NOTE
×

1 UMBERTO ECO, Apocalittici e intergrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, 3ª ed. Milano, Bompiani, 1968, 16º, 311.

2 L’A. descrive così il “moralista culturale” a 297: “Il moralista culturale è colui che, con indubbia intelligenza, individua l’apparizione di nuovi fenomeni etici, sociologici, estetici: ma, una volta fatto questo, si sottrae all’impegno più pericoloso, che è quello di porsi ad analizzare questi fenomeni e cercare di capirne le cause, gli effetti a lunga scadenza, le particolarità di ’funzionamento’; e preferisce allora, con la stessa intelligente acutezza, bollarli alla luce di un preteso ’umanesimo’ e relegarli tra i portati negativi di una società massificante e fantascientifica”.

3 Perciò non propugna la contestazione globale di Marcuse; ma neanche simpatizza con la palingenesi di McLuhan: i due opposti gran maestri che hanno sollevato tanta polvere tra la prima e questa terza edizione del volume; Marcuse, che “vede l’industria della comunicazione nella società tecnologica avanzata come una massiccia operazione di appiattimento unidimensionale degli utenti”; McLuhan, che “vede la nascita di un nuovo villaggio globale, dove una sensibilità rinnovata si nutre ottimisticamente non dei contenuti ma della forma stessa e dell’allucinante molteplicità dei messaggi” (p. 28).

4 Scriveva (p. 49): “Il problema è: ’Dal momento che la presente situazione di una società industriale rende ineliminabile quel tipo di rapporto comunicativo noto come insieme dei mezzi di massa, quale azione culturale è possibile per far sì che questi mezzi di massa possano veicolare valori culturali?’; e rispondeva: ’Non utopistico pensare che un intervento culturale possa mutare la fisionomia di un fenomeno di questo genere... Il problema della cultura di massa è proprio questo: oggi è manovrata da ’gruppi economici’, che perseguono fini di profitto, e realizzata da ’esecutori specializzati’ nel fornire al committente ciò che ritiene più smerciabile, senza che si verifichi un massiccio intervento degli uomini di cultura nella produzione”.

5 Nella prima (p. 25), oltre alla rassegna critica delle “posizioni” (di cui sopra), l’A. (in La struttura del cattivo gusto) cerca di elaborare uno strumento critico per definire in termini strutturali il valore estetico di messaggi elaborati per un pubblico medio; e (in Lettura di Steve Canyon), parte dalla “lettura” di una pagina di fumetti per proporre un problematica propria di tutti i mezzi di massa, indicando insieme una metodologia dei vari tipi di ricerca possibile. La seconda sezione si occupa dei “personaggi come modelli di comportamento, dai miti con funzione puramente proiettiva alle costruzioni di un’arte più consapevole che, permettendoci un rapporto critico col personaggio, realizzano alcune condizioni di tipicità e consentono una fruizione estetica vera e propria. La terza sezione contiene discussioni su problemi concernenti gli elementi visivi e sonori di questa nostra civiltà, che non è solo della visione ma anche del rumore”.

6 Si vedano, per esempio, quelle, esemplari, sul pastiche elaborato da W. KILLY sul Kitsch (p. 69), sulla prima puntata del fumetto Steve Canyon di M. CANIFF (p. 133), sui tre moschettieri dr DUMAS (p. 24), sul mondo dei Peanuts di C.M. SCHULZ (p 271) e sul mito di Rita Pavone (p. 294).

7 L’argomento stesso porta a ricordare il caso analogo e diverso dell’apocalittico DWIGHT MacDONALD (cfr L’industria della cultura in Civ. Catt. 1970 I).

8 Cfr E. BARAGLI, L’Inter mirifica, Roma, Studio Romano della Comunicazione Sociale, 1969, 444.

9 Dodici si trovano in MIGNE, PL 182, e portano i nn. 78, 222, 266, 369-371, 316-381; altre in PL 186.

10 MIGNE, PL 186, 1194 ss.

11 Più che una formula, si tratta di un rilievo di fatto. Esso si trova in MIGNE, PL 172, 586. Ed a questo Onorio di Autun va piuttosto attribuito il programma figurativo simbolistico – se “programma” fu –, che l’A. attribuisce a Sugero.

12 Cfr De rebus in administratione sui gestis, MIGNE, PL 186, 1227 ss., ed anche il suo curioso Testamentum (ivi, 1439 ss.).

13 Si trova in MIGNE, PL 182, 895.

MENU

Articolo estratto dal volume I del 1970 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Come lo stesso autore avverte, questo volume1, non aggiornato, deve ritenersi più ristampa che nuova edizione; rimane, perciò, testimonianza di una polemica sui mass media quale si configurava nel 1964 e non dello sviluppo oggi raggiunto nel loro studio, anche in Italia, a livello scientifico ed a quello di azione educativa e politica. Tuttavia esso merita una presentazione – tardiva e riparatrice – non foss’altro perché ad esso risale la fortunata terminologia, di “apocalittici” e “integrati”, proposta sin dal titolo, per qualificare rispettivamente i pessimisti e gli ottimisti circa la cosiddetta cultura di massa; ed anche perché ad esso si deve in non piccola parte l’incremento degli studi di cui sopra.

Secondo U. Eco, in sintesi, per gli apocalittici (o “moralisti culturali”)2, il problema si pone in questi termini (p. 6):

“Se la cultura è un fatto aristocratico, la gelosa conservazione, assidua e solitaria, di una interiorità che si affina e si oppone alla volgarità della folla..., allora il solo pensiero di una cultura condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti, e elaborata sulla misura di tutti, è un mostruoso controsenso. La cultura di massa è anticultura. Ma siccome nasce nel momento in cui la presenza delle masse nella vita associata diventa il fenomeno più evidente di un contesto storico, la ’cultura di massa’ non segna un’aberrazione transitoria e limitata: diventa il segno di una caduta irrecuperabile, di fronte alla quale l’uomo di cultura – ultimo superstite della preistoria, destinato ad estinguersi – non può che dare un’estrema testimonianza in termini di Apocalisse”.

Questa, invece, sarebbe la posizione degli integrati (p. 7):

“Poiché la televisione, il giornale, la radio, il cinema e il fumetto, il romanzo popolare e il Reader’s Digest mettono ormai i beni culturali a disposizione di tutti, rendono amabile e leggero l’assorbimento delle nozioni e la ricezione di informazioni, stiamo vivendo in un’epoca di allargamento dell’area culturale, in cui finalmente si attua ad ampio livello, col concorso dei migliori, la circolazione di un’arte e di una cultura ’popolare’. Se questa cultura salga dal basso o sia confezionata dall’alto per consumatori indifesi, non è problema che l’integrato si ponga. Anche perché, se gli apocalittici sopravvivono proprio confezionando teorie sulla decadenza, gli integrati raramente teorizzano, e più facilmente operano, producono, emettono i loro messaggi”.

L’ A. non è tanto sprovvisto da arruolarsi tra i primi; ma neanche da passare, armi e bagagli, tra i secondi3. Intanto vuol vederci chiaro. Comincia perciò, – seguendo, si direbbe il san Tommaso della Summa, a lui ben noto –, con l’enumerare (Videtur quod non) le obiezioni – ben quindici – mosse dagli apocalittici a carico della “cultura di massa”, e poi (Sed contra est) gli argomenti a favore – nove – degli integrati; quindi (in corpore) rigetta le categorie-feticcio di “massa”, “uomo massa”, e l’ibrido “cultura di massa”, ridimensionando questo termine in accezione antropologica, quale

“preciso contesto storico (quello che viviamo) in cui tutti i fenomeni comunicativi – dalle proposte di divertimento evasivo agli appelli all’interiorità - appaiono dialetticamente connessi, ricevendo ciascuno dal contesto una qualificazione che non permette più di ridurli a fenomeni analoghi apparsi in altri periodi storici”.

Passa poi ad individuare la caratteristica che, almeno nei paesi democratici occidentali, tanto i primi quanto i secondi riconoscono a questa civiltà, vale a dire: l’accesso di tutti i membri della società (le “masse”) alla produzione intensiva di messaggi a getto continuo, elaborati secondo i canali commerciali di un consumo retto dalle leggi della domanda e dell’offerta; e finalmente fissa in questi tre punti la via da seguire nella ricerca verso un giudizio di valore e le conseguenti scelte operative (p. 24):

In primo luogo “l’analisi strutturale dei messaggi, che non deve solo soffermarsi sulla forma del messaggio, ma definire anche in che misura la forma è determinata dalle condizioni oggettive dell’emissione (che, quindi, nel messaggio determinano anche il significato, la capacità di informazione, le qualità di proposta attiva o di pura reiterazione del già detto). In secondo luogo, stabilito che questi messaggi si rivolgono a una totalità di consumatori difficilmente riducibili a un modello unitario, stabilire per via empirica le differenti modalità di ricezione a seconda della circostanza storica o sociologica, e delle differenziazioni del pubblico. In terzo luogo (e ciò competerà alla ricerca storica, e alla formulazione di ipotesi politiche), stabilito in che misura la saturazione dei vari messaggi può concorrere veramente a imporre un modello di uomo-massa, esaminare quali operazioni siano possibili nell’ambito del contesto esistente, e quali richiedano invece diverse condizioni di base”.

His positis, anche in questa terza edizione rimane valida per lui una delle ipotesi che attraversavano tutta la prima, e cioè che “un accrescimento quantitativo della informazione, per disordinato e oppressivo che appaia, può produrre risultati non ipotizzabili in astratto, secondo la legge per cui nella circolazione delle idee non vi è neutralizzazione riformistica: bensì ogni accrescimento culturale – qualsiasi sia il progetto politico e culturale che lo determina – produce esiti che, in dialettica con circostanze date, vanno molto più in là delle previsioni degli strateghi e degli studiosi della comunicazione”.

Invece, nelle scelte operative accusa un cambiamento di direzione e di scopi immediati. Se, infatti, nella prima edizione lo moveva piuttosto la persuasione “illuministica” dell’utilità di un’azione culturale volta al miglioramento dei messaggi4, ormai egli propende maggiormente

“per un’azione culturale e politica insieme, che aggredisca i messaggi – cosi come sono – nel momento in cui vengono ’letti’ (trasformando quella che era la strategia riformistica delle comunicazioni in una continua guerriglia della ricezione)” (p. 28).

Il volume rispetta una sua sostanziale unità di fondo, ma non segue un disegno organico. Si presenta quale raccolta di saggi e di note, editi ed inediti, distribuiti in tre sezioni, digradanti dalla problematica più generale in argomento a questioni e casistiche particolari5. Ma l’interesse del lettore vi perdura non mai stanco. Lo sostengono la chiarezza dell’esposizione, assicurata dall’eccezionale dominio della materia e dalla padronanza dei mezzi espressivi, sempre rispettosi della proprietà e della semplicità; il suo largo spaziare nei problemi della cultura, e non soltanto filosofica, unito ad una singolare familiarità con le ultime espressioni - si direbbero, più caduche – della civiltà odierna; e soprattutto l’acutezza delle analisi6, oltre tutto coraggiose, dato che l’ A. “non teme di usare strumenti troppo nobili per oggetti vili” (p. 26), come gli è stato rimproverato. È soprattutto questa acuta intelligenza dell’A. che conquista lo studioso di questi problemi7, anche a prescindere dalle sue conclusioni.

Le quali, peraltro, ci trovano sostanzialmente consenzienti, almeno per quello che affermano (molto meno per quello che ignorano). Riteniamo, infatti, giustificatissimo il suo frequente concludere al condizionale: e magari lo imitassero i troppi divulgatori da rotocalco, apodittici profeti di ecatombi o di miracolistici riscatti. E lo seguiamo nel non avallare il cliché di un umanesimo mitico, valido in blocco per tutti i tempi e per tutte le civiltà; quindi anche nel rapportare la querelle tra apocalittici ed integrati anche ad una concezione antropologica della cultura (infelicemente detta “di massa”), in cui i dati di fatto, insomma le situazioni sociologiche-storiche, non vengano ignorati e, tanto meno, condannati a priori: ma ammessi e vagliati nei loro vicendevoli, e spesso inestricabili, rapporti di cause ed effetti. Ma – a rischio di essere catalogati dall’A. tra i “moralisti culturali” – inquadreremmo questa impostazione in una superiore visione dell’uomo totale: comunitario, ma anche individuo; indissolubilmente legato al fluire del suo tempo, ma che trova il suo senso ultimo nell’eternità che l’attende; e che, perciò, oltre le contingenti necessità dell’esistenza storica, esige considerazione e rispetto di alcuni valori assoluti e perenni, tra i quali quelli di libertà interiore e di responsabilità personale specificamente morale e religiosa.

Su queste premesse, anche noi pensiamo che in pratica la querelle vada risolta nel senso proposto dall’ A. Adoperarsi, dunque, al miglioramento dei messaggi alla loro fonte, ma propendere maggiormente per un’azione culturale e politica (e, noi aggiungiamo, morale-religiosa), che insegni ad aggredire i messaggi nel momento in cui questi vengono “letti”. In parole povere: puntare soprattutto sulla formazione-educazione, dei recettori. È la posizione, fondamentalmente ottimistica del Vaticano II nel decreto sulle mass communications8.

Altri punti, invece, in questi saggi suscitano dubbi. Intanto si direbbe che il voler riscattare la “cultura di massa”, sia pure intesa in senso antropologico, qui vada in parte a vuoto ed, anzi, si rivolga contro l’A. Infatti, la sua spietata analisi su certi contenuti tipici di essa, ed il suo stesso ripiegare sulla “guerriglia della recezione” dalla “strategia riformistica” dei messaggi, non finisce forse con l’avallare per valide alcune obiezioni degli apocalittici? Almeno quelle che partono dalle circostanze concrete tecnico-economico-sociologiche nelle quali gli stessi media non possono non operare: circostanze concrete che finiscono con incidere negativamente sulla qualità dei messaggi.

Altri dubbi riguardano un esempio che l’A. adduce – una supposta controversia tra san Bernardo e l’abate Sugero (p. 19 ss.) – per dimostrare la non comparabilità dei contesti storici, e dei relativi fenomeni comunicativi. Non siamo specialisti in materia, ma, né nelle lettere superstiti del Santo al potente abate di San Dionigi9, né altrove, c’è traccia di controversia10 a proposito di immagini e di sculture, a conferma “che Sugero aveva fatto proprio il programma del Sinodo d’Arras, riassunto da Onorio di Autun nella formula pictura est laicorum litteratura11. Al contrario, risulta che Sugero fu amico dell’abate di Cluny non meno che di quello di Chiaravalle; che, per conto suo, non solo nelle chiese profuse pitture e sculture, ma se ne vantò in vita ed in morte12; che san Bernardo gli inviò, sì, una lettera sulla sua “conversione”, ma non perché l’abate avesse optato per i cistercensi “iconofobi” contro i cluniacensi “iconofili”, ma semplicemente perché quel braccio destro dei Re di Francia si era deciso a riportare la sua abbazia di San Dionigi, da scandalosa dépendance della corte a silenziosa sede di contemplazione.

Anche riguardo al fondo di tutta la controversia le illazioni dell’A. sembrano infondate. I valori in gioco tra Citeaux e Cluny non erano quelli di una cultura visiva, (“di masse”) in concorrenza con quella verbale-logica (di élites), ma quelli della povertà, austerità e contemplazione monastica, propugnati dai “riformati”, contro lo sperpero, la mondanità e la dissipazione dei “rilassati”. Oltre tutto, poi, si trattava di abbazie, ad uso esclusivo dei monaci, in cui la contrapposizione tra una cultura di élites, propria del “clero”, e una cultura di massa, propria di laici, sembra da escludere. Com’è da escludere a riguardo di San Bernardo, il quale, vedi caso, pur provenendo da famiglia gentilizia, si mostrò tutt’altro che propenso alla cultura di élite e, per sé come per i suoi seguaci, insisté molto più sulla contemplazione mistica e su quel lavoro manuale che portò i cistercensi, sacerdoti o laici che fossero, a bonificare mezza Europa.

In particolare, riguardo al pittoresco brano del Santo riportato dall’A., le illazioni che egli ne trae, di “passione inappagata per questi escrementi perduti”, non regge. Egli dimentica che san Bernardo era oratore nato; e che egli scriveva la sua Apologia ad Guillelmum13 con l’impeto polemico di un giovane (aveva 34 anni!), e, infine, che lo stesso stile icastico e partecipante nella stessa Apologia egli l’adotta a proposito di altri argomenti, in cui siffatte illazioni sarebbero del tutto fuori di posto: per esempio, sulla cucina e sui pranzi dei monaci “rilassati”.

Al lettore che soffrisse d’inappetenza il consiglio di gustare in fonte quei brani. Il loro latino saporoso gli farà venire l’appetito, purtroppo senza apportargli elementi chiarificatori sulle teorie della “cultura di massa”.

1 UMBERTO ECO, Apocalittici e intergrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, 3ª ed. Milano, Bompiani, 1968, 16º, 311.

2 L’A. descrive così il “moralista culturale” a 297: “Il moralista culturale è colui che, con indubbia intelligenza, individua l’apparizione di nuovi fenomeni etici, sociologici, estetici: ma, una volta fatto questo, si sottrae all’impegno più pericoloso, che è quello di porsi ad analizzare questi fenomeni e cercare di capirne le cause, gli effetti a lunga scadenza, le particolarità di ’funzionamento’; e preferisce allora, con la stessa intelligente acutezza, bollarli alla luce di un preteso ’umanesimo’ e relegarli tra i portati negativi di una società massificante e fantascientifica”.

3 Perciò non propugna la contestazione globale di Marcuse; ma neanche simpatizza con la palingenesi di McLuhan: i due opposti gran maestri che hanno sollevato tanta polvere tra la prima e questa terza edizione del volume; Marcuse, che “vede l’industria della comunicazione nella società tecnologica avanzata come una massiccia operazione di appiattimento unidimensionale degli utenti”; McLuhan, che “vede la nascita di un nuovo villaggio globale, dove una sensibilità rinnovata si nutre ottimisticamente non dei contenuti ma della forma stessa e dell’allucinante molteplicità dei messaggi” (p. 28).

4 Scriveva (p. 49): “Il problema è: ’Dal momento che la presente situazione di una società industriale rende ineliminabile quel tipo di rapporto comunicativo noto come insieme dei mezzi di massa, quale azione culturale è possibile per far sì che questi mezzi di massa possano veicolare valori culturali?’; e rispondeva: ’Non utopistico pensare che un intervento culturale possa mutare la fisionomia di un fenomeno di questo genere... Il problema della cultura di massa è proprio questo: oggi è manovrata da ’gruppi economici’, che perseguono fini di profitto, e realizzata da ’esecutori specializzati’ nel fornire al committente ciò che ritiene più smerciabile, senza che si verifichi un massiccio intervento degli uomini di cultura nella produzione”.

5 Nella prima (p. 25), oltre alla rassegna critica delle “posizioni” (di cui sopra), l’A. (in La struttura del cattivo gusto) cerca di elaborare uno strumento critico per definire in termini strutturali il valore estetico di messaggi elaborati per un pubblico medio; e (in Lettura di Steve Canyon), parte dalla “lettura” di una pagina di fumetti per proporre un problematica propria di tutti i mezzi di massa, indicando insieme una metodologia dei vari tipi di ricerca possibile. La seconda sezione si occupa dei “personaggi come modelli di comportamento, dai miti con funzione puramente proiettiva alle costruzioni di un’arte più consapevole che, permettendoci un rapporto critico col personaggio, realizzano alcune condizioni di tipicità e consentono una fruizione estetica vera e propria. La terza sezione contiene discussioni su problemi concernenti gli elementi visivi e sonori di questa nostra civiltà, che non è solo della visione ma anche del rumore”.

6 Si vedano, per esempio, quelle, esemplari, sul pastiche elaborato da W. KILLY sul Kitsch (p. 69), sulla prima puntata del fumetto Steve Canyon di M. CANIFF (p. 133), sui tre moschettieri dr DUMAS (p. 24), sul mondo dei Peanuts di C.M. SCHULZ (p 271) e sul mito di Rita Pavone (p. 294).

7 L’argomento stesso porta a ricordare il caso analogo e diverso dell’apocalittico DWIGHT MacDONALD (cfr L’industria della cultura in Civ. Catt. 1970 I).

8 Cfr E. BARAGLI, L’Inter mirifica, Roma, Studio Romano della Comunicazione Sociale, 1969, 444.

9 Dodici si trovano in MIGNE, PL 182, e portano i nn. 78, 222, 266, 369-371, 316-381; altre in PL 186.

10 MIGNE, PL 186, 1194 ss.

11 Più che una formula, si tratta di un rilievo di fatto. Esso si trova in MIGNE, PL 172, 586. Ed a questo Onorio di Autun va piuttosto attribuito il programma figurativo simbolistico – se “programma” fu –, che l’A. attribuisce a Sugero.

12 Cfr De rebus in administratione sui gestis, MIGNE, PL 186, 1227 ss., ed anche il suo curioso Testamentum (ivi, 1439 ss.).

13 Si trova in MIGNE, PL 182, 895.

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2739, vol. III (1964), pp. 246-254
n. 2729, vol. I (1964), pp. 422-435
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408