Articolo estratto dal volume I del 1976 pubblicato su Google Libri.
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Sul modello francese
Mantenendo una promessa fatta durante la campagna elettorale, Valéry Giscard d’Estaing, eletto presidente della Repubblica Francese si è affrettato ad abolire – tranne per i minori – la censura preventiva dei film. Quel che poi è successo è noto. Usciti dalla clandestinità, i film pornografici e di violenza per tutto il 1974 hanno dilagato per la Francia, programmati anche nella maggioranza delle prime visioni parigine.
Allarmato, il governo francese correva ai ripari. Rimangiandosi la “decisione liberale definitivamente acquisita”, il 13 maggio 1975 presentava all’Assemblea Nazionale un progetto di legge di una nuova censura1.
Nell’attesa di discuterlo, la stessa Assemblea il 24 ottobre proponeva di elevare la tassa sul valore aggiunto (IVA) del 33 per cento sui film (e sulle pubblicazioni) pornografici. Inoltre, per diretto intervento dell’Eliseo, un decreto del 31 ottobre privava dei benefici previsti dalla legge in favore dei film nazionali quelli che, per decisione del ministro incaricato del cinema, sentito il parere di una commissione di controllo, vengano iscritti nelle liste dei film a carattere pornografico, da pubblicarsi nel Giornale Ufficiale della Repubblica; e disponeva aggravi fiscali per le sale cinematografiche che li programmino.
Allarmata a sua volta, l’industria cinematografica francese2 elaborava e proponeva al Governo una Carta di autodisciplina, detta Patto di decenza, che prevedeva, tra gli altri, questi punti:
- L’industria cinematografica si impegna a far proiettare i film pornografici, o particolarmente violenti, in sale specializzate (togliendoli dai grandi circuiti commerciali), dove il costo del biglietto sarà notevolmente superiore al normale;
- Ogni forma di pubblicità per questi film viene vietata, limitandola a riportarne solamente il titolo nelle pagine dei giornali, o negli affissi stradali;
- Viene soppresso per questo genere di produzioni l’aiuto finanziario dello Stato;
- La tassa erariale sui film pornografici e violenti viene portata al 33%, dall’attuale 17,6% di tutte le produzioni cinematografiche;
- Auspica che l’ammontare dell’aiuto finanziario statale non concesso a detti film venga assegnato alle produzioni di film di particolare qualità artistica.
Queste disposizioni e proposte hanno suscitato vespai di polemiche in Francia e altrove. Per esempio in Inghilterra, dove dette polemiche si sono acuite dopo la proposta avanzata al Governo dal deputato Charles Irving, di tassare i film di esasperata violenza a beneficio delle vittime della stessa violenza (?!); ed anche da noi, soprattutto da quando il ministro del Turismo e dello Spettacolo Adolfo Sarti, riferendosi alla auspicata prossima abolizione della censura cinematografica, ha avanzato la proposta di adottare anche in Italia, contro la produzione pornografica, provvedimenti analoghi a quelli proposti in Francia.
Di qui il recente dibattito promosso dal settimanale degli esercenti cinematografici italiani Cinema d’oggi, tra giuristi, magistrati, docenti universitari, avvocati e personalità della cinematografia, “come contributo di riflessione per il legislatore italiano, qualora il proposito preannunciato dal Governo dovesse concretarsi in un Disegno di legge”3; dibattito che – ci sembra – merita qualche parola di commento.
I sì e i no di un progetto
Rileviamo, intanto, che tutti i partecipanti al dibattito convengono nel giudicare legittimo l’allarme per l’escalation in atto, in Francia e altrove, dei film pornografici e di violenza. Con i tempi che corrono, questa concorde manifestazione di coscienza civile non può non farci piacere, anche se ci sembra meno attendibile quando la vediamo accolta in un organo di categoria che è solito più favorire che frenare detta escalation4, oppure accolta da un Autore (n. 38) che, poi, taccia di “pseudomoralismo”, di “arrogante ed anticulturale terrorismo ideologico” e di “populismo” un altro autore che (su L’Osservatore Romano) auspica che, ad infrenare detta escalation, “si crei nel pubblico una coscienza comune più reattiva ed operante”.
Rileviamo, inoltre, che quasi tutti gli interventi convergono pure sull’opportunità di abolire, così in Francia come in Italia, la censura preventivo-amministrativa dei film per gli adulti: ed anche in ciò non possiamo non consentire. Non perché si ritenga che l’istituto censorio esorbiti dai compiti dello Stato a tutela del bene comune della collettività5, o che, almeno, esso sia escluso dalla Costituzione italiana a tutela della libertà di espressione o dei valori dell’arte e della scienza (Artt. 21 e 33)6; ma perché la vigente Legge n. 161 del 21 aprile 1962, per come fu congegnata e, peggio, per come in questi dieci anni è stata applicata, ci sembra che, non solo non abbia arginato l’ondata dei film pornografici (e di violenza), ma che – critici cinematografici aiutando – abbia offerto loro una lucrosa pubblicità gratuita, per giunta discreditando i pochi magistrati che hanno tentato di arginarla.
Finalmente, tutti gli interventi concordano (o, almeno, non dissentono) sull’art. 6 del Progetto, che vieta ogni aiuto finanziario da parte dello Stato ai film pornografici o di violenza, dato che – come giustamente precisa il Ferrati (n. 39) – “non si giustifica l’erogazione di danaro pubblico a carico dell’intera collettività per prodotti che possono esplicare una deleteria influenza nella collettività medesima e che vengono universalmente riprovati”.
Ma gli interventi sono quasi tutti concordi anche nell’appuntare riserve e nette opposizioni contro l’insieme del Progetto. La prima, più di forma che di merito, riguarda “l’ipocrisia della formula dell’art. 1: La rappresentazione di film cinematografici è libera”, oltraggiosamente contraddetta - si afferma – dalle norme che seguono, zeppe d’interventi e di sanzioni preventive e repressive, tanto per la programmazione quanto per l’esportazione di film, sia per i minori sia per quelli riservati agli adulti. Personalmente – con l’Assumma (n. 44) – questa contraddizione non la rileviamo se è vero, com’è vero, che “ogni diritto alla libertà è veramente tale solo se esercitato nel rispetto delle altre libertà di rilievo costituzionale, in funzione delle quali ben può subire determinazioni e condizionamenti”. Tuttavia, pur non seguendo il Costa (n. 45), che propone di “eliminare per decenza l’art. 1”, in un’eventuale legge censoria italiana preferiremmo una formula che evitasse anche la parvenza di “ipocrisia”.
Un’altra critica, questa volta sostanziale, si appunta contro gli artt. 3, 5 e 6 del Progetto, che affidano tutta la censura amministrativa – divieti, elenco, sanzioni... – al potere discrezionale del ministro, tenuto soltanto a motivare i propri provvedimenti di divieto senza essere comunque vincolato dal parere, semplicemente consultivo, di una Commissione, di cui peraltro neanche si specifica la composizione; provvedimenti, per giunta, inoppugnabili, in quanto il Progetto non solo (e pazienza!) non prevede garanzie di contraddittorio con gli interessati, ma neanche una pluralità di procedimenti amministrativi.
In merito, il Brancaccio (n. 43) ottimisticamente attribuisce questa “assenza di disposizioni di garanzie nelle procedure a ragioni di tecnica legislativa, in quanto è presumibile che una congrua disciplina sul punto sarà dettata nel regolamento di esecuzione della legge”; inoltre, giudica “non esatto il rilievo dell’inoppugnabilità del provvedimento del ministro, perché questo, come ogni altro atto amministrativo, per l’ordinamento francese è soggetto a ricorso giurisdizionale”. Da parte sua il Costa (n. 45) – secondo il quale la Francia, a differenza dell’Italia, "è un Paese serio, governato e amministrato da gente seria e di spirito”7 - anche più ottimisticamente confida che “in Francia si saranno già accorti che quella legge non va, che occorre andare in fondo per accertare ’chi’ avrà il potere di limitare e ’chi’ potrà poi rivedere e correggere il modo e il perché tali limiti erano stati posti”. Ma a noi pare che meglio ragioni il Fragola (n. 40) rilevando che “fortunatamente, in Italia, ciò appartiene alla paleontologia giuridica; e cosi ci auguriamo che resti in un’eventuale futura legislazione nostrana”.
La terza critica riguarda non la procedura ma il merito stesso della censura amministrativa nel Progetto. Scrive ancora il Brancaccio (n. 43):
La critica si sostanzia nel rilievo che, con lo stabilirsi all’art. 2 che ’possono essere oggetto di divieto generale di rappresentazione i film che portano pregiudizio alla dignità della persona umana, o che incitano a violarne i diritti fondamentali’, si è determinato un parametro di valutazione assolutamente inaccettabile per la sua genericità, che contraddice all’esigenza di certezza, avvertita come inderogabile nel settore cinematografico per motivi artistici, sociali ed economici”.
Ma, a parte il fatto – rilevato dall’Assumma (n. 44) – che le condizioni presupposte da questo art. 2 del Progetto coincidono esattamente con quelle che secondo l’art. 41 della nostra Costituzione legittimano un sacrificio totale o parziale della libera iniziativa economica, la quale non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”; lo stesso Brancaccio ritiene la critica infondata o, quanto meno, non concludente, osservando:
“La formula dell’art. 2, anche se non può definirsi perspicua, risulta, attraverso la interpretazione sistematica, assai meno vaga di come appare, sì da assumere un significato che potrebbe ritenersi accettabile anche dai suoi critici più severi. Invero, la previsione nell’art. 6 di sole misure di disincentivazione per la produzione di film il cui oggetto predominante sia la rappresentazione di scene di pornografia, di delitto o di violenza, e che siano privi di manifeste qualità artistiche, muove dal presupposto implicito della libera possibilità di circolazione dei film di sesso e di violenza, anche se mancanti di pregio d’arte, e quindi si risolve in un limite all’interpretazione della formula dell’art. 2, nel senso che in questo tipo di film, almeno di regola, non possa ravvisarsi pregiudizio alla dignità della persona umana, o incitamento a violarne i diritti fondamentali; consegue da ciò che queste situazioni restano ridotte in confini molti ristretti, entro i quali vengono colpite soltanto le violazioni più macroscopiche dei beni che si intende tutelare”.
E all’ormai logoro luogo comune usato dalla critica contro ogni intervento preventivo o repressivo sui film, che cioè l’incertezza del diritto perdura se non si definiscono inequivocabilmente i concetti di pornografia e di violenza, di osceno, di buon costume, di pudore e d1 comune sentimento, a ragione lo stesso Brancaccio ribatte:
L’argomento con cui si invocano i valori della certezza e uniformità della sua applicazione provano troppo. Tutti gli ordinamenti giuridici fanno continuamente ricorso ad espressioni che, per non essere definite, né definibili in termini di diritto positivo, hanno suscitato e susciteranno sempre discussione sul loro esatto contenuto, a scapito di quei valori. Ciò accade anche e soprattutto per le Costituzioni, così com’è, per esempio, per la nostra, quando si riferisce ai ’diritti inviolabili dell’uomo’ (art. 2), alla ’pari dignità sociale’ (art. 3), al ’buon costume’ (art. 21), ecc. E nessuno può seriamente pensare che queste espressioni non stiano a base di istituti giuridici irrinunciabili.
“La verità è che incertezza del diritto e mancanza di uniformità nella sua applicazione sono costi necessari della regolamentazione giuridica, costi che, lungi dall’indurre il legislatore o l’interprete ad assurde rinunzie, debbono sollecitare dall’uno e dall’altro attenta opera rivolta alla riduzione di essi al minimo. E in questa direzione è doveroso muoversi con particolare cura nella disciplina della censura cinematografica – ove si ritenga di doverla introdurre –, e solo in questi limiti può trovare ingresso la tutela di quegli interessi, che vengono invocati per rifiutarla aprioristicamente”.
Quale contributo?
A questo punto possiamo tirare le somme e chiederci quale concreto contributo di riflessione per il legislatore italiano emerga da tutto il dibattito; per rispondere che esso ci sembra magro ed equivoco.
Magro perché – salva l’ottima proposta del Rocchi (n. 46) di surrogare il giudice singolo con un collegio giudicante integrato da “laici” non togati8 – quasi tutti gli interventi sono stati di sola critica al Progetto, e non costruttivi.
Nota il Brancaccio (n. 43): “Gli interventi sono stati univocamente diretti a criticare il Progetto, quanto meno nei punti più rilevanti [...]; e non è giusto che la discussione si inaridisca così: l’argomento è suscettibile di approfondimenti, che possono condurre ad un orientamento diverso”.
E scrive coraggiosamente il Cagliati Dezza (n. 42) al Golino (n. 38): “Non è costruttivo né opportuno limitarsi a criticare le altrui proposte o suggerimenti. Non è costruttivo perché, così facendo, ci si arrocca su una posizione di comodo e nulla si fa per risolvere il problema. Non è opportuno perché si corre il rischio [...] che, per evitare il male, si ottenga il peggio [...]. Consentimi un appello rivolto a te e agli altri ’addetti ai lavori’: non limitatevi a criticare, ma cercate di costruire qualcosa, altrimenti, o si mantiene l’attuale situazione (manifestamente intollerabile), ovvero, anche sotto la spinta dell’opinione pubblica, non è da escludere che la nostra ineffabile classe politica sforni una disciplina che alla fin fine si dimostrerà, per usare le tue parole, più pseudo-moralista, più permeata di finto populismo e più anticulturale di quelle proposte che tu [...] critichi”.
Contributo equivoco perché, nonostante che si dica e si ripeta che, del progetto francese, “non s’intende discutere il fine, ma il modo”, troppi interventi lasciano l’impressione che non ci si preoccupi tanto di combattere, anche in Italia, i film pornografici e di violenza, ma prima e soprattutto di “evitare irreversibili conseguenze negative d’ordine generale sull’intera industria cinematografica” (n. 37). Salvo sviste, solo il Ferrati (n. 39), come alternativa alla censura preventivo-amministrativa – da abolire –, propone esplicitamente che “unica sanzione sia quella penale, da irrogarsi dal competente giudice, nell’ipotesi che si ravvisino nei film gli estremi di un reato”. Altri, o tacciono in proposito, oppure mettono in dubbio (anche in fatto di pornografia e di violenza?) che possa constare dell’“interesse del pubblico” investendosi “di sedicenti ed arbitrari poteri di rappresentanza e d’interpretazione”, concludendo che, “dunque: bisogna interpellarlo!” (n. 40). C’è poi chi “in difesa dei diritti di libertà fondamentali” - per i quali propone “una protesta dura e decisa” (ma non era populismo?) –, si straccia le vesti avanti all’ipotesi di una
“censura economica che tagli la strada a qualsiasi film che, per quanto si voglia violento o pornografico in singole scene, racchiuda qualcosa di apprezzabile, che meriti comunque di aver posto in un contesto di cultura, arte e comunque di comunicazione ad un pubblico di maggiorenni” (n. 38).
E c’è, infine, chi – pare – non disdegnerebbe di vedere risolti, anche in Italia, i problemi del sesso e della violenza nella maniera spiccia degli indiani Murias. È il Barbieri (n. 47), il quale, dato per evidente “che il pudore sia una premessa innaturale sotto ogni punto di vista per affrontare un problema quanto mai naturale”, riporta da Panorama (?!):
“Il popolo più pacifico sono i Murias, che vivono a sud di Nuova Delhi, in India. E non è; un caso. Dallo svezzamento al giorno delle nozze i bambini e i giovani di ogni età, maschi e femmine, dormono tutti insieme in una grande casa proibita agli adulti. Li compiono le loro esperienze sessuali in piena libertà”. – No comment!
Concludendo: esclusa, per le ragioni altrove addotte, ogni proponibilità di autodisciplina dei cineasti e dei cinematografari; abolita, per come oggi opera in Italia, ogni censura preventiva; se il contributo di questo dibattito al legislatore italiano si ridurrà a lasciar via libera, di fatto e di diritto, alla pornografia e alla violenza: ebbene, sarebbe proprio un dibattito... all’italiana9.
1 Cfr la versione italiana in Cinema d’oggi, 1975, n. 37. Ne stralciamo le disposizioni più rilevanti ai fini di questa Rassegna.
Art. 1 - La rappresentazione dei film cinematografici è libera.
Art. 2 - Possono essere oggetto di divieto generale di rappresentazione i film che portano pregiudizio alla dignità della persona umana o che incitano a violarne i diritti fondamentali.
Possono inoltre esser vietate le rappresentazioni ai minori, come pure l’esportazione dei film.
Art. 3 - [...] Ogni divieto è pronunciato con decisione motivata dal Ministro dopo parere di una Commissione.
Art. 4 - Il materiale pubblicitario dei film è sottoposto ad autorizzazione ministeriale dopo parere della Commissione [...].
Art. 5 - Su parere della Commissione, il Ministro può, a carico dei film a carattere licenzioso o pornografico, o che fanno largo spazio al delitto o alla violenza, vietare l’uso di immagini derivate dal materiale autorizzato, o di qualsiasi pubblicità illustrata [...].
Art. 6 - I film il cui oggetto predominante è la rappresentazione di scene di pornografia, di delitto o di violenza e le cui qualità artistiche non sono manifeste, non hanno diritto agli aiuti finanziari dello Stato a favore dell’industria cinematografica.
Tali film sono sottoposti, a carico del produttore o del distributore, a una tassa il cui importo è stabilito forfettariamente nella somma di 150.000 franchi [circa 23 milioni di lire] per i film di lungometraggio, e nella somma di 75.000 franchi per i film di cortometraggio.
[...] L’elenco dei film ai quali si applicano le disposizioni del presente articolo è stabilito dal Ministro incaricato del cinema, su proposta della Commissione prevista nell’Art. 3.
Art. 8 - Indipendentemente dal sequestro amministrativo dei film, sarà punito con un’ammenda da 10.000 a 500.000 franchi, che potrà essere elevata al doppio in caso di recidiva, chiunque avrà:
- messo in sfruttamento un film senza averlo preventivamente sottoposto al Ministro;
- messo in circolazione o rappresentato un film cinematografico che è stato oggetto di divieto generale di rappresentazione;
- esportato un film cinematografico che è stato oggetto di divieto di esportazione o di cessione o di concessione dei diritti di sfruttamento all’estero;
- messo in circolazione o rappresentato un film che è stato oggetto di divieto di rappresentazione ai minori senza aver fatto citare tale divieto sul film e su tutto il materiale pubblicitario [...].
La decisione potrà inoltre disporre, se del caso:
- la chiusura della sala di spettacolo cinematografico per una durata di due anni;
- il divieto di svolgere, per una durata non superiore a 5 anni, sia una funzione dirigenziale sia una qualsiasi attività nell’industria cinematografica;
- la confisca dei film cinematografici e del materiale pubblicitario;
- la pubblicazione della decisione, per affissione o inserzione nei giornali [...].
Art. 9 _ In caso di violazione delle disposizioni sulla pubblicità dei film cinematografici commessa per mezzo della stampa, i direttori delle pubblicazioni o editori saranno, per il semplice fatto della pubblicazione, passibili come responsabili principali delle pene di ammenda previste all’Art. precedente. In loro difetto, gli inserzionisti, i tipografi, i distributori e gli attacchini saranno perseguiti come responsabili principali.
Se l’infrazione è stata commessa per mezzo di una emissione televisiva, sarà perseguito il responsabile dell’emissione o, in difetto, il dirigente dell’impresa televisiva [...].
2 Vale a dire il BLIC (Bureau de Liaison de l’Industrie Cinématographique), organo di collegamento dell’industria cinematografica francese. La Carta non è piaciuta all’Associazione francese dei produttori di film. Secondo il Giornale dello Spettacolo (13 dic. 1975), “contro tali proposte hanno preso posizione la Società dei Registi, la Sezione Cinema del Partito Socialista, il Partito Comunista, i sindacati di sinistra aderenti alla CGT, nonché l’Ufficio Cattolico del Cinema”.
3 Eccone, nell’ordine, i nomi le qualifiche ed il numero del settimanale nel quale sono intervenuti: Emanuele Golino (n. 38); dr. Angelo Ferrati, presidente della II Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione (n. 39); avv. prof. Augusto Fragola (n. 40); avv. Giorgio Angelozzi Gariboldi, penalista, legale del quotidiano Il Tempo (n. 40); dr. Vittorio Occorsio, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma (n. 42); Antonio Brancaccio, Presidente della Suprema Corte di Cassazione, Capo Gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia (n. 43); dr. Giovanni Caizzi, magistrato di Corte di Appello presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Milano, e avv. Giorgio Assumma, già incaricato di diritto industriale all’Università degli Abruzzi, presidente della Rusconi Film (n. 44); avv. Armando Costa, penalista in Roma (n. 45); consigliere dr. Alfredo Rocchi, dell’Ufficio Studi del Consiglio Superiore della Magistratura (n. 46); avvocati Piero Fillioley e Giampiero Barberi (n. 47).
4 Tra i titoli dei film reclamizzati o annunciati nei numeri di Cinema d’oggi nei quali si è svolto il dibattito abbiamo rilevato – Onni soit qui mal y pense! - questo campionario: La liceale, Le laureande, La supplente, L’infermiera, Il medico e la studentessa, Lezioni private, La professoressa di lingue, Emmanuelle nera, La necrofila, La bordella, Il femminario, I prosseneti, Les pornogrates; inoltre: La verginella, La fine dell’innocenza, L’amante adolescente, Profumo di vergine, Una vergine in famiglia, La figliastra, La nuora giovane, La moglie illibata, Vizio di famiglia, Giuochi erotici di una famiglia perbene, Peccati sul letto di famiglia, Il letto in piazza, Luna di miele a tre, Natale in casa di appuntamento...; e ancora: Prostitution, Eros supestar, Ondata di piacere, Amore mio spogliati, 40° all’ombra del lenzuolo, Ossessione carnale, Il compromesso erotico, Quel movimento che mi piace tanto, Quando l’amore è; perversione, Il toro da monta, Gola profonda II, Gola profonda di Madame O, Amore a piena bocca... Quali campioni di “pulita” pubblicità visiva, segnaliamo nei 42 e 44 quella dei film Càlamo e La orca...
5 Recentemente abbiamo ribadito il nostro pensiero, in armonia con quello del Magistero cattolico, in Il Codice di autodisciplina pubblicitaria (Civ. Catt. 1976 I 20-37), ed anche nel Convegno dei cinque trasmesso nel II Programma della RAI il 19 nov. 1975, consenzienti il giornalista P. Pratesi, lo scrittore e regista A. Bevilacqua ed i critici cinematografici C. Cosulich e S. Frosali.
6 Equilibrato ed esauriente, in proposito, l’intervento di Brancaccio (n. 43). Dopo aver rilevato che le critiche al Disegno di legge francese nel suo insieme partono “dal rifiuto della censura come strumento legittimo di tutela degli interessi della collettività che possano esser lesi dalla rappresentazione di un film”, egli osserva che “la censura amministrativa viene considerata inaccettabile [...]: anzitutto perché in essa viene visto un inammissibile attentato alla libertà dell’arte, della manifestazione del pensiero e, in genere, della cultura; in secondo luogo perché si ritiene impossibile elaborare una disciplina concreta dell’istituto, che garantisca le esigenze della certezza e di uniformità di trattamento; infine perché la censura preventiva appare come un eccesso del mezzo rispetto al fine, il quale, invece, sarebbe garantito dalla censura repressiva”; e conclude: ma “nessuna di queste considerazioni è decisiva”. Non la prima, in quanto “contrasta con rilievi di ordine giuridico e culturale”. Infatti, “sotto il primo aspetto va considerato che nessun valore può pretendere ad una garanzia assoluta da parte dell’ordinamento giuridico: in questo vige la regola del coordinamento delle tutele, regola che è dettata dall’esigenza inderogabile di rendere possibile la coesistenza delle stesse e che, quindi, si risolve nell’imposizione di limiti a ciascuna di esse. Esempio significativo in proposito è nel nostro ordinamento l’espressa previsione nell’art. 21 della Costituzione della possibilità di limitare la libertà di spettacolo per motivi di buon costume. Sotto il secondo aspetto [...], di fronte a cieche manifestazioni di opposizione a forme di cultura che si esprimono con modalità che possono urtare opinioni e sentimenti anche di larghi strati di una determinata collettività, occorre guardarsi [...] da un permissivismo indiscriminato [...], il quale, sotto pretesto culturale, tenda ad imporre assolutisticamente modelli di vita [...] pericolosi per lo stesso mantenimento delle condizioni minime di sopravvivenza della collettività [...]. L’arte in genere e quella cinematografica in particolare, non costituiscono un momento isolato della complessa realtà dell’uomo, ma sono componenti di essa che si integrano con tutti gli altri fattori che ne determinano il processo di sviluppo civile. In questa visione integrata, che non intacca l’autonomia del giudizio estetico, ma riguarda solo una irrifiutabile prospettiva socio-politica, le manifestazioni artistiche non possono, talora, non tollerare limiti, e quindi anche la censura, se ciò si rende assolutamente indispensabile per l’ordinato svolgimento di quel processo”.
Dopo aver confutato anche le altre due obiezioni (sulle quali torneremo subito), e dopo aver rilevato la necessità di “impervie ricerche interdisciplinari”, il Nostro conclude: “Il problema della censura nella sua impostazione rigorosa non è di principi astratti ed assoluti, ma concretamente politico [...]. La risposta all’interrogativo della sua legittimità può essere data soltanto all’esito di questa ricerca: se si troverà che la libertà ha costi accettabili, la censura non è legittima: nell’ipotesi inversa, è innegabile che essa lo sia”.
7 Concorda Occorsio (n. 42): “Si deve tener presente quale sia la tradizione interpretativa della norma di legge in una Nazione di sperimentato e concreto rispetto della libertà del cittadino e di altrettanto illuminato e misurato uso del potere da parte della classe politica dominante. Personalmente ritengo che la civilissima Nazione francese, anche se il progetto in discussione fosse approvato, non trasformerebbe mai la legge sulla censura in un mezzo di repressione culturale – come potrebbe avvenire altrove –, ma colpirebbe veramente solo i film che mirano a suscitare negli spettatori desideri di sopraffazione, sentimenti di odio, spinte delinquenziali”.
8 Partendo dalla odierna crisi di credibilità, presso l’opinione pubblica, del ruolo del giudice in una società pluralistica in Italia, egli si chiede quale sia la forma migliore che ne tuteli l’imparzialità e l’autonomia rispetto a condizionamenti ideologici ed a interessi di parte. E propone, appunto, che al giudice singolo sia affiancato un collegio giudicante di non togati, prescelti per la loro esperienza tecnica nel settore in cui il collegio è chiamato a giudicare; quindi anche l’istituzione, presso gli organi giudiziari ordinari, di sezioni giudicanti specializzate preposte al settore cinematografico, in armonia con l’art. 102 della Costituzione.
9 Mentre andiamo in macchina, dallo stesso Cinema d’oggi (1976, nn. 3 e 6), apprendiamo che, sia pure ritoccato, il Progetto di legge del 13/5/75 è diventato legge, pubblicata nel Giornale Ufficiale il 31/12/75.
Inoltre apprendiamo che nel dibattito nostrano sono poi intervenuti: il prof. Giuseppe Francesconi, primario dell’ospedale psichiatrico di Roma, e l’avv. Massimo Ferrara Santamaria, docente di diritto civile all’Univ. di Roma (n. 1); l’avv. Nicola Madia (n. 2); il prof. Paolo Barile, ordinario di diritto costituzionale all’Univ. di Firenze (n. 3); il prof. Michele Giorgianni, ordinario di diritto civile all’Univ. di Roma, e il dott. Giovanni Giacobbe, giudice presso la Pretura di Roma (n. 4); il doti. Michele Aiello, magistrato di appello, e il dott. Antonio Scopclliti, consigliere di Corte di Appello (n. 5); il dott. Carlo di Majo, procuratore generale alla Corte Suprema di Cassazione; il prof. Carlo Gessa, docente di diritto pubblico all’Univ. di Macerata, e il dott. Giorgio Santacroce, sostituto procuratore presso il Trib. di Roma (n. 6); il dott. Giorgio Rajani, magistrato di Cassazione, e l’avv. civilista Sergio Barenghi (n. 7); infine l’avv. Giorgio Moscon, già presidente dell’Ente Gestione Cinema e l’avv. penalista Vittorio Virga (n. 8).