Articolo estratto dal volume I del 1986 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
In questi ultimi anni si sono svolti in Italia tre convegni di studio sui problemi pastorali più o meno connessi con l’informatica. Il primo, nel 1984, su Informatica e uomo, a Padova1; il secondo e il terzo, nel 1985: su La vicenda uomo fra coscienza e computer, nella Cittadella di Assisi2, e su Società dell’informazione e missione pastorale della Chiesa, nell’Almo Collegio Borromeo di Pavia3.
Scorrendone gli Atti si rileva l’eterogenea estrazione culturale e professionale – quando non anche etico-ideologica – dei relatori, per la quale teologi e moralisti, filosofi e sociologi, antropologi, psicologi e psicanalisti affiancano ingegneri e telematici, ecologi, biologi e ginecologi, giornalisti, sindacalisti e imprenditori. Di qui, forse, l’incertezza semantica con cui vi si è trattato di (micro) elettronica e di tecnotronica, di computeristica, informatica e telematica, di società (e cultura) informatizzata e digitalizzata. E, forse, anche di qui la piuttosto scarsa distinzione tra i, provati o prevedibili, effetti diretti a breve termine e i, probabili o prevedibili, effetti psicosociali a lungo termine, di siffatte presenze tecnologiche nella vita individuale e associata dei loro utenti: fruitori o cavie che ne siano. Onde, pure, una mancata distinzione tra gli immediati problemi (morali e) pastorali relativi ai primi, implicanti singole soluzioni di pronto intervento, e quelli connessi con i secondi, comportanti, forse, un metodico aggiornamento di tutta la pastorale.
A far chiarezza, certamente gioverebbe un accurato previo approccio, se non altro libresco4 – da parte di quanti partecipano a siffatti convegni –, al mondo molteplice e mutevole dell’odierna (e prossimo futura) tecnologia micro-elettronico-informatica, con tutte le sue implicazioni psicosociali ed etico-culturali; in fiduciosa attesa che, almeno per il clero in formazione, si traduca finalmente in atto un insegnamento sistematico e metodico della materia, da decenni invano auspicato e sollecitato dal Magistero5. Tra l’altro ci si renderà conto di una prima necessaria distinzione da tener presente: tra una microelettronica che va sempre più invadendo e condizionando i veicoli e strumenti della comunicazione umana – in particolare di quella intenzionale e ludico-audiovisiva dei mass media –; e un’altra microelettronica, globale e più invadente, che va occupando e condizionando ogni altra attività, aspetto e struttura senza eccezioni, della vita umana. Distinzione che comporta differenti, e più o meno confluenti, interessi e problemi pastorali.
Nel «dopo mass media»
Per rendere agibili i primi due mass media il giornale (del 1830) e il cinema (del 1895/1927) – bastarono le energie meccanica e manuale, solo più tardi surrogate da quella elettrica. Invece, a dar vita agli altri due – la radio (negli anni ’20) e la televisione (negli anni ’50) – intervenne l’elettronica. Che, però, finché si limitò a usare soltanto la primitiva – preziosa, ma ingombrante e consumante – valvola termoionica, permise al magistero del Vaticano II (decreto Inter mirifica, del 1963) e alla postconciliare istruzione Communio et progressio (del 1971) di trattare dei quattro mass media ancora come un tutt’insieme di «strumenti della comunicazione sociale», con similari comuni problemi (morali e) pastorali. Ma da allora le cose sono molto cambiate6.
Infatti negli anni ’70-’80, la corposa elettronica della prima generazione (quella dei tubi a vuoto) è stata superata da quelle via via più maneggevoli della seconda (con i transistor), della terza (con i circuiti integrati miniaturizzati) e della quarta generazione (dei VCSL: Sistemi integrati a scala ridottissima); mentre il computer, da primitivo voluminoso strumento di solo calcolo – un hardware composto di tastiera numerica e di un vistoso display – è passato a mini- e micro-elaboratore anche di dati alfanumerici e diagrammi, analogici e digitali. Al quale, promosso a personal e a home terminal tuttofare, si sono affiancate svariate interfacce d’ingresso (input) e di uscita (output): «memorie» su nastro (cassette) e su disco (floppy disc), magnetiche e a raggio laser, registratori e stampanti: collegabili con altri terminali, banche dati, trasmittenti radio e televisive (telex, videotel, televideo): via etere, via cavo, via telefono (a fibre ottiche) e via satellite (ormai anche in diretta).
Davanti a siffatta rivoluzionata onnicomprensiva comunicazione telematica, come non riproporsi, per rapportarle all’azione pastorale, le tesi dei due massmediologi H. A. Innis (1894-1952) e M. H. McLuhan (1911-1980) su di un influsso tanto determinante delle tecniche di comunicazione sulla vita associata e sulla psicologia dei gruppi e dei soggetti umani da addirittura averne segnati, nella loro storia millenaria, gli epocali trapassi culturali? È vero che l’Innis7, proveniente dall’economia e dalla storiografia, si è interessato piuttosto alle modificazioni politico-strutturali indotte nella società umana dalle tecniche di comunicazione, mentre McLuhan8, proveniente dalla letteratura, si è interessato piuttosto alle modificazioni psicosociali indotte dalle stesse negli individui attraverso il sensorio; ed è anche vero che i due canadesi hanno non poco infirmato le loro argomentazioni ancorandole su un discutibilissimo determinismo monocausale. Tuttavia si deve loro riconoscere l’alto merito di aver finalmente spostato l’attenzione e gli interessi degli psicologi e pedagogisti, politologi, sociologi e massmediologi, dai contenuti – i cosiddetti «messaggi» – delle comunicazioni umane, anche e soprattutto verso i mezzi e strumenti delle stesse, attenti allo slogan-paradosso mcluhaniano «Il mezzo è il messaggio», opportunamente ritoccato in: «(Anche) il mezzo è un messaggio».
Ora, non dobbiamo meravigliarci se, lungo un millennio e mezzo di cultura-comunicazione quasi soltanto verbale-parlata, l’influsso del «mezzo» non abbia fatto problema nella Chiesa, così nella sua prassi pastorale come nel suo insegnamento della morale; quando, invece, lo fece, per esempio, l’uso delle immagini9. Ma, a cose passate, non si possono non rilevare, rammaricandosene, almeno due ritardi con i quali, data la prevalente attenzione ai contenuti, morali o immorali, non furono avvertiti due macroscopici fenomeni socioculturali, con implicazioni anche etico-pastorali, connessi con le prime due storiche tecniche della comunicazione verbale; che furono: a mezzo il secolo XV la stampa di Gutenberg e, nei primi decenni del XIX, il giornale moderno.
Nel primo caso, infatti, non ci si rese conto che il libro stampato, diffondendo la Bibbia a modico prezzo, e non più in latino ma nei volgari, ne andò rendendo materialmente agevole l’accesso da parte dei «laici», modificando e, in un certo senso, purificando la mediazione dei clerc. La mancata correzione di rotta, settant’anni dopo Gutenberg, fu causa involontaria della rottura che Lutero e i suoi Riformati dovevano legittimare con la dottrina del «libero esame».
E nel secondo caso soprattutto a causa di un giornalismo anticlericale, anticattolico, anticristiano e antireligioso per vari decenni si continuò a insistere nel riprovarlo e condannarlo, al più opponendo un’edificante «buona stampa» a quella «cattiva». Occorse mezzo secolo per cominciare a guardare il giornale anche e soprattutto come veicolo di quell’informazione10, che – linfa delle democrazie allora in espansione anche in Europa – doveva, nel nostro secolo, venire sanzionata come diritto in costituzioni e convenzioni, nazionali e internazionali, ed essere magistralmente proclamata anche dal Magistero, conciliare e postconciliare11.
Problemi aperti
Non basterebbero, certo, queste poche pagine a tracciare – anche per sfuggire a simili ritardi storici – una completa panoramica sui problemi di aggiornamento pastorale posti o proponibili dall’odierna (e futura) comunicazione massmediale tutta informatizzata. Del resto non la permetterebbero la modica competenza di chi le detta, e la comune incapacità di prevedere, oggi, tutti gli esiti psico-socioculturali del boom tecnologico in atto. Occorre, perciò, limitarsi ad alcuni rilievi e problemi, auspicando che ulteriori convegni di studio interdisciplinari concorrano ad approfondirli e a risolverli.
Il primo rilievo riguarda la particolare attenzione che – con buona pace dell’Innis e di McLuhan – sarà ancora e sempre necessario prestare alla quantità e qualità dei contenuti, sia nella predicazione attuata mediante quel che resta dei mass media, sia nella formazione ed educazione dei recettori al retto uso degli stessi. Modellati, come sono, sui testi conciliari12, lo ribadiscono concordi gli interventi del Magistero postconciliare in argomento13, principe tra i quali il nuovo Codice di diritto canonico14. Ma lo stesso occorrerà fare anche nell’uso dei nuovi mezzi e veicoli della comunicazione tele-informatizzata. Tali, ad esempio, già oggi le banche dati – locali, diocesane, nazionali (e mondiali?) –, memorizzandovi dati utili all’informazione e formazione religiosa e cristiana, occasionale o permanente, degli utenti più o meno lontani, e inducendo questi a ricorrervi. E tali domani, forse, anche le teleconferenze e i teleconvegni, già attuati da certo mondo industriale e politico; non esclusi a priori i telesondaggi e i telereferendum, che, più o meno validi o rischiosi, si profilano tecnicamente praticabili per una partecipazione, decisionale od orientativa, da parte delle «basi» sociali.
Un secondo rilievo riguarda tutta una serie di problemi, in parte nuovi rispetto a quelli già posti dai mass media, attinenti all’azione pastorale in rapporto alle nuove tecnologie di comunicazione. Problemi i cui fattori – occasionali o permanenti –, e le cui soluzioni – tra ottimali e minimali – dipenderanno insieme, e dalla differenziata specifica idoneità comunicatoria delle stesse tecnologie, singole e associate, e dai contesti culturali e religiosi, economici e politici, mutevoli o stabili, dei singoli gruppi.
Ad esempio, nell’assottigliarsi del clero rispetto a popolazioni a forte incremento demografico (nel Terzo Mondo), o in crescente mobilità territoriale e rimescolio etnico (tra noi), come armonizzare una nuova e più accessibile, ma non sempre più efficace, predicazione e catechesi mediata strumentale, con quella, per sé più efficace, verbale e rituale diretta? E, nella comunicazione tecnologica, come alternare e commisurare quella iconico-sonora, sinestesicamente ed emotivamente più suasiva, con quella verbale, orale o scritta, di meno facile accesso, ma razionalmente più persuasiva? Poi, tra la radio e la televisione: come far prevalere la prima, certo più valida nel trasmettere, nella loro purezza, messaggi ad personam, sulla seconda, propendente, invece, a ridurre ogni contenuto a spettacolo neutro, e a premiare il protagonismo, anche dell’evangelizzatore, a scapito della genuinità del Messaggio?
Non basta. Nella produzione e nell’uso pastorale di queste nuove tecniche di comunicazione, conviene piuttosto servirsi di mezzi e di istituzioni, pubblici e privati, altrui, così sgravandosi di ogni peso e responsabilità di finanziamenti e di gestione, oppure – là dove sia possibile e permesso – preferire i (più liberi?) mezzi propri? In questo caso: puntare, per principio, al prestigio rischioso del giornale, della radio, della televisione nazionali, magari via satellite, oppure attenersi a iniziative meno grandiose, ma più pastoralmente redditizie, regionali e locali? Nell’un caso e nell’altro, in un mondo ormai tutto opinionale e pluralistico qual è quello raggiungibile e modellato dall’odierna comunicazione tecnologica, come non ghettizzarsi presentandosi sempre e dappertutto religiosamente «etichettati», portatori, per giunta, di certezze assolute? D’altra parte, come ovviare alla crisi di agibilità e di autorità già indotta – oltre che nella famiglia e nella scuola – anche nella Chiesa, dall’onnidocenza informale dei mass media? E come rimediare alla globale crisi dei valori, causabile – si teme – dall’eccesso di un’informatizzazione che si limiti a raccogliere, elaborare e restituire esclusivamente «dati» bruti, ignorato ogni aspetto e processo ideologico e culturale, religioso e morale, degli stessi?
Nel mcluhaniano «villaggio globale»
Come si è detto, le risposte a tali quesiti pastorali non potranno non risentire, nei diversi luoghi e in tempi diversi, degli effetti psico- e socioculturali, oggi non facilmente prevedibili, che la comunicazione tele-informatizzata registrerà nei prossimi anni. Tuttavia, almeno due di questi effetti già oggi risultano accertati quanto basta per sollecitare particolari proposte pastorali. Il primo sta nell’innovata odierna concettualizzazione dello spazio e del tempo – e quindi anche del concetto di com-presenza – che potrebbe rinverdire tre secolari questioni di pastorale sacramentaria15; mentre il secondo sta nel pratico definitivo tramonto di ogni intervento censorio esterno sugli utenti della comunicazione tecnologica, con il conseguente dilatarsi dei loro ambiti di scelte personali, libere e responsabili.
Per il primo va ricordato che il concetto di tempo quale durata meccanicamente misurabile e, quindi, psicologicamente valutabile, è nato con l’invenzione dell’orologio. Il quale, dall’alto delle torri campanarie, nell’Europa del secolo XV cominciò a dividere in ore e in quarti d’ora le giornate e le notti delle culture contadine, non più vagamente commisurate al solo variare degli astri. L’orologio che, reso poi tascabile, nei secoli XVI e seguenti venne a frazionare in ore e minuti le giornate, gli incontri, gli impegni e le scadenze dei ceti borghesi; e che – fattosi onnipresente, con l’era industriale e postindustriale, nelle strade e nelle case, nelle fabbriche e negli uffici, nelle stazioni e negli aeroporti, e ormai sul polso dei bambini –, ha finito col «cronometrare» appunto, anche con riflessi neuro-epato-patogeni, ogni attività e minuto delle nostre esistenze.
Ma soprattutto in quest’ultimo secolo, al senso di una rapida compressione del tempo così misurato, ha fatto riscontro nell’uomo il senso anche di una rapida riduzione delle distanze spaziali, creando così una progressiva sensazione di generale fusione spazio-temporale – siamo nel mcluhaniano «villaggio globale» – di tutto e di tutti. Vi hanno influito, da una parte una – per secoli e per millenni inimmaginabile accelerazione esponenziale della traslazione nello spazio di uomini e di cose: la ferrovia nasce nel 1825, l’automobile è del 1878, il primo aereo è del 1903, quello a reazione è del 1937, e l’uomo sbarca sulla Luna nel 1969... E vi ha influito, dall’altra, la progressiva riduzione dei tempi intercorrenti tra l’accadimento di eventi e l’umana notizia e percezione degli stessi. Alla comunicazione, ancora in differita, del telegrafo Morse, del 1837, è seguita, infatti, quella ormai tra «com-presenti» del telefono di Bell, nel 1876, e del radiotelegrafo di Marconi, nel 1896; mentre alle prime fotografie radiotrasmesse nel 1926 seguiva, negli anni ’50, la televisione anche «in diretta». Oggi, infine, ad attuare una, anche «psicologicamente sentita» com-presenza tra distanti nello spazio, oltre alla comunicazione in «tempo reale» delle telescriventi, si annunciano quelle dei videotelefoni e dei, già ricordati, teleincontri e teleconferenze... Siamo ben oltre quanto fin dal 1967 poteva scrivere il filosofo e glottologo gesuita Walter J. Ong:
«I moderni mezzi di comunicazione [...] hanno annullato il tempo e lo spazio. Non si tratta solo del fatto che tempo e spazio non rappresentano più gli ostacoli di un tempo, ma, e questo è assai più importante, del fatto che essi hanno perduto il peso psicologico che solevano avere per l’uomo. La presenza umana è penetrata attraverso di essi e li ha dominati in modo assolutamente nuovo. Nella totalità dell’essere che è l’universo, fisico e cosciente insieme [...], il tempo e lo spazio appaiono sminuiti e il senso della presenza umana e della partecipazione umana a una consapevolezza comune è infinitamente accresciuto»16.
«Ormai — ha rilevato recentemente il sociopsicologo francese A. A. Moles — a partire dal momento in cui siamo costretti a ricorrere ai mezzi tecnologici, non esiste più vicino e lontano: il lontano è diventato vicino, ma viceversa il vicino è divenuto anche lontano. Tutte le cose sono alla stessa distanza: una nuova categoria filosofica si propone; l’opposizione tra l’immediato e il medialo: l’immediato ha luogo faccia a faccia, e il mediato, che è debitamente “medianizzato” dal ricorso a una tecnica, e dunque a un supporto»17.
Ora, due casi di fedeli distanti, e considerati come com-presenti in atti penitenziali o di pietà per tramite di tecnologie comunicative, in passato non hanno fatto problema per la Chiesa. È, infatti, del 1939 la notificazione con la quale la S. Penitenzieria Apostolica ammetteva la possibilità di lucrare l’indulgenza plenaria annessa alla benedizione Urbi et Orbi del Sommo Pontefice anche da parte di coloro che «da qualsiasi distanza» la seguissero via radio18, mentre nel 1958 lo stesso Dicastero precisava che «i fedeli potevano lucrare le indulgenze annesse al Rosario recitandolo con un compagno “presente” solo per mezzo della radio»19. Invece non si esclude che l’innovata odierna percezione di una reale com-presenza di individui a distanza possa rinverdire alcune, una volta vivaci, dispute di pastorale sacramentale: prima e più annosa tra le quali quella della celebrazione del matrimonio tra lontani. In proposito, ancora nel 1972 E. Corecco ricordava come
«a partire da Duns Scoto sino alla fine del secolo XVIII non è mai venuta meno la voce di teologi di gran valore, come quelle del Caetano, del Da Vitoria, di G. Vasquez, dei Salmanticenses, dei Da Vittoria, di G. Vásquesz, dei Salmanticenses, dei Virceburgenses e di R. Billuart, che hanno negato la sacramentalità del matrimonio per procura, pur riconoscendogli un valore come contratto naturale»20.
Ora, mentre, come quello pio-benedettino del 1917, così il nuovo Codice di diritto canonico del 1983, categoricamente precisano che «tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale che non sia perciò stesso sacramento» (cfr cann. 1012 e 1055), ma che «per contrarlo validamente è necessario che i contraenti siano presenti contemporaneamente, sia di persona, sia tramite procuratore»; (cfr cann. 1088 e 1104), sta il fatto che qualche laico si è permesso d’ipotizzare per il Duemila, tra i 64 nuovi servizi telematici, anche il tele-matrimonio mediante Videotex21, mentre, intanto, qualche coppia di non cattolici, nella californiana Silicon Valley, già si è permessa di passare dall’ipotesi ai fatti compiuti. E qualcuno si è chiesto se, in effetti, possano sentirsi più com-presenti due nubendi che si scambino il «sì» nuziale vedendosi, parlandosi e sentendosi per video-telefono – e, magari, così fatti compresenti, insieme col legittimo assistente ecclesiale, anche i propri testimoni, congiunti e amici –; oppure due lontani contraenti, uno dei quali – che forse in quel momento sta dormendo – dica il proprio «sì» per tramite di un procuratore.
La seconda questione riguarda la confessione e assoluzione sacramentale a distanza22. Com’è noto, prima del Concilio di Trento (1545-1563) la sua validità, se fatta al sacerdote assente per lettera o per altro intermediario, era generalmente ammessa. Poi, per circa mezzo secolo rimase questione disputata: da una parte impugnata da teologi e moralisti forti dell’autorità specialmente di san Tommaso (Summa theologica, P. III), dall’altra difesa da gesuiti guali il Bellarmino (1542-1621) e il Suárez (1548-1617), e dalla stessa loro Ratio studiorum (1586). Sotto Clemente VIII (1592-1609), con due decreti del S. Uffizio, del 20 giugno 1602 e del 7 giugno 1603, che la dichiararono indifendibile, fu il silenzio. Sennonché, a ridestarla, sulla fine del secolo scorso è venuto il telefono23. Allora teologi e moralisti si applicarono ad appurare se la comunicazione telefonica realizzasse o no il minimo di presenza richiesto tra il penitente e il confessore; e ci fu chi (B. Häring, 1964), nel dubbio, non ne escluse l’uso almeno in caso di estrema necessità e sub conditione. Resterà di competenza del Magistero, finora piuttosto contrario, precisare quale peso debba assumere a tal proposito l’ormai probabile imminente generalizzazione del videotelefono, che potrà attuare tra confessore e penitente una com-presenza ben diversa dalle «voci che non si vedono» e dal «monologo in incertum», solo attuabili col telefono, o con la radio e la televisione, di ieri24.
Il terzo e ultimo caso riguarda la presenza alla santa Messa da parte di lontani. Dal 1926, per un buon ventennio, Roma ne rifiutò la ripresa e trasmissione per radio. Le ostavano due motivi: una tradizionale allergia verso l’introduzione della tecnica nella vita liturgica25, e la tutela di una sacralità – Sancta sanctis! –, quale quella del Sacrificio Eucaristico, da non profanare accostandola a situazioni, ambienti e spettacoli profani o leggeri. Mentre, invece, per la ripresa e trasmissione televisiva della santa Messa – di fatto attuata per la prima volta a Parigi nel Natale del 1949 – nonostante vivaci polemiche continuate specialmente in Germania, Roma, non solo non oppose prevenzioni e remore, ma piuttosto abbondò in approvazioni e in esortazioni.
Già Pio XII, nel primo programma in Eurovisione, il 6 giugno 1954 confidava: «Pensiamo soprattutto a quelli tra voi che, confinati in casa dalla malattia o dall’età, cercano quella consolazione e quel conforto di cui abbisognano di più degli altri, partecipando spiritualmente alle funzioni religiose, ed unendo le proprie preghiere a quelle della Chiesa. È un fatto che, molto più che la radio, la televisione li porta entro le chiese [...]. Essa giova molto a creare come un’atmosfera di rispetto e di raccoglimento propria delle celebrazioni liturgiche, che faciliti all’uditorio la partecipazione alla fervida preghiera di fede e di adorazione che s’innalza al cielo dall’assemblea dei fedeli».
Lo stesso Pio XII, il 21 ottobre del 1955 rilevava: «La televisione può diventare anche lo strumento provvidenziale per una più vasta partecipazione alle manifestazioni della vita religiosa per tutti coloro che non potrebbero esservi presenti. La trasmissione delle cerimonie liturgiche [...] porterà la parola di Dio nelle case, negli ospedali, nelle prigioni, negli angoli più remoti dei centri abitati»; e nella Miranda prorsus, del 1957, riconoscerà «l’interesse con cui un vasto pubblico segue le trasmissioni cattoliche alla televisione [...]. I copiosi frutti che possono provenire [...] nelle trasmissioni televisive delle cerimonie liturgiche per quanti non vi potrebbero partecipare in altra maniera, ci inducono decisamente a incoraggiare queste trasmissioni» (n. 139). Sarà, infine, Giovanni XXIII, nella sua Messa televisiva del Natale 1961 a «pensare in particolare agli anziani e ai malati, che, non potendo uscire di casa, hanno almeno il conforto di assistere in quella notte alla Messa del Papa».
Nel 1963, diventata ormai prassi corrente, il Vaticano II stabilirà: «Le trasmissioni radio e televisive di funzioni sacre, specie se si tratta della santa Messa, si facciano con discrezione e decoro» (Sacrosanctum Concilium, n. 20); e nel 1971 la postconciliare Communio et progressio riepilogherà: «È desiderabile e opportuno che tra le trasmissioni religiose ci siano quelle della santa Messa [...]: con la massima cura, e per l’aspetto liturgico e per quello tecnico. Vi si tenga presente la non omogeneità del pubblico e, se le trasmissioni vanno oltre i limiti di una nazione, si tengano presenti anche le credenze religiose e i costumi diffusi in altri Paesi. Nella quantità e nella durata di queste trasmissioni si vada incontro ai desideri anche dei recettori» (n. 151).
Sennonché, anche per la santa Messa televisiva Roma ha creduto necessario prevenire ogni malinteso ripetendo almeno tre volte che con essa «non si soddisfa[ceva] al precetto di ascoltare la Messa nei giorni festivi secondo quanto disposto nei canoni 1248 e 1249 del preconciliare Codice di diritto canonico» 26; mentre nel nuovo Codice, del 1983 – stranamente ignorato ogni utile impiego della radio e della televisione – si è limitata a disporre in proposito:
«Can. 1248 – § 2. Se per mancanza del ministro sacro, o per altra grave causa, diventa impossibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica, si raccomanda vivamente che i fedeli prendano parte alla liturgia della Parola, se ve n’è qualcuna nella chiesa parrocchiale, o in altro luogo, celebrata secondo le disposizioni del Vescovo diocesano, oppure attendano per un congruo tempo alla preghiera personalmente, o in famiglia, o, secondo l’opportunità, in gruppi di famiglie».
Ci saranno rimasti delusi specie quanti, confidando nelle ripetute ammissioni ed esortazioni magisteriali sopra ricordate, auspicavano un’estensione del precetto festivo ai fedeli che – impediti dall’assistervi di presenza fisica – fossero almeno in grado di soddisfarlo, seguendo la santa Messa, in diretta per radio o per televisione27. Argomentavano, infatti: 1) che, intanto, la qualità della «presenza» alla santa Messa festiva dipendeva da un precetto positivo ecclesiastico e, dunque, dalla prudente, e non necessariamente immutabile, volontà del Legislatore; 2) che, anche a prescindere dalla radio e dalla televisione, nel caso della santa Messa, ab immemorabili e a tutt’oggi l’effettiva «presenza locale» è stata valutata dai moralisti in termini e misure tutt’altro che rigide e pacifiche28; 3) che, così nei territori di missione come altrove, il diradarsi dei celebranti rispetto all’aumento e alla mobilità dei fedeli, già va, e più andrà moltiplicando i casi di forzata assenza fisica dalle celebrazioni eucaristiche, mentre l’elettronica informatizzata ne va rendendo ubiquitaria una presenza telematica; 4) presenza che, se non è proprio ideale come quella locale, tuttavia permette, in compenso, da parte dei fedeli, una partecipazione psicologica personale senz’altro migliore di quella normalmente possibile in comunità locali che superino di troppo l’intimità delle piccole comunità parrocchiale e familiare, quali quelle delle grandi cattedrali, santuari, congressi eucaristici, piazza San Pietro...; 5) infine: una partecipazione psicologica personale che vale ottimamente a disporre i fedeli a ricevere le Sacre Specie distribuite in loco da un diacono, o da altro ministro a ciò abilitato, per così farli realmente comunicare nell’unico Pane e nell’unico Calice dell’unico «cosmico» Sacrificio del Cristo eucaristico. Va ricordato comunque che l’attuale disciplina ecclesiastica dispensa dal precetto quanti si trovano nell’impossibilità di adempierlo, senza imporre nessun aggravio e favorendo l’ascolto della Messa per radio o televisione come momento di devozione e preghiera.
Dalle difese socio-esterne alle difese personali-interne
Come si è accennato aprendo queste pagine, insieme con siffatto variare del concetto di com-presenza, almeno un altro effetto dell’odierna comunicazione tele-informatizzata già risulta a sufficienza appurato per sollecitare appropriati aggiornamenti nell’azione pastorale. Si tratta dell’enorme incremento delle scelte personali, ormai rese praticabili a tutti i fruitori di dette nuove comunicazioni29; e si tratta, insieme, della quasi impraticabilità, tecnica e psicologica, di qualsiasi intervento autoritativo esterno, censorio o inibitorio, anche nell’ipotesi di una sua ancor perdurante necessità o utilità a tutela degli stessi fruitori.
I fatti sono noti a tutti. Già negli anni dei mass media – contro l’art. 21 della Costituzione e degli artt. 528 e 529 del Codice penale – in fatto di stampa: tra giornali e riviste, rotocalchi e fumetti soft e hard-core, tutto, anche in Italia, è ormai acquistabile nelle edicole, circola liberamente in pubblico, penetra indisturbato nelle famiglie; e in fatto di spettacoli dilagano i cinema a luci rosse, mentre i film ammessi anche per i minori degli anni 18 e 14, per contenuti blasfemi, sboccati od osceni si differenziano sempre meno da quelli eufemisticamente qualificati «per adulti». In quanto, poi, alla radio e alla televisione, se le cose da noi andavano non troppo male quando la RAI-TV poteva operare in situazione di monopolio, anche i suoi livelli sono andati via via degradando da quando si è trovata a competere con l’escalation di volgarità e profanazioni, di erotismo e pornografia, sovente propinata dalle radio e dalle teletrasmittenti private.
Non basta. Con la telematica distribuita, alla comune controllabile informazione cartacea giornalistica fa concorrenza quella ad personam dei telex, televideo e videotex, accessibile all’istante via-cavo e telecomando; mentre i film, non pm imposti, come ieri, in serali spettacoli familiari, estradomestici e a pagamento, da forse un unico gestore locale: oggi sono ormai a tutti disponibili, tre o quattro nella stessa ora e gratis, in qualsiasi ora del giorno o della notte: sul teleschermo casalingo o personale portatile, in treno, in aereo, nelle autocorriere, negli ospedali, nelle carceri...: da alternare a piacere col gioco della pulsantiera cambiacanale, da registrare su dischi o in cassette, magari attingendoli – come ieri si faceva coi libri dagli scaffali – da banche dati, via cavo, via etere, via satelliti...
His stantibus rebus, qualsiasi informazione o segnalazione cautelativa religiosa e morale – come pure etico-culturale – rischierà ormai di arrivare tardiva rispetto a messaggi e film, presto «passati», o materialmente rimaneggiati; oppure rischierà di risultare incongrua rispetto alla mutata situazione psicologica di recettori, non più parte di «pubblici» immaginosamente affascinabili dai grandi schermi, ma passati a solitari quasi «lettori» di ministorie da caminetto. In ogni caso troverà masse di recettori che, pur dichiarandosi fedeli cristiani, risulteranno intolleranti di qualsiasi intervento interferente con i propri liberi comportamenti di adulti maturi, per giunta ormai mitridatizzati contro ogni suggestione di falsità e d’immoralità. Una pastorale aggiornata non potrà non tenerne conto.
Cinquant’anni fa, sull’esempio di quanto efficacemente aveva operato l’americana – ora deceduta – Legion of decency contro la (allora!) scandalosa produzione hollywoodiana, così Pio XI, con l’enciclica Vigilanti cura del 193630 estendeva a tutto il mondo cattolico la qua e là ancora oggi perdurante profilassi disciplinare delle qualifiche cinematografiche:
«... I pastori delle anime procurino di ottenere dai loro fedeli che facciano ogni anno, come i loro confratelli americani, la promessa di astenersi da tutti i film che offendano la verità e la morale cristiana [...] (n. 44). L’adempimento di questa promessa esige che al popolo consti chiaramente di quali film sia a tutti libera la visione, di quali sia lecita con riserva, infine quali film siano dannosi, o affatto cattivi. Il che richiede che il più spesso possibile, vengano redatti e stampati appositi elenchi dei film così classificati, in modo da portarli a notizia di tutti [...] (n. 41). A questo scopo è del tutto necessario che in ogni paese i vescovi istituiscano un Ufficio permanente di revisione, con lo scopo di promuovere i film onesti, classificare tutti gli altri secondo le categorie sopraddette e farne giungere i giudizi ai sacerdoti e ai fedeli» (n. 48).
Ora, pur restando sempre valida la conferma conciliare: «I recettori [...] non trascurino il dovere d’informarsi in tempo utile dei giudizi che circa queste materie esprimano autorità competenti, e di tenerne il conto voluto dalle norme della retta coscienza»31, vien fatto di chiedersi per quanto tempo ancora resterà tecnicamente possibile alla Chiesa rendere questo servizio ai fedeli, quando proprio nell’immediato postconcilio, le mutate condizioni tecno-psicologiche verificatesi nella comunicazione e nella cultura umane, hanno indotto la stessa Chiesa a togliere la forza di legge ecclesiastica, con le relative censure, all’Indice dei libri proibiti32 con il quale, per ben quattro secoli essa aveva insistito nel difendere e tutelare la fede e la moralità dei fedeli.
Verso «La 3ème vague»
Date le ormai inevitabili precoci esperienze, pure dei giovanissimi, in tutte le realtà umane anche meno edificanti, ieri occasionate soprattutto dai mass media e oggi incrementate dai media informatizzati, si tratterà dunque di passare dalla tradizionale pastorale delle difese esterne, immunizzatrici – disciplina del silenzio su argomenti e situazioni scabrosi, divieti, isolamento dal male... –, una volta possibile e anche efficace, ma che spesso tutelava virtù labili, non consolidate, alla costruzione interiore di personalità; umanamente e cristianamente consapevoli, in possesso di virtù consolidate, perché conquistate. Prima conditio sine qua non resterà quella formazione ed educazione specifica dei recettori, che, disposta e ordinata dal Concilio e da non pochi interventi postconciliari33, in quasi tutta la Chiesa è purtroppo rimasta lettera morta.
È un programma che rientra in quell’ulteriore aggiornamento generale della pastorale che, richiesto – come qui s’è visto – dall’invadenza della teleinformatica nei mezzi e strumenti della comunicazione umana, è sollecitata – come avremo modo di vedere – soprattutto dalla ricorda ta La 3ème vague di Alvin Toffler; vale a dire: dall’invadenza della computer-informatizzazione in tutte le attività e gli aspetti dell’odierna e prossimo-futura cultura umana.
1 Gli Atti sono in Informatica e uomo, a cura di R. BONFIGLIOLI, Messaggero, Padova 1984, recensito in Civ. Catt. 1981 III 332. Una relazione (Informatica e morale di G. Angelini) è riportata in Vita e Pensiero, (1983) n. 9, 18 e n. 10, 24.
2 Gli Atti sono in La vicenda uomo Ira coscienza e computer, Cittadella, Assisi 1985. Preziosi per il calibro specialistico dei relatori, gli interventi pongono più problemi che risposte sul presente e sul futuro dell’uomo in rapporto con Dio e con la natura; quindi più morali-deontologici che pastorali. Data, poi, l’eterogenea e pluralistica estrazione soprattutto dei meno specialisti, quali il Minoli e il Fornari, qua e là non difettano perplessità dottrinali. Il titolo, se non proprio fuorviante, risulta inadeguato rispetto ai contenuti. Quella che vi è presa in esame non è l’umanità informatizzata-digitalizzata, bensì un mondo tutto in radicale e rapida transizione dalla «natura» alla «cultura», di cui il computer è preso a simbolo: ultima «protesi dell’uomo» nell’accezione di McLuhan. Validi soprattutto i temi ricorrenti: prendere atto di quanto avviene, perché al centro resti «l’uomo», dato che è in gioco il significato fondamentale dello stesso esistere umano.
3 Gli Atti sono in preparazione presso la Morcelliana di Brescia.
4 Nell’abbondante editoria in argomento la nostra rivista ha segnalato, tra gli altri, questi titoli: P. ALATRI (a cura di), L’era del computer, Sansoni, Firenze 1984 (Civ. Catt. 1981 III 332); G. GIOVANNINI (a cura di), Dalia stampa al silicio, Gutenberg 2000, Torino 1984 (1984 IV 366); A. GLOWINSKI, Telecomunicazioni obiettivo 2000, SARIN-Marsilio, Venezia 1982 (1984 IV 370); G. GRANDI, Comunicazioni di massa, CLUEB, Bologna 1984 (1985 IV 301); B. LEFFVRE, lmmaginare l’avvenire, SARIN-Marsilio, Venezia 1983 (1984 IV 370); P.-A. MERCIER – F. PLASSARD – V. SCARDIGLI, La società digitale, ivi, 1984 (1985 IV 305); M. MISSIKOFF, La telematica, Nuova Italia, Firenze 1984 (1981 IV 307); G. RICHERI, L’universo digitale, De Donato, Bari 1982 (1983 IV 514). Sono, in ogni modo, da leggere e da studiare in proposito i due notissimi (e discussi) Rapporti: di S. NORA – A. MINC, Convivere col calcolatore, Bompiani, Milano 1979 e di S. MACBRIDE, Voix multiples, un seul monde, UNESCO, Paris 1980 (cfr Civ. Catt. 1982 IV 150); e anche i due Rapporti al Club di Roma, editi dalla Mondadori: G. FRIEDRICHS – A. SCHAFF (a cura di), Rivoluzione microelettronica (1982) e H. INOSE. – J. R. PERCE, Tecnologia dell’informazione e nuova cultura (1983). Infine, degna di attenzione tutta particolare è la recentissima raccolta curata da A. RUBERTI, Tecnologia domani, Laterza, Roma-Bari 1981. Il sottotitolo Utopie differite e transizione in atto precisa la portata del titolo, promettendo di rilevare le molte, già controllabili, transizioni oggi già in atto e, insieme, le più o meno probabili transizioni prossimo-future, da molti avanzata a proposito dell’odierna esplosione tecnologica, soprattutto informatica.
5 Così il card. W. W. Baurn, prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica, al Sinodo dei vescovi 1983: «Tra i tanti trattati nelle congregazioni generali del corrente anno [...], un nuovo testo dell’Istruzione sulla formazione dei futuri sacerdoti nei problemi culturali e pastorali connessi con gli strumenti della comunicazione sociale» (G. CAPRILE, Il Sinodo dei Vescovi 1983, La Civiltà Cattolica, Roma 1985, 361); e così Giovanni Paolo II, il 5 aprile 1984, alla Plenaria della stessa Congregazione: «Il vostro studio si è incentrato nella stesura definitiva di due documenti, sui quali lo scorso anno avevate avuto modo di esprimere il vostro parere. Mi auguro che le direttive in essi impartite [...], per quanto riguarda la formazione dei seminaristi all’uso degli strumenti di comunicazione sociale, possano recare nuovo impulso alla vita e all’attività dei seminari di tutto il mondo» (Oss. Rom., 6 aprile 1984).
6 Oltre agli autori e titoli sopra riportati, per una sufficiente e aggiornata informazione in argomento, cfr A. STEFANIZZI, Le nuove tecnologie di comunicazione, La Civiltà Cattolica, Roma 1981, 176, L. 18.000.
7 Cfr E. BARAGLI, Harold A. Innis, sociologo e massmediologo, in Civ. Catt. 1981 II 463.
8 Cfr ID., Il caso McLuhan, La Civiltà Cattolica, Roma 1980, 428, L. 20.000; ID., Dopo McLuhan, LDC, Torino-Leumann 1981, 107, L. 1.100.
9 Il Magistero dovette intervenire quando, prima tra i «barbari» dell’Europa e poi in Oriente, si verificarono reazioni iconoclaste. In EIvira (Spagna) un concilio del 303 decideva che «nella chiesa non ci devono essere pitture: dunque non si dipinga nelle pareti più ciò che è oggetto di culto e di adorazione». Verso il 600, il vescovo di Marsiglia, Sereno, preoccupato del pericolo d’idolatria, faceva distruggere e gettar via dalle chiese le immagini. Ma il papa san Gregorio Magno lo riprendeva enunciando un principio didattico-pastorale «Quello che la scrittura è per chi sa leggere, lo sono le immagini per gli analfabeti», che poi Gregorio II nel 726, e i concili di Nicea del 787, di Costantinopoli IV dell’870 e di Arras del 1025 avrebbero fatto proprio. Cfr in proposito:
Sinodo di Arles, Canoni IV e V: condanna di aurighi e teatranti (314);
Gregorio I, Lettera «Quod fraternitati» (599);
Gregorio II, Lettera all’imperatore Leone III «Ta grammata»;
Adriano I, Lettera «Deus, qui dixit» (787);
Concilio di Nicea II, Canoni riguardanti la vita ecclesiale (787).
10 Infatti, i primi accenni all’attualità; come oggetto proprio dell’informazione giornalistica si hanno in Leone XIII nel 1879, e poi in Pio XI nel 1932. Solo con Pio XII, nel 1957, si arriva a una precisazione inequivoca: «Caratteristica del giornale è l’essere legato all’attualità e partire dagli eventi che interessano il pubblico» (Segreteria di Stato, Lettera a Giuseppe Dalla Torre, presidente UIPC, n. 10).
11 Per il Concilio, cfr Inter mirifica nn. 5 e 12; per il postconcilio, cfr specialmente Communio et progressio nn. 16, 33 ss, 44 ss.
12 Cfr Inter mirifica, nn. 3, 13 e passim; Christus Dominus, n. 13.
13 Cfr PAOLO VI, Messaggio per la 8ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (16 maggio 1974), nn. 10-11; Discorso del 27 settembre 1974, n. 15; Allocuzione di apertura della 3ª Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi (26 ottobre 1974), n. 11; Esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi», nn. 45-46. Dichiarazione sinodale del 21 ottobre 1974, n. 9; Sinodo dei Vescovi-1977, Propositiones, n. 20. Messaggio dello stesso, del 29 ottobre 1977, n. 5; GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 28 ottobre 1978, e Catechesi tradendae, n. 46.
14, Cfr E. BARAGLI, I mass media nel nuovo Codice di diritto canonico, in Civ. Catt. 1983 III 209.
15 Cfr in argomento E. BARAGLI, Mass media e liturgia, in Comunicazione e pastorale, SRCS, Roma 1974, 191 ss; ID., Mass media e sacramenti a distanza, in Il cooperatore paolino, maggio 1982, 20.
16 W. J. ONG, La presenza della parola, Il Mulino, Bologna 1970, 350. Ma già nel 1934, riferendosi soltanto alla radio, l’architetto e urbanista, nonché biologo e socio-culturologo americano L. MUMFORD aveva notato: «Il più grande effetto sociale della radio è stata la restaurazione di un contatto diretto fra il capo e il suo popolo. Platone definisce la dimensione di una comunità limitandola a quel numero di cittadini che possa ascoltare la voce di un solo oratore. Oggi questo limite definisce non una città ma un’intera civiltà. Dove esistono degli strumenti neotecnici [elettrici] e una lingua comune esistono gli elementi di un’unità politica simile a quella che si attuava nelle più piccole città dell’Attica» (Tecnica e cultura, Il Saggiatore, Milano 1961, 164). Sulla percezione della com-presenza spaziale nelle arti antiche cfr L. TERMINE, L’estetica della simulazione, Paravia, Torino 1976, 106.
17 A. A. MOLES, Per una sociologia fondata sulla nuova comunicazione, in Mass Media, gen.-feb. 1983, 24.
18 Decreto del 15 giugno 1939, in AAS 31 (1939) 277. In data 14 dicembre 1985 la stessa Penitenzieria comunicava l’estensione pontificia di detta possibilità rispetto a tre benedizioni l’anno impartite dai vescovi, in date condizioni, a propri fedeli, via radio o televisione (cfr Oss. Rom., 18 dicembre 1985).
19 Decreto dell’8 ottobre 1918, in AAS 50 (1918) 973.
20 Cfr E. CORECCO, Dialogo ecclesiale o diaconia sinodale?, in Communio, 1972, n. 1, 32 ss. L’ A. è appunto tra quelli che hanno proposto l’abolizione del matrimonio per procura nel Diritto canonico.
21 Cfr A. GLOWINSKI (a cura di), Telecomunicazioni. Obiettivo 2000, SARIN-Marsilio, Venezia 1982, 85-87. Ma uno strano precedente si sarebbe verificato in Italia via radio nel lontano 1942. La Storia della RAI, vol. II: 60 anni di radio, RAI, Roma 1984, 162, alla data 29 gennaio 1942 reca: «Matrimoni via radio. Radiocronaca, diffusa a onde corte e medie dalla chiesa del Carmine di Napoli, in occasione della prima celebrazione in Italia di matrimoni per procura richiesti da impedimenti bellici. L’iniziativa si deve al Partito Nazionale Fascista, all’EIAR, alle autorità militari e religiose. Protagonisti quattro spose in città e quattro sposi in grigioverde, al fronte, schierati davanti all’apparecchio radio».
22 Per tutta la questione cfr DENZ.-SCHÖNM. 1994 s.
23 lnfatti nel 1884 venne chiesto alla S. Penitenzieria Utrum in casu extremae necessitatis dari possit absolutio per telephonum; e la S. Penitenzieria rispose: Nihil est respondendum. In che senso? Alcuni autori – tra i quali M. Zalba, B. H. Merkelbak e J. M. Ximénez – hanno opinato «Nel senso che la S. Penitenzieria si dichiarava incompetente in materia»; mentre altri come A. Villien forse più a proposito, vi hanno scorto un’implicita condanna. Recentemente, però, più possibilista si é mostrato B. Häring, che, in La legge di Cristo, Morcelliana, Brescia 1964, 541, ha scritto: «Poiché il telefono stabilisce una certa presenza tra il confessore e il penitente le parole percettibili dell’assoluzione, dopo le parole ascoltate della confessione, sono pur sempre l’elemento concreto più evidente nel segno sacramentale della Penitenza questa possibilità potrebbe essere presa in considerazione in casi di necessità». Su tutta la questione cfr D. Mosso, La messa teletrasmessa, Ed. Dehomane, Bologna 1974, 198.
24 Il problema è affiorato ma senza trovarvi echi anche nel Sinodo dei vescovi del 198 sul tema De reconciliatione et paenitentia in missione Ecclesiae. Mons. Paul Verschuren, vescovo di Helsinki (Finlandia), vi si è chiesto: «Che cosa dire delle confessioni per telefono, data la situazione di dispersione e la carenza dei confessori?» (G. CAPRILE, li Sinodo dei Vescovi - 1983, La Civiltà Cattolica, Roma 1985, 139). Vero è che nella Relazione del 10 ottobre il card. Martini ha poi notato: A quibusdam Patribus quaeritur utrum in lumine historiae Eccelsiae amplior potestas Ecclesiae agnoscenda sit in quarti sacramenti [la Penitenza] formis determinandis (cfr ivi, 792), ma riferendosi soltanto alla dottrina e prassi dell’assoluzione generale.
25 La prima (cauta) risposta romana sull’uso della luce elettrica nelle chiese risale al giugno 1895 (cfr Decreta authentica S. Rituum Congregationis, Poliglotta Vaticana, Città del Vaticano 1912, n. 3859). Furono le ristrettezze della prima guerra mondiale a farne legittimare l’uso almeno per la lampada del Santissimo (cfr n. 4434, del 23 febbraio 1916).
26 Cfr la Risposta “A proposito della Santa Messa in televisione” della S. Congregazione del S. Uffizio, non pubblicato negli Acta Apostolicae Sedis, ma soltanto sull’Osservatore Romano del 7/8 gennaio 1954; e anche: Pio XII, Miranda prorsus, n. 139; e lstruzione della Congregazione dei riti, del settembre 1958, n. 79 (ivi, nn. 1848 e 1896).
27 Così don G. Alberione, che nel 1961 inoltrava per il Vaticano II il votum di «concedere la validità di adempimento del precetto alla Messa audiovisiva soprattutto dove esistino circostanze difficili, per esempio nelle carceri» (Acta et documenta Concilio Oecumenico Vaticano II apparando: series I, Antipraeparatoria, vol. II, Consilia et vola episcoporum et praelatorum, pars VIII, Superiores generales, Typis Pol. Vaticanis 1961, 288-391). E così T. Goffi: «Si deve proclamare valida l’assistenza alla Messa trasmessa alla radio o alla televisione, non per sola devozione interiore del fedele, ma anche per reale partecipazione attiva al Sacrificio celebrato, anche se è partecipazione del tutto particolare [...]. Forse si dovrebbe indagare se la Messa trasmessa alla televisione non debba essere liturgicamente strutturata in modo nuovo. Dovrebbe apparire, non quale momento sacrale estraniato e contrastante col mondo profano, ma quale sacrificio di Cristo pienamente incarnato nella nostra cultura tecnico-scientifica» (in AA.VV., Liturgia e strumenti della comunicazione sociale, ACEC, Roma 1974, 27).
28 La curiosa casistica va, per esempio, dal «massimo di 44 metri di distanza dalla chiesa» del p. A. M. ARREGUI (Summarium theologiae moralis, Mensajero, Bilbao 1934, n. 418), alla recente concessione della Congregazione del Concilio (27 ottobre 1961), secondo la quale «nella trasmissione televisiva della santa Messa soddisfano al precetto anche quanti operino nell’interno della chiesa, ed anche quelli che nelle immediate vicinanze collaborino con essi» (cfr Congregazione del Concilio, Risposta all’Ente dello Spettacolo del 27 ottobre 1971).
29 Valido è in argomento l’ancora ignorato in Italia saggio di A. TOFFLER, The Third Wave, Morrow, New York 1980, volgarizzato in Francia come La 3ème vague, Denoël-Gonthier, Paris 1984.
30 Pio XI, Lettera enciclica «Vigilanti cura» del 29 giugno 1936.
31 Inter mirifica, n. 9. Confermata dalla postconciliare Communio et progressio del 1971: «Si dia il massimo peso ai giudizi autorevoli e competenti che, per mandato dei vescovi, in molte nazioni vengono dati dagli appositi Uffici circa l’importanza, l’utilità, la moralità e il valore cristiano di film, di programmi e di scritti» (n. 112). «Sono compiti degli Uffici nazionali e diocesani [...] dare giudizi sulle produzioni correnti [...], affinché i fedeli se ne giovino nelle loro scelte responsabili» (n. 170).
32 s. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione a riguardo dell’“Indice dei libri proibiti” del 14 giugno 1966, in AAS 58 (1966) 445. Ma già il Motu proprio «Integrae servandae» di Paolo VI (in AAS 57 [1965] 952) non ne faceva cenno. La Notificazione precisa che «l’Indice rimane moralmente impegnativo in quanto ammonisce la coscienza dei cristiani». Alcuni mesi dopo, la stessa Congregazione ne forniva ulteriori chiarificazioni con un Decreto del 15 novembre 1966 (in AAS 58 [1966] 1186).
33 Cfr lnter mirifica, nn. 9 e 16; Communio et progressio, n. 64 ss; Direttorio catechistico Generale della Congregazione del Clero, 11 aprile 1971, n. 123; PAOLO VI, Messaggio per la 12ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 23 aprile 1978, n. 6; GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la 19ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 15 aprile 1985, 5 e 6.