Articolo estratto dal volume I del 1972 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
In tempi remoti, chi diceva “cultura” diceva educazione-insegnamento orale: familiare o scolare che fosse; il libro manoscritto, raro e costoso, servendo più a conservare ed a tramandare intatti i prodotti della cultura, che a diffonderla. Le cose, in Europa, cambiarono con l’avvento della stampa. I libri, non solo uscirono dal chiuso delle biblioteche principesche o conventuali, portando i prodotti della cultura dalle vette di élites privilegiate ai più accessibili pianori umanistici, ma tramutarono i lettori in discenti psicologicamente sempre più autonomi rispetto all’educazione-insegnamento autoritativo dei “maestri” tradizionali. Di qui, tra l’altro, la rivoluzione – culturale e sociale, prima che religiosa – del “libero esame” contro il magistero, seguita, mezzo secolo dopo l’invenzione di Gutenberg, alla divulgazione del “libro” per eccellenza – la Bibbia –, fatta da Lutero.
Da allora, “cultura” significò “cultura del libro”: hortus conclusus dei letterati, che vi si nutrivano di idee chiare e distinte, preferibilmente filosofiche e classiche, ma anche scientifiche; e che, a loro volta, vi si esprimevano in lingua culta, oscura al volgo illetterato e meccanico. E la cosa, per i letterati, durò così anche quando la stampa, accanto al libro, figliò il giornale: veicolo d’informazione, prima tra la borghesia e poi tra le masse in via di alfabetizzazione; matrice perciò – al dire delle gens de lettres del tempo – di (futili) opinioni, non di (chiaro) sapere e di (soda) scienza come il libro. Tous ces papiers (cioè i giornali) sont la patûre des ignorants, scriveva l’imparruccato enciclopedista Diderot; e, di rincalzo, il pedagogo dell’Emile: Un livre périodique – così veniva giudicato il giornale – est un ouvrage éphémère, sans mérite et sans utilité, dont la lecture négligée et méprisée par les gens lettrés ne sert qu’à; donner aux femmes et aux sots de la vanité sans instruction.
Col secolo XIX – il giornale ormai è veramente il “quarto potere” – la querelle s’invelenì; poi, con l’affermarsi del cinema (sonoro) come “quinto potere”, con l’esplosione della radio, dei rotocalchi, dei fumetti, dei dischi e della pubblicità, negli anni trenta di questo secolo ha toccato toni di rissa; oggi, infine, col diffondersi della televisione e col suo profilarsi quale “potere unico ed universale” – le videocassette1 –, si è quasi istituzionalizzata in guerra aperta. Da una parte ancora le gens de lettres, ferme ad una cultura umanistica, della parola-libro, personalistica, di élites: fornitissime in argomentazioni, denunce, rimpianti e previsioni apocalittiche; dall’altra gli integrati nel nuovo irreversibile stato di cose, aperti, più con i fatti che con le argomentazioni, ad una cultura antropologica, assunta, oltre che come descrizione fattuale, quale valore2: cultura dell’immagine, sociale, di massa. E dato che, ormai, non c’è battaglia di idee che non sfoci su piano operativo, la querelle sul concetto di cultura giustifica ed accompagna quella dei modi mezzi e tempi di “fare cultura”: coincide, insomma, col problema di politica culturale.
Sull’argomento si è scritto moltissimo3 e, presumibilmente, molto ancora si scriverà. Qui presentiamo tre libri recenti, di un certo peso, e tra loro complementari.
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Prima viene l’antologia, curata per l’editore Hoepli, da Marino Livolsi4. Preziosa perché, con la sua scelta di autori significativi – quali, per limitarsi ai più noti5, Adorno e Horkheimer, Barthes, Berelson, Cantrill, Eco, Katz e Lazarsfeld, Klapper e Merton, Morin, Van den Haag e Wirth, McLuhan e Marcuse... –, permette, anche a chi non potesse accedere ai volumi ed alle riviste relative, di farsi un’idea documentata sulla naturale portata e complessità dei problemi culturali e sociali prospettati ed ancora, per la maggior parte, irrisolti.
L’antologia si struttura in tre parti. Nella prima – Per una sociologia delle comunicazioni di massa – i pezzi, che nella loro eterogeneità dimostrano quanto sia difficile definire l’oggetto della disciplina, si seguono in tre sezioni. Una dedicata appunto ai tentativi fatti per definirla; la seconda, ai vecchi e nuovi oppositori; la terza, alle nuove prospettive metodologiche. Particolarmente illuminante vi è il saggio, documentato ed equilibrato, di L. Wirth su "Consenso e comunicazioni di massa”.
Anche la seconda parte – Alcuni filoni della sociologia delle comunicazioni di massa – comprende tre sezioni. In La cultura di massa, di sommo interesse è lo scontro tra l’integrato E. Shils e l’apocalittico E. Van Den Haag. In Gli effetti della comunicazione di massa, il pezzo di maggior peso è, ovviamente, quello ormai classico di J.T. Klapper, che conclude con la teoria di un’autodifensiva esposizione-percezione-memorizzazione selettiva dei recettori. In Il processo di comunicazione a due livelli si fa il punto sulla nota teoria di Katz e Lazarsfeld e si precisa il ruolo che in essa hanno gli opinion leaders.
La terza parte, in un’unica sezione, raccoglie quattordici Contributi allo studio dei vari media e fenomeni connessi: televisione e cinema, musica canzoni e juke-box, libri riviste e pubblicità.
Terminando la lettura, non sempre agevole, di queste pagine, consentiamo col Livolsi che – nell’Introduzione generale e nelle brevi note con cui introduce le singole sezioni – ammonisce di non cercarvi quello che esse non possono e non vogliono dare. È vero: dopo quarant’anni di saggistica, ancora “non esiste un corpus teorico, ma solo prospettive interessanti, o anche fondamentali, ma non esaurienti” (p. 37); tutta la materia “attraversa attualmente un periodo di profondo ripensamento. Ricerche tradizionali [...] sembrano archeologia. Contributi, che ancora oggi sono tappa obbligata per chi si occupa di questi temi, riletti in chiave metodologica, sono veramente poca cosa” (p. 155)6.
Del pari consentiamo col Livolsi quando, accettata l’analisi di Marcuse – che individua nell’ideologia del benessere il nemico maggiore dell’uomo –, ne rifiuta la proposta contestatrice estetico-politica (p. 31). Esitiamo, invece, a seguirlo quando propone “una ben altra origine e spiegazione a quanto è stato fin qui attribuito alla cultura di massa” (p. 10) in senso deteriore:
“I mass-media — egli scrive — possono solo appoggiare e diffondere certi valori recependoli dal sistema, non certo imporli indipendentemente. Pertanto la loro azione non ha di per sé una valenza positiva o negativa, ma questa dipende da quanto viene fatto dire loro. L’analisi deve quindi continuamente tener conto del sistema all’interno di cui essi operano. La nostra ipotesi, e quindi il nostro approccio metodologico, è che i presunti contenuti alienanti della cultura di massa non sono altro che la proiezione delle norme imposte dal sistema sociale. Nel caso del sistema capitalistico privato esse hanno contenuti che sono la copertura ideologica dello sfruttamento di una minoranza sulla massa” (pp. 21-22).
Questa sua proposta, infatti, tiene presenti soltanto i contenuti delle comunicazioni di massa, quando invece è noto che le obiezioni che vengono mosse contro di essi quali fattori o meno di cultura riguardano anche la tecnicità; dei mass media, nonché i segni, prevalentemente iconici, ad essi congeniali; la quale ed i quali perciò vanno tenuti presenti nell’analisi della querelle, prima ancora dell’analisi, certo pertinentissima, del contesto sociale economico e politico nel quale essi servono ad esprimere-comunicare.
Ferma al problema della cultura di massa, l’antologia, almeno espressamente, non passa a quello della politica culturale. Lo stesso Livolsi si limita ad accennarvi, ovviamente in modo conseguente alla sua proposta metodologica:
“Innanzi tutto è necessario ’parlare’ dall’interno dei mass-media. Solo gli ’addetti’ possono infatti operare per una loro trasformazione reale. Come riuscirvi? Cominciando, ad esempio, col distruggere le forme di comunicazioni più tradizionali, rompendo gli schemi narrativi ed espressivi più comuni, contrabbandando nuove prospettive estetiche e quindi di valore. Ma tutto questo è possibile solo se si ’entra’ decisamente nella gestione di questi mezzi; se ci si impegna nella loro conduzione e nel loro controllo. In altre parole, l’approccio verso questi mezzi deve essere, oggi, anche politico, oltre che scientifico o intellettuale. Studiarli senza tentare di modificarli serve poco; modificarli senza partecipare almeno alla loro gestione è impensabile” (p. 33).
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Come lo stesso titolo indica, tutta intenta invece alla Politica culturale è un’altra raccolta di "Studi, materiali, ipotesi”, curata ed ampiamente introdotta da Giovanni Bechelloni7. Anche questa però consacra una sezione – Sistema culturale, ciclo socio-culturale, comunicazioni di massa – al controverso concetto di cultura e alla funzione che oggi necessariamente vi assumono i mass media.
In Sistema culturale e politica culturale, E. Morin, con l’acume, la cultura ed, insieme (qualche volta) l’oscurità, che lo distinguono, sta per una cultura in senso antropologico: un sistema cioè che mette in relazione il sapere con l’esistenza e che, in quanto codifica l’accumulazione del sapere, si presenta insieme come infrastruttura (per i legami che ha con l’industria culturale, con la tecnica e col linguaggio) e come sovrastruttura (per la mitologia e l’immaginazione che secerne). Partendo, quindi, dall’ipotesi di una società policulturale, nella Conclusione (p. 82) propone la seguente traccia di politica culturale policentrica:
“c) Il primo sforzo è di delucidazione teorica: della cultura tout court, della cultura di massa, della cultura colta; più urgente dell’approvazione o del biasimo.
d) Lottare contro la separazione teorica e pratica che fa della cultura un settore a fianco di altri, e contro le concezioni unidimensionali della cultura [...], qualsiasi cultura, e in particolar modo la cultura colta, va concepita come una totalità complessa, cioè sistema, istituzione, lavoro, dinamismo, dialettica.
e) Al posto del programmismo, che non mette mai in questione fondamenti e principi, bisogna pensare a controcorrenti: della cultura colta, della sociologia ufficiale, delle politiche culturali.
f) Il programmismo euforico-patemalistico-culturalistico maschera il problema di fondo. Còmpito preliminare di qualsiasi politica culturale è di enuclearlo: la crisi della formazione classico-umanistica e la necessità preliminare, ineluttabile, di crearne una nuova...
g) Impegnarsi nella lunga ricreazione della formazione umanistica [...] lavorando ovunque nel nocciolo della creatività, anche nel momento dialettico in cui la politica della creatività diventa creatività politica.
h) Così si completa il cerchio culturale: la rinascita di una antropologia culturale normativa si effettua nella decomposizione della nozione più rigida, e al tempo stesso più universale, di cultura”.
In un’accezione antropologica della cultura si pone anche il saggio Sociodinamica della cultura e attrezzature culturali, di Abraham A. Moles. Il quale ipotizza quattro “dottrine” di promozione culturale nell’uso dei mass media: 1) quella demagogica: attenta a raggiungere il numero massimo di consumatori per imprimere nelle loro menti una serie di valori o di leit-motive, spesso di carattere commerciale; 2) quella dommatica: che cerca di far passare nelle menti dei recettori un certo numero di valori – politici, religiosi, nazionali, ecc. – determinati a priori; 3) quella culturalistica: basata sull’idea che i mezzi di comunicazione siano di per se stessi fattori di cultura; 4) e quella socio-dinamica, che, partendo dalla precedente, passa dalla ricerca di uno stato di fatto a quella di un’azione diretta sull’insieme sociale. Dopo aver rilevato che, di fatto, nessuna delle quattro dottrine è presente nello stato puro (p. 95), il Moles, accettando sostanzialmente la quarta, si domanda (p. 96): “La collettività dispone di una certa quantità di mezzi (in genere finanziari): qual è il modo migliore di utilizzarli per dar vita alla cultura nella società globale? "; e risponde: “Tale problema compete ad una toposociologia: ossia al disporsi di una società su un’area geografica con centri e punti di attrazione” culturale; e, sintetizzando, conclude:
“Una politica culturale si propone lo scopo di definire la scala dei mezzi da utilizzare, la loro ripartizione in superficie nel paese e nella regione, la loro distribuzione, la loro natura, per assicurare nell’area considerata un’animazione, cioè un’amplificazione quantitativa del ciclo socio-culturale.
“Essa conduce alle seguenti nozioni: a) di soglia critica, al di qua della quale i mezzi utilizzati non hanno alcun effetto; b) di nuclei ripartiti sull’area, che danno luogo ad un reclutamento secondario; c) di criterio di efficacia, definito dal fatto che il cittadino dell’insieme sociale non si volge verso fonti esterne all’insieme; d) d’investimento psico-sociale, legato allo sforzo compiuto dal cittadino per farsi presente alle fonti di cultura; e) di specificità ottimale dei nuclei. – Queste potranno essere le basi di una politica culturale” (p. 101).
Questa prima sezione si chiude con l’ampio saggio "La politica culturale e lo studio delle comunicazioni di massa”. L’autore, George Gerbner, vi esamina la natura e la specificità dei mass media, le caratteristiche del processo istituzionale della formulazione dell’informazione e dei sistemi di messaggi; ed alla questione: quale sia il ruolo e quale la funzione di essi in una politica culturale, sostiene che loro obiettivo primario dev’essere la formazione di una coscienza pubblica e la sua interpretazione, per ottenere indicazioni valide per una politica culturale da realizzare entro tempi relativamente lunghi.
La seconda sezione passa a raccogliere saggi riguardanti le Definizioni e limiti di una politica culturale dello Stato. Quello di Mare Netter, partendo da una visione della cultura come partecipazione collettiva dei cittadini, sostiene che
“Nella nostra società, così a disagio nel suo capitalismo decadente come nel suo socialismo embrionale, è sparito il mecenate privato, o, se ancora esiste, è perché si aspetta un reddito immediato e non per il gusto di un investimento a lungo termine, e neanche di ’rango sociale’. A questo punto l’alternativa per la collettività è di sostituirsi al mecenate, o di rinunciare alla sua vita culturale. È in questo senso che lo Stato si rende conto del suo obbligo di sopportare gli oneri materiali dello sviluppo culturale, come si è a suo tempo accollata la missione di istruire”; e propone, per un’ideale politica culturale, i seguenti obiettivi: “Far sì che gli uomini d’oggi non siano più le vittime dell’aggressione del mondo moderno, che la loro vita spirituale e la loro vita materiale si equilibrino e si armonizzino, in modo che le loro scelte individuali o collettive non siano più determinate dalle pressioni indirette che esercitano i centri di potere ideologici ed economici. Che l’individuo, in una parola, sia immunizzato contro l’inquinamento spirituale pur riconoscendosi solidale col mondo in cui vive” (pp. 127 e 134).
Chi non sottoscriverebbe questo programma? – Tuttavia ci si chiede, con lo stesso Netter, se “dobbiamo correre il rischio di una manomissione degli spiriti da parte dello Stato” (p. 127), magari meno massiccia di quella posta in atto dal nazismo e dal fascismo ed a tutt’oggi perpetrata in tutti gli Stati comunisti. Né l’apprensione cessa del tutto leggendo quanto Joseph Rovan espone su La programmazione culturale (attuata o da attuarsi) in Francia e quanto Carla Dodo e Piero Castello – ma già siamo nel terzo ed ultimo settore: Ricerca di una politica culturale – espongono e documentano: la prima circa L’intervento dello Stato nell’organizzazione della cultura in Italia8, il secondo sui Centri di servizi culturali nel mezzogiorno9. È lo stesso Castello a lamentare indebite ingerenze politiche, scrivendo “di strapotere della DC locale, attestata su posizioni le più retrive”, e paventando che “istituito il filo diretto con Roma, qualsiasi tentativo di organicità alla realtà locale viene stroncato. La Cassa provvederà poi a censurare regolarmente quei programmi che contengano attività sospette di rilevanza socio-politica” (p. 220). Ma, continuando nella lettura dell’antologia, la suspicione di una strumentalizzazione politico-partitica della cultura diventa certezza, non tanto rispetto allo Stato, quanto da parte di associazioni “culturali” di sinistra, operino esse indipendentemente o con il sussidio di istituzioni statali. Il capitolo Il caso dell’ARCI10, di Milly Buonanno, la Notizia sulla contestazione culturale in Italia, di Renzo Paris, e la documentazione con la quale l’antologia si chiude, sono chiarificatori al massimo11.
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Col terzo volume che qui presentiamo – del saggista e critico cinematografico Filippo M. De Sanctis12 – si evince, se ce ne fosse ancora bisogno. che ormai la querelle tra apocalittici ed integrati rispetto alla “cultura di massa” non muove soltanto da una visione ideale umanistico-classica – celebrata dagli uni, e dagli altri rifiutata – della cultura, quanto da ben individuate ideologie sociali e politiche tutte attente alle “masse”, e dalle possibilità di propaganda ideologica che le comunicazioni di massa offrono loro. L’A., infatti, propugna una “politica culturale” auto-organizzata dalla base, prevalentemente operaio-contadina, anche usufruendo dei prodotti della cultura borghese: politica valida nei paesi come il nostro dove, lo Stato non coincidendo con un’ideologia, la produzione la conservazione e la diffusione della cultura avviene in economia di mercato.
Il sottotitolo del volume – L’analisi del film nelle discussioni di gruppo – ne indica l’argomento pratico-particolare, svolto nella seconda e terza parte, rispettivamente dedicate alle Prospettive metodologiche per l’analisi del film ed alle Strutture organizzative del pubblico e del potere pubblico. Invece il titolo – Il pubblico come autore – enuncia la tesi generale nella quale l’A. inquadra l’argomento pratico-particolare: tesi che egli sviluppa nella prima parte – Condizioni operative nell’esercizio della comunicazione televisiva –, via via trattando dei problemi intorno al ruolo classista degli audiovisivi, dei problemi del linguaggio audiovisivo e della risposta del pubblico, e, finalmente, degli audiovisivi come strumenti di cultura.
Rivendicando al pubblico la qualifica e funzione di “autore” – in accezione derivata in parte da W. Benjamin e in parte del suo omonimo Francesco De Sanctis13 – l’A. scrive:
”È vero che lo spettatore oggi ’è sempre pronto a diventare autore’, se intendiamo il termine in senso originario, di persona che diviene auctor: capace, cioè, nel caso nostro, di accrescere la propria personalità, la propria consapevolezza storica e sociale, sulla base non di una ’competenza letteraria’ o di una specializzazione filmica o televisiva, ma della propria storia, delle proprie esperienze, dei propri ’motivi di sviluppo’. In questo senso, il pubblico come classe diviene autore” (p. 84). Perciò, “creare uomini padroni del proprio destino resta la meta per quanti si occupano dei nuovi strumenti di comunicazione” (p. 22); scopo della discussione di gruppo è “che ciascuno possa crescere, liberandosi dagli ostacoli oggettivi e soggettivi che impediscono la propria evoluzione, quella del gruppo e della società in cui vive” (p. 147); il metodo ideale di discussione deve “assicurare allo spettatore-autore la capacità di crescere nella società di cui è parte, e di contribuire alla trasformazione di tale società” (p. 178).
Siffatte proposte programmatiche di una politica culturale, isolate, sono ineccepibili. Ma le “autorità” alle quali l’A. le appoggia – Marx, Enges e Lenin, Malinowski, Brecht, Hauser e Gramsci, Balazs e Lukacz, Barbaro, Della Volpe... –; gli “avversari” contro i quali, più o meno esplicitamente, polemizza14: tutto, insomma, il contesto, le degradano a manovre tattiche per una strategia culturale tipicamente marxista. Per l’A., l’uomo è tutto e solo “sociale” in senso economico-politico15. L’individuo è per il gruppo, ed in esso si dissolve; e il gruppo non è concepito che come classe proletaria. Perciò una politica culturale non può rinunciare a formare nei gruppi una coscienza proletaria, in funzione di una guerriglia culturale di popolo contro la borghesia. È quanto sinteticamente enunciava il "Documento di Fabbrico-1968”16.
“Il proletariato non esiste come individuo: i caratteri specifici della classe operaia si riscontrano nel complesso della classe stessa. La coscienza di classe non è un’addizione di coscienze individuali. Un operaio ha coscienza di classe quando opera con altri operai per la realizzazione di obiettivi che appartengono a tutta la classe operaia: per cui la classe operaia non può migliorarsi individuo per individuo. Quello sarebbe un miglioramento piccolo-borghese e nient’altro.
Una cultura che da individui produttori si rivolge a una massa di individui consumatori è e sarà sempre e comunque una cultura borghese. Questa cultura borghese, onesta o disonesta che sia, ha due fini: distruggere la coscienza di classe e sfruttare gli operai. Infatti la classe operaia, a contatto con questa cultura, si trasforma in pubblico (somma di individui) e in mercato. La borghesia quindi, imponendo coi suoi prodotti alla classe operaia di essere pubblico, tenta di liquefare, nel tempo libero, la tendenza di organizzarsi autonomamente per lottare. Questo risultato è inevitabile con qualsiasi tipo (anche onesto) di cultura borghese [...]. Rispondere a questo disegno strategico di dominio impiegando il tempo libero per organizzarsi in modo autonomo e originale: ecco una degna risposta di classe, ecco il preludio della conquista del potere culturale! ".
Ma non questa grave tara di origine, né altre carenze sulle quali per brevità sorvoliamo, giustificano una critica globale negativa del volume. Suo merito, intanto, è non aver spinto la teoria ideologica fino alla politica partigiana, poniamo, di A. Ferrero e C. Morgia o, tanto meno, a quella anarchico-populista dell’ultimo Baldelli17. Ma, soprattutto, merito del De Sanctis è l’averci offerto il frutto maturato in vent’anni di fervidissime esperienze nel settore. La metodologia organica che egli propone, in motivata polemica con altre (pp. 149 ss., 191, 282 ss).) ed applicando la pratica educativa dell’entraînement mental sviluppatasi in Francia nell’immediato dopoguerra (pp. 283 e 305), ci sembra, a prescindere dal suo retroterra ideologico, sostanzialmente valida. In tema di condotta di dibattiti cinematografici essa viene a completare quanto di buono era stato proposto, per esempio, da Pinel e Bazin-Egly, nonché dal nostro May. E più l’A. avrebbe meritato se – come nel suo agile Il cinema come strumento di cultura, del 1962 – avesse evitato l’infoltirsi di espressioni iniziatiche, oscurità ed astrattezze, toni predicatori e da comizio.
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A conclusione di questa già lunga rassegna, un rilievo sul posto e sul ruolo occupato dai cattolici in questo settore.
Veramente, non si può dire che brillino per la loro presenza: tanto nell’arengo della discussione teorica quanto nella ricerca nelle proposte ed in impegni pratici per una illuminata e coraggiosa politica culturale. Anche il recente magistero conciliare tarda a tradursi in prassi e, prima, in mentalità. Fermi ancora in posizioni moralistiche, o in denunce – oltre tutto, poco allettanti –, abbiamo lasciato ad altri il prestigio della cultura. Quando poi siamo passati, come nel cinema, ad iniziative culturali per i recettori – ed in ciò siamo stati pionieri –, spesso ci siamo baloccati in preziosismi estetici, in linguaggi ermetici, staccando la cultura – quella cinematografica e quella tout court – dalla vita; poi, tardivamente ricreduti, e forse complessati per quanto altri osavano, abbiamo anche noi, spesso, accettato una strumentalizzazione del cinema su schemi marxistoidi18, quasi che difettassimo, o ci vergognassimo, di una visione cristiana e cattolica dell’uomo e della società. La lettura di questi libri dovrebbe giovarci. I loro errori e lacune dovrebbero renderci meno incauti; ma la loro “fede” ed il loro impegno dovrebbero incitarci a più volere, a più sapere, a più ardire.
1 Cfr E. BARAGLI, Arrivano le video-cassette (Civ. Catt. 1970 II 59 ss); Nuove tecniche di registrazione riproduzione e ritrasmissione delle informazioni audiovisive (in Informazioni Radio Tv, 1970, nn. 6-7, 21 ss); Ancora sulle video-cassette (Civ. Catt. 1971 II 563 ss).
2 Da rilevare l’accezione di “cultura” proposta dalla costituzione conciliare Gaudium et spes: “Col termine generico di cultura si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale sia nella famiglia sia in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano” (n. 53). Citandola, Cesare CAMILLERI (in SIPRA, 1971, I, 21 ss) scrive: “Si trova una definizione straordinariamente pertinente di cultura in un posto quasi impensabile, nella costituzione conciliare Gaudium et spes”; e commenta: “Dove tutte le disquisizioni e distinzioni tra civiltà, cultura, civilizzazione, sono superate con bella agilità in un’accezione che stringe cordialmente la mano sia all’umanesimo che all’antropologia”.
3 E la nostra rivista, in questi ultimi anni, se n’è interessata. Cfr tra le altre recensioni: DUMAZEDIER J.-RIPERT A., Loisir et culture, Parigi 1966 (Civ. Catt. 1969 I 615); DORFLES G., ll Kitsch: antologia del cattivo gusto, Milano 1969 (Civ. Catt. 1970 III 315); ESCARPIT R., La révolution du livre, Parigi 1965 (Civ. Catt. 1969 I 615); GALLI G.-ROSITI F., Cultura di massa e comportamento collettivo, Bologna 1967 (Civ. Catt. 1969 III 305); GRITTI J., Cultura e tecniche di massa, Roma 1969 (Civ. Catt. 1970 I 616); GRITTI J.-TOINET P., La culture de masse, Parigi 1969 (Civ. Catt. 1970 I 616); SKORNIA H.Y:, Televisione e società in USA, Torino 1969 (Civ. Catt. 1970 IV 202); TARDIEU J., Grandeurs et faiblesses de la radio, Parigi 1969 (Civ. Catt. 1970 IV 305); TARDY M., Per una didattica dell’immagine, Torino 1968 (Civ. Catt. 1969 IV 309).
4 Marino LIVOLSI, Comunicazioni e cultura di massa, Milano, Hoepli, 1969, 8º, 515. L. 4.800.
5 Anche molti di essi sono stati ampiamente presentati nella nostra rivista; quali: L’industria della cultura, Milano 1969 (Civ. Cat. 1970 I 198); ALBER0NI F. L’élite senza potere, Milano 1963 (Civ. Catt. 1963 IV 54); ARANGUREN J.L., Sociologia della comunicazione, Milano 1967 (Civ. Catt. 1969 I 94); BRAGA G., La comunicazione sociale, Torino 1969 (Civ. Catt. 1970 III 540); ECO U., Apocalittici e integrati, Milano 1968 (Civ. Catt. 1970 I 155); KATZ E.-LAZARSFELD P.F., L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, Torino 1968 (Civ. Catt. 1969 IV 309); KLAPPER J.T. Gli effetti delle comunicazioni di massa, Milano 1964 (Civ. Catt. 1968 I 509); KRACAUER S., Theory of film, New York 1960 (Civ. Catt. 1963 IV 43); McLUHAN M., Gli strumenti del comunicare, Milano 1967 (Civ. Catt. 1967 III 495).
6 Ciò conferma ancora come valida la risposta che demmo al giornalista francese che, criticando l’Inter mirifica, lanciò lo slogan di “Un decreto privo di dottrina teologica, di sviluppo filosofico e di indagine sociologica”. Scrivemmo che “qualora il Concilio avesse voluto esporre [...] un’indagine sociologica circa gli strumenti della comunicazione sociale ed i fenomeni annessi [...], non era in condizione di assolvere un compito simile”: e lo provavamo notando: “L’universale diffusione raggiunta dagli strumenti della comunicazione sociale, la familiarità che ormai gli utenti ne hanno, il molto che se ne scrive – oltre che nei rotocalchi –, anche da autori ed in sedi che passano per competenti, inducono molti, magari colti e coltissimi in altri settori, a credere che la scienza, anche in questo abbia fatto grandi progressi, ed anzi che abbia già acquisito una bella quantità di certezze definitive. Ma i seri studiosi della materia sanno che la situazione è tutt’altra; che si tratta, cioè, di realtà nuove, in cui le ricerche compiute sono scarse, e che, tra queste, quelle veramente serie sono scarsissime: in ogni caso, sono molto settoriali, generalmente condotte in situazioni, per dir così, “esplosive”, cioè non stabilizzate, le quali, perciò, permettono ipotesi di lavoro o conclusioni, per lo più, soltanto particolari e provvisorie. L’estremo divario di opinioni, che è facile rilevare tra gli stessi studiosi più seri, lo prova: perché esso dipende, prima che da quadri mentali soggettivi, dall’inadeguatezza dei dati di cui si dispone e dall’incertezza della loro interpretazione” (E. BARAGLI, L’Inter mirifica, Roma 1969, 209).
7 Politica culturale? Bologna, Guaraldi, 1970, 8º, 308. L. 2.500.
8 Intervento che, direttamente o indirettamente, ed in maniera del tutto indipendente l’uno dall’altro, viene esercitato da almeno tre organi amministrativi: Presidenza del Consiglio, Ministro della Pubblica Istruzione e Ministero del Turismo e dello Spettacolo e da altrettante imprese pubbliche: la RAI-TV, L’Ente Autonomo Gestione Cinema, la Cassa del Mezzogiorno.
9 Si tratta di 80 centri di servizi culturali che dal 1967 operano nel Mezzogiorno nell’ambito dell’intervento straordinario della Cassa, con una spesa (a tutto il 1970) di oltre 9 miliardi di lire. L’esperienza coinvolge circa 400 operatori culturali. Nel 1969 gli enti gestori dei Centri erano: l’ISES (Istituto Sviluppo Edilizia Sociale), l’UNLA (Uni ne Nazionale Lotta Analfabetismo), il MCC (Movimento Collaborazione Civica), l’ENAIP (Ente Nazionale ACLI Istruzione Professionale), la Società Umanitaria, l’ISPES (Istituto Studio Problemi Sviluppo Economico Sociale). Inoltre era in corso il programma “Grandi Città”, gestito dal CIF (Centro Italiano Femminile) a Taranto, e dall’ISSCAL (Istituto Servizio Sociale Case Lavoratori) a Napoli, Foggia e Bari (pp. 213 e 216).
10 Si tratta dell’Associazione Ricreativa e Culturale Italiana, nata nel convegno che riunì a Firenze-’57 rappresentanti di circoli culturali, parlamentari, dirigenti di partito intellettuali di sinistra; e riconosciuta soltanto nel 1967, dopo reiterate richieste e rifiuti, in cui si contestava all’Associazione lo svolgimento di attività politiche. Nel 1968 contava poco più di 450mila soci, in 3.145 circoli, per lo più concentrati in Toscana e in Emilia, regioni di forte tradizione comunista. La sua presenza è tutt’oggi solo sporadica nelle regioni centro-settentrionali, e quasi inesistente nell’Italia meridionale. Nel IV congresso nazionale (1966) si rivendicava come matrice storica dell’ARCI il movimento operaio, e si affermò che essa “vuole rappresentare, per il movimento circolistico, non solo una piattaforma rivendicativa di lotta, ma una piattaforma unitaria di idee e di linee operative, che le consenta di configurarsi – dopo il partito e il sindacato – come la ’terza organizzazione’ del movimento operaio italiano” (p. 230).
11 Riguarda, tra l’altro, la contestazione studentesca alla Mostra del nuovo cinema di Pesaro-’68, l’occupazione de ll Saggiatore che nel ’69 affossò la nota editrice mondadoriana, la Guerriglia culturale di popolo di Fabbrico (Reggio Emilia) ’68, volantini del Comitato di agitazione della RAI-TV di Milano (giugno ’69), ecc.
12 Filippo DE SANCTIS, Il pubblico come autore. Firenze, La Nuova Italia, 1970, 341. L. 4.000. L’A. ha pubblicato profili di cineasti (A. Lattuada, A. Guinness, G.W. Pabst...), ha curato la presentazione di film (cfr Civ. Catt. 1959 III 200; 1967 IV 367).
13 Walter BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966, 35-36; Francesco DE SANCTIS, Scritti pedagogici, Roma, Armando, 1959, 163-164. Sono citati dall’A. rispettivamente alle pp. 82 e 108.
14 Di preferenza cattolici, magari rilevando a loro carico – ma anche a carico di nazisti e di fascisti – equivoci culturali altrettanto e più presenti nella Russia di Lenin, di Stalin, di Zdanov, di Kruschev e di oggi (pp. 49, 111 ...).
15 Si veda come il De Sanctis distorce la terminologia “strumenti di comunicazione sociale” contro l’accezione sociologico-neutra con la quale l’ha introdotta il Vaticano II: “Che il cinema e la televisione – scrive egli (pp. 54-55) – sono strumenti di comunicazione sociale è senza dubbio vero; ma è tanto generico da poter essere sostenuto senza contrasti dalle più diverse posizioni, anche ideologicamente opposte. Nell’aggettivo ’sociale’ si arriva, così, a comprendere gli oppressori e gli oppressi; chi usa lo strumento audiovisivo come mezzo di comunicazione ’alla’ cosiddetta massa, e il pubblico stesso; chi piega le originarie qualità e quantità comunicative del mezzo ai propri disegni, e chi deve faticosamente proporsi di raddrizzare tali storture se non vuole subire più o meno occulte sopraffazioni [...]. Parlare di strumenti di comunicazione sociale senza riferire tale definizione alle realtà delle strutture, delle sovrastrutture e del complesso di nessi che legano le une alle altre, significa attenersi ad una positivistica qualificazione [...]. A noi sembra, invece, che per individuare nuovi rapporti e nuovi impegni sia necessario cercare nella realtà della lotta di classe, dello scontro tra vecchio e nuovo, una dialettica qualificazione sociale degli strumenti”.
16 Politica culturale?, cit., 288.
17 Cfr Adelio FERRERO – Corrado MORGIA, Guida alla formazione di una cineteca, edita dalla UCCA (Unione Circoli del cinema ARCI), Roma s.d., 16º, L. 2.000; e Pio BALDELLI – Alberto FILIPPO, Cinema e lotta di liberazione (Roma, Samonà e Savelli, 1970, 74. L. 500): primo numero della collana: "Cinema e rivoluzione”, lanciata da "La nuova sinistra”. Nel primo, i due curatori fanno precedere al Catalogo generale dei film da programmare nei Circoli ARCI, due editoriali sullo stile esagitato dei Cahiers du cinéma: Il cinema politico (proposta ad una utilizzazione della raccolta) e Appunti “politici” ad un catalogo cinematografico (crisi e risurrezione del “nuovo cinema”). Nel secondo, come se il titolo non fosse sufficientemente chiaro, l’illustrazione della copertina è tutto un programma ... culturale: presenta un guerrigliero, rosso – presumibilmente del Vietnam, del Brasile, o di Cuba –, che brandisce alta una cinepresa-mitragliatrice... Del Baldelli saggista cinematografico, ancora lontano da toni maoisti, cfr Civ. Catt. 1964 IV 370; 1966 II 284; I970 II 202.
18 Cfr ZAMBETTI, Associazionismo ed enti locali, in Bianco e nero, 1971, 1-2, 49 ss.