NOTE
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1 Per tutta questa parte, cfr M. QUIGLEY JR., Les codes de production dans les pays étrangers, in Revue Internationale du Cinéma, 1951, n. 7, pp. 19-21.

2 Il testo del Codice italiano fu pubblicato nel 1945 iri un fascicolo a cura della stessa A.N.I.C.A., e poi in M. MONTANARI-G. RICCIOTTI, La disciplina giuridica della Cinematografia, Firenze, vol. II, pp. 671-673, con un cappello, ed abolitone il Commento, che altro non era che l’apparato dottrinale del Codice Hays.

3 Esso, nel 1949, fu affidato dalle forze alleate alla Freiwillige Selbstkontrolle der Filmswirtschaft, la quale, al dire del dott. A. Kochs (Faut-il confier aux producteurs le contrôle des films?, in Revue Internationale du Cinéma, cit., 1956, 24, p. 49), «per sette anni lavorò bene e con sodisfazione del pubblico, dell’industria e dello Stato».

4 Per il testo di questo Codice cfr Rassegna di Diritto Cinematografico, 1958, 1, p. 10, e Cronache del Cinema e della Televisione, 1957-1958, n. 21, pp. 109-111.

5 Per esempio il critico de L’Osservatore Romano, M. MENEGHINI, che il 5 maggio e il 15 settembre 1945 vi auspicava venisse adottato da tutta l’Europa.

6 Questa considerazione utilitaristica fa applicare dalla produzione inglese il Codice americano ai film destinati al mercato statunitense.

7 I numeri chiusi in parentesi quadre in questo saggio rimandano ai numeri marginali del volume di ENRICO BARAGLI, Cinema Cattolico: Documenti della Santa Sede sul cinema, Roma 1959.

8 Cfr il testo in Lo Spettacolo, 1954, n. 1, p. 67; breve commento in Rassegna di Diritto Cinematografico, cit., 1954, n. 2, p. 6. – Anche in ciò l’Italia era stata preceduta dall’America, dove un Codice morale veniva adottato dalla National Association of Radio and Television Broadcasters il 1º marzo 1952 (testo in Qui, Studio One, Milano 1960, pp. 109 ss.).

9 Cfr il testo in Annuario della Stampa Italiana, Milano 1958, 297, a fronte.

10 Cfr A. GIANNINI, Il diritto dello spettacolo, Roma 1960, pp. 172-174.

11 Cfr Civ. Catt. 1956, III, 97 ss.

12 Giornale dello Spettacolo, 2 e 3 dicembre 1960. Respinta la proposta di sospensiva e passata la legge, A.G.I.S. ed A.N.I.C.A. sperano ancora nel regolamento applicativo di essa, persuasi «che una soluzione professionale sia sempre la più idonea a stabilire principi equi e definitivi».

13 Ne scriveva già in Rivista del Cinematografo, 1951, n. 11, p. 3; recentemente ne ha fatto argomento di comunicazioni parlando a Roma nell’incontro Cinema e censura all’Eliseo, ed avanti al gruppo romano dell’U.C.I.D. (7 e 15 dicembre 1960). Tra i singoli produttori e registi che si sono dichiarati, di massima, favorevoli all’autodisciplina, ricordiamo G. Lombardo (ivi), D. De Laurentiis (Schermi, 1960, n. 22, p. 88) ed A. Lattuada (Successo, 1960, n. 11, p. 78).

14 Araldo dello Spettacolo, 15 dicembre 1960.

15 A questa conclusione, per esempio, giunge H. MERCILLON (Cinéma et monopoles, Parigi 1953, pp. 61-62), dopo aver riferito sul Production Code americano, e R. LUDMANN (Cinéma, foi et morale, 1956, pp. 42-44), osservando che, come quello di Hays, ogni codice è un rischio, chiudendo il cineasta tra certe convenzioni di morale mondana, che corrispondono più o meno alla (buona?) educazione occidentale, col vizio radicale di risultare artificiale, ignorando che i principi della morale generale sono fissi, ma i costumi cambiano, quindi quello che è pericoloso qui ed oggi può non esserlo lì e domani... – Pare, invece, che approdino ad una soluzione alquanto prossima alla prima J.L. TALLENAY, il quale quasi fa dire a Pio XI che un codice di tal fatta fosse inosservabile, quando il papa si lamentò soltanto che non fosse stato osservato (Revue Internationale du Cinéma, cit., 1951, n. 8, pp. 58-60), nonché l’Office Catholique Français du Cinéma, rispondendo con un rotondo «no» alla proposta di un codice di produzione per la Francia, adducendo la ragione che un codice proibirebbe soltanto gesti esterni, o soggetti grezzi, mentre la morale è cosa di coscienza, e che, più che le cose in se stesse, è la maniera di rappresentarle che può più o meno nuocere (ivi, 1960, n. 42, pp. 12-13). Cfr anche R. ARNHEIM, in Cinema, 1949, n. 25, p. 220.

16 Sono i rilievi affiorati nella polemica TALLENAY-QUIGLEY, di cui cfr Civ. Catt. 1961, I, 158-159.

17 Ha detto il produttore DE LAURENTIIS: «Se oggi si facesse un codice di censura anche in Italia, sarebbe la soluzione ideale, perché allora, una volta discusso e stabilito quello che si può fare e quello che non si può fare, un produttore o un regista può lavorare con più serenità, con più tranquillità; perché oggi, in Italia, se c’è un determinato governo, un produttore affronta un determinato problema, e passa; domani il governo cambia, viene un nuovo sottosegretario, e lo stesso film, che forse sarebbe passato due mesi prima, non passa più. Possono essere colpi di centinaia, e centinaia e centinaia di milioni» (Schermi, 1960, n. 22, p. 88). «In America — nota MORAVIA (in Paese Sera, 17 novembre 1960) — i cineasti hanno un codice, che è la tavola di bronzo del cinema hollywoodiano. Consiste in una serie di severi divieti, opinabili quanto si vuole, ma non equivocabili».

18 Eventualmente il diritto pubblico. Pensiamo ad una corporazione di categoria, analoga agli Ordini dei medici, degli avvocati, commercialisti ecc., opportunamente proposta anche per la stampa giornalistica, data la sua preminente funzione sociale tanto simile a quella del cinema (cfr S. LENER, Per una legge organica sulla stampa, in Civ. Catt. 1952, II, 381 ss.).

19 Vale per il cinema quanto lo stesso S. LENER lamentava per la stampa:
«Dal lato degli interessi della comunità... sembra manifestamente assurdo che, mentre per fare il medico, l’avvocato, il notaio, l’ingegnere ecc. occorrano tanti titoli intellettuali e requisiti morali; vi siano esami di Stato, organi professionali di tutela del buon nome della classe e commissioni di disciplina competenti a sindacare anche la sola correttezza dell’esercizio della professione; siano previsti procedimenti e garanzie per l’iscrizione, la cancellazione ecc., uffici pubblici di controllo indiretto e via dicendo; e mentre per fare il deputato e l’amministratore di un comune occorra il suffragio di tante migliaia di cittadini; chiunque possa erigersi a “pubblica tribuna”, senza titoli, senza disciplina, senz’altro sindacato oggettivo che quello estremo, e perciò così raro, del magistrato penale» (ivi, pp. 383-384).

20 Per il triennio 1950-1953 (ma nel frattempo le cose non dovrebbero essere cambiate di molto) N. GHELLI così scriveva: «Durante questo periodo, 217 imprese hanno prodotto 371 film: in media 1,7 film per Casa, in tre anni. Distribuendo le Case secondo il numero dei film realizzati, si ha:

189 Case producono meno di 1 film all’anno
21 Case producono da 1 a 2 film all’anno
3 Case producono da 2 a 3 film all’anno
4 Case producono oltre 3 film all’anno

In concreto si può dire che l’87,1% delle Case è costituito da imprese che, realizzato un film, scompaiono probabilmente dal mercato. Ciò non è certamente un fattore favorevole, specie se si tiene presente che sul mercato italiano soltanto il 10% delle imprese di produzione consegue utili molto notevoli. Per il resto, il 20% consegue utili normali, il 20% copre appena i costi e il 50% è in perdita» (I problemi di gestione nelle imprese cinematografiche di spettacolo e di noleggio, Roma 1955, p. 75).

21 È la trafila per la quale obbligatoriamente passa chi abbandona i principi saldi ed immutabili della morale naturale. Per l’Olanda, per esempio, notava L. WETERINGS (Les Catholiques parlent de cinéma, Parigi 1948, p. 58), dalla Commissione di Stato on est arrivé dans la pratique à remplacer la formule «non contraire aux bons moeurs» par «non contraire à la bienséance publique», ce dont il est impossible aux catholiques de se contenter en matière de censure.

22 In Successo, 1960, n. 11, p. 78.

23 In La Tribuna, 1960, n. 29, p. 11.

24 In Epoca, 1960, 20 novembre, p. 89.

25 In Corriere della Sera, 16 novembre 1960.

26 Rivista del Cinematografo, cit., 1951, n. 11, pp. 5-6. – Ad abundantiam ricordiamo quanto si verificò nel 1958 in Austria. Il cancelliere federale Raab, considerato il peggioramento della produzione, nominò una commissione ministeriale per studiarne i rimedi. Subito le associazioni professionali, temendo un controllo dello Stato sulla produzione, presero contatto con la commissione stessa, proponendo un autocontrollo. Il Centro Cattolico (Katholische Filmkommission für Oesterreich) li appoggiò; ma poi si ritirò quando, poste alcune condizioni di garanzia, temette che da parte dei produttori si trattasse di una manovra di camuffamento e di tutela dei soli interessi economici della produzione. (O.C.I.C. Informations, 1959, n. 15, p. 20). – E, per l’Italia, valga quanto L. MANDARÀ scrive chiudendo una sua critica contro la nuova legge sui manifesti: «La pubblica morale è una cosa seria, d’accordo. Ma è una cosa seria anche il contributo del cinema alla salute dell’erario statale, che diamine! Possibile che il Parlamento affidi la tutela della pubblica morale a tutti, tranne che alle categorie professionali del cinema, al senso di responsabilità dei dirigenti della pubblicità, al loro facilmente accertabile civismo, alla loro maturità intellettuale e morale, al loro gusto, alla loro competenza e, last but not least, alla circostanza che la maggior parte di essi ha una famiglia e dei figli da crescere sani e robusti in tutti i sensi? – Osservazioni per comprendere le quali bisognerebbe dimenticare tutti i manifesti che in questi anni hanno conferito all’Italia un non invidiabile primato europeo di scurrilità e di cattivo gusto, e bisognerebbe non vedere le frequenti immagini, tutt’altro che modeste, ammannite, ad uso e sollecitazione degli esercenti, proprio dall’Araldo dello Spettacolo, che il 18 gennaio 1961 pubblicava queste righe.

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Articolo estratto dal volume II del 1961 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

La vittoria degli alleati sulle forze dell’Asse offrì agli americani il modo di far proliferare fuori dall’America altri codici cinematografici di autocontrollo, sul modello del loro Production Code. Ciò avvenne massimamente ad opera del figlio di M. Quigley, il signor M. Quigley Jr1, il quale, giunto a Roma nel 1944 al seguito delle truppe alleate, nel 1945 attuò tra noi il suo primo esperimento di trapianto, compilando, con l’aiuto dell’avvocato Eitel Monaco, allora consulente legale della neonata A.N.I.C.A. (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche ed Affini), un Codice della cinematografia2 italiano; e questo servi da modello al Freiwilliger Kodex des Deutschen FilmindustriesEntwurf, che nel 1948 circolò nelle zone di occupazione inglese, francese ed americana della Germania3. A cura poi dello stesso Quigley Jr, nel 1947 il Bharat Jyoti, di Bombay, pubblicava un articolo sull’argomento; l’anno seguente, i due maggiori centri di produzione del cinema indiano, Bombay e Madras, adottavano a loro volta un codice sul modello americano; nel giugno 1949 lo stesso faceva l’associazione dei produttori del Giappone4.

Per quanto riguarda l’Italia, il Quigley, ed altri che con lui avevano bene sperato5, dovettero presto disilludersi. Le poche aziende di produzione e di noleggio uscite indenni dalle rovine della guerra, se avevano accettato, di massima, il Codice, vi si erano indotte più che altro per tutelare contro i rigori della M.P.E.A.A. (Motion Pictures Export Association of America) i film italiani da esportarsi sul mercato americano6; quando sorsero critiche e proteste, specie da parte di autori, di registi e di scrittori, e si stampò che l’A.N.I.C.A. tentava di asservire il cinema italiano all’industria americana, ed accaddero incidenti per il rifiuto del sigillo M.P.E.A.A. ad alcune pellicole italiane, non solo il Codice divenne lettera morta, ma lo stesso autocontrollo finì col passare, presso i più, per ridicolo. Soltanto l’allarme causato dai noti imprevisti interventi della magistratura milanese nell’autunno 1960 ed i timori dei rigori che potrebbero essere adottati nella nuova legge sulla revisione cinematografica, che si va preparando, l’hanno fatto riproporre da più parti come una soluzione di emergenza. Mette dunque conto di spendere alcune parole affin di accertare se l’autodisciplina dei produttori possa ritenersi, in genere, auspicabile, e, rispetto all’Italia, anche possibile e sufficiente.

Auspicabile?

Il pensiero del magistero ecclesiastico, cui noi evidentemente toto corde aderiamo, circa un’efficiente autodisciplina dei gruppi professionali in genere, ed in particolare circa quella cinematografica, è quanto mai espresso. I sommi pontefici, infatti, non soltanto hanno lodato le associazioni professionali che si sono imposte norme morali [cfr nn. 63 e 490]7, ma le hanno invitate, ed esortate, e spronate a farlo.

Lasciate – diceva Pio XII nel 1955 – che rivolgiamo a voi, così pieni di buona volontà, una parola, vorremmo quasi dire, confidenziale e paterna. Non sarebbe forse opportuno che la onesta valutazione ed il rigetto di ciò che è indegno o scadente fosse già da principio ed in modo particolare nelle vostre mani?... Fate, dunque, largamente uso di quella preminenza ed autorità, che il vostro sapere, la vostra esperienza, la dignità dell’opera vostra vi conferiscono. Ponete, in luogo di spettacoli irrilevanti o pervertitori, visioni buone, nobili, belle, le quali, senza dubbio, possono essere avvincenti senza essere torbide, anzi toccare la sommità dell’arte [313, 314].

Questo invito-esortazione si fonda su tre motivi: 1) «il consenso e il plauso di quanti hanno sano intelletto e retto volere, e soprattutto quello della... personale coscienza» [314]; 2) la tempestiva efficacia oggettiva «dell’intervento in forma di autocontrollo esercitato dagli stessi gruppi professionali interessati», in quanto soltanto esso «può lodevolmente prevenire l’intervento» – di solito tardivo – «dell’autorità pubblica e impedire in radice eventuali danni sociali» [489]; 3) la sua efficacia soggettiva rispetto al pubblico degli spettatori, che da una parte, seguendo «lo spirito del nostro tempo, insofferente più del giusto dell’intervento dei pubblici poteri, preferirebbe una difesa che partisse direttamente dalla collettività» [310, 489], dall’altra non avrebbe ragioni per diffidare di essi:

Non si potrebbe certamente, allora, muovere il rimprovero d’incompetenza o di prevenzione, se voi, con maturità di giudizio, formato a sani principi morali, e con serietà di proposito, riprovaste quello che arreca danno alla dignità umana, al bene dei singoli e della società, e specialmente alla gioventù. Nessuno spirito assennato potrebbe ignorare o deridere il vostro coscienzioso e ponderato verdetto in materia concernente la vostra professione [313, 314].

In armonia con queste verità, patrimonio di ogni coscienza e di ogni civiltà che non abbia ripudiato una fondamentale concezione morale od etica circa la persona e la società umane, non sono mancati in questi ultimi anni, in molte nazioni, esempi e proposte di autodisciplina, specie da parte di responsabili attivi dei maggiori odierni strumenti della comunicazione sociale – vale a dire la stampa, il cinema, la radio e la televisione – evidentemente consapevoli dell’ambivalente, ma sempre smisurata loro potenza d’influsso, su masse di spettatori per lo più ancora impreparati ad usarne scientemente e criticamente. Per limitarci all’Italia, ad esempio, la RAI-TV nel 1954 si dava un codice normativo di autodisciplina delle trasmissioni televisive8; nel 1957 il Consiglio Nazionale della Stampa Italiana approvava una dichiarazione «di autodisciplina e di principi di etica professionale concordata tra Giornalisti ed Editori», e stabiliva di costituire una corte d’onore incaricata di provvedere all’applicazione della stessa9. Nel 1958 veniva la volta di un inizio di autodisciplina nel cinema; infatti, mancando nella legge sul diritto d’autore una norma riguardante i titoli dei film e le canzoni, a tutela di un minimo di correttezza professionale e ad evitare rischi economici e procedimenti giudiziari, i produttori italiani istituivano un Ufficio Titoli presso l’A.N.I.C.A.10; di poi, nel 1960, l’A.G.I.S. (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) e l’A.N.I.C.A., sopra menzionata, progettavano qualcosa di concreto anche circa i manifesti. Veramente, fin da quando (1956) una decisione della Corte Costituzionale aveva reso inoperante l’art. 113 del Testo Unico delle Leggi di P.S., a cui era sottoposto il controllo dei manifesti11, quelle associazioni avevano elaborato un progetto di autodisciplina di tutto il materiale pubblicitario cinematografico, e ne avevano comunicato il testo agli uffici governativi; ma nell’estate scorsa, discutendosi alla Camera la proposta di legge Migliori sui manifesti, le stesse lo riesumavano per prevenire l’adozione dei temuti interventi repressivi; passata poi la proposta di legge dalla Camera al Senato, ne chiedevano la sospensiva in questi termini impegnativi:

L’A.G.I.S. e l’A.N.I.C.A. hanno deciso – analogamente a quanto in atto presso altri paesi con positivi risultati – di promuovere la costituzione di un organico sistema di autocontrollo, il quale si avvarrà anche del qualificato apporto di persone estranee alle organizzazioni del cinema. Con tale iniziativa l’industria cinematografica intende testimoniare, al di fuori di sistemi repressivi istituzionalmente inadeguati alla peculiarità del mezzo pubblicitario e suscettibili di gravi inconvenienti, la propria responsabile partecipazione alla salvaguardia di fondamentali interessi pubblici12.

Come abbiamo già detto, suggerite dagli stessi motivi e dagli stessi timori, le stesse proposte sono state avanzate in Italia in merito alla revisione dei film, e con particolare impegno dall’avv. Eitel Monaco13, presidente dell’A.N.I.C.A.; su piano europeo poi – bisogna non dimenticare le ulteriori implicanze che ai problemi di censura addurrà l’ormai prossima integrale attuazione del Mercato Comune Europeo –, l’assemblea generale della F.I.A.D. (Fédération Internationale des Associations des Distributeurs de Film), riunita a Roma il 13-14 dic. 1960, con la partecipazione dei delegati dell’Italia, Francia, Spagna, Germania, Svizzera, Portogallo e Iugoslavia, «esprimeva le proprie preoccupazioni sulle prospettive che si pongono in alcuni paesi in merito alla censura, ed auspicava... che le norme che regolano la materia vengano possibilmente basate sull’autocensura da parte delle categorie interessate»14.

* * *

Alla luce, dunque, della più piena esperienza americana, come anche di quelle di altri paesi, nonché della nostrana, ci pare di poter concludere che l’autodisciplina cinematografica, sia essa a carattere meramente privatistico, come negli Stati Uniti, e, meglio, come istituzione di diritto pubblico, come in Germania cd in Giappone, appare auspicabile, per ragioni differenti ma non necessariamente contrastanti, a due categorie di persone; vale a dire: per motivi culturali e morali, a quanti hanno a cuore – e tra questi vogliamo stare noi – prevalentemente gli interessi spirituali e morali degli individui e della società umana; per motivi prevalentemente di lucro a quanti, implicati economicamente nella produzione e nella programmazione dei film, cercano di tutelarsi in ogni modo contro i rischi connessi con gli interventi, specie se repressivi, della pubblica autorità sul prodotto finito, e, peggio, già in programmazione. Invece, altre due categorie di persone tendenzialmente o radicalmente si oppongono ad ogni autocontrollo morale, e sono: i difensori di ogni licenza, soliti a sfidare tanto più disinvolti le leggi civili e penali quanto più sono al riparo dai rischi economici dei loro produttori; e quanti scambiano l’autodisciplina come tale con le forme concrete nelle quali qua e là essa si è attuata, o potrebbe attuarsi; quindi, attenti agli eventuali inconvenienti più che agli eventuali vantaggi di queste, la condannano, e ripiegano o sull’istanza libertaria, di cui sopra, o su di una piena censura di Stato15.

Se la pretesa dei libertari si confuta da sé in uno Stato di diritto, i dati reali che occasionano l’equivoco dei secondi meritano qualche riflessione. Infatti è chiaro che, perché un ordinamento di autodisciplina cinematografica risulti veramente efficace nel tutelare prima di tutto gli interessi etici e morali dei singoli e della società – che ne dovrebbero essere il movente principale e lo scopo ultimo –, ed insieme anche i legittimi interessi di quanti rischiano ingenti beni nella produzione e nello sfruttamento economico dei film, sì da escludere, o rendere altamente improbabili, gli interventi preventivi o repressivi delle pubbliche autorità, occorrono due condizioni: primo (da parte dei soggetti passivi): che praticamente la totalità della produzione, della distribuzione e dell’esercizio vi si assoggetti; seconde (rispetto ai film da controllare): che con chiarezza il più possibile inequivocabile constino i limiti del lecito e dell’illecito, del permesso e del vietato, mediante un codice categorico di permissioni e di divieti – qual è il Production Code U.S.A. –, stabilito di comune accordo, quindi da applicarsi, diremmo, meccanicamente, sì da ridurre al minimo ogni potere discrezionale da parte delle commissioni di esame, dato che un minimo di discrezionalità nella valutazione del fatto è ineliminabile, oppure, escluso un elenco minuto, ci si limiti a convenire su alcune norme generali di etica, o di morale, o istituzionali, rimettendosi per l’applicazione di esse prevalentemente alla discrezionalità delle commissioni, più o meno come oggi si pratica presso il ministero dello Spettacolo rispetto alle materie pericolose enumerate nelle leggi tuttora in vigore.

Ora è ovvio che, come le leggi in tanto impongono limiti ai singoli in quanto assicurano dei beni alla comunità, ed allora si considerano utili e sagge quando la misura di questi venga a compensare fa misura di quelli, così è vano, in un compromesso tra interessi morali e di lucro – ché di questo, qui, si tratta –, esigere tutti i vantaggi senza pagare alcuno scotto. È chiaro, per esempio, che, astringendo ad una comune disciplina tutti gli appartenenti a certe categorie di industriali, se ne vengono a limitare le libertà professionali, tra l’altro garantite in via di principio anche dalla Costituzione, ma è altrettanto chiaro che, se alcuni di essi restano liberi di esimersi dalla stessa disciplina, le onerose rinunce di molti bene intenzionati andrebbero ad incrementare gli introiti di pochi furbi, e così si finirebbe col frustrare ambedue gli scopi della convenuta autodisciplina. Ancora: chi non vede gli inconvenienti di un codice particolareggiato e rigido? Staticità formalistica (qualora non tenesse conto dell’evolversi di uno stato di cose), facile esca ad una morale ipocrita (da parte di chi si attenesse alla lettera e non allo spirito di certe precisazioni), equivoci tra precetti di morale vera e propria e mode di decoro convenzionali ed effimere, ecc.16; ma siffatti rischi, del resto eliminabili, pagano la certezza del lecito e dell’illecito richiesta dai produttori e dai gestori, o pressoché digiuni di questioni morali, o impotenti a prevedere le reazioni della “morale” altrui17.

Altrettanto ovvi sembrano gli inconvenienti di norme generiche e generali: non è difficile trovarsi d’accordo su di esse, ma quando si scende alla pratica, la certezza oggettiva del diritto si sperde nelle incertezze soggettive ed oggettive della discrezionalità di commissioni, le quali possono essere viziate da tre carenze: o di competenza culturale specifica rispetto ai contenuti narrativi e formali dei film, o di sensibilità morale, sì su questioni di principio come nel ridurre a queste i fatti concreti dei film, o di onestà professionale, se tentate, come facilmente può avvenire, da cointeressenze economiche e politiche, palesi od occulte, degli esaminatori con i film in esame, o, peggio, contro produttori e film concorrenti... Tuttavia, che cosa si può concludere da ciò se non che questi sono inconvenienti parzialmente connessi con ogni giudizio umano, sempre fallibile, ma non perciò necessariamente da ripudiarsi, ed anche di inconvenienti in gran parte eliminabili? Si tratterebbe, infatti, di scegliere i giudicanti tra uomini di fiducia della produzione e degli autori, sì, ma il più possibile estranei ai loro interessi – ad esempio tra magistrati, educatori, docenti, competenti specifici rispetto ai tipi di film... –, ed il più possibile provvisti della «maturità di giudizio, formato a sani principi morali e con serietà di propositi», lapidariamente indicata da Pio XII [313].

Stando dunque i motivi sopra richiamati e prescindendo dal modo concreto con cui attuarla, resta per noi altamente desiderabile, anche in Italia, un’autodisciplina organica o istituzionale di tutti gli interessati, la quale, mentre riprovi «quello che arreca danno alla dignità umana, al bene dei singoli e della società, e specialmente della gioventù» [313], faciliti al potere amministrativo e giudiziario dello Stato il compito commessogli di evitare, nell’ambito della legge, gli stessi mali, e di garantire gli stessi beni, ed insieme garantisca agli onesti produttori, agli onesti distributori ed agli onesti gestori, se non proprio l’esclusione di ogni rischio, almeno la massima possibile tranquillità.

Possibile?

Rifacendosi alle due condizioni, di cui sopra, diremmo che un efficiente controllo cinematografico, oggi come oggi, sia praticamente irrealizzabile in Italia, non solo nella forma ideale di sistema istituzionale18 – tanto ideale che finora non è stata proposta da alcuno degli interessati (e perciò neppur noi la prendiamo in considerazione) –, ma neanche in quella di autodisciplina collegiale di mero carattere privatistico; prima di tutto perché manca in Italia un albo di tutti gli interessati e responsabili del prodotto-film, e manca qualsiasi forma di autorizzazione, di licenza o di nulla osta che abiliti alla professione di “cinematografaro” o, più nobilmente, di “cineasta”, a cominciare dalle quattro categorie di “autori” convenzionalmente stabiliti dalla legge: soggettisti, sceneggiatori, musicisti e direttori artistici, per poi continuare con i produttori, i distributori, i gestori ed altri ancora. Infatti, per quanto ciò può sembrare assurdo, per fare, ad esempio, il produttore, in quanto a cultura non si esige neanche la licenza elementare, pur obbligatoria per i tranvieri, gli uscieri, gli autisti, i postini e i caporali; in quanto ad onestà, non occorre la fedina penale pulita, ed in quanto a serietà professionale non si richiede neanche un minimo assicurato di finanziamento e di organizzazione. Mentre lasciamo al lettore di tirare le tristi conseguenze che da questa situazione è doveroso temere in danno della cultura e della morale degli ottocento milioni di spettatori annuali dei cinema in Italia19, rileviamo che la scarsa industrializzazione che deriva da questo stato di cose permette ogni anno a plotoni di avventurieri di imperversare tra le poche case di produzione serie, e che, mentre queste considererebbero conveniente, per assicurare una produzione stabile, un’autodisciplina professionale, le altre la sfuggirebbero e la ostacolerebbero, dato che puntano, più che altro, su avventure finanziariamente e moralmente spericolate20.

Ma supponiamo che delle norme legislative, prima o dopo, ovviassero a questo inconveniente, e che tutte le case di produzione, in qualche modo abilitate, si accordassero con la distribuzione e l’esercizio nel non programmare film privi del “visto” del loro autocontrollo, quante probabilità ci sarebbero in Italia di mettere d’accordo tutti questi bravi signori su di un pur necessario elenco di valori morali o etici da salvare? Quanto è stato scritto e detto, specie durante le recenti polemiche intorno alla censura, un po’ anche nel campo cattolico, ma soprattutto tra le file dei laicisti e dei marxisti, da produttori, registi, autori e critici, non consiglia certo di bene sperare. Sì, specie quando si tratta di dare addosso al governo od all’avversario politico, all’unisono si lamenta la presenza sul mercato di «certi film, che assolutamente non dovrebbero essere permessi», ma quando poi si tratta di fissare i principi che distinguono il lecito dall’illecito succede la confusione delle lingue.

Non è questo il luogo di appurare quanto in ciò incida la maledetta faziosità di certa politica, che in Italia sta avvelenando e sporcando tutto quello che tocca, o la diffusa ignoranza della religione, della morale, della psicologia e della pedagogia tra molti che maneggiano le leve dell’opinione e del costume pubblici, o la insensibilità morale dilagata con lo scadimento generale del costume privato e pubblico, o la volontà dichiarata di sovvertire e distruggere quanto resta della civiltà cristiana e cattolica; certo tuttavia è che il chiasso concertato di pochi impudenti, troppo scarsamente coperto dalle reazioni degli onesti, dà l’impressione che ormai non sia facile un accordo neanche sui principi primi dell’onestà e della moralità. Attaccata, infatti, e ridicolizzata la morale cattolica, prima si cercò di supplirla con una non ben precisata “etica”, poi si ridusse questa al “buon costume” nell’accezione arbitrariamente menomata di pudore, o di buona educazione21, ed oggi, scrittori e registi, non soltanto impuniti bensì anche onorati, ormai proclamano alto che e morale, ed etica, e buon costume, e pudore e buona educazione sono residuati di un clericalismo ipocrita e codino, indi, opportunisticamente catafratti di libertà di pensiero, di arte e di scienza «garantite dalla Costituzione», reclamano a gran voce i diritti dell’osceno e della maleducazione.

Stabilito un codice di norme, siano esse poche e generali o molteplici e minute, chi verrebbe chiamato ad esaminare i film ed a giudicarli applicandolo? Buon senso ed esperienza, come abbiamo visto, consiglierebbero di ricorrere a membri di fiducia delle categorie interessate, però indipendenti da esse. Ma in quale mondo ideale li troveremo i produttori, i registi, gli autori... tanto modesti e remissivi, da prima sollecitare e poi accettare di buon grado decisioni verosimilmente qualche volta loro avverse? Pare, infatti, che persone di casa nel mondo cinematografico nostrano non nutrano molta fiducia in proposito. «Negli Stati Uniti — osserva l’attore Paolo Stoppa —, potrà funzionare, ma in Italia no. Non riesco ad immaginare gli industriali italiani perdere la loro impulsività e piegarsi alle leggi dell’autocontrollo». «Sarà forse attuabile — ha rincalzato il regista Federico Fellini —, ma oggi mi sembra inattuabile. Mi piacerebbe assistere, invisibile, a una riunione in cui i produttori italiani tentano di imporsi un’autocensura! Credo che nessuna fantasia di autore potrebbe immaginare scene e dialoghi relativi»22; ragion per cui, optando anch’egli per un intervento censorio, propone di ricorrere ad altri membri, a suo dire più qualificati: «È tutto così ambiguo e provvisorio. Perché non fanno una volta per tutte, una legge precisa, non fissano delle modalità? Un codice di censura, di tipo americano, ma affidato a poeti, intellettuali: ecco che cosa ci vorrebbe»23. Ma quel che ci si possa aspettare da una commissione composta di poeti e di intellettuali ce lo dice una esperienza riferita dal critico Domenico Meccoli:

Anche in Italia, cinque anni fa, si tentò di fermare le forbici di Madonna Anastasia (vale a dire, della censura) creando un’autocensura della produzione, affidata alle illustri menti di Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, Silvio d’Amico e Panfilo Gentile. Il tentativo naufragò alla prima prova. Approvato da una delle commissioni censorie di primo grado, Le avventure di Giacomo Casanova circolava ormai da qualche tempo quando, in seguito ad alcune proteste, la commissione di appello richiamò il film e lo bocciò. Secondo Cardarelli, Cecchi, d’Amico e Gentile, l’argomento era stato trattato «con tutta la possibile decenza»; secondo la commissione di appello vi si offendevano pudore, morale e buoncostume. E l’autocensura fu messa a dormire24.

Ci pare che l’edificante episodio dia ragione al soggettista Indro Montanelli, il quale, prima di riconoscere onestamente che «ogni società ha una sua moralità da salvaguardare: non può rinunciarvi. L’unica discussione possibile è sui criteri con cui farlo», auspica, sì, l’autodisciplina, ma prevede che, «in un pollaio rissoso come quello nostro», è impossibile giungervi. «Ergo, conclude, la censura di Stato»25.

Sufficiente?

Ed è questa, del necessario intervento dello Stato, rebus sic stantibus, anche la nostra conclusione e, crediamo, «di quanti, dotati di un sereno giudizio e di un genuino senso di responsabilità» [308], sono solleciti, sì, degli interessi economici dei produttori, ma altrettanto e più di quelli culturali e morali del pubblico. E ciò per due ragioni; la prima, attinente alla morale naturale; la seconda, alla nostra Carta costituzionale. Tocchiamo qui della prima, rimandando ad un prossimo articolo quanto riguarda la seconda.

In Italia, come altrove – purtroppo, anche nel malcostume cinematografico, tutto il mondo è paese –, in sessant’anni di film, e specie in questa ultima decade, troppi ce ne sono stati di culturalmente avvilenti, di privi di ogni sia pur minimo pregio artistico e moralmente corruttori. «Troppi spettacoli — lamentava anche Pio XII —, non raggiungono il livello culturale e morale che si sarebbe in diritto di esigere [567]; spettacoli cinematografici corrompono specialmente la gioventù» [579]. Su ciò tutti sono d’accordo. Ne consegue che i loro produttori, autori, registi ecc. in grande maggioranza o non sanno, o non vogliono, o non possono fare altrimenti. Ma è vano attendersi da essi una condotta migliore finché perdureranno, oltre ad altri, tre fattori che oggi prevalentemente la condizionano: primo: gli enormi costi e gli enormi guadagni dei film; secondo: l’altissimo rischio che ogni film comporta, dato dalla certezza dei primi e dall’aleatorietà dei secondi; terzo: l’opinione oggi pacifica tra i seguaci teorici o pratici di una morale laica, che scopo prevalente ed unico della professione sia il lucro, e che sia lecito ogni mezzo utile per conseguirlo.

His positis, come anche l’esperienza americana ha dimostrato, un autocontrollo verrebbe accettato dalle categorie interessate soltanto come extrema ratio, danno minore, per allontanare dai propri interessi economici il danno maggiore di censure molteplici e più severe, e, una volta da essi accettato, grave resterebbe la tentazione, specie nei meno scrupolosi o nei meno economicamente sicuri, di attenersi soltanto alla lettera delle sue norme, camuffando dietro di essa la propria volontà di agire senza controlli di sorta; ipotesi, al dire di N. Angioletti, presidente della Cinematografica Distributori Indipendenti, tutt’altro che gratuita nel nostro Bel Paese:

Ci son purtroppo avventurieri che si buttano allo sbaraglio improvvisandosi produttori con i quattrini altrui. Costoro possono essere tentati di speculare sui bassi istinti della massa presentando film morbosi o indecenti, ma per essi... c’è la censura. Un codice, difficilissimo da stilare, creerebbe confusioni e, mentre metterebbe in imbarazzo i produttori onesti, non verrebbe osservato dagli altri, che non dimenticheranno di vivere in un Paese dove la furbizia è di moda ed il modo di girare le posizioni un’arte26.

Ci sembra, dunque, di poter motivatamente concludere che se un autocontrollo della produzione sui film è, anche in Italia, per i motivi sopra addotti, sommamente desiderabile, proprio perché, per forza di cose, sarebbe portato a tutelare meglio gli interessi economici dei produttori che quelli culturali e morali, più importanti, del pubblico, esso non potrebbe ostare ad una equa vigilanza dell’autorità pubblica, cui compete la tutela del bene comune, quanto più comune è questo bene. Ben venga, dunque, un autocontrollo dei produttori, e, facendo garanzia con la sua serietà, cerchi pure di ridurre ai minimo gli interventi preventivi e repressivi dello Stato, in tal maniera riducendo al minimo anche i loro rischi; ma come lo Stato, per assicurare la non sofisticazione degli alimenti, la potabilità delle acque, la non nocività dei medicinali, la sicurezza dei mezzi pubblici di trasporto, ecc. non si rimette ai propositi, per quanto nobili e generosi, degli industriali e dei fornitori, così non può rimettercisi del tutto circa un genere, diciamo così, di consumo tanto universale, e sì incidente sulla salute morale, quale il cinema.

Questa dottrina è chiaramente suffragata dalla morale cattolica. Trattando, con la solita precisione dottrinale e sollecitudine pastorale, nei suoi discorsi Sul film ideale, della «vigilanza e la reazione dei pubblici poteri, pienamente giustificata dal diritto di difendere il comune patrimonio civile e morale» [310], Pio XII osservò che «certamente sarebbe desiderabile che si ottenesse l’unione concorde dei buoni contro il film corruttore», ma insieme insegnò decisamente:

Tuttavia una tale azione non è per sé sola sufficiente... Se, pertanto, il patrimonio civile e morale del popolo e delle famiglie dev’essere tutelato con sicuro effetto, è più che giusto che la pubblica autorità intervenga debitamente per impedire e frenare i più pericolosi influssi [312]. – Ed altrove afferma: – L’autorità pubblica non fa che esercitare la sua funzione di promuovere il bene comune quando... limita gli eccessi di quelli che giungono a servirsi di queste armi,... (quali) il cinema..., per attentare alla pubblica moralità... [423]. La vigilanza dello Stato non può essere considerata un’ingiusta pressione della libertà dei singoli individui, perché si esercita non circa la loro persona privata ma rispetto a tutta la società umana, nella quale agiscono questi mezzi di comunicazione... [488]. L’intervento in forma di autocontrollo esercitato dagli stessi gruppi professionali interessati... non può assolutamente avversare il grave dovere di vigilanza che ad esso compete [489]; perciò... abbiamo lodato i gruppi professionali per siffatti interventi, in nulla tuttavia pregiudicando le competenze dello Stato [490].

1 Per tutta questa parte, cfr M. QUIGLEY JR., Les codes de production dans les pays étrangers, in Revue Internationale du Cinéma, 1951, n. 7, pp. 19-21.

2 Il testo del Codice italiano fu pubblicato nel 1945 iri un fascicolo a cura della stessa A.N.I.C.A., e poi in M. MONTANARI-G. RICCIOTTI, La disciplina giuridica della Cinematografia, Firenze, vol. II, pp. 671-673, con un cappello, ed abolitone il Commento, che altro non era che l’apparato dottrinale del Codice Hays.

3 Esso, nel 1949, fu affidato dalle forze alleate alla Freiwillige Selbstkontrolle der Filmswirtschaft, la quale, al dire del dott. A. Kochs (Faut-il confier aux producteurs le contrôle des films?, in Revue Internationale du Cinéma, cit., 1956, 24, p. 49), «per sette anni lavorò bene e con sodisfazione del pubblico, dell’industria e dello Stato».

4 Per il testo di questo Codice cfr Rassegna di Diritto Cinematografico, 1958, 1, p. 10, e Cronache del Cinema e della Televisione, 1957-1958, n. 21, pp. 109-111.

5 Per esempio il critico de L’Osservatore Romano, M. MENEGHINI, che il 5 maggio e il 15 settembre 1945 vi auspicava venisse adottato da tutta l’Europa.

6 Questa considerazione utilitaristica fa applicare dalla produzione inglese il Codice americano ai film destinati al mercato statunitense.

7 I numeri chiusi in parentesi quadre in questo saggio rimandano ai numeri marginali del volume di ENRICO BARAGLI, Cinema Cattolico: Documenti della Santa Sede sul cinema, Roma 1959.

8 Cfr il testo in Lo Spettacolo, 1954, n. 1, p. 67; breve commento in Rassegna di Diritto Cinematografico, cit., 1954, n. 2, p. 6. – Anche in ciò l’Italia era stata preceduta dall’America, dove un Codice morale veniva adottato dalla National Association of Radio and Television Broadcasters il 1º marzo 1952 (testo in Qui, Studio One, Milano 1960, pp. 109 ss.).

9 Cfr il testo in Annuario della Stampa Italiana, Milano 1958, 297, a fronte.

10 Cfr A. GIANNINI, Il diritto dello spettacolo, Roma 1960, pp. 172-174.

11 Cfr Civ. Catt. 1956, III, 97 ss.

12 Giornale dello Spettacolo, 2 e 3 dicembre 1960. Respinta la proposta di sospensiva e passata la legge, A.G.I.S. ed A.N.I.C.A. sperano ancora nel regolamento applicativo di essa, persuasi «che una soluzione professionale sia sempre la più idonea a stabilire principi equi e definitivi».

13 Ne scriveva già in Rivista del Cinematografo, 1951, n. 11, p. 3; recentemente ne ha fatto argomento di comunicazioni parlando a Roma nell’incontro Cinema e censura all’Eliseo, ed avanti al gruppo romano dell’U.C.I.D. (7 e 15 dicembre 1960). Tra i singoli produttori e registi che si sono dichiarati, di massima, favorevoli all’autodisciplina, ricordiamo G. Lombardo (ivi), D. De Laurentiis (Schermi, 1960, n. 22, p. 88) ed A. Lattuada (Successo, 1960, n. 11, p. 78).

14 Araldo dello Spettacolo, 15 dicembre 1960.

15 A questa conclusione, per esempio, giunge H. MERCILLON (Cinéma et monopoles, Parigi 1953, pp. 61-62), dopo aver riferito sul Production Code americano, e R. LUDMANN (Cinéma, foi et morale, 1956, pp. 42-44), osservando che, come quello di Hays, ogni codice è un rischio, chiudendo il cineasta tra certe convenzioni di morale mondana, che corrispondono più o meno alla (buona?) educazione occidentale, col vizio radicale di risultare artificiale, ignorando che i principi della morale generale sono fissi, ma i costumi cambiano, quindi quello che è pericoloso qui ed oggi può non esserlo lì e domani... – Pare, invece, che approdino ad una soluzione alquanto prossima alla prima J.L. TALLENAY, il quale quasi fa dire a Pio XI che un codice di tal fatta fosse inosservabile, quando il papa si lamentò soltanto che non fosse stato osservato (Revue Internationale du Cinéma, cit., 1951, n. 8, pp. 58-60), nonché l’Office Catholique Français du Cinéma, rispondendo con un rotondo «no» alla proposta di un codice di produzione per la Francia, adducendo la ragione che un codice proibirebbe soltanto gesti esterni, o soggetti grezzi, mentre la morale è cosa di coscienza, e che, più che le cose in se stesse, è la maniera di rappresentarle che può più o meno nuocere (ivi, 1960, n. 42, pp. 12-13). Cfr anche R. ARNHEIM, in Cinema, 1949, n. 25, p. 220.

16 Sono i rilievi affiorati nella polemica TALLENAY-QUIGLEY, di cui cfr Civ. Catt. 1961, I, 158-159.

17 Ha detto il produttore DE LAURENTIIS: «Se oggi si facesse un codice di censura anche in Italia, sarebbe la soluzione ideale, perché allora, una volta discusso e stabilito quello che si può fare e quello che non si può fare, un produttore o un regista può lavorare con più serenità, con più tranquillità; perché oggi, in Italia, se c’è un determinato governo, un produttore affronta un determinato problema, e passa; domani il governo cambia, viene un nuovo sottosegretario, e lo stesso film, che forse sarebbe passato due mesi prima, non passa più. Possono essere colpi di centinaia, e centinaia e centinaia di milioni» (Schermi, 1960, n. 22, p. 88). «In America — nota MORAVIA (in Paese Sera, 17 novembre 1960) — i cineasti hanno un codice, che è la tavola di bronzo del cinema hollywoodiano. Consiste in una serie di severi divieti, opinabili quanto si vuole, ma non equivocabili».

18 Eventualmente il diritto pubblico. Pensiamo ad una corporazione di categoria, analoga agli Ordini dei medici, degli avvocati, commercialisti ecc., opportunamente proposta anche per la stampa giornalistica, data la sua preminente funzione sociale tanto simile a quella del cinema (cfr S. LENER, Per una legge organica sulla stampa, in Civ. Catt. 1952, II, 381 ss.).

19 Vale per il cinema quanto lo stesso S. LENER lamentava per la stampa:
«Dal lato degli interessi della comunità... sembra manifestamente assurdo che, mentre per fare il medico, l’avvocato, il notaio, l’ingegnere ecc. occorrano tanti titoli intellettuali e requisiti morali; vi siano esami di Stato, organi professionali di tutela del buon nome della classe e commissioni di disciplina competenti a sindacare anche la sola correttezza dell’esercizio della professione; siano previsti procedimenti e garanzie per l’iscrizione, la cancellazione ecc., uffici pubblici di controllo indiretto e via dicendo; e mentre per fare il deputato e l’amministratore di un comune occorra il suffragio di tante migliaia di cittadini; chiunque possa erigersi a “pubblica tribuna”, senza titoli, senza disciplina, senz’altro sindacato oggettivo che quello estremo, e perciò così raro, del magistrato penale» (ivi, pp. 383-384).

20 Per il triennio 1950-1953 (ma nel frattempo le cose non dovrebbero essere cambiate di molto) N. GHELLI così scriveva: «Durante questo periodo, 217 imprese hanno prodotto 371 film: in media 1,7 film per Casa, in tre anni. Distribuendo le Case secondo il numero dei film realizzati, si ha:

189 Case producono meno di 1 film all’anno
21 Case producono da 1 a 2 film all’anno
3 Case producono da 2 a 3 film all’anno
4 Case producono oltre 3 film all’anno

In concreto si può dire che l’87,1% delle Case è costituito da imprese che, realizzato un film, scompaiono probabilmente dal mercato. Ciò non è certamente un fattore favorevole, specie se si tiene presente che sul mercato italiano soltanto il 10% delle imprese di produzione consegue utili molto notevoli. Per il resto, il 20% consegue utili normali, il 20% copre appena i costi e il 50% è in perdita» (I problemi di gestione nelle imprese cinematografiche di spettacolo e di noleggio, Roma 1955, p. 75).

21 È la trafila per la quale obbligatoriamente passa chi abbandona i principi saldi ed immutabili della morale naturale. Per l’Olanda, per esempio, notava L. WETERINGS (Les Catholiques parlent de cinéma, Parigi 1948, p. 58), dalla Commissione di Stato on est arrivé dans la pratique à remplacer la formule «non contraire aux bons moeurs» par «non contraire à la bienséance publique», ce dont il est impossible aux catholiques de se contenter en matière de censure.

22 In Successo, 1960, n. 11, p. 78.

23 In La Tribuna, 1960, n. 29, p. 11.

24 In Epoca, 1960, 20 novembre, p. 89.

25 In Corriere della Sera, 16 novembre 1960.

26 Rivista del Cinematografo, cit., 1951, n. 11, pp. 5-6. – Ad abundantiam ricordiamo quanto si verificò nel 1958 in Austria. Il cancelliere federale Raab, considerato il peggioramento della produzione, nominò una commissione ministeriale per studiarne i rimedi. Subito le associazioni professionali, temendo un controllo dello Stato sulla produzione, presero contatto con la commissione stessa, proponendo un autocontrollo. Il Centro Cattolico (Katholische Filmkommission für Oesterreich) li appoggiò; ma poi si ritirò quando, poste alcune condizioni di garanzia, temette che da parte dei produttori si trattasse di una manovra di camuffamento e di tutela dei soli interessi economici della produzione. (O.C.I.C. Informations, 1959, n. 15, p. 20). – E, per l’Italia, valga quanto L. MANDARÀ scrive chiudendo una sua critica contro la nuova legge sui manifesti: «La pubblica morale è una cosa seria, d’accordo. Ma è una cosa seria anche il contributo del cinema alla salute dell’erario statale, che diamine! Possibile che il Parlamento affidi la tutela della pubblica morale a tutti, tranne che alle categorie professionali del cinema, al senso di responsabilità dei dirigenti della pubblicità, al loro facilmente accertabile civismo, alla loro maturità intellettuale e morale, al loro gusto, alla loro competenza e, last but not least, alla circostanza che la maggior parte di essi ha una famiglia e dei figli da crescere sani e robusti in tutti i sensi? – Osservazioni per comprendere le quali bisognerebbe dimenticare tutti i manifesti che in questi anni hanno conferito all’Italia un non invidiabile primato europeo di scurrilità e di cattivo gusto, e bisognerebbe non vedere le frequenti immagini, tutt’altro che modeste, ammannite, ad uso e sollecitazione degli esercenti, proprio dall’Araldo dello Spettacolo, che il 18 gennaio 1961 pubblicava queste righe.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151

In argomento

Cinema-arte

n. 2808, vol. II (1967), pp. 573-576
n. 2672, vol. IV (1961), pp. 165-169
n. 2667, vol. III (1961), pp. 306-311
n. 2567, vol. II (1957), pp. 504-515, 619-627
n. 2559, vol. I (1957), pp. 288-302
n. 2562, vol. I (1957), pp. 610-619
n. 2524, vol. III (1955), pp. 396-407