragioni:
- I due termini di età sono tenuti presenti in altre disposizioni giuridiche; in particolare nella recente Legge Migliori, approvata alla Camera il 7 dic. 1960, la quale, nell’esposizione di disegni, immagini, fotografie ed oggetti figurati comunque destinati alla pubblicità, commisura il reato di oltraggio al pudore ed alla pubblica decenza «secondo la particolare sensibilità dei minori di anni 18 e le esigenze della loro tutela morale»; e nell’art. 529 del Codice Penale, dove, pur escludendosi l’ipotesi dell’oscenità nelle opere di arte e di scienza, si torna ad applicare anche a queste le pene dei reati di osceno quando esse fossero offerte in vendita, vendute o comunque procurate a persona minore degli anni diciotto.
- Portando il divieto dagli anni 16 agli anni 18 si agevolerà il compito delle Commissioni di revisione, in quanto esse potranno facilmente concedere il nulla osta a film più problematici che contrari al buon costume, sapendoli destinati esclusivamente a pubblici più maturi, formati come saranno da spettatori almeno diciottenni.
- Il secondo limite di età si impone ad evidente tutela degli spettatori ancora adolescenti, dannosamente impressionabili ed indifesi rispetto a spettacoli anche adatti a giovani37. Ma perché quest’ultimo divieto non si riduca praticamente a lettera morta, la nuova legge dovrebbe stabilire che, nel caso di incertezza circa l’età del minore, possa far fede non una qualsiasi persona maggiorenne che lo accompagni – come postulano quasi tutti i progetti presentati –, bensì soltanto i suoi genitori o chi faccia le loro veci38.
Voti e speranze
Non ci attardiamo a sviluppare e a documentare questi concetti perché non vogliamo, per il momento, addentrarci nel complesso e difficilissimo problema del cinema per la gioventù, quando ormai abbiamo già abusato della cortesia dei nostri lettori. Concludiamo, dunque, queste nostre considerazioni con alcuni auguri e voti.
Auspichiamo, prima di tutto, che si addivenga ad una legge sulla revisione cinematografica ottima ed efficace; e siccome ci sembra che, sia nei legislatori sia nell’opinione pubblica, idee e proposte non siano ancora mature, ci auguriamo che la fretta non sia cattiva consigliera. Pensiamo che sia preferibile prendere ancora un po’ di tempo per ben ponderare e sostanza e forma della nuova legge, piuttosto che sacrificare e l’una e l’altra al termine del 30 giugno prossimo. Ma, insieme, auspichiamo che tutti quelli che ne portano la responsabilità facciano il possibile per bonificare moralmente il nostro cinema.
Secondo il recente documento della Conferenza Episcopale Italiana, sopra citato, tra essi sono naturalmente i preposti alla tutela del pubblico costume (n. 16), i critici cinematografici (n. 17), i padri e le madri di famiglia (n. 18), gli educatori (n. 19), tutti i fedeli (n. 20) e i sacerdoti che li guidano (n. 21); ma ovviamente, prima di tutti, i produttori, gli autori, i registi e gli artisti, ai quali viene rivolto l’invito perché «impegnino la loro coscienza umana e cristiana ad offrire film artisticamente validi e moralmente sani» (n. 15). Nel tempo che ci separa dall’approvazione della nuova legge essi hanno una occasione ottima per dimostrare la loro buona volontà. Facciano vedere, con i fatti, che la legge interna di una coscienza onesta per essi è più forte di quella esteriore dell’autorità; che sono capaci, da soli, attuando una efficace autodisciplina, di difendere insieme e i loro interessi e la dignità umana e cristiana degli spettatori. Insieme con il pubblico potere, che si troverà facilitato il compito legislativo ed amministrativo, e con quello giudiziario, che si troverà liberato da interventi odiosi ed impopolari, sarà ad essi grato il nostro pubblico, grazie a Dio ancora fondamentalmente più sano di quanto non si creda.
1 Ci riferiamo ai sequestri ed ai richiami in revisione dei film Rocco e i suoi fratelli, di L. Visconti; L’avventura, di M. Antonioni; La giornata balorda, di M. Bolognini; Il passaggio del Reno, di A. Cayatte; I dolci inganni, di A. Lattuada; e della commedia L’Arialda, di A. Testori, di cui cfr Civ. Catt. 1960, IV, 440; 1961, I, 103 e 656.
2 Così la cosiddetta Intesa nazionale della cultura, nel gennaio 1961, d’accordo con l’A.N.A.C. (Associazione Nazionale Autori Cinematografici), col Sindacato autori drammatici e, purtroppo, col Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani. (Per il testo e la discussione cfr Filmcritica, 1961, nn. 105 e 106, e Il Punto, 4 febbr. 1961). Per la soppressione pura e semplice anche Film Selezione (n. 4, p. 32); così O.Z. ALGARDI, in Belfagor, 1961, n. 1, pp. 107 ss. L’on. SARAGAT l’ammette soltanto per diminuire i rischi dei produttori (La Nazione, 23 nov. 1960); ad hominem smonta la proposta E. ROSSI, in Filmcritica, cit. p. 9. Cfr anche G. MOSCON, in Comunità, 1961, n. 87, pp. 11 e 12.
3 Per esempio, per G. VISENTINI si tratta di una «legge tipicamente fascista» (Filmcritica, cit. p. 77); lo stesso per l’on. BUSONI (al Senato, 7 dic. 1960).
4 Per quanto segue cfr Civ. Catt. 1914, IV, 424 ss.; G. GUADAGNINI, La censura digli spettacoli cinematografici, Roma 1918, pp. 20 ss.; L. FREDDI, Il Cinema, vol. I, 1949, pp. 96 ss., 106 ss.; Il cinematografo ed il teatro nella legislazione fascista, Roma 1936, pp. 21 ss.
5 La legge fu approvata alla Camera con 209 voti favorevoli contro 20 contrari, ed al Senato con 102 voti favorevoli contro 4 contrari. Il ministro Giolitti iniziò la sua relazione accompagnatoria con queste parole: «Onorevoli colleghi, per assecondare il movimento della pubblica opinione, sempre più concorde nel richiedere che venga impedito alla produzione cinematografica di toccare il campo della pornografia e della glorificazione della delinquenza ...». Gli onn. Treves e Turati avanzarono soltanto qualche rilievo di carattere fiscale. Al dire dello stesso Giolitti, il controllo governativo centrale fu sollecitato dagli stessi produttori, i quali «fecero rilevare al Ministero che, ripartendo in 69 provincie questa vigilanza, avveniva molto frequentemente che alcune films ammesse in una provincia erano poi rifiutate e respinte in altre, a causa della diversità di criteri seguiti nel giudizio; e chiesero che, invece di fare il controllo nelle 69 provincie, si facesse unicamente nel posto in cui si fabbricano le films, in modo che queste, una volta controllate ed ammesse, potessero venir riprodotte in tutta Italia. Io feci rispondere che trovavo giusto il concetto, ma non vedevo il motivo per cui il Governo dovesse, a spese dello Stato, istituire questo controllo, che si sarebbe fatto per rendere un servizio all’industria cinematografica; ed allora molti produttori, riconosciuta l’esattezza dell’obiezione, offrirono di pagare 10 centesimi per ogni metro di pellicola» (cfr la Relazione della discussione parlamentare pubblicata in Giornale dello Spettacolo, anno XVII, n. 1).
6 Nel 1955, quando il numero annuale degli spettatori raggiungeva in Italia la punta massima di 819 milioni, la televisione, che allora era al suo secondo anno di vita, contava poco meno di 150.000 abbonati. Questi passavano nel 1956 i 300.000, nel 1957 il mezzo milione, nel 1958 il milione, nel 1959 raggiungevano il milione e mezzo. Nello stesso 1955 i motoveicoli (autovetture e motocicli privati) erano 3,4 milioni; essi passavano a 3,7 milioni nel 1956, a 4,2 nel 1957, a 4,6 nel 1958...: così gli spettatori del cinema, dagli 819 milioni del 1955 calarono ai 790 milioni del 1956, ai 758 del 1957 ed alla punta minima dei 730 del 1958, per risalire ai 765 milioni del 1959.
7 Cfr Civ. Catt. 1961, II, p. 69, n. 2; e, per i dati statistici che suffragano questo e triste primato, cfr E. BARAGLI, Sulla moralità degli spettacoli in Italia, in Riv. del Cin., 1961, n. 4.
8 Per M. MORANDINI: Costa Azzurra, di V. Sala, e Le Signore, di T. Vasile, sono improntati a schietta pornografia (Le Ore, 15 nov. 1960). G. LAURA aggiunge al mazzo Tu che ne dici, di S. Amadio (Filmselezione, 1960, n. 4, p. 17); L. AUTERA e v.a. rilevano «le esibizioni e gli sfoghi semipornografici di Promesse di marinaio, Roulotte e Roulette», «dove una sfacciata volgarità viene addirittura esaltata», e «film di cattivo gusto e indubbiamente diseducativi sono Signori si nasce» (ivi, pp. 20 e 29). Recentemente su Concretezza si rilevavano come assolutamente da non permettersi Rififi, e Miss Spogliarello..., e l’on. Busoni, al Senato (7 dic. 1960), parlava di «film afrodisiaci fine a se stessi, come Le Signore o tipo Costa Azzurra, dove con evidente compiacimento si indulge all’esibizione di tutta l’immonda morbosità degli invertiti... stomachevole volgarità della presentazione di scene quali quelle contenute in Caccia al marito... in una delle quali un personaggio conversa con una donna, mentre, mal protetto da un cespuglio, sta sodisfacendo, all’aria aperta, ai propri bisogni corporali».
9 D. DE LAURENTIS, in Schermi, 1960, 22, p. 114. – Ma già nel 1952 M. ANTONIONI rilevava che se «è difficile, per un uomo di cinema, essere d’accordo con censure come la spagnuola, l’americana, la russa», lo era «in minore misura con l’italiana» (Cinema, 1952, n. 82, p. 131). – A conferma, l’on. MIGLIORI scriveva su Orizzonti (1960, n. 43, p. 20): «Non esito a dire che frequentemente, troppo frequentemente, abbiamo la dolorosa, mortificante sensazione che la censura cinematografica abbia abdicato, o perché vinta dalla sfiducia o per insufficiente sensibilità. So di dire cose gravi, ma non le dico senza esserne intimamente convinto. Sicuramente, anche le egregie persone componenti le commissioni di revisione non sanno sottrarsi alla influenza, non so se più addormentatrice od intimidatrice della dominante idolatria della libertà. Dico idolatria, da idolo, cioè oggetto di adorazione “falso e bugiardo”... Ritengo non inutile, del resto, rilevare che, talvolta, le commissioni di censura sembrano avere paura della satira politica... ed essere indifferenti davanti alla violazione manifesta della moralità e del buoncostume». – Del resto, salvo sviste, le commissioni di censura nel 1959 hanno revisionato 167 film italiani, e non ne hanno bocciato alcuno...
10 Pare che questo slogan si debba all’avv. Graziadei. Esse sarebbero le tre governative, esercitate prima sulla sceneggiatura del film, poi sul film stesso, infine ancora sullo stesso per concorrere ai premi governativi e per le vendite all’estero; quindi, quarta sarebbe quella della Sezione Credito Cinematografico della Banca Nazionale del Lavoro; quinta, quella giudiziaria; infine, sesta, quella... del Centro Cattolico Cinematografico (per notizie cfr Filmcritica, 1961, n. 195, p. 7). – L’on. Busoni, al Senato (7 dic. 1960), parlava di «quattro censure preventive: quella politica, quella per le coproduzioni, quella per l’ammissione al credito e quella per la partecipazione ai festival internazionali», più una... precensura.
11 F. DI G1AMMATTEO, in Filmselezione, 1960, nn. 4-5, p. 16; indi in Successo, 1960, n. 11, p. 78. – Altri hanno fatto ricorso all’espediente propagandistico di pubblicare i tagli imposti dalla censura, come Adua e le compagne (Epoca, 1960. n. 11, p. 87), E l’uomo creò Satana (L’Espresso, 6 nov. 1960, p. 9).
12 Sempre salvo sviste, in tanti anni furono richiamati in revisione soltanto Diable au corps (1950), di Autant-Lara, Le avventure di Giacomo Casanova (1955), di Steno, Il letto, di H. Decoin, J. Delannoy, R. Habich, G. Franciolini (1955).
13 Per quanto segue, cfr M. MONTANARI – G. RICCIOTTI, Disciplina giuridica della cinematografia, Firenze, 1953, vol. II, pp. 1 ss., 65 ss. – A.G.I.S., L’esercizio cinematografico, Roma (1958), passim.
14 Scriviamo «ancora vigente», perché le due leggi successive, del 29 dic. 1949, n. 958, e del 31 luglio 1956, n. 897, non hanno nulla innovato a questo proposito. L’art. 28 della prima, non modificato dalle successive, recita infatti: «Le vigenti disposizioni concernenti il nulla osta per la proiezione in pubblico e per la esportazione di film restano in vigore fino alla emanazione di nuove norme sulla revisione dei film...» (cfr A. FRAGOLA, Il nuovo ordinamento giuridico dell’industria cinematografica italiana, Roma 1957, pp. 131 ss.; F. GIANNI, La nuova legge cinematografica, Milano 1957, p. 23; M. MONTANARI, Le leggi sulla cinematografia, Roma 1957, p. 139). Da notare che l’art. 23 della legge del 1956 fissò al 31 dic. 1957 il termine di validità delle disposizioni vigenti sulla censura cinematografica; tale termine, a tutt’oggi, è stato prorogato per otto volte.
15 Cfr U. BARTESAGHI, Censura preventiva e dettato costituzionale, in Il Paese, 2 dic. 1960. E notava recentemente l’on. Helfer che la legittimità costituzionale della legge sulla censura è suffragata da ben tre sentenze della Corte Costituzionale, di cui la più completa è quella dell’8 luglio 1957, n. 121.
16 In merito a questo argomento si possono consultare con frutto: S. LENER S.I.. in Civ. Catt. 1952, II, 484 ss.; E. ONDEI, Libertà di pensiero e censura cinematografica, in Rassegna di Diritto Cinematografico, 1955, n. 2, pp. 34 ss.; Il progetto di legge sulla censura degli spettacoli, ivi, 1956, n. 3, pp. 61 ss.: (VARI): Un dibattito sulla censura cinematografica, ivi, 1960, n. 2, pp. 39 ss.: C. M. CHIMENTI, Lineamenti costituzionali della libertà dell’arte, in Filmcritica, cit., pp. 16 ss.; oltre ai volumi di FOIS (Principi costituzionali e libera manifestazione del pensiero, Milano 1957) e di ESPOSITO (La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano 1958).
17 Per non parlare di altre ipotesi di reato, quali il plagio, la diffamazione, il vilipendio delle pubbliche istituzioni, ecc.; oppure l’apologia del fascismo, di cui la norma transitoria XII della stessa Costituzione.
18 Di cui, nel 1959, il 36,6%, vale a dire 42 miliardi, per i soli film italiani (166 messi in cantiere nel 1959); nello stesso anno l’Italia esportava film per 20 milioni di dollari.
19 Traduzione italiana in A. FRAGOLA, op. cit., p. 136; il quale postilla: «La censura, quindi, non reca lesione ai diritti fondamentali dei produttori e dei coautori dell’opera cinematografica: li limita soltanto in vista del pubblico interesse, che spetta a ciascun governo di tutelare nell’ambito delle leggi».
20 La relazione di G. Rosso, Il controllo dello Stato sulle opere cinematografiche, è stata pubblicata in Giustizia civile, ottobre 1960, pp. 498-507; quella del ROEHRRSEN, Lineamenti della disciplina pubblicistica della cinematografia, in Rassegna di Diritto Cinematografico, cit. 1960, n. 6, p. 161.
21 Cfr Civ. Catt. 1961, II, 157-168.
22 Cfr Civ. Catt. 1961, II, 382 as.
23 Testo in FRAGOLA, Il nuovo ordinamento giuridico dell’industria cinemalografica italiana, Roma 1957, pp. 143-145. Rilievi e critiche in E. ONDEI, Il progetto di legge sulla censura degli spettacoli, in Rassegna di Diritto Cinematografico, 1956, nn. 3/4, pp. 61-63.
24 Vedine il testo in Rassegna di Diritto Cinematografico, 1960, n. 2, p. 53. Dibattito tra giuristi (Roma 24 febb. 1960), ivi, p. 39; osservazioni di A. ARIENZO, ivi, n. 3, p. 83 ss.; critica anche in Centrofilm (1960), n. 13, p. 9 ss. – Cfr anche G. MOSCON, in Comunità, 1961, n. 87, p. 12; F. DE LUCA, in Giornale dello Spettacolo, anno XIV, n. 48-49. – A questo proposito scriveva A. PETRUCCI (in Rivista del Cinematografo, 1961, n. 6, p. 161): «Poiché quel disegno di legge era decaduto per sopraggiunta fine di legislatura,... il Governo... non aveva l’obbligo di ripresentarlo, ma poteva presentarne uno del tutto nuovo, o lasciare all’iniziativa parlamentare il compito di riproporlo. Il Presidente del Consiglio, invece, non ha mutato di una virgola quel testo, e lo ha inviato, come progetto governativo, alla Camera, accompagnandolo però con una relazione, nella quale, per la prima volta probabilmente nella storia parlamentare, il Governo critica un proprio progetto, praticamente invitando il Parlamento a non approvarlo, o, quanto meno, a non approvarlo senza sostanziali modifiche. Situazione alquanto curiosa, per non dire assurda. Ma non è la sola in materia di censura, e rivela la scarsissima chiarezza d’idee in materia da parte di molti».
25 In Giornale dello Spettacolo, 1° aprile 1961, p. 1; dove si riporta anche il testo dei deliberati nei punti seguenti: «1) Conservare, secondo le prescrizioni dell’art. 21 della Costituzione, la censura preventiva per impedire che gli spettacoli possano offendere il buon costume o turbare l’ordine pubblico; 2) limitare il compito della censura alla tutela dei beni essenziali sopraindicati, escludendo riferimenti a giudizi estetici, che, tra l’altro, non possono essere, nei regimi democratici, di competenza degli organi statali; 3) disciplinare la partecipazione agli spettacoli degli adolescenti e dei giovani in relazione alla particolare sensibilità dell’età evolutiva e delle esigenze della sua tutela morale; 4) attribuire esclusivamente all’autorità amministrativa, ferma la tutela giurisdizionale prevista dalla Costituzione, il compito della censura ed offrire massime garanzie possibili di competenza, obbiettività e rapidità di decisione; 5) concentrare presso un unico tribunale avente giurisdizione su tutto il territorio italiano, la competenza di reati eventualmente riscontrabili negli spettacoli autorizzati». – Per una critica pertinente alla Proposta Gonella, cfr Araldo dello Spettacolo, 1961, n. 68, p. 10.
26 Testo e commento in Araldo dello Spettacolo, 1961, n. 40. Cfr anche Notiziario EDS, n. 6, p. 17; G. MOSCON, in Comunità, 1961, n. 87, p. 12.
Ma ormai non è più l’ultima, perché, nel frattempo, se ne sono profilate almeno altre quattro, vale a dire: 1) Proposta di legge Zotta, democristiano (12 maggio 1961, n. 478): (cfr testo e critica in Araldo dello Spettacolo, 16 e 17 maggio 1961); 2) Schema di legge Busoni, Nenni Giuliana, Sansone e Bruno, socialisti: ripete ad verbum la proposta di abolizione di ogni censura preventiva, compilata dalla cosiddetta intesa nazionale della Cultura (cfr Civ. Catt. 1961, II, 372 nota 2), che evidentemente non è riuscita a raccogliere le 50.000 firme necessarie per passare come proposta di iniziativa popolare; 3) Disegno di legge dei liberali. Il testo, steso dall’on. Bozzi, si presenterebbe come emendamento al disegno di legge oggi all’esame del Senato, ma, secondo dichiarazioni dello stesso proponente, tenderebbe all’abolizione dell’odierna censura di tipo amministrativo ed intenderebbe instaurare una particolare forma di autodisciplina; 4) Progetto dell’on. V. Gagliardi (20 maggio 1961), espressione, pare, della Federazione Italiana dei Cineforum.
Per un Prospetto comparativo tra il nuovo schema di legge Zotta, quello Simonacei-Borin e quello approvato dalla Camera nell’aprile 1959, cfr Giornale dello Spettacolo, 20 maggio 1961).
27 In fondamentale accordo col vice segretario della D.C., on. Scaglia, il quale, sulla metà di aprile, invitava i parlamentari a studiare ponderatamente il problema, e poiché quello che attualmente sembra far difetto è la chiarezza delle idee, che non permette prese di posizione decise e non dà all’azione politica e legislativa coerenza e uniformità». Secondo lo stesso onorevole, la legge sulla censura deve poggiare su due cardini: il rispetto scrupoloso e fedele dei principi costituzionali della Repubblica italiana e la osservanza profonda dei dettami della Chiesa cattolica. «Accolti questi principi, noi non intendiamo porre veti su alcune soluzioni invece che su altre» (Giornale dello spettacolo, 22 aprile 1961).
28 I numeri chiusi in parentesi quadre in questo saggio rimandano ai numeri marginali del volume di ENRICO BARAGLI, Cinema cattolico: Documenti della Santa Sede sul cinema, Roma, 1959.
29 Formulate anche dall’on. Folchi, ministro per lo Spettacolo ed il Turismo (cfr Araldo dello Spettacolo, 11 aprile 1961). – Cfr, in argomento, le forti parole di S. Em.za il Card. G. SIRI, in Rivista del Cinematografo 1961, n. 6, p. 156.
30 Segnaliamo questi testi a G. BIRAGHI, che su Il Messaggero (17 aprile 1961) a proposito di censura, osa spiegare in senso laico proprio le parole di Pio XII. Avremo, ai suoi occhi, tutti i torti, ma ci conceda una conoscenza meno lacunosa dei testi pontifici e del loro senso cattolico.
31 Così non sentiremo più di interrogazioni, quale quella presentata alla Camera dall’on. Del Giudice, per chiedere la revisione del film Adua e le sue compagne ed ordinarne la soppressione di una frase lesiva... del marsala all’uovo – gli rispose eufemisticamente l’on. Helfer – che gli interessi, di natura economica, di fabbricanti e commercianti un prodotto siano suscettibili di tutela in tal sede (Araldo dello Spettacolo, 1961, n. 101, p. 8). .
32 Cfr in proposito gli artt. 14 e 15 della legge sulla stampa, 8 febb. 1948, n. 47, rispetto all’art. 58 del c.p..; ed anche G. ROSSO, Pubblicazioni e spettacoli osceni, in Enciclopedia Forense, Milano 1960, vol. V, coll. 1159 ss.
33 Lettera della Conferenza Episcopale Italiana sulla Moralità degli Spettacoli, 2 (testo in Civ. Catt., 1961, II, 69).
34 Scriviamo in quanto tali, perché, com’è vero che possono benissimo trovarsi e funzionari, e docenti universitari, e uomini di cultura, e critici e padri (nonché madri) di famiglia capacissimi di giudicare in fatto di buon costume, altrettanto vero è che tali qualifiche, ed altre ancora, possono benissimo accompagnare la più totale inattitudine allo scopo. Giustamente, circa certi autoproclamatisi uomini di cultura, offertisi come vigili per un autocontrollo, notava uno che di cinema s’intende molto bene: «Non è dimostrato né dimostrabile che un eccellente romanziere, un buon saggista o un critico cinematografico siano in grado di giudicare meglio o più di un ispettore del catasto o di un otorinolaringoiatra quale sia il confine convenzionale tra lecito ed illecito in materia morale che la nostra società si è dato. Non è un problema di estetica o di filologia quello della censura, e quindi il letterato o il saggista non può invocare l’autorità della cognizione specifica» (F. DE LUCA, in Giornale dello Spettacolo, 11 febb. 1961); e circa i padri e le madri di famiglia un altro, acuto critico (del quale, per altro, non condividiamo le idee di fondo), aggiungeva: «Ciascuno sa come la vita di ogni giorno offre incontri con “padri e madri di famiglia” fior di lestofanti, o, più semplicemente, privi di ogni sensibilità morale, o che almeno dimostrano una assoluta e totale ignoranza di qualsiasi problema della vita civile: censurare delle opere d’arte, delle espressioni di pensiero, è compito sicuramente superiore alle forze del novantanove per cento dei padri e madri di famiglia» (G. MOSCON, La censura cinematografica e la legge, in Comunità, 1961, n. 86, p. 11).
Questo nostro rilievo tanto più vale quanto, contrariamente a quel che forse da noi si aspetteranno certi laici, riteniamo che neanche il titolo di sacerdote, in quanto tale, sarebbe garanzia sufficiente a questo scopo, altra cosa essendo il possesso della scienza morale ed altra il sapere applicarla a quel fatto complesso che è lo spettacolo cinematografico. Non per nulla Pio XII, pur inculcando che «il sacerdote deve conoscere tutti i problemi che il cinema... pone alle anime dei fedeli..., deve sapere quel che affermano la scienza, l’arte e la tecnica moderna, in quanto riguardano... la vita morale dell’uomo» [559], non fa «lecito agli ecclesiastici prestare la loro collaborazione ai produttori e ai registi cinematografici senza uno speciale mandato dei superiori, essendo ovviamente richiesta per tale consulenza una competenza particolare e una preparazione adeguata»; [551]. Lo stesso Pio XII esigeva che gli Uffici Nazionali fossero affidati «a persone di specifica competenza» [553], che i membri delle commissioni nazionali fossero «onesti ed esperti», notando in tutti termini: «Ovviamente... devono essere persone sicure per dottrina e per prudenza, essendo chiamate a giudicare ogni film relativamente alla morale cristiana» [532], in armonia con Pio XI, che fin dal 1936 esigeva: «... membri che tanto siano competenti nella moralità in ciò che riguarda il cinema quanto radicati nei principi della morale cristiana» [107].
35 Il lettore ricordi quale sensibilità morale dimostri in generale la critica italiana sui film, particolarmente quando si tratta di critici marxisti o laicisti, ma spesso anche di critici che passano per cattolici; quindi ricordi la posizione assunta dalla grande stampa, anche cosiddetta indipendente, nella polemica circa la legge sulla censura; quindi ancora l’adesione, sia del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, sia dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici, alla proposta di abolizione di ogni censura... Quali idee sul buon costume è presumibile che difendano gli esponenti di tali categorie? Nell’ordine del giorno del recentissimo convegno «Sessualità e Spettacolo», promosso a Torino dal Centro Italiano di Sessuologia nei giorni 3 e 4 giugno 1961, si è fatto voto «che nella composizione delle commissioni di intervento preventivo trovino adeguata rappresentanza le categorie più qualificate, vale a dire: medici, psicologi, sociologi, esperti di problemi educativi».
36 «Si tende a dare al film un crisma preventivo di legalità nel solo interesse economico del produttore, mentre le esigenze sociali non lo richiedono» (A. ARIENZO, in Rassegna di diritto cinematografico, 1960, n. 2, p. 46).
37 Sono per i due limiti di età, tra gli altri, la prima Conferenza dei ministri degli Stati membri del C.E.E. (Consiglio Stati Europei), incaricato degli affari familiari (Vienna 10 sett. 1960: cfr Giornale d’Italia 17 apr. 1961), ed il Progetto Zotta, nonché le legislazioni di molti paesi europei e non europei. Per gli anni 18, oltre alle proposte di legge Gonella e Zotta, ricordiamo il VII Consiglio federale dei Cineforum italiani (5 dic. 1960), presidente l’on. Vincenzo Gagliardi; il Procuratore generale della Corte di Appello di Bologna, dott. La Via (Araldo dello Spettacolo, 13 genn. 1961); P. Nuvolone (Cinema nuovo, 1960, n. 148, p. 589); Ettore Della Giovanna (Il Tempo, 8 nov. 1960), Ernesto Rossi (Filmcritica, 1961, n. 105, p. 9); G. Moscon (Comunità, 1961, n. 87, p. 10); G. Biraghi (Il Messaggero, 9 nov. 1960); F. Fellini, il quale, per alcuni film, aspetterebbe anche i 20 anni (Il Popolo, 8 nov. 1960); M. Gallo, E. Volpicelli, e tutti i partecipanti al convegno «Sessualità e Spettacolo» sopra ricordato, che, «costatata la spiccata incidenza dello spettacolo nella dinamica delle turbe della personalità – specie in soggetti in età evolutiva – e nella disarmonia della vita familiare, esaminate le profonde ripercussioni che le moderne forme di spettacolo esercitano sull’equilibrio socio-psicologico della giovinezza, nonché su tutto il pubblico costume» ha fatto voto «che sia vietato ai minori di anni 12 di assistere a quegli spettacoli che non siano espressamente studiati per la loro età, e che il limite di 16, attualmente vigente, venga portato ai 18 anni, sia in considerazione che questo ultimo limite segna normalmente la fine del periodo evolutivo e della eteroeducazione, sia per necessità di coordinamento con il codice penale ed altre norme di altro ordinamento giuridico».
38 Così anche l’on. MIGLIORI, in Orizzonti, 1960, n. 43, p. 20.