NOTE
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1 In Film 1961, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 183 ss.

2 Troviamo l’affermazione di Mussolini ripetuta da una pubblicazione all’altra, ma non ne sapremmo precisare il luogo ed il tempo. La seconda è di L. CHIARINI, Il cinematografo, Roma 1935, p. 117.

3 L. CHIARINI, op. cit. pp. 9 e 11. – Allo stesso torno di tempo risalgono due istituzioni del fascismo sopravvissute alla sua caduta: la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, del 1932, ed il Centro Sperimentale di Cinematografia, del 1934.

4 M. GROMO, Cinema italiano, in Cinema d’oggi, Firenze 1958, p. 20 – In argomento, fondamentali sono i due volumi di L. FREDDI, Il cinema, Roma 1949.

5 LOTTE H. EISNER, Lo schermo demoniaco, Roma 1955, p. 150. – Lo stesso Goebbels, al Congresso Internazionale del Cinema, svoltosi a Berlino dal 26 al 30 aprile 1935, dichiarava il cinema «uno dei mezzi più efficaci per costruire un mondo migliore» e concludeva: «Dobbiamo impadronirci del cinema per assicurarci i suoi vantaggi» (Documentation catholique, 33 (1935), coll. 1370 e 1371).

6 L. FREDDI, op. cit., pp. 46 e 81.

7 Per un estratto di questo Diario, cfr Bianco e Nero, 1950, n. 10, p. 94 ss.

8 Ivi, 1953, n. 11, p. 21.

9 Si trova ripetuta da molti scrittori, qua e là, senza la fonte. S. KRACAUER la cita da D. MAcDONALD, The Soviet Cinema, 1930-1938, in Partisan Review, luglio 1938, V, n. 2, p. 40 (op. cit., p. 188). Anche il volume lskussivo Millionov: Sovetskoe Kino (Mosca 1958), la riporta (p. 5) senza citarne la fonte.

10 Testi religiosamente raccolti e documentati in Cinema Nuovo (1952, n. 7, p. 166). Di un altro capo marxista, Litvinov, C. FORD riporta l’affermazione: «Le cinéma est le moyen décisif de réaliser les temps révolutionnaires» (Le cinéma au service de la foi, 1953, p. 5); ed il recentissimo Programma del partito comunista dell’Unione Sovietica, presentato al XXII Congresso del P.C.U.S. «che traccia le vie di sviluppo per il passaggio alla società comunista dei prossimi vent’anni» (Roma, Editori riuniti, 1961, pp. 121-122), reca: «Il Partito presta particolare attenzione ai giovani. La formazione di una nuova personalità umana si svolge nel fuoco dell’attiva partecipazione alla edificazione del comunismo, dello sviluppo degli elementi comunisti nella vita economica e sociale, sotto l’influenza della complessa attività educativa del Partito, dello Stato e delle organizzazioni sociali, entro la quale una grande funzione spetta alla stampa, alla radio, al cinema e alla televisione».

11 Tale giudizio è dato da Chruscev sul conto della Caduta di Berlino (1954), di Ciaureli, nel suo noto Rapporto sul culto della personalità e le sue conseguenze, dove, a proposito dei documentari russi, egli sarcasticamente prosegue: «Molti film descrivevano la vita del colcos in maniera tale che vi si vedeva il desco dei contadini piegarsi sotto il peso dei tacchini e delle oche. E evidentemente Stalin pensava che le cose stessero realmente cosi» (I documenti segreti del XX° Congresso del P.C.U.S., Roma, s.d. pp. 48 e 66).

12 Nota giustamente il KRACAUER (op. cit. p. 190): «Di qui un’altra ragione dell’efficacia della propaganda cinematografica, ma una ragione che vale soltanto per i documentari: si crede che essi aderiscano perfettamente al vero, e il vero è per definizione lo strumento di propaganda più efficace. Ogni volta che un documentario riesce ad influire sulla mente dello spettatore, lo deve in parte alla convinzione di quest’ultimo di trovarsi di fronte a dati di fatto incontrovertibili. Si pensa cioè che un’immagine presa dal vero non possa mentire: mentre può benissimo accadere il contrario. Pur supponendo che un film presentato come documentario non includa episodi aggiunti per dare maggiore forza alle tesi proposte, ma si limiti, come dovrebbe, a riprodurre semplicemente la realtà – ma lo spettatore non ha modo di accertarsi se quello che vede è autentico o ricostruito –, esso può sempre sottolineare certi aspetti di un oggetto a danno di altri e influire quindi sul nostro modo di vederlo». Occorre soltanto aggiungere a quanto rileva il Kracauer, che, per certi pubblici, i film sono sempre «documentari», e che, in ogni caso, nei film di propaganda in genere, ed in quelli sovietici in specie, tutto è dato come «documentario»

13 Su ciò, un documento irrefutabile e di prima mano lo abbiamo nel recentissimo, già citato, Programma del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Lasciamo all’intelligente e paziente lettore la fatica di contarvi tutti i «fatti» e tutte le anticipazioni profetiche, – con tanto di data di scadenza: vent’anni! – che vi si affermano, senza l’ombra di una prova, e di gustarvi tutta l’aria di benessere che vi spira, da paese di Bengodi.

14 A questo punto, immaginiamo il grido di dolore lanciato dai soliti zelanti tutori del cinema-Arte a questa nostra blasfema asserzione. Ma alcuni dati, raccolti in fonte ad essi non sospetta, ci dicono che il rilievo vale anche per la Russia, dove, per esempio, nel 1955, tra cinque film italiani colà importati, due film di evasione come Torna a Sorrento, di C. L. Bragaglia, ed Enrico Caruso, di G. Gentilomo, hanno totalizzato: il primo 23 ed il secondo 19 milioni di presenze, mentre tre film «sociali» come In nome della legge, di P. Germi, Roma ore 11 e Non c’è pace tra gli ulivi, del marxista P. De Santis, a mala pena ne hanno totalizzato la metà. La marxista Cinema (1955, n. 152, p. 888), che riporta la notizia, la commenta cosi: «Le cifre parlano, e ci sono state onestamente fornite dall’Associazione Italiana per i rapporti culturali con l’Unione Sovietica. E ci accorgiamo perciò che il popolo è uguale dappertutto, e preferisce divertirsi senza grandi impegni».

15 Cosi ne scriveva nel 1958 un laico come P. BIANCHI: «Il giudizio sui film russi deve tener conto della volontà dei governanti di conferire ai film sovietici una sintassi e una grammatica, insomma modi di espressione, tali da essere capite da tutti. Cosa succede? Che allo stesso modo che in un convoglio il ritmo della navigazione è dato dalla nave che va più adagio, cosi la produzione cinematografica russa deve tener conto delle reazioni degli spettatori più arretrati dell’immenso impero; tiene conto, addirittura, probabilmente, di certe popolazioni ai margini della vita culturale in modo che i film prodotti (non molti, date le esigenze del mercato) siano capiti da tutti. Il cinema sovietico, quindi, ha un ritmo rallentato che disturba e riesce a deviare il giudizio. Il disturbo che dànno i loro film a noi che siamo abituati al ritmo dei nostri sembra un fatto esterno, una costrizione, senz’altro una disciplina» (Cinema straniero, in Cinema d’oggi, cit., p. 40).

16 Nota ancora il KRACAUER (op. cit., p. 189): «Poiché le immagini di un film diminuiscono le facoltà critiche dello spettatore, è sempre possibile sceglierle e montarle in modo da accordare i sensi dello spettatore con l’idea che si vuole propagandare. Non è necessario che ad essa direttamente si riferiscano; anzi, quanto più si applica un metodo indiretto – mostrando avvenimenti e situazioni apparentemente estranei al messaggio che si vuole diffondere – tanto maggiore è la possibilità di raggiungere cristallizzazioni inconsce e tendenze organiche che possono determinare, sia pure indirettamente, un atteggiamento favorevole alla causa sostenuta».

17 La citazione è lunga, ma vale bene la pena di riportarla e meditarla. Ecco una sintesi della morale comunista quale appare nei film sovietici e quale è data dal mai troppo lodato Programma del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (cit. pp. 123-124): «Nel processo del passaggio al comunismo acquistano sempre maggiore importanza nella vita della società i princìpi etici: si estende la sfera d’azione del fattore morale e, rispettivamente, diminuisce il significato del regolamento amministrativo dei rapporti tra gli uomini. Il partito favorirà tutte le forme di consapevole autodisciplina dei cittadini che portano al consolidamento e allo sviluppo delle nome basilari del vivere comunista.
Ripudiando la morale di classe degli sfruttatori, i comunisti oppongono alle concezioni egoistiche e ai costumi snaturati del vecchio mondo la morale comunista, la più giusta e nobile morale che esprime gli interessi e gli ideali di tutta l’umanità lavoratrice. Le semplici norme dell’etica e della giustizia, che, sotto il dominio degli sfruttatori, venivano deformate o cinicamente calpestate, sono elevate dal comunismo ad intangibili norme di vita, sia nei rapporti tra le singole persone, che nelle relazioni tra i popoli. La morale comunista comprende le principali norme di morale aventi un valore universale, elaborate nel corso di millenni dalle masse popolari in lotta contro il giogo sociale e i vizi morali. Un ruolo particolare nell’evoluzione etica della società assume la morale rivoluzionaria della classe operaia. Il processo di edificazione del socialismo e del comunismo vede la morale comunista arricchirsi di princìpi e di un contenuto nuovi.
Il partito ritiene che fanno parte del codice morale dell’edificatore del comunismo i seguenti princìpi etici:

18 Abbiamo in parte sviluppato e documentato quest’avvenimento in Disavventure della critica marxista, in Civ. Catt. 1957, III, 288 ss.
Faremmo torto alla cultura dei nostri lettori ricordando loro i capolavori di Eisenstein, di Pudovkin e di Dovgenko, ai quali abbiamo fatto riferimento. Riteniamo, invece, utile enumerare qui alcuni titoli, non a tutti noti, della produzione U.R.S.S. così oculatamente introdotta da noi nel secondo dopoguerra: Ciapajev (del 1934), dei Vassiliev; Deputat Baltiki (Il deputato del Baltico, del 1937), di A. Zarkhij; Beleet parus odinoki (Biancheggia una vela, del 1937), di V. Legosin; Kljatva (Il giuramento, del 1946), di M. Ciaureli; Vesnà (Primavera, del 1947), di G. Aleksandrov; Selskaia ucitelniza (L’educazione dei sentimenti, del 1947), di M. Donskoj; Padenia Berlina (La caduta di Berlino, del 1949), di M. Ciaurelli; Stalingradskaja bitva (La battaglia di Stalingrado, del 1950), di V. Petrov; Vozvrascenie Vasilia Bortnikova (Il ritorno di Basilio Bortnikov, del 1953), di V. Pudovkin; Poprigunia (La cicala, del 1955), di S. Samsonov; Verso la nuova sponda (del 1955), di L. Lucov; Bolchaia Semia (La grande famiglia, del 1955), di J. Heifiz; Pedagoghiceskaia Poema (Poema pedagogico, del 1956), di A. Mosliukov; Bessmertnii garnison (Guarnigione immortale, del 1956), di Z. Agranenko; Malva (del 1957), di V. Braun; Sorok pervyi (Il quarantunesimo, del 1957), di G. Ciukrai; Letiat giuravli (Quando volano le cicogne, del 1958), di M. Kalatosov; V tvoykh rukah jizn (La vita nelle tue mani, del 1959), di R. Rosantzev; Ballada o soldate (Ballata di un soldato, del 1960), di G. Ciukrai; Dama s sobatchoi (La signora col cagnolino, del 1960), di J. Heifiz; Mir vhodjasccemu (Pace a chi entra, del 1961), di A. Alov; Cistoe nebo (Cielo pulito, del 1961), di G. Ciukrai...

19 Diciamo «marxisti» prescindendo dai partiti politici nei quali militino, anche perché non è sempre agevole fissare l’ultima loro variazione. Di alcuni di essi, ecco le più recenti notizie che possediamo: L. Del Fra, già del gruppo redazionale socialista di Film Selezione (l’Unità, 24 nov. 1962); G. De Santis, iscritto al P.C.I.; M. Monicelli, iscritto al P.C.I., dimesso per pigrizia, milita tra gli affiancatori, e dichiara di essere rimasto profondamente marxista, più dei funzionari di Via delle Botteghe Oscure; G. Montaldo, iscritto al P.C.I.; P. P. Pasolini, già liberale, con tendenza al partito d’azione (Vie Nuove, 15 lug. 1961), dall’esperienza dell’immediato dopoguerra è stato portato al marxismo (ivi, 8 lug. 1961); E. Petri, entrò nel P.C.I. nel ’44, ne uscì dimissionario nel ’58 «per non diventare un frazionista». Dice: «Vorrei avere la forza di rientrare... Sono molto vicino al partito e continuo ad appoggiare senza riserve le sue iniziative». (Stasera, 7 dic. 1961); F. Rosi: «Se non fossero sufficienti le ragioni ideologiche, mi basterebbe quello che mi passa sotto gli occhi ogni minuto a provocare il mio voto al P.S.I». (Avanti!, 2 nov. 1960); M. Soldati, già iscritto al P.S.I. nel ’44, si staccò con la scissione di Palazzo Barberini, nel ’60 si è riscritto (Avanti!, 9 ott. 1960); L. Visconti, manda un «fervido augurio per decisivo successo prossime elezioni programma democratico unitario nazionale P.C.I.» (l’Unità, 23 ott. 1960). Del resto pare che in seno al P.C.I. operino due tendenze: l’una, capeggiata da M. Alicata, mirerebbe all’accaparramento come che sia di tutti gli elementi disponibili del cinema italiano, senza preoccuparsi della loro coerenza marxista (ed un caso sarebbe quello di L. Visconti), e a dare largo appoggio a tutti quelli che in qualsiasi modo abbiano ottenuto successi di pubblico; l’altra, rigorista, cercherebbe di appoggiare soltanto coloro che dànno prove di fedeltà all’idea: già appoggiata dallo stesso Togliatti, questa si sarebbe manifestata soprattutto con le «sortite» di A. Trombadori.

20 Cfr, per esempio, la Relazione con la quale l’on. Alleata accompagnava la Proposta di legge n. 1525, del 24 luglio 1959, in Atti parlamentari, Camera dei DeputatiIII Legislatura, Disegni di legge e relazioni, p. 2 ss.; nella quale Relazione, tuttavia, leggiamo queste affermazioni d’oro (qualora l’oratore non le avesse intese, ovviamente, marxisticamente): «Quando il Parlamento della Repubblica italiana è chiamato a discutere delle sorti del cinema nazionale, deve investirsi dei suoi problemi come se si trattasse della scuola di Stato [!?], o comunque di una serie di questioni delicatissime, che coinvolgono quanto una nazione può avere di più geloso, proprio nei rispetti della difesa reale della propria indipendenza, che qui vuol dire: rispetto della cultura storica dei suoi cittadini, rispetto delle convinzioni morali e civili più profonde, rispetto in una parola di tutti quei motivi di educazione e informazione di massa, che confluiscono sensibilmente a formare il costume nazionale». (p. 1).

21 N. 1538, del 23 marzo 1955, d’iniziativa dei deputati Alleata, Basso, Melloni, Berti, Corbi, Ingrao, Lombardi R., Mazzali e Vecchietti, in Atti Parlamentari, Camera dei DeputatiII Legislatura, Documenti. – Per le difese della stessa proposta da parte degli onn. Alicata, Basso, Corbi, Natta ed Ingrao, cfr ivi. Commissione speciale per la cinematografia, Sedute del 12, 19 e 26 febbr. 1956, pp. 12, 19-20, 29-30, 41-42, 65 e 90.

22 Proposta di legge n. 836, del 28 febbr. 1958, presentata dai deputati Lajolo, De Grada, Alleata, Seroni, Santarelli e Viviani, art. 4 (cfr il testo in Bianco e Nero, 1961, nn. 4-5, p. 56 ss.).

23 La proposta, già elaborata dalla rosseggiante Associazione Nazionale Autori Cinematografici e dall’Intesa Nazionale per la cultura, è stata presentata al Senato dai socialisti onn. Busoni, G. Nenni, Sansoni e Bruno (cfr il testo ivi, pp. 60 ss.).

24 Abbiamo refutato questi slogan in Verso la nuova legge di revisione cinematografica, in Civ. Catt. 1961, II, 372 ss. – Per l’apporto dato da parte cattolica a questo successo dei marxisti e dei laicisti, cfr E. BARAGLI, Per una battaglia da non perdere, in Rivista del cinematografo, 1962, n. 2, p. 45 ss.

25 Tra i quali occorre ricordare il defunto U. BARBARO, serio studioso, divulgatore delle teorie di Pudovkin, cui, tuttavia, il fanatismo marxista causò più di una cantonata proprio su piano culturale; e l’ex GLAUCO VIAZZI, dileguatosi dalla «cultura» marxista per due ragioni che altamente ne onorano la intelligenza ed il cuore.

26 Cfr Civ. Catt. 1960, III, 509.

27 Cfr ivi, 1961, I, 376 ss.

28 Cfr ivi, per il Viazzi, 1955, III, 545; per l’Aristarco, 1961, III, 306-311; per il Lizzani (1ª ediz.), 1955, II, 528; per il Pandolfi, 1958, II, 284-288.

29 OVIDIO, Metamorfosi, IV, 428.

30 Ecco i più classici. Pio XI, nel 1936: «Non si dà oggi mezzo più potente del cinematografo ad esercitare influsso sulle moltitudini» (Enciclica Vigilanti cura, in E. BARAGLI, Cinema Cattolico, 1959, n. 75); Pio XII, nel 1957 e 1955: «Uno dei mezzi più potenti di comunicazione sociale del nostro tempo» (Enciclica Miranda prorsus, ivi, 527), «che dà al più vasto mondo di spettatori un determinato indirizzo alla loro cultura, alle idee, ai sentimenti e, non di rado, alla loro stessa condotta di vita» (Discorso sul Film ideale, ivi, n. 297); Giovanni XXIII, nel 1958, pone il cinema, insieme con la radio e la televisione, tra «gli strumenti che, nel progresso odierno, esercitano non poco influsso sulla vita spirituale della umanità» (Lettera apostolica Boni Pastoris, n. 1).

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Articolo estratto dal volume I del 1962 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

PARTE PRIMA

Un noto studioso del cinema, quale documento e strumento dell’evoluzione sociale e politica dei popoli, Siegfried Kracauer, in un recente saggio su Lo spettatore del cinema1, cerca di analizzare, lungo la scia di alcuni psicologi e sociologi, gli effetti del film sullo spettatore ed i piaceri che lo stesso può trarne. Ciò facendo, rileva varie ragioni che rendono il cinema arma apprezzatissima da tutti i regimi politici di forza. A conferma di quanto lo scrittore tedesco-americano afferma e cerca di provare, ci è parso utile esporre alcuni rilievi sull’uso che ne ha fatto e ne fa l’ideologia marxista, sia per le componenti specificamente sociologiche che questa esperienza comporta, sia per le interessanti considerazioni e le direttive pratiche di azione strettamente apostolica alle quali la stessa potrà dare l’abbrivo.

Gli alunni ed il maestro

Quando Mussolini definiva il cinema «l’arma più forte», ed un teorico suo entusiasta sosteneva che la cinematografia, fascista e politica, doveva «essere considerata come un potentissimo mezzo di educazione delle masse»2, il fascismo, più che altro, indulgeva al suo congenito vizio della retorica. A conti fatti, oggi risulta che s’interessò al cinema come arma di propaganda tardi e con scarsa convinzione. Infatti, soltanto dopo dodici anni dalla marcia su Roma ne affrontò organicamente il problema, istituendo la Direzione Generale per la Cinematografia (21 sett. 1934)3, e se si eccettuano alcuni film esaltatori delle opere del regime e della sua bolsa romanità – Camicia nera (1933), di G. Forzano; Vecchia Guardia (1934), di A. Blasetti; Scipione l’Africano (1937), di C. Gallone... – nell’insieme, al dire di M. Gromo, il fascismo non andò oltre l’«empirico paternalismo di un larvato cinema di stato»4, a base di censura e di premi.

Al contrario, pronto e massiccio fu l’uso che ne fece come arma ideologica il nazismo. Infatti, Hitler non aveva, si può dire, ancora finito d’insediarsi al potere che già il suo ministro della propaganda, Goebbels, nei suoi primi discorsi del 1933-’34, assegnava al cinema tedesco la missione di conquistare il mondo e di diventare l’avanguardia delle truppe naziste 5; quindi, passando subito ai fatti, con la creazione della Reichsfilmkammer, egli stesso prendeva saldamente in mano la direzione di tutte le attività cinematografiche, – al dire di L. Freddi, che nel 1934 ne additava al Duce il probante buon esempio – «con compiti organici definitivi e totalitari, nonché con mezzi draconiani a sua disposizione»6. Né all’impresa mancarono pieni successi, sia all’interno sia all’estero. Basti ricordare, per tutti, l’esaltazione razzista propagata da Olympia (1938), di L. Riefenstahl, l’odio antisemita diffuso da Jud Süss (1940), di V. Harlan, nonché il terrore paralizzante causato dal documentario sulla campagna polacca, proiettato dall’ambasciatore tedesco ai più alti funzionari statali di Oslo poche ore prima dello sbarco della Wehrmacht in Norvegia... Tuttavia, a leggere le malinconiche e stizzose pagine del Diario di Goebbels7, si direbbe che non siano state poi tutte rose neanche per lui. Vero è però che, come il regime fascista cercò, senza molto effetto, di emulare la politica cinematografica del regime nazista, così questo, con lo stesso dubbio risultato, cercò di ispirarsi a quella della Russia marxista: – «La Germania, supplicava Goebbels, deve avere il suo Potemkin!» – 8, vale a dire del regime che, nell’uso del cinema in funzione di propaganda politica, vantava, e tuttora vanta, l’esperienza più lunga, più sistematica e più redditizia.

Infatti, l’interesse dei rivoluzionari russi al cinema era stato quanto mai tempestivo. Risale al 1921 l’asserzione di Lenin: «Secondo me, per la Russia, di tutte le arti la più importante è il cinema»9, quando, tuttavia, alle parole avevano preceduto i fatti. Invero, nel 1919, l’VIII congresso del partito comunista aveva elencato il cinema – insieme con le biblioteche, le case del popolo, i corsi liberi, le scuole per adulti e le università – tra gli strumenti più efficaci di istruzione e di formazione, specie per le masse operaie e per i contadini; perciò Lenin ne aveva firmato la legge di nazionalizzazione. Nello stesso anno 1919 si era aperta a Mosca la prima scuola statale di cinematografia nel mondo, cui seguiva, nel 1922, la prima cineteca.

Morto Lenin, al XIII congresso del 1924, Stalin, a sua volta, affermava: «Il cinema è un grande strumento di agitazione di masse. Si tratta quindi di prendere la cosa nelle nostre mani»; e dodici anni più tardi tornava ad osservare: «Il cinema è, nelle mani del potere sovietico, una forza immensa e inestimabile. Essendo dotato di mezzi eccezionali di azione ideologica sulle masse, il cinema aiuta la classe operaia e il suo partito a educare i lavoratori nello spirito socialista, a organizzare le masse in vista delle lotte per il socialismo, ad elevare la loro cultura e la loro potenza combattiva politica»10

Premendoci, più che altro, di rilevare l’uso fattone dai marxisti in Italia, non ci soffermeremo a descrivere e documentare la intransigente coerenza con la quale lo stesso Stalin tradusse in pratica la sua teoria, fino a far produrre film sì spudoratamente osannanti a se stesso ed alle sue gesta da provocare – ma soltanto nel 1956! – la nausea al pur saldissimo stomaco del compagno Chruscev11 (il quale, poi, a sua volta, s’è guardato bene dal rinunciare all’uso non meno massiccio di tanta arma ideologica!); bensì ci proveremo di spiegare perché mai lo stesso uso sistematico non sia praticato dai marxisti tra di noi, ed in genere, fuori della cortina di ferro.

Marxismo e cinema

Chi esamini comparativamente alcune caratteristiche del marxismo con quelle del cinema non può non rilevare quanto questo, opportunamente adoperato, si presti a rendere efficacissimi servizi a quello. Nel marxismo, infatti, confluiscono fasci di pseudo verità, indimostrabili, anzi facilmente confutabili, ma speciose, e di facile presa su chi abbia scarsa dimestichezza con la logica, se ridotte in slogan ed affermate perentoriamente: 1) partendo da fatti, dati come certi ed indiscutibili, riguardino essi realtà passate o presenti, oppure anche profetizzate; 2) facendo leva su interessi personali elementari, sintetizzati nel benessere economico; 3) sollecitando assensi gregari, col ridurre gli individui a masse, sia nel pensare sia nell’agire, ed influendo su di essi più con suggestioni alogiche e collettive che con persuasioni critiche e personali; 4) finalmente isolando individui e masse, fisicamente ed intellettualmente, da ogni altra realtà, il cui confronto possa suscitare dubbi circa la reale consistenza dei «fatti», di cui al n. 1), oppure toccare interessi differenti da quelli elementari ed economici, di cui al n. 2), oppure innescare ragionamenti autonomi di critica circa la validità logica degli stessi slogan 12.

Parallelamente, nel cinema abbiamo: 1) un fondamentale procedimento fotografico, che, secondo l’opinione più acritica e corrente, riprenderebbe «la realtà» oggettivamente, con la fedeltà meccanica appunto di un «obiettivo»; sicché, quando lo schermo la riproduca, questa «realtà», – sempre gradevole e senza macchia nei paesi comunisti, oggi, oppure senz’altro domani; sempre lacrimevole negli stessi paesi, ma ieri, quando il sole dell’avvenire ancora non vi brillava; e, naturalmente, sempre assurda e disumana, oggi, ieri e domani nei paesi capitalisti –- lo spettatore si riterrà autorizzato ad affermare, se è vero che contra factum non valet argumentum, che le cose andavano e vanno «proprio così», avendole egli «viste» con i propri occhi13; 2) il cinema spettacolo, non solo, di norma, passa per divertimento, in quanto provvede in proprio allo spettatore un quantum di benessere, ma, specie se sostenuto da alcuni suoi mezzi espressivi specifici, suscita tra le situazioni psicologiche degli spettatori e quelle dei personaggi filmici vivacissimi processi di identificazione e di proiezioni emotive; perciò eventuali denunce di ingiustizie e di intollerabili indigenze, come pure eventuali torti finalmente vendicati, e stati di benessere raggiunti, non vi restano quasi mai concetti astratti, o casi ipotetici, bensì esperienze in atto, con tutti i loro residuati psicologici e sociologici. 3) Linguaggio di immagini, il cinema è, di per sé, comunicazione alogica, come la pittura e la musica; fa appello più al sentimento ed all’emotività che alle facoltà critiche dello spettatore; inoltre, legato com’è al fluire della luce ed al ritmo meccanico del proiettore, è comunicazione unidirezionale, cioè monologo e non dialogo, e continua, cioè non permette allo spettatore d’interromperla o rallentarla; infine esso trova, o rende, gli spettatori «massa», calandoli in situazioni ed in comportamenti gregari, esaltando i fenomeni di suggestione collettiva inerenti alle immagini filmiche ed alle condizioni nelle quali lo spettacolo per lo più si svolge. 4) La frequente partecipazione degli spettatori alla pseudo realtà filmica tende a conciliarli con una visione e valutazione affettiva della stessa quasi fosse l’unica realtà vera, tanto più quanto meno abbondante, meno impegnato e meno gradito sia il correttivo della vera realtà della vita quotidiana vissuta. 

Dal confronto di siffatte note caratteristiche è lecito, ci pare, trarre due conclusioni. La prima è questa: l’uso totale del cinema come arma di propaganda ideologica è possibile soltanto là dove un regime di forza riesce ad attuare in pieno la quarta condizione, vale a dire l’isolamento totale psicologico del pubblico; dunque in tutti e soltanto i paesi d’oltre cortina, oppressi dal regime marxista: l’unico che è riuscito ad isolare popoli interi da tutto il resto del mondo, sia impedendo ai reclusi di superare i fili spinati ed i muri di cemento che li imprigionano, sia censurando quel poco che da fuori riesce a penetrare attraverso gli stessi: si tratti di persone (obbligate ad itinerari fissi e controllate da «interpreti» fidati), di oggetti d’uso, corrispondenza privata, film, stampe, e perfino di radio e TV, giorno e notte interferite da decine di stazioni di disturbo.

La seconda è questa: là dove siffatto sequestro totale delle popolazioni non sia possibile, vale a dire in tutti i paesi fuori della cortina di ferro, i marxisti si trovano costretti a rinunciare al loro ideale di propaganda totalitaria, e a ripiegare su accorgimenti tattici, in relazione non soltanto alle legislazioni ed alle opinioni pubbliche dei diversi paesi, bensì, e soprattutto, ai due fattori economici onnipresenti nelle produzioni cinematografiche degli stessi, dove l’aspetto appunto economico del cinema prevale, condizionandolo, su quello ideologico; vogliamo dire, primo: gli altissimi costi dei film e, secondo: gli altissimi rischi normalmente córsi dal danaro speso in essi, dipendendo il suo rientro quasi soltanto dalle più imprevedibili reazioni del pubblico. Ciò spiega perché gli stessi partiti, che da noi gestiscono, fors’anche economicamente in perdita, costosi giornali e case editrici propagandistiche, si guardano bene dall’imbarcarsi in imprese di produzione cinematografica di qualche rilievo. Basti riflettere che le centinaia di milioni, sufficienti per assicurare alle prime una presenza ideologica molto efficiente anche in regime di non monopolio, possono essere inghiottiti, e forse tutti in perdita, anche da un solo modestissimo film, tra i ben cinquecento circa occorrenti annualmente in un mercato come quello italiano.

La tattica in Italia. Prima via: la produzione dell’U.R.S.S.

Esaminando la tattica adottata dai marxisti in Italia, ci pare di poter distinguervi quattro linee operative. La prima consiste in un cauto uso, in casa nostra, della produzione d’oltre cortina. Diciamo cauto, perché gli stessi propagandisti marxisti, per quanto zelanti, non possono ignorare che i pubblici dei paesi liberi diffidano dei film di propaganda in genere, e di quelli dell’U.R.S.S. in specie. Non è un mistero per nessuno che, anche in Italia – se a ragione o a torto qui non discutiamo - i più si recano al cinema per divertirsi14, e non per indottrinarsi su piani quinquennali, plusvalore, disgeli ed autocritiche, o a celebrare opere del regime russo e relativi incorruttibili monolitici eroi, del resto troppo simili a quelle e a quelli nazisti e fascisti, tragicamente e ridicolmente sprofondati. A lungo andare, molti, neanche gratuitamente andrebbero a vedere film fatti per... l’altra parte della luna: tanto ignoranti dei nostri più ovvi problemi umani quanto gonfi di retorica – valga per tutti il recentissimo, tecnicamente eccellente, Povesti plemennykh let, affibbiato al defunto Dovgenco – ed irridenti alle più elementari esigenze, non diciamo della critica cólta, ma del senso comune15. Chi non ricorda, per esempio, le grossolane variazioni politiche della interminabile serie dei film di battaglie, per dieci anni vinte tutte da Stalin, poi, dopo il rapporto Chruscev, vinte anche dai generali, e soltanto recentemente vinte anche da soldati scalcagnati e da ufficialetti di prima nomina, i quali, se poi ne hanno persa qualcuna, si scopre che la colpa è stata tutta di Stalin?

Lasciati, dunque, i film di propaganda diretta ad uso interno dei reclusi d’oltre cortina, per noi i marxisti hanno importato di norma quelli atti ad una forma di propaganda indiretta, ma efficacissima, che diremo di prestigio, tendente a far avallare, mediante trapassi induttivi semplicistici, la validità dell’ideologia attraverso i meriti di imprese eccezionali, le quali si presume siano state rese possibili soltanto da quella, e di valori di esemplari umani eccezionali, quasi espressi dalla stessa ed incarnanti i suoi ideali, secondo il sistema di propaganda che sfrutta gli Sputnik, con i relativi Gagarin ed i Titov, come il fascismo intelligentemente sfruttava le sue crociere atlantiche con i relativi Balbo e De Pinedo.

Sotto questo aspetto, una prima serie di film ha reso, e continua a rendere, servigi preziosi alla causa marxista, specie tra spettatori di una certa cultura. Sono i capolavori di Eisenstein, di Pudovkin, di Dovgenko..., che, per quanto, come espressioni artistiche, si svincolino da ogni tesi ideologica, di fatto riverberano sul marxismo l’eccellenza dei loro valori formali, alla maniera – ci si perdoni il paragone, molto meno irriverente di quanto a prima vista possa sembrare – delle nostre cattedrali medievali, che ancor oggi sono potente apologia del cattolicismo che le costruì.

Altri film introdotti tra noi si raccomandano, invece, per la loro perfezione tecnica. Chi, nei festival internazionali, ha avuto modo di vederli, posti a confronto, poniamo con quelli di Hollywood, i quali, almeno su questo terreno, si ritiene che detengano primati assoluti, non ha potuto non ammirarne la sbalorditiva resa del colore, la grandiosità delle scenografie e l’eccellente uso del materiale umano, sia di individui sia di masse. Ma, anche fuori dei festival, siffatta perfezione tecnica continua a «rendere» ideologicamente, soprattutto quando accompagna ed impreziosisce costantemente una rappresentazione della vita e delle realtà sovietiche non meno «ideale». Che cosa vediamo, infatti, nei film dell’U.R.S.S. programmati in Italia? Diffuso benessere nella vita privata e pubblica; interni di case decorosi, accoglienti, caldi, insomma «borghesi»; lavoro, in casa e nelle officine, sempre umano e, in ogni caso, gioioso; mai miseria, mai stracci, mai sporcizia; non il più lontano accenno a crisi di alloggi e a disoccupazione (pane quotidiano, invece, del cosiddetto neorealismo, comandato dai marxisti in Italia). Frequentissimi i canti, per lo più corali e polifonici, quasi liturgici, ed i balli.

In questi film l’ideologia marxista quasi non si avverte; o, meglio, si avverte gradevolmente come un senso diffuso di buona salute, nelle ragazze sempre floride, nei giovanotti sempre simpatici e cordiali, negli uomini, modestissimi e sempre alla mano (per quanto inventori di tutto e onusti di medaglie), nei lavoratori: mai stanchi, mai sciatti, mai annoiati, ai quali l’abbondante sudore dona soltanto una nota di pittoresco vigore; nei vecchi e nelle vecchie: umanissimi e mai troppo sciupati; in tutto un mondo rorido dei sentimenti più semplici del più semplice popolo russo, molto De Amicis e molto Berchet, le mille miglia lontano dalla patologia degli eroi di Dostoewskij e di Gorkij 16.

Se, in qualche film, fa capolino l’azione del partito, la sua presenza, di solito, è quanto mai discreta e benefica. Il partito, infatti, sposa i fidanzatini e riassesta i matrimoni rovinati dalla guerra cattiva, disinnesca le bombe e regala i trattori immensi, feconda la terra ed asciuga la lacrime delle giovani vedove, fa nascere fiori fiori fiori tra i cavalli di frisia e fa irrorare, da diuretici e pacifici neonati internazionali, le armi, ormai rese inutili dalla vittoria. Inoltre, denuncia qualche piccola cosa che non va. Ma proprio piccole cose; per esempio, le malefatte di Stalin (morto), e quelle di imboscati ed accaparratori durante la guerra (anonimi e generici), oggi miracolosamente affiorati sugli schermi con l’imprimatur del dittatore vivo. Per il resto, la vita morale in Russia, quale appare dai film importati, è – altro merito dell’ideologia – come non si potrebbe desiderare migliore. Ignorate le bande di chuligani, di cui pure parlano le lzvestija; niente sabotatori colcosiani, e niente spie nelle alte sfere del partito, pur periodicamente denunciati dallo stesso Chruscev; niente contrabbandieri di moneta, contro i quali recentemente sono state comminate numerose pene di morte; niente fannulloni e niente ubriaconi. Naturalmente, niente fuggitivi verso la libertà, democraticamente mitragliati dalle guardie di confine; sconosciuti gli omicidi e i suicidi, ignoti i furti, ignoti i bagordi di «dolci vite». In particolare, estrema pulizia per quanto riguarda il comportamento sessuale: non esibizioni divistiche, non nudità procaci, e neanche non procaci; mai abbracci, mai sbaciucchiamenti; neanche nominati gli adultèri ed i vizi contro natura (pur contemplati dal codice penale sovietico): sempre e soltanto storie di amore rosee e pudiche, adatte per le educande dei collegi cattolici, a vergogna della marcia immoralità dei paesi capitalisti e delle loro corrotte cinematografie...17.

Leggendo gli elogi incondizionati che per anni ed anni i critici marxisti hanno coralmente tributato a siffatta produzione, apparentemente mai turbati né dall’assurda estetica dell’utile ideologico, alla quale sola possono appoggiarsi, né dalla più assurda morale, secondo la quale le stesse azioni e gli stessi comportamenti umani sarebbero buoni ed ammirevoli se fotografati «al di là», predicatòri ed ipocriti se fotografati qua da noi, bisogna riconoscere che, davvero, o la disciplina, o l’infatuazione dell’ideologia marxista può raggiungere effetti mentali sorprendentemente pietosi. Basti ricordare, per tutti, il caso estremo del rapporto Chruscev «sul culto della personalità e le sue conseguenze», scoppiato nel 1956 a rovesciare l’idolo fin allora incensato: dalla sera alla mattina la critica marxista si affrettò ad allinearsi, stroncando film già portati alle stelle come capolavori; e recentemente, quando, sempre dallo stesso indiscusso giudice, sulla rimossa salma di Stalin, e sui suoi collaboratori ancora vivi, è stato rovesciato un altro cumulo di accuse atroci, la stessa critica si è adeguata ancora una volta, docilmente. Come dopo i fatti di Ungheria, come dopo il tragico rosario di superbombe dell’autunno passato, come dopo il muro di Berlino, i marxisti incassano imperterriti, fidando sulla scarsa memoria sia dei lettori delle loro critiche encomiastiche, sia degli spettatori dei film, per confessione dello stesso Chruscev, vergognosamente addomesticati nel descrivere la realtà sovietica18.

 

 

PARTE SECONDA

Brevemente esposta la prima via operativa seguìta dai marxisti in Italia nell’uso del cinema come strumento di propaganda ideologica – vale a dire: il cauto uso, in casa nostra, della produzione d’oltre cortina –, passiamo ad esporre, sempre per sommi capi, le altre tre vie.

Seconda via: infeudamento del nostro mondo cinematografico

Dopo la débâcle del fascismo, mentre altri partiti o ignorarono il cinema o fecero gli schizzinosi con tutti i cineasti, i quali, nel ventennio, convinti o per quieto vivere, si erano accodati al carro fascista, i marxisti si misero subito all’opera per averli propagandisti della loro ideologia, o simpatizzanti per essa, o, almeno, che passassero per tali. Per fagocitarli, tutto fu buono: appoggio e battage di critica sui giornali, convegni e mozioni con i quali comprometterli avanti alla pubblica opinione, difesa dei loro film contro l’«oscurantismo» della Chiesa e contro il «fascismo» del governo, invio dei più fidati o dei più malleabili di essi, in Russia, in Cina ed altrove oltre cortina...

Dopo quindici anni di lavoro perseverante, oggi le cose, grosso modo, stanno a questo punto. Molti registi sono notoriamente marxisti, o tali generalmente vengono considerati, e sono: G. De Santis, C. Lizzani, M. Pagliero (però ormai stabilitosi in Francia), L.. Visconti (e le nuove, e non più nuove reclute: L. Del Fra, V. De Seta, M. Gandin, C. Mangini, Fr. Maselli, G. Montaldo, P.P. Pasolini, E. Petri, G. Pontecorvo, R. Renzi, N. Risi, Fr. Rosi...); altri, come M. Camerini, V. De Sica, P. Germi, G. Puccini, D. Risi..., passano come più che simpatizzanti, ed in quanto tali sono lodati e sostenuti; infine, il restante dei registi – tra i quali M. Antonioni, G. Bianchi, A. Blasetti, M. Bolognini, R. Castellani, L. Comencini, D. Damiani, L. Emmer, A. Lattuada, N. Loy, M. Monicelli, A. Pietrangeli, Fr. Rossi, L. Salce, M. Soldati, L. Zampa... – sono dati almeno come simpatizzanti, e vigorosamente appoggiati tutte le volte che la loro posizione serva a mobilitare l’intellighentia sinistra, o non appena con qualche loro film danno fastidio al governo ed «ai preti» 19. Soltanto alcuni pochi risultano ancora non infeudati in qualche modo al marxismo: tra i quali R. Rossellini (ma applaudito dai compagni per qualche sua goffa protesta contro il governo), F. Fellini (cui gli stessi compagni non possono perdonare la fantasia fertile, ma socialmente «anarchica»), i cattolici militanti G. Paolucci, A. Petrucci..., nonché il gruppo dei mestieranti, refrattari a qualsiasi interesse che non sia di cassetta, fecondi e fortunati autori di comrnediole, di farse grassocce e di dramrnoni d’appendice, il basso livello culturale e morale dei quali, però, come subito vedremo, non resta affatto inutilizzato come arma di propaganda marxista.

Avanzatissima è anche l’azione d’infeudamento sui collaboratori più diretti dei registi – soggettisti, sceneggiatori, attori... –, come pure sulle maestranze, generalmente condotta dai marxisti col far passare come propri i problemi di libertà di espressione dei primi (come vedremo subito, trattando della censura), o quelli economici dei secondi, prendendo occasione dalla congenita precarietà dell’industria cinematografica, e dalle sue punte critiche, causate o da fattori concorrenziali (produzione U.S.A., televisione, motorizzazione popolare), o dall’inflazione quantitativa della stessa produzione italiana (crisi del 1956, programma pletorico in atto nel 1962: siamo di nuovo a circa duecento film l’anno, come intorno al 1955).

A questo proposito è da notare la mancanza di scrupoli con la quale questo infeudamento viene perseguito. È piuttosto raro trovare, nelle difese, negli attacchi e nella stampa marxista, proteste ed accuse contro gli avventurieri che imperversano nella produzione, o contro i premi governativi, che sono alla radice di molti e grossi inconvenienti, o contro i grossi proventi di alcuni registi, e gli spropositati guadagni di attori e di attrici – pur coraggiosissimi interpreti in film di denuncia, applauditi invocatori di giustizia, firmatari nei comizi e nelle mozioni, sempre di denuncia – ai quali, a parte la colpa che forse bisognerebbe addebitare anche a loro delle stesse crisi economiche, non si comprende come possano andare le simpatie, o il compiacente silenzio, di chi si dà per inflessibile censore di ogni sperequazione ed ingiustizia sociale. Fatto sta che oggi, nel mondo del cinema italiano, si verifica questa situazione paradossale, che registi, autori, attori e maestranze, i quali, come vogliamo credere, sanno benissimo quale sorte vivano i loro eguali là dove il marxismo impera, e che non dovrebbero avere il minimo dubbio su quello che li attenderebbe in una Italia caduta preda dello stesso, affidano la difesa della loro libertà e dei loro interessi proprio ai marxisti!

Terza via: utilizzazione della nostra produzione corrente

Però le ragioni economiche che, come abbiamo detto, condizionano da noi il mercato cinematografico, non permetterebbero mai ai marxisti di poter contare su di una produzione totalmente ligia ai foro intenti, neanche se – ipotesi le mille miglia lontana dal vero – tutti i cineasti ed i cinematografari italiani fossero sinceramente votati alla loro causa. Di qui, per loro, la necessità di sfruttare in tutte le maniere possibili la produzione corrente, quale essa si sia. Ed il metodo da essi adottato in questa impresa, tutto impostato su obiettivi e slogan semplificati al minimo, ci pare che si possa enunciare così.

Individuati tre bersagli – Governo, Chiesa ed «America» –, mediante una concertata campagna di stampa, di enti ed associazioni fantasmi, di convegni e di mozioni, di interrogazioni e di proposte parlamentari, denunciarli sistematicamente, uno alla volta ed in solido, come colpevoli di tre reati, cioè: 1) di tutti i film «fascisti», 2) di tutti i film stupidi e, 3) di tutti i film immorali; quindi rivendicare a proprio esclusivo merito: primo, tutti i film antifascisti (ed ecco la tentata, e quasi del tutto riuscita, monopolizzazione di una mistica della «resistenza» nonché l’ondata dei film sull’odiato ventennio che è oggi in programma); secondo: tutti i film artistici (all’uopo patrocinando e teorizzando, se necessario, una loro rozza estetica dei contenuti); terzo: tutti i film morali (sostenendo i film di denuncia). Con questa strategia hanno in gran parte fatto capitolare, o quasi, l’avversario, non solo in innumerevoli azioni isolate, da loro accese e combattute – ricordiamo gli «scandali» Diable au corps, La Ronde, Totò e Carolina, Senso, Les Tricheurs, I dolci inganni ed Il bell’Antonio, la cannibalesca caccia all’uomo ingaggiata contro «il cattolico Lonero», le battaglie campali intitolate Dolce vita e Rocco e i suoi fratelli, la levata di scudi contro le lettere Andreotti e Tupini, ed il caso ancora aperto di Tu ne tueras point –; ma soprattutto nelle due campagne del neorealismo e della censura, che per la decisione e la perseveranza con le quali sono state condotte dai marxisti (e dai laicisti), le assenze, le divisioni e le capitolazioni con le quali sono state accompagnate dagli altri, meritano due parole di commento.

* * *

Anche a causa del molto che faziosamente ne hanno scritto e teorizzato proprio i marxisti, non è facile dire che cosa sia stato il cosiddetto neorealismo, quali film e quali registi ne abbiano fatto parte, quali ne siano le note caratteristiche di contenuto e formali. In questa sede ci basti ricordare, a quanti non ne avessero seguito le vicende polemiche, che nell’immediato dopoguerra alcuni registi italiani fecero alcuni film nei quali spirava un’aura del tutto nuova, sia rispetto alla produzione nostrana del ventennio, sia rispetto a quella estera, dovuti in parte alla genialità degli stessi registi, in parte alla situazione di rinnovata libertà politica, in parte alla ristrettezza dei mezzi economici e tecnici dell’industria cinematografica, sconvolta dalla guerra, in parte all’orrore ed alla pietà ispirati dalla stessa immane catastrofe e dalle rovine materiali e morali, che ancora ne testimoniavano il recente passaggio e la tragica conclusione.

In un primo momento detti film e registi lasciarono indifferenti la critica e il pubblico in Italia, e soltanto quando all’estero critica e pubblico se ne entusiasmarono, trovarono presso gli spettatori nostrani un più o meno largo consenso, nonostante la entusiastica conversione, parte sincera parte faziosa, della critica. Allora si inserirono a polarizzare politicamente la polemica i marxisti (ed i laicisti), prima di tutto avallando e divulgando una interpretazione classista e marxista dei singoli film: – valga per tutti Roma, città aperta, di Rossellini, fatto passare per episodio ed esaltazione della «resistenza» marxista –; in secondo luogo, erigendo a canone artistico e sociale caratteristico del «genere» gli stracci, la sporcizia e la miseria materiale e morale, praticamente sostenendo che ogni film di denuncia era neorealista ed ogni film neorealista doveva essere di denuncia: esempi classici Umberto D e Ladri di biciclette, della coppia Zavattini-De Sica...

Ma, passato lo stato di grazia, la fantasia creatrice di alcuni autori si affievolì; l’attività di altri declinò verso il bozzetto e lo spettacolo di tutto riposo, e finalmente anche verso le pochades più o meno pornografiche, sollecitate specialmente dai dirigenti economici della produzione e dell’esercizio, mentre l’insistere di alcuni pochi registi sugli stracci e sulla miseria, a lungo andare, oltre che urtare il pubblico, restio a tornare sui dolorosi ricordi di un troppo recente passato, assumeva una gratuità retorica ed anacronistica rispetto al rapido sistemarsi di almeno alcuni aspetti della vita nazionale. Conclusione: la crisi del «neorealismo» e del cinema italiano, culminata nel 1956, l’accusa in forze dei marxisti (e dei laicisti) contro i tre bersagli di cui sopra – Governo, Chiesa ed «America» –: rei di lesa patria (prima per i favoritismi verso il cinema di Hollywood, poi per le persecuzioni contro i film antifascisti e della resistenza), di lesa arte (i casi di Ladri di biciclette e dei film di Antoniani e di Visconti, per l’occasione promossi registi neorealisti), e di lesa morale (il Governo ed il Centro Cattolico Cinematografico unici responsabili dell’inflazione delle maggiorate fisiche e della pornografia, opposta ai troppo pericolosi e molesti film «sociali»). Ed oggi, su questo balordo luogo comune non c’è ormai trattato o manuale, giornale o rivista, mozione o interpellanza, marxista o laicista, che non mostri di credere fermissimamente20, mentre da parte degli altri, ignorando come siano andate veramente le cose, molti hanno finito di sentirlo come una colpa.

* * *

Sulle vicende della censura cinematografica in Italia, – dopo il molto che ne abbiamo scritto anche in questa sede – ci basti rilevare i rapidi progressi tentati e segnati dai marxisti, validissimamente soccorsi ancora una volta dai laicisti, in questi ultimi anni. Nel 1956, comunisti e socialisti presentavano e difendevano come costituzionale una proposta di legge nella quale il nulla osta di proiezione veniva negato «ai film che vilipendano la religione, o abbiano contenuto osceno, o offesa della pubblica decenza»21; tre anni dopo, nel 1959, già escludono l’ipotesi del vilipendio della religione, tuttavia ancora propongono di negare il nulla osta «ai film o ai lavori teatrali che offendano il buon costume», e precisano: «Si intendono offensive del buon costume le scene o sequenze contrarie al comune sentimento del pudore e che contengano particolari impressionanti o raccapriccianti non essenziali ai fini dell’esperienza artistica»22; ma non trascorrono altri due anni che, nel 1961, non solo pretendono di ridurre il buon costume tutelato dalla Costituzione alla più stretta accezione penale, ma propongono l’abolizione pura e semplice di ogni censura!23, e si assicurano ancora una volta il più largo appoggio dell’opinione pubblica, ripetendo instancabili, sulla stampa, nei comizi, nelle mozioni ed in parlamento – contro ogni verità di dottrina e contraddicendo ogni loro precedente asserzione –: primo: che ogni censura è contraria alla Costituzione; secondo: che la legge odierna è una legge fascista; terzo: che il modo di applicarla è necessariamente politico e clericale24.

Quarta via: il monopolio di una (pseudo) cultura specifica

Indichiamo questa via per quarta, ma la riteniamo la più efficace di tutte, non foss’altro perché, praticamente, condiziona l’efficacia delle altre tre, servendo ottimamente sia per lanciare ed «interpretare» la produzione d’oltre cortina, sia per difendere gli interessi dei cineasti nostrani e per tenere agganciati quelli tra essi che sappiano parlare e tener la penna in mano, sia per imporre all’opinione pubblica una visione ben polarizzata dei film italiani, e degli avvenimenti più o meno «scandalosi», che ne accompagnino la produzione e l’avvenuta, o non avvenuta, programmazione. Inoltre, siffatto presunto monopolio conferisce ai marxisti quell’impagabile prestigio che, prima o dopo, finisce col riscuotere chi passi per specialista in una disciplina, soprattutto quando la mancata, o esigua, concorrenza di altri non ne ostacoli la totalità di presenza e la libertà di iniziativa. Condizione, questa, purtroppo, in gran parte verificatasi, stante la scarsa e disorganica presenza dei cattolici a contrastare l’attività tempestiva, larga, duttile e, nel suo genere, non priva di una sagace lungimiranza, condotta dai marxisti.

G. Aristarco, P. Baldelli, U. Casiraghi, G. C. Castello, T. Chiaretti, L. Chiarini, C. Cosulich, M. Gallo, P. Gobetti, T. Kezich, M. Liverani, L. Miccichè, L. Quaglietti, E. Rossetti, C. Terzi, C. Zavattini... sono alcuni tra i loro «specialisti», cui volenterosamente si accompagnano altri «prestati» al cinema – come A. Moravia e P.P. Pasolini –, ed altri non meno volenterosi specialisti laicisti, come F. Di Giammatteo, M. Morandini, G. Moscon, V. Pandolfi., G. Visentini... A dir la verità, soltanto pochi tra essi resistono ad una critica culturale approfondita25, la maggior parte supplendovi con le lustre di una gratuita filologia, con letture di accatto, con «autorità» che nulla hanno che fare con la cultura mentre molta ne hanno con la politica, con i cascami di filosofie tramontate e soprattutto con l’acredine di una polemica contingente. Tuttavia, nell’insieme, la loro presenza massiccia, specie nella stampa periodica, esercita un influsso tutt’altro che disprezzabile.

Per persuadersene basta osservare la cura e l’ampiezza con cui sono condotte la informazione cinematografica e la critica, sia ordinaria sia straordinaria, in occasione di festival e di speciali avvenimenti legislativi o censòri, sui quotidiani Avanti! e l’Unità, Paese e Paese Sera, La Giustizia, L’Ora ed altri, nei periodici politici, o di cultura, o scandalistici, come Rinascita, Vie Nuove, Il Contemporaneo, Il Punto, Il Mondo, L’Espresso, Belfagor, Il Ponte..., o nelle riviste specializzate più o meno vive come Cinema nuovo (col suo rampollo Il nuovo spettatore cinematografico), Cinema 60, CentrofilmFilmcritica e Filmselezione..., e le decedute: Eco del cinema, Cinema, Film, Rivista del cinema italiano, Schermi... Basti osservare quanto frequenti siano quei nomi anche in opere collettive, che dovrebbero raccomandarsi per una loro imparzialità scientifica – come il Filmlexicon degli autori e delle opere, in corso di pubblicazione26 – o in collane da essi dirette, o quasi totalmente da esse curate, quali le ormai cessate: Biblioteca cinematografica (Poligono, curata dall’ex Viazzi), Collana di studi cinematografici (Bocca, diretta da L. Chiarini), Testi e sceneggiature (Ateneo, diretta da E. Bruno), e le tuttora fiorenti, o ringiovanite, o iniziate: Biblioteca dello spettacolo (Laterza, fondata da L. Chiarini), Ciak, collana cinematografica (Zibetti, diretta da G. Trentin), Il cinematografo (Edizioni FM, diretta da E. Rossetti), Piccola biblioteca del cinema (Guanda, a cura di G. Aristarco), Dal soggetto al film (Cappelli, diretta da R. Renzi)...27.

Non è possibile, poi, citare tutti i volumi e volumetti di autori marxisti – trattati, manuali, saggi ed opere divulgative –, ai quali, spesso, in mancanza di meglio, è giocoforza che ricorra anche lo studioso ed il lettore cattolico, come, per citare i nomi che per primi ci vengono alla mente, quelli del Barbaro su Pudovkin, dello stesso e del Di Giammatteo per il Balàsz, quello dell’ex Viazzi su Chaplin, quello dell’Aristarco sulle cosiddette teoriche del cinema; quelli del Lizzani e del Sadoul (tradotto) per la storia del cinema italiano e mondiale, quelli del Pandolfi, del Ragghianti...28.

Se a queste molteplici iniziative editoriali si aggiungano altre attività marxiste di maggiore o minore lustro culturale – quali l’organizzazione e l’animazione dei Circoli del cinema, l’infiltrazione nei C.U.C. (centri universitari cinematografici, alcuni dei quali provvisti di proprie pubblicazioni culturali), la presenza, con referendum e premi, nei vari festival e festivalini, alcuni dei quali organizzati in proprio, la preponderanza nel Sindacato della stampa cinematografica, la loro docenza in vari corsi parauniversitari (Torino, Milano, Trieste...) ed in cattedre universitarie (L. Chiarini, a Pisa), occorre conchiudere che, sì, da parte dei marxisti (sempre aiutati dai laicisti) il cinema, anche in Italia, è stimato «l’arma più forte» e «di tutte le arti la più importante», e che perciò molto e fruttuosamente è stato da loro tentato e fatto nell’attuare il programma già di Stalin, già di Goebbels e già di Mussolini, di «prendere la cosa nelle loro mani».

* * *

Noi, stimandolo fuori del nostro argomento, per ora non risponderemo a chi ci ponesse il quesito: che cosa si è fatto e che cosa si possa e si debba fare da parte cattolica per reagire all’attività marxista e laicista nel e col cinema. Per il momento ci basti osservare, col vecchio Ovidio, che fas est et ab hoste doceri 29, vale a dire che noi cattolici, in possesso di non meno chiari ed urgenti testi pontifici circa l’importanza culturale ed apostolica del cinema30, faremmo bene ad emulare i nostri avversari; se è vero, come è vero, che il Filii huius saeculi prudentiores filiis lucis in generatione sua sunt, vale a dire «I figli di questo tempo hanno, nel loro genere, gli occhi più aperti che i figli della luce» (Lc 16,8), è, sì, una costatazione di fatto, e, forse, anche una mesta previsione di Gesù, non certo un programma che noi cattolici siamo chiamati a mettere in pratica.

1 In Film 1961, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 183 ss.

2 Troviamo l’affermazione di Mussolini ripetuta da una pubblicazione all’altra, ma non ne sapremmo precisare il luogo ed il tempo. La seconda è di L. CHIARINI, Il cinematografo, Roma 1935, p. 117.

3 L. CHIARINI, op. cit. pp. 9 e 11. – Allo stesso torno di tempo risalgono due istituzioni del fascismo sopravvissute alla sua caduta: la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, del 1932, ed il Centro Sperimentale di Cinematografia, del 1934.

4 M. GROMO, Cinema italiano, in Cinema d’oggi, Firenze 1958, p. 20 – In argomento, fondamentali sono i due volumi di L. FREDDI, Il cinema, Roma 1949.

5 LOTTE H. EISNER, Lo schermo demoniaco, Roma 1955, p. 150. – Lo stesso Goebbels, al Congresso Internazionale del Cinema, svoltosi a Berlino dal 26 al 30 aprile 1935, dichiarava il cinema «uno dei mezzi più efficaci per costruire un mondo migliore» e concludeva: «Dobbiamo impadronirci del cinema per assicurarci i suoi vantaggi» (Documentation catholique, 33 (1935), coll. 1370 e 1371).

6 L. FREDDI, op. cit., pp. 46 e 81.

7 Per un estratto di questo Diario, cfr Bianco e Nero, 1950, n. 10, p. 94 ss.

8 Ivi, 1953, n. 11, p. 21.

9 Si trova ripetuta da molti scrittori, qua e là, senza la fonte. S. KRACAUER la cita da D. MAcDONALD, The Soviet Cinema, 1930-1938, in Partisan Review, luglio 1938, V, n. 2, p. 40 (op. cit., p. 188). Anche il volume lskussivo Millionov: Sovetskoe Kino (Mosca 1958), la riporta (p. 5) senza citarne la fonte.

10 Testi religiosamente raccolti e documentati in Cinema Nuovo (1952, n. 7, p. 166). Di un altro capo marxista, Litvinov, C. FORD riporta l’affermazione: «Le cinéma est le moyen décisif de réaliser les temps révolutionnaires» (Le cinéma au service de la foi, 1953, p. 5); ed il recentissimo Programma del partito comunista dell’Unione Sovietica, presentato al XXII Congresso del P.C.U.S. «che traccia le vie di sviluppo per il passaggio alla società comunista dei prossimi vent’anni» (Roma, Editori riuniti, 1961, pp. 121-122), reca: «Il Partito presta particolare attenzione ai giovani. La formazione di una nuova personalità umana si svolge nel fuoco dell’attiva partecipazione alla edificazione del comunismo, dello sviluppo degli elementi comunisti nella vita economica e sociale, sotto l’influenza della complessa attività educativa del Partito, dello Stato e delle organizzazioni sociali, entro la quale una grande funzione spetta alla stampa, alla radio, al cinema e alla televisione».

11 Tale giudizio è dato da Chruscev sul conto della Caduta di Berlino (1954), di Ciaureli, nel suo noto Rapporto sul culto della personalità e le sue conseguenze, dove, a proposito dei documentari russi, egli sarcasticamente prosegue: «Molti film descrivevano la vita del colcos in maniera tale che vi si vedeva il desco dei contadini piegarsi sotto il peso dei tacchini e delle oche. E evidentemente Stalin pensava che le cose stessero realmente cosi» (I documenti segreti del XX° Congresso del P.C.U.S., Roma, s.d. pp. 48 e 66).

12 Nota giustamente il KRACAUER (op. cit. p. 190): «Di qui un’altra ragione dell’efficacia della propaganda cinematografica, ma una ragione che vale soltanto per i documentari: si crede che essi aderiscano perfettamente al vero, e il vero è per definizione lo strumento di propaganda più efficace. Ogni volta che un documentario riesce ad influire sulla mente dello spettatore, lo deve in parte alla convinzione di quest’ultimo di trovarsi di fronte a dati di fatto incontrovertibili. Si pensa cioè che un’immagine presa dal vero non possa mentire: mentre può benissimo accadere il contrario. Pur supponendo che un film presentato come documentario non includa episodi aggiunti per dare maggiore forza alle tesi proposte, ma si limiti, come dovrebbe, a riprodurre semplicemente la realtà – ma lo spettatore non ha modo di accertarsi se quello che vede è autentico o ricostruito –, esso può sempre sottolineare certi aspetti di un oggetto a danno di altri e influire quindi sul nostro modo di vederlo». Occorre soltanto aggiungere a quanto rileva il Kracauer, che, per certi pubblici, i film sono sempre «documentari», e che, in ogni caso, nei film di propaganda in genere, ed in quelli sovietici in specie, tutto è dato come «documentario»

13 Su ciò, un documento irrefutabile e di prima mano lo abbiamo nel recentissimo, già citato, Programma del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Lasciamo all’intelligente e paziente lettore la fatica di contarvi tutti i «fatti» e tutte le anticipazioni profetiche, – con tanto di data di scadenza: vent’anni! – che vi si affermano, senza l’ombra di una prova, e di gustarvi tutta l’aria di benessere che vi spira, da paese di Bengodi.

14 A questo punto, immaginiamo il grido di dolore lanciato dai soliti zelanti tutori del cinema-Arte a questa nostra blasfema asserzione. Ma alcuni dati, raccolti in fonte ad essi non sospetta, ci dicono che il rilievo vale anche per la Russia, dove, per esempio, nel 1955, tra cinque film italiani colà importati, due film di evasione come Torna a Sorrento, di C. L. Bragaglia, ed Enrico Caruso, di G. Gentilomo, hanno totalizzato: il primo 23 ed il secondo 19 milioni di presenze, mentre tre film «sociali» come In nome della legge, di P. Germi, Roma ore 11 e Non c’è pace tra gli ulivi, del marxista P. De Santis, a mala pena ne hanno totalizzato la metà. La marxista Cinema (1955, n. 152, p. 888), che riporta la notizia, la commenta cosi: «Le cifre parlano, e ci sono state onestamente fornite dall’Associazione Italiana per i rapporti culturali con l’Unione Sovietica. E ci accorgiamo perciò che il popolo è uguale dappertutto, e preferisce divertirsi senza grandi impegni».

15 Cosi ne scriveva nel 1958 un laico come P. BIANCHI: «Il giudizio sui film russi deve tener conto della volontà dei governanti di conferire ai film sovietici una sintassi e una grammatica, insomma modi di espressione, tali da essere capite da tutti. Cosa succede? Che allo stesso modo che in un convoglio il ritmo della navigazione è dato dalla nave che va più adagio, cosi la produzione cinematografica russa deve tener conto delle reazioni degli spettatori più arretrati dell’immenso impero; tiene conto, addirittura, probabilmente, di certe popolazioni ai margini della vita culturale in modo che i film prodotti (non molti, date le esigenze del mercato) siano capiti da tutti. Il cinema sovietico, quindi, ha un ritmo rallentato che disturba e riesce a deviare il giudizio. Il disturbo che dànno i loro film a noi che siamo abituati al ritmo dei nostri sembra un fatto esterno, una costrizione, senz’altro una disciplina» (Cinema straniero, in Cinema d’oggi, cit., p. 40).

16 Nota ancora il KRACAUER (op. cit., p. 189): «Poiché le immagini di un film diminuiscono le facoltà critiche dello spettatore, è sempre possibile sceglierle e montarle in modo da accordare i sensi dello spettatore con l’idea che si vuole propagandare. Non è necessario che ad essa direttamente si riferiscano; anzi, quanto più si applica un metodo indiretto – mostrando avvenimenti e situazioni apparentemente estranei al messaggio che si vuole diffondere – tanto maggiore è la possibilità di raggiungere cristallizzazioni inconsce e tendenze organiche che possono determinare, sia pure indirettamente, un atteggiamento favorevole alla causa sostenuta».

17 La citazione è lunga, ma vale bene la pena di riportarla e meditarla. Ecco una sintesi della morale comunista quale appare nei film sovietici e quale è data dal mai troppo lodato Programma del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (cit. pp. 123-124): «Nel processo del passaggio al comunismo acquistano sempre maggiore importanza nella vita della società i princìpi etici: si estende la sfera d’azione del fattore morale e, rispettivamente, diminuisce il significato del regolamento amministrativo dei rapporti tra gli uomini. Il partito favorirà tutte le forme di consapevole autodisciplina dei cittadini che portano al consolidamento e allo sviluppo delle nome basilari del vivere comunista.
Ripudiando la morale di classe degli sfruttatori, i comunisti oppongono alle concezioni egoistiche e ai costumi snaturati del vecchio mondo la morale comunista, la più giusta e nobile morale che esprime gli interessi e gli ideali di tutta l’umanità lavoratrice. Le semplici norme dell’etica e della giustizia, che, sotto il dominio degli sfruttatori, venivano deformate o cinicamente calpestate, sono elevate dal comunismo ad intangibili norme di vita, sia nei rapporti tra le singole persone, che nelle relazioni tra i popoli. La morale comunista comprende le principali norme di morale aventi un valore universale, elaborate nel corso di millenni dalle masse popolari in lotta contro il giogo sociale e i vizi morali. Un ruolo particolare nell’evoluzione etica della società assume la morale rivoluzionaria della classe operaia. Il processo di edificazione del socialismo e del comunismo vede la morale comunista arricchirsi di princìpi e di un contenuto nuovi.
Il partito ritiene che fanno parte del codice morale dell’edificatore del comunismo i seguenti princìpi etici:

  • fedeltà alla causa del comunismo, amore per la patria socialista, per i paesi del socialismo;
  • lavoro onesto al servizio della società: chi non lavora non mangia;
  • sollecitudine di ognuno nel salvaguardare e incrementare il patrimonio sociale;
  • elevata comprensione del dovere sociale, intolleranza verso le violazioni degli interessi sociali;
  • collettivismo e reciproco aiuto fraterno: uno per tutti, tutti per uno;
  • rapporti umani e di reciproco rispetto tra gli uomini: l’uomo è amico dell’uomo, compagno e fratello;
  • onestà e sincerità, purezza morale, semplicità e modestia nella vita sociale ed individuale;
  • rispetto reciproco nella famiglia, cura per l’educazione dei figli;
  • intolleranza verso l’ingiustizia, il parassitismo, la disonestà, l’arrivismo;
  • amicizia e fratellanza di tutti i popoli dell’U.R.S.S., intolleranza verso le antipatie nazionali e razziali;
  • intransigenza con i nemici del comunismo, della pace e della libertà dei popoli;
  • fraterna solidarietà con i lavoratori di tutti i paesi, con tutti i popoli.

18 Abbiamo in parte sviluppato e documentato quest’avvenimento in Disavventure della critica marxista, in Civ. Catt. 1957, III, 288 ss.
Faremmo torto alla cultura dei nostri lettori ricordando loro i capolavori di Eisenstein, di Pudovkin e di Dovgenko, ai quali abbiamo fatto riferimento. Riteniamo, invece, utile enumerare qui alcuni titoli, non a tutti noti, della produzione U.R.S.S. così oculatamente introdotta da noi nel secondo dopoguerra: Ciapajev (del 1934), dei Vassiliev; Deputat Baltiki (Il deputato del Baltico, del 1937), di A. Zarkhij; Beleet parus odinoki (Biancheggia una vela, del 1937), di V. Legosin; Kljatva (Il giuramento, del 1946), di M. Ciaureli; Vesnà (Primavera, del 1947), di G. Aleksandrov; Selskaia ucitelniza (L’educazione dei sentimenti, del 1947), di M. Donskoj; Padenia Berlina (La caduta di Berlino, del 1949), di M. Ciaurelli; Stalingradskaja bitva (La battaglia di Stalingrado, del 1950), di V. Petrov; Vozvrascenie Vasilia Bortnikova (Il ritorno di Basilio Bortnikov, del 1953), di V. Pudovkin; Poprigunia (La cicala, del 1955), di S. Samsonov; Verso la nuova sponda (del 1955), di L. Lucov; Bolchaia Semia (La grande famiglia, del 1955), di J. Heifiz; Pedagoghiceskaia Poema (Poema pedagogico, del 1956), di A. Mosliukov; Bessmertnii garnison (Guarnigione immortale, del 1956), di Z. Agranenko; Malva (del 1957), di V. Braun; Sorok pervyi (Il quarantunesimo, del 1957), di G. Ciukrai; Letiat giuravli (Quando volano le cicogne, del 1958), di M. Kalatosov; V tvoykh rukah jizn (La vita nelle tue mani, del 1959), di R. Rosantzev; Ballada o soldate (Ballata di un soldato, del 1960), di G. Ciukrai; Dama s sobatchoi (La signora col cagnolino, del 1960), di J. Heifiz; Mir vhodjasccemu (Pace a chi entra, del 1961), di A. Alov; Cistoe nebo (Cielo pulito, del 1961), di G. Ciukrai...

19 Diciamo «marxisti» prescindendo dai partiti politici nei quali militino, anche perché non è sempre agevole fissare l’ultima loro variazione. Di alcuni di essi, ecco le più recenti notizie che possediamo: L. Del Fra, già del gruppo redazionale socialista di Film Selezione (l’Unità, 24 nov. 1962); G. De Santis, iscritto al P.C.I.; M. Monicelli, iscritto al P.C.I., dimesso per pigrizia, milita tra gli affiancatori, e dichiara di essere rimasto profondamente marxista, più dei funzionari di Via delle Botteghe Oscure; G. Montaldo, iscritto al P.C.I.; P. P. Pasolini, già liberale, con tendenza al partito d’azione (Vie Nuove, 15 lug. 1961), dall’esperienza dell’immediato dopoguerra è stato portato al marxismo (ivi, 8 lug. 1961); E. Petri, entrò nel P.C.I. nel ’44, ne uscì dimissionario nel ’58 «per non diventare un frazionista». Dice: «Vorrei avere la forza di rientrare... Sono molto vicino al partito e continuo ad appoggiare senza riserve le sue iniziative». (Stasera, 7 dic. 1961); F. Rosi: «Se non fossero sufficienti le ragioni ideologiche, mi basterebbe quello che mi passa sotto gli occhi ogni minuto a provocare il mio voto al P.S.I». (Avanti!, 2 nov. 1960); M. Soldati, già iscritto al P.S.I. nel ’44, si staccò con la scissione di Palazzo Barberini, nel ’60 si è riscritto (Avanti!, 9 ott. 1960); L. Visconti, manda un «fervido augurio per decisivo successo prossime elezioni programma democratico unitario nazionale P.C.I.» (l’Unità, 23 ott. 1960). Del resto pare che in seno al P.C.I. operino due tendenze: l’una, capeggiata da M. Alicata, mirerebbe all’accaparramento come che sia di tutti gli elementi disponibili del cinema italiano, senza preoccuparsi della loro coerenza marxista (ed un caso sarebbe quello di L. Visconti), e a dare largo appoggio a tutti quelli che in qualsiasi modo abbiano ottenuto successi di pubblico; l’altra, rigorista, cercherebbe di appoggiare soltanto coloro che dànno prove di fedeltà all’idea: già appoggiata dallo stesso Togliatti, questa si sarebbe manifestata soprattutto con le «sortite» di A. Trombadori.

20 Cfr, per esempio, la Relazione con la quale l’on. Alleata accompagnava la Proposta di legge n. 1525, del 24 luglio 1959, in Atti parlamentari, Camera dei DeputatiIII Legislatura, Disegni di legge e relazioni, p. 2 ss.; nella quale Relazione, tuttavia, leggiamo queste affermazioni d’oro (qualora l’oratore non le avesse intese, ovviamente, marxisticamente): «Quando il Parlamento della Repubblica italiana è chiamato a discutere delle sorti del cinema nazionale, deve investirsi dei suoi problemi come se si trattasse della scuola di Stato [!?], o comunque di una serie di questioni delicatissime, che coinvolgono quanto una nazione può avere di più geloso, proprio nei rispetti della difesa reale della propria indipendenza, che qui vuol dire: rispetto della cultura storica dei suoi cittadini, rispetto delle convinzioni morali e civili più profonde, rispetto in una parola di tutti quei motivi di educazione e informazione di massa, che confluiscono sensibilmente a formare il costume nazionale». (p. 1).

21 N. 1538, del 23 marzo 1955, d’iniziativa dei deputati Alleata, Basso, Melloni, Berti, Corbi, Ingrao, Lombardi R., Mazzali e Vecchietti, in Atti Parlamentari, Camera dei DeputatiII Legislatura, Documenti. – Per le difese della stessa proposta da parte degli onn. Alicata, Basso, Corbi, Natta ed Ingrao, cfr ivi. Commissione speciale per la cinematografia, Sedute del 12, 19 e 26 febbr. 1956, pp. 12, 19-20, 29-30, 41-42, 65 e 90.

22 Proposta di legge n. 836, del 28 febbr. 1958, presentata dai deputati Lajolo, De Grada, Alleata, Seroni, Santarelli e Viviani, art. 4 (cfr il testo in Bianco e Nero, 1961, nn. 4-5, p. 56 ss.).

23 La proposta, già elaborata dalla rosseggiante Associazione Nazionale Autori Cinematografici e dall’Intesa Nazionale per la cultura, è stata presentata al Senato dai socialisti onn. Busoni, G. Nenni, Sansoni e Bruno (cfr il testo ivi, pp. 60 ss.).

24 Abbiamo refutato questi slogan in Verso la nuova legge di revisione cinematografica, in Civ. Catt. 1961, II, 372 ss. – Per l’apporto dato da parte cattolica a questo successo dei marxisti e dei laicisti, cfr E. BARAGLI, Per una battaglia da non perdere, in Rivista del cinematografo, 1962, n. 2, p. 45 ss.

25 Tra i quali occorre ricordare il defunto U. BARBARO, serio studioso, divulgatore delle teorie di Pudovkin, cui, tuttavia, il fanatismo marxista causò più di una cantonata proprio su piano culturale; e l’ex GLAUCO VIAZZI, dileguatosi dalla «cultura» marxista per due ragioni che altamente ne onorano la intelligenza ed il cuore.

26 Cfr Civ. Catt. 1960, III, 509.

27 Cfr ivi, 1961, I, 376 ss.

28 Cfr ivi, per il Viazzi, 1955, III, 545; per l’Aristarco, 1961, III, 306-311; per il Lizzani (1ª ediz.), 1955, II, 528; per il Pandolfi, 1958, II, 284-288.

29 OVIDIO, Metamorfosi, IV, 428.

30 Ecco i più classici. Pio XI, nel 1936: «Non si dà oggi mezzo più potente del cinematografo ad esercitare influsso sulle moltitudini» (Enciclica Vigilanti cura, in E. BARAGLI, Cinema Cattolico, 1959, n. 75); Pio XII, nel 1957 e 1955: «Uno dei mezzi più potenti di comunicazione sociale del nostro tempo» (Enciclica Miranda prorsus, ivi, 527), «che dà al più vasto mondo di spettatori un determinato indirizzo alla loro cultura, alle idee, ai sentimenti e, non di rado, alla loro stessa condotta di vita» (Discorso sul Film ideale, ivi, n. 297); Giovanni XXIII, nel 1958, pone il cinema, insieme con la radio e la televisione, tra «gli strumenti che, nel progresso odierno, esercitano non poco influsso sulla vita spirituale della umanità» (Lettera apostolica Boni Pastoris, n. 1).

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151