NOTE
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1 Neil POSTMAN, Ecologia dei media. La scuola come contropotere, Armando, Roma 1981, 198, L. 6.500.

2 Cioè Herb Kohl, Jonathan Kozol, Nat Hentoff, James Herdon e George Dennison, di cui cita, rispettivamente, gli scritti: 36 Children, Death al an Early Age, Our Children Are Dying, The Way It Spozed to Be e The lives of Children.

3 Precisa: «Altro sinonimo di ecologia: cibernetica; vale a dire: studio e scienza del controllo ed equilibrio di un sistema mediante feed back, il più chiaro esempio del quale è offerto dal termostato, un congegno che fa scattare forze opposte»; ed esemplifica: «Da un punto di vista ecologico, nulla è buono in sé [...]. Quello che rende buona o utile una cosa è l’esistenza d’una forza opposta che la tenga sotto controllo. La crescita cellulare in un organismo umano è un bene? La domanda è priva di senso. La rigenerazione e la crescita di cellule umane è un bene soltanto quando ci sono delle reazioni chimiche che ne ritardano l’espansione. Senza di esse si muore di cancro. È desiderabile lo sviluppo dell’autonomia individuale? Solo nella misura in cui esso è modulato dalle costrizioni di norme sociali. È un bene l’esercizio del potere politico? Solo dove esistono forze opposte a tenerlo a freno. Non c’è cambiamento, sviluppo o crescita immaginabile – a ogni livello di organizzazione – che non tardi a essere letale se non c’è una tendenza contrapposta nel sistema. Il benessere dipende tutto, in questo senso, dalla complementarità opposizionale. È un assioma ecologico, questo, applicabile a tutte le varietà di sistemi: e ha trovato espressione nella religione, nella politica, in biologia, in astronomia, per limitarci ad alcuni esempi» (pp. 20-21).

4 Nelle pp. 102-106 così esemplifica le materie abusivamente, secondo lui, introdotte nei programmi scolastici: l’educazione sessuale, il voler insegnare «tutto» al ragazzo, le motivazioni dell’apprendimento, l’orgoglio etnico, la preghiera a scuola e la psicoterapia; e ridimensiona il tutto precisando: «Ci possono essere buone ragioni in favore, per esempio, dell’educazione sessuale, o della preghiera, o della propaganda etnica, che io ho trascurato e con le quali, in fondo, potrei anche consentire. Ma tali ragioni dovrebbero essere di una portata quasi trascendente per essere ammesse» (p. 101).

5 «E ciò per tre ragioni: prima, perché gli insegnanti non sono in grado di fare i preti, gli psicologi, i terapisti, i riformatori politici, gli operatori sociali, i consulenti sessuali o i genitori; seconda, perché vale l’assioma ecologico che, più un’istituzione sociale usurpa le funzioni di un’altra, più s’indebolisce; terza, perché assumendo la responsabilità programmata di un problema, la scuola finisce col trasformarlo in problema sociale, con ciò moltiplicando motivi di angoscia per la gioventù» (p. 106).

6 Tali, per esempio, la sua diffidenza per la tecnica e per la sua progenie: la tecnicizzazione e la reificazione (pp. 78-80); e la scuola concepita come attività e ambiente elitario, anche nel linguaggio, nel comportamento e nel vestito (pp. 160, 169 e 170-173); non essendo «la scuola un’estensione, un prolungamento della strada, del cinematografo, del concerto rock o del campo di gioco [...]: ma un ambiente peculiare, che richiede l’applicazione di certe regole tradizionali d’interazione di gruppo controllata [...]. E sarebbe un grave errore cambiare le regole perché alcuni ragazzi le trovano dure e non riescono a operare all’interno di esse. Tali ragazzi bisognerebbe allontanarli dall’ambiente, nell’interesse di coloro che possono adattarvisi» (p. 169).

7 Per esempio, a proposito della teoria degli emisferi cerebrali (p. 37) e della stessa teoria termostatica nel rapporto tra istruzione scolastica e mass media (p. 75).

8 Cfr, in argomento, i tre saggiin Civ. Catt. Il caso McLuhan - L’uomo, le opere, il pensiero (1980 II 433), Per una valutazione critica del pensiero di Marshall McLuhan (1980 III 371) e Dopo McLuhan - Un’eredità con beneficio d’inventario (1981 I 115): ripresi e integrati in E. BARAGI.I, Dopo McLuhan, LDC, Torino 1981; e svolti più ampiamente in E. BARAGLI, Il caso McLuhan, La Civiltà Cattolica, Roma 1980.

9 Scrive: «I mezzi con cui la gente comunica costituiscono un ambiente reale e influente quanto il terreno sul quale vivono. Un mutamento radicale di tale ambiente comporta cambiamenti nell’organizzazione sociale, nelle predisposizioni intellettuali e nel senso di quello che è reale e valido. È compito dell’educatore accertare queste influenze, allo scopo di renderle evidenti e di tenerle sotto controllo» (p. 30). «Non sono le nostre istituzioni sociali a creare informazioni, ma é l’informazione che crea le nostre istituzioni sociali» (p. 37).

10 Definisce il curriculum: «Corso di studi che si propone di addestrare o coltivare sia l’intelletto che il carattere»; e anche: «Sistema particolare d’informazione, avente, nella sua totalità, lo scopo d’influire, insegnare, addestrare, coltivare la mente e il carattere della nostra gioventù» (pp. 44-45).

11 Altri due rilevanti vantaggi in partenza della televisione sulla scuola: quello dei brevi periodi di attenzione (short) richiesti da quella, rispetto all’attenzione prolungata (lezioni e compiti scolastici) richiesta da questa; e soprattutto l’indiscusso prestigio-autorità unidirezionale (priva di feed back) della prima, rispetto al contestabile (e oggi contestatissimo) prestigio-autorità della seconda; nella scuola dovendo valere il detto, e non chi lo dice, nella televisione, invece, valendo lo speaker-star che lo dice.

12 Citando B. Russell, nota: «Il linguaggio serve non soltanto a esprimere il pensiero, ma anche a rendere possibili i pensieri, che senza di esso non potrebbero esistere» (p. 126).

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Articolo estratto dal volume III del 1982 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Professore di ecologia dei media – vedremo poi di che si tratta – all’Università di New York, Neil Postman è noto in patria quale autore o curatore di una mezza dozzina di volumi. Quello che nel 1967, insieme a Charles Weingartner, lo lanciò fu Teaching as Subversive Activity (L’insegnamento come attività rivoluzionaria). Illuminato, pare, dalla contestazione studentesca del ’68, nel 1979 pubblicava questo antitetico Teaching as Conserving Activity (L’insegnamento come attività conservatrice), che nel 1981, con un titolo alterato1, l’ha reso noto anche in Italia.

Il volume, che nel suo humour americano si fa leggere con un certo gusto, tratta dell’insegnamento nella scuola, verosimilmente elementare e media, in tre momenti. Nella prima parte – La prospettiva – stabilendo il principio base al quale intonare le decisioni sul che cosa insegnare; nella seconda – I problemi – cercando d’individuare, appunto, i problemi ai quali l’insegnamento deve rispondere; infine nella terza – Alcune soluzioni – avanzando proposte sul modo pratico di procedere.

Per la tradizione, contro l’innovazione

Al Postman garba poco come vanno le cose nella scuola. Con altri cinque critici connazionali2 ne denuncia «il curriculum, l’irreggimentazione, la mentalità industriale, i voti, le prove standardizzate, la burocrazia scolastica, il raggruppamento omogeneo e tutte le altre convenzioni che continuano a dare alla scuola il suo carattere peculiare» (p. 12). In particolare, con John Holt di How Children Fail, la biasima in quanto

«l’esperienza scolastica è contraddistinta da noia, confusione e paura: specialmente dalla paura. Paura di non trovare la risposta esatta, paura di non capire certe cose alla maniera di tutti gli altri, paura di distinguersi e paura di non distinguersi, paura del biasimo, del ridicolo, dell’insuccesso» (p. 11).

A differenza, però, del Deschooling Society di Ivan Illich, egli non crede che la scuola sia irriformabile, e che perciò la strada migliore per il futuro sia quella di abolirla del tutto. Tuttavia non si nasconde quanto sia difficile rinnovarla, stante il circolo vizioso:

«Tu non puoi migliorare una classe fino a quando non avrai migliorato una scuola; ma non puoi migliorare una scuola fino a quando non avrai cambiato una comunità; e non puoi migliorare una comunità fino a quando non avrai migliorato la società dalla quale essa deriva i suoi valori» (p. 10).

Da dove, dunque, cominciare? Egli risponde: in una cultura forsennata quale l’odierna, da una visione termostatica della cultura,

«o dell’ecologia quale scienza e attività che riguarda il ritmo la portata e la struttura del cambiamento di un ambiente, quindi il modo di raggiungere in esso l’equilibrio, così nella mente come nelle foreste [...]. In altre parole, il principio è questo: la stabilità e vitalità di un ambiente dipendono non da quello che c’è nell’ambiente, ma dall’interazione dei suoi elementi, ossia, dalle loro diverse e dinamiche complementarità. Come esattamente le cose si completino a vicenda è un argomento ampio e difficile: questo è il vero soggetto [sic!] dell’ecologia; ma senza dubbio la forma più importante di complementarità è l’opposizione» (p. 20)3.

Di conseguenza – egli continua – l’istruzione deve cercare di conservare la tradizione quando il resto dell’ambiente è innovatore, e deve invece essere innovatrice quando il resto della società sia legato alla tradizione. Ora non c’è alcun dubbio che oggi

«la nostra cultura va esagerando nel cambiamento. Si parli di “shock del futuro”, di “shock culturale” o di “shock tecnologico”, il fatto è che un cambiamento eccessivo, troppo affrettato e di troppo lunga durata sta rendendo inutili le istituzioni sociali, e gli individui perpetuamente inadatti a vivere nelle condizioni della propria cultura [...]. Siamo arrivati al punto che il problema da risolvere, ora, è quello della conservazione, non quello dello sviluppo [...]. Senza una contro-argomentazione alla tesi prevalente del cambiamento, noi possiamo venire facilmente spazzati via: in realtà, ci stanno spazzando via [...]. La scuola rimane l’unico dei mass media [sic!] capace di proporre quello che nella cultura non accade. Perciò l’unica cosa di cui l’insegnamento non abbisogna nella nostra situazione presente è l’essere rivoluzionario, innovatore, fortemente carico di valori nuovi» (p. 23).

His positis, il Postman sta per una scuola che, una volta qualificatasi per questa sua funzione termostatica, non pretenda poi di espletare compiti tradizionalmente affidati ad altre istituzioni, quali la famiglia, la Chiesa, i medici, le organizzazioni politiche e civili4, oppure di contrastare gli eccessi e gli errori che in tali istituzioni emergano5. Quindi, da una parte propone una scuola libera da ogni mentalità teleologica, vale a dire che s’incentri su un’ideologia, dato che «l’ecologo non è un utopista, un ideologo, un dogmatico, e nemmeno un teologo [...]. La sua è una politica di rimedio. L’unico impegno del suo programma è quello di correggere gli squilibri» (p. 22); e dall’altra denuncia «l’educazione laica moderna», mancante di «un centro morale, sociale o intellettuale», a differenza, poniamo, «del cattolicesimo, che nel suo programma educativo offre un principio religioso unificante» (p. 111); ma poi, contraddicendosi, propone con Jacob Bronowski di The Ascent Man, un suo tema unificante: quello della storia

«come “ascesa dell’umanità”[...]. Essa, in effetti, [...] è la storia della creatività umana nel cercare di vincere la solitudine, l’ignoranza, il disordine. E comprende di certo lo sviluppo dei vari sistemi religiosi quali mezzi per dare ordine e senso all’esistenza [...]. Da questo punto di vista il curriculum scolastico può essere visto come un’esaltazione dell’intelligenza e della creatività umana, e non come una collezione insensata di diplomi e di lauree» (p. 113).

Seguendo Marshall McLuhan

Lasciamo che il lettore per suo conto soppesi queste posizioni, più o meno eccentriche, dell’Autore; il quale, del resto, tra il serio e il faceto, più di una volta si chiede se stia o no esagerando (pp. 40, 66 e 190); e lasciamo che lo stesso ne rilevi altre nel volume alquanto sorprendenti in un americano b; per attirare la sua attenzione su una caratteristica tutta particolare del Postman; vale a dire la sua dipendenza da Marshall McLuhan, non tanto rispetto all’uno o all’altro dei suoi momenti dottrinali7, quanto nell’applicazione integrale che egli fa del suo paradosso alla teoria termostatica sull’insegnamento scolastico.

Altrove s’è visto8 come, a parte l’espressione figurata e ambigua, il paradosso «Il mezzo è il messaggio», o si riduce a un semplice truismo, quando cioè per «mezzo» s’intendano le innovazioni tecnologiche in genere introdotte dall’uomo nel proprio ambiente, essendo per tutti ovvio e pacifico che l’uomo – come ogni altro essere nella natura – non può non risentire, e dunque in qualche modo non modificarsi, dell’ambiente in cui si trovi e viva; oppure si rivela manifestamente erroneo, quando cioè per mezzi s’intendano soltanto quelli della comunicazione intenzionale umana, e si pretenda, poi – col McLuhan più genuino – di negare ogni influsso al contenuto («il messaggio»), per riservarlo tutto al solo mezzo; mentre, invece, il paradosso comporta un significato, non solo accettabile, ma anche psicologicamente e sociologicamente, pedagogicamente e pastoralmente validissimo, quando – sempre riferendosi alla comunicazione umana – si ridimensioni nell’enunciato: «[Anche] il mezzo è [=opera] [un suo] messaggio [=effetto]».

Ora, tra le decine e decine di autori che, più o meno acriticamente, hanno fatto proprio il famoso slogan-paradosso, molti, così nella prima come nella seconda accezione, ne hanno poi comprovata la validità con persuasivi modelli del passato – tali, per esempio, gli sviluppi socio-culturali seguìti alle invenzioni dell’orologio e della staffa, della scrittura e della stampa... –; ma, salvo sviste, nessuno a tutt’oggi aveva cercato di convalidarlo proponendone applicazioni pratiche per il presente e per il futuro. Il Postman, invece, lo fa9, rilevando in particolare le radicali innovazioni socio-culturali indotte nel tessuto della società moderna da quel medium principe che è la televisione, più in quanto medium specifico che per i suoi contenuti-messaggi, e prospettando le caratteristiche che deve rivestire l’insegnamento scolastico in funzione termostatica rispetto a esse.

Si tratta, infatti egli sostiene, di due autentici curriculum 10, contrapposti: nei segni e codici (di parole e digitale quelli della scuola, d’immagini e analogico quello della televisione), nello stile (espositivo quello della prima, narrativo quello della seconda) e nella stimolazione-funzione (logica concettuale, «della ragione» quella della scuola; estetica emozionale, «della sensibilità» quella della televisione). E si tratta – egli rileva – di due curriculum l’uno dei quali, la televisione, parte troppo avvantaggiata rispetto all’altro, la scuola, soprattutto per due fattori: la durata e l’interesse11:

«Se supponiamo che un ragazzo americano vada a scuola per tredici anni, ossia dalla materna alle superiori, esso si troverà avanti a qualcosa come 11.500 ore di curriculum scolastico [...], mentre una stima indica che lo stesso ragazzo, tra i cinque e i diciotto anni, segue la televisione per circa 15.000 ore: un trenta per cento in più del tempo dedicato alla scuola» (p. 45).
Inoltre, «mentre il curriculum scolastico esige attenzione servendosi della legge, e magari della necessità occupazionale, quello televisivo non richiede tali controlli esterni. La televisione è un curriculum incentrato sull’interesse [...]. A differenza della scuola, che prima sceglie le sue materie, e poi va in cerca di metodi per attirare l’interesse, la televisione prima sceglie i modi per attirare l’interesse, facendovi poi adattare opportunamente il contenuto [...]. Nel curriculum scolastico, se lo studente ripetutamente non presta attenzione, l’insegnante può allontanarlo dalla classe. Nel curriculum televisivo, se lo studente continua a non prestare attenzione, è l’insegnante a venire allontanato dalla classe» (p. 46).

Per una strategia termostatica

Di qui la particolareggiata strategia termostatica avanzata dal Postman. La televisione si rivolge a pubblici indifferenziati, per proporre tutto a tutti, senza programma? La scuola si qualifichi per destinatari differenziati, e per programmi graduati nel tempo e per classi. La televisione offre una gratificazione «regalata» e immediata, annessa al semplice «vedere» le cose? La scuola punti su una gratificazione rimandata e «conquistata», annessa alla fatica del «capire» le cose. Nell’impatto psicologico la televisione favorisce una situazione solipsistica, e comportamenti individualistici? La scuola alleni gli alunni a situazioni comunitarie e comportamenti rispettosi del gruppo. La televisione premia l’informazione frammentaria e caotica, e misconosce la cultura? La scuola cerchi d’integrare quest’informazione nei valori di un’autentica cultura organica. La televisione offre una visione del mondo in sequenze casuali, di fatti tra loro incoerenti, validi quasi soltanto per i loro aspetti spettacolari? La scuola operi per una visione del mondo in sequenze lineari, di fatti razionalmente coerenti in rapporti di causa ed effetto. Ancora: la televisione non va oltre la contingenza del presente, e a una visione soggettiva del mondo? La scuola avvii l’alunno al senso della continuità storica, e lo guidi a persuadersi che il mondo ha anche un suo consistente senso oggettivo. La televisione, infine, semplifica all’eccesso i problemi dell’esistenza umana, e offre per essi risposte immediate, facili slogan e rimedi elementari? La scuola convinca, invece, che i problemi umani sono, per lo più, complessi, e che intricate ne sono spesso le soluzioni, e che slogan e risposte pronte quasi sempre risultano tanto devianti quanto sono perentorie. Da quanto precede il lettore non concluda che il Postman condanni tout court la televisione. Sulle orme di McLuhan egli replica:

«Non è vero; e, comunque, la faccenda qui non interesserebbe. La televisione non se ne andrà, e anzi, con tutta probabilità, continuerà ad aumentare la sua influenza e il suo prestigio nel nostro ambiente formativo. Sarebbe un perdere tempo e fatica il condannare la televisione, o formulare delle proposte per “migliorarla”. Naturalmente, la serietà, la maturità, la qualità generale del contenuto dei suoi programmi possono essere certo migliorate. Ma le caratteristiche di cui parlo sono profondamente inserite nella struttura della televisione. Esse sono parte integrante dell’ambiente che la televisione crea. Da questo punto di vista la televisione non può essere migliorata». E conclude: «Il vero problema pragmatico non è la televisione, bensì il suo rapporto con gli altri insegnamenti sistematici nell’ambiente dell’informazione» (pp. 60-61).

Tutelare e restaurare «l’uomo»

Due campi, in particolare, meritano di essere segnalati, in cui applicare questa strategia termostatica, in quanto riguardano la difesa e la restaurazione «dell’uomo», essere essenzialmente razionale e morale. Il primo concerne il linguaggio verbale: condizione e fattore essenziale dell’uomo animal rationale.

Cautamente accedendo alla teoria mcluhaniana dei due emisferi cerebrali umani differenziati, secondo il Postman «si può ragionevolmente immaginare che un’immersione eccessiva in simboli non-linguistici, analogici, avrà l’effetto di amplificare le funzioni dell’emisfero destro – largamente non-linguistico e non-logico –, inibendo nel contempo le funzioni di quello sinistro: fonte della massima parte del nostro potere di linguaggio» [...]; vale a dire: «di parlare, scrivere, contare e ragionare» (p. 61). Ora tale «è l’ambiente dell’informazione elettronica, con la televisione al centro, fondamentalmente ostile a modi di espressione concettuali, segmentati, lineari, cosicché tanto lo scrivere quanto il parlare perdono parte del loro potere» (p. 61). «Se immaginiamo una simile tendenza portata alle estreme conseguenze per secoli, potremo configurare della gente “legata alle proprie emozioni” [...], vivente in un mondo esistenziale di esperienza immediata, che non riesce a “pensare”, nel modo in cui abitualmente usiamo questa parola. In altri termini: gente il cui stato è analogo, in qualche modo, a quello di un babbuino dei tempi moderni» (p. 63)12.

A questo punto egli si chiede: «Sto forse esagerando?»; ma, a conferma, nota:

«Gli effetti cui alludo si possono osservare nel parlare frammentario e impaziente dei giovani, e nel loro scrivere illogico e asintattico» (p. 66). «Le capacità linguistiche della nostra gioventù appaiono in diminuzione [...]. Lo scritto, che è la dimostrazione più chiara della capacità del pensiero analitico e sequenziale, appare sempre più come una forma estranea a molti dei nostri giovani» [...]. Molti insegnanti trovano i loro studenti «scarsamente attrezzati, e non coerenti, nel parlare di qualche cosa che offra una pur minima complessità» (p. 64).

L’altro piano particolare su cui, nella visuale del Postman, l’educazione è chiamata ad applicare la sua strategia termostatica è quello morale, dato che, di fatto, «i padroni dei mezzi di comunicazione hanno semplicemente usurpato le funzioni degli esponenti religiosi nell’articolare i valori morali secondo i quali noi dovremmo vivere», e dato che la televisione in particolare «avrebbe sostituito il codice morale tradizionale con una sua Tesi Tecnologica» (p. 85). Scrive:

«Quanto questa tesi tecnica giunga a rappresentare l’equivalente moderno del Discorso della Montagna lo mostra con stupefacente chiarezza la pubblicità televisiva. Qual è la soluzione da essa offerta a ogni problema? [...] La risposta è che troveremo pace e felicità con l’aiuto della tecnologia [...]. Essa ci dice che esiste, qua o là, un prodotto, un detergente, una macchina che ci libera da qualsiasi scossa ereditaria della nostra carne. Noia, ansietà, timore, invidia, pigrizia: c’è rimedio per questo e altro. I prodotti e i servizi reclamizzati prendono il posto delle opere buone, della pietà, del timore reverenziale, dell’umiltà, della trascendenza. Nella pubblicità televisiva, in altri termini, non ci sono le deficienze morali che noi siamo soliti supporvi. Né si prescrivono itinerari convenzionali alla redenzione spirituale. C’è però il Peccato Originale, consistente nella nostra ignoranza d’una tecnica o d’una tecnologia che offra felicità. Possiamo raggiungere uno stato di grazia partecipando alla proclamazione di esso, che avviene ogni sei o sette minuti. Ne consegue che la più devota è quella persona che conosce il più ampio spiegamento di tecnologie, mentre eretico è colui che volontariamente ignora quello che va usato» (p. 84).

Non si esclude che qualcuno respinga il Nostro tra gli apocalittici della televisione, magari scagionandolo col basso livello culturale col quale essa si diffama nel suo Paese. Non sembra, tuttavia, che in questa sua diagnosi e terapia sia tutto da buttar via. È la ragione per la quale, dopo averne presentato le grandi linee, ne raccomandiamo la lettura, non solo ai docenti nelle scuole, ma anche agli educatori e ai pastoralisti, quale sussidio e sprone nell’educazione dei recettori dei mass media a un loro uso proficuo.

1 Neil POSTMAN, Ecologia dei media. La scuola come contropotere, Armando, Roma 1981, 198, L. 6.500.

2 Cioè Herb Kohl, Jonathan Kozol, Nat Hentoff, James Herdon e George Dennison, di cui cita, rispettivamente, gli scritti: 36 Children, Death al an Early Age, Our Children Are Dying, The Way It Spozed to Be e The lives of Children.

3 Precisa: «Altro sinonimo di ecologia: cibernetica; vale a dire: studio e scienza del controllo ed equilibrio di un sistema mediante feed back, il più chiaro esempio del quale è offerto dal termostato, un congegno che fa scattare forze opposte»; ed esemplifica: «Da un punto di vista ecologico, nulla è buono in sé [...]. Quello che rende buona o utile una cosa è l’esistenza d’una forza opposta che la tenga sotto controllo. La crescita cellulare in un organismo umano è un bene? La domanda è priva di senso. La rigenerazione e la crescita di cellule umane è un bene soltanto quando ci sono delle reazioni chimiche che ne ritardano l’espansione. Senza di esse si muore di cancro. È desiderabile lo sviluppo dell’autonomia individuale? Solo nella misura in cui esso è modulato dalle costrizioni di norme sociali. È un bene l’esercizio del potere politico? Solo dove esistono forze opposte a tenerlo a freno. Non c’è cambiamento, sviluppo o crescita immaginabile – a ogni livello di organizzazione – che non tardi a essere letale se non c’è una tendenza contrapposta nel sistema. Il benessere dipende tutto, in questo senso, dalla complementarità opposizionale. È un assioma ecologico, questo, applicabile a tutte le varietà di sistemi: e ha trovato espressione nella religione, nella politica, in biologia, in astronomia, per limitarci ad alcuni esempi» (pp. 20-21).

4 Nelle pp. 102-106 così esemplifica le materie abusivamente, secondo lui, introdotte nei programmi scolastici: l’educazione sessuale, il voler insegnare «tutto» al ragazzo, le motivazioni dell’apprendimento, l’orgoglio etnico, la preghiera a scuola e la psicoterapia; e ridimensiona il tutto precisando: «Ci possono essere buone ragioni in favore, per esempio, dell’educazione sessuale, o della preghiera, o della propaganda etnica, che io ho trascurato e con le quali, in fondo, potrei anche consentire. Ma tali ragioni dovrebbero essere di una portata quasi trascendente per essere ammesse» (p. 101).

5 «E ciò per tre ragioni: prima, perché gli insegnanti non sono in grado di fare i preti, gli psicologi, i terapisti, i riformatori politici, gli operatori sociali, i consulenti sessuali o i genitori; seconda, perché vale l’assioma ecologico che, più un’istituzione sociale usurpa le funzioni di un’altra, più s’indebolisce; terza, perché assumendo la responsabilità programmata di un problema, la scuola finisce col trasformarlo in problema sociale, con ciò moltiplicando motivi di angoscia per la gioventù» (p. 106).

6 Tali, per esempio, la sua diffidenza per la tecnica e per la sua progenie: la tecnicizzazione e la reificazione (pp. 78-80); e la scuola concepita come attività e ambiente elitario, anche nel linguaggio, nel comportamento e nel vestito (pp. 160, 169 e 170-173); non essendo «la scuola un’estensione, un prolungamento della strada, del cinematografo, del concerto rock o del campo di gioco [...]: ma un ambiente peculiare, che richiede l’applicazione di certe regole tradizionali d’interazione di gruppo controllata [...]. E sarebbe un grave errore cambiare le regole perché alcuni ragazzi le trovano dure e non riescono a operare all’interno di esse. Tali ragazzi bisognerebbe allontanarli dall’ambiente, nell’interesse di coloro che possono adattarvisi» (p. 169).

7 Per esempio, a proposito della teoria degli emisferi cerebrali (p. 37) e della stessa teoria termostatica nel rapporto tra istruzione scolastica e mass media (p. 75).

8 Cfr, in argomento, i tre saggiin Civ. Catt. Il caso McLuhan - L’uomo, le opere, il pensiero (1980 II 433), Per una valutazione critica del pensiero di Marshall McLuhan (1980 III 371) e Dopo McLuhan - Un’eredità con beneficio d’inventario (1981 I 115): ripresi e integrati in E. BARAGI.I, Dopo McLuhan, LDC, Torino 1981; e svolti più ampiamente in E. BARAGLI, Il caso McLuhan, La Civiltà Cattolica, Roma 1980.

9 Scrive: «I mezzi con cui la gente comunica costituiscono un ambiente reale e influente quanto il terreno sul quale vivono. Un mutamento radicale di tale ambiente comporta cambiamenti nell’organizzazione sociale, nelle predisposizioni intellettuali e nel senso di quello che è reale e valido. È compito dell’educatore accertare queste influenze, allo scopo di renderle evidenti e di tenerle sotto controllo» (p. 30). «Non sono le nostre istituzioni sociali a creare informazioni, ma é l’informazione che crea le nostre istituzioni sociali» (p. 37).

10 Definisce il curriculum: «Corso di studi che si propone di addestrare o coltivare sia l’intelletto che il carattere»; e anche: «Sistema particolare d’informazione, avente, nella sua totalità, lo scopo d’influire, insegnare, addestrare, coltivare la mente e il carattere della nostra gioventù» (pp. 44-45).

11 Altri due rilevanti vantaggi in partenza della televisione sulla scuola: quello dei brevi periodi di attenzione (short) richiesti da quella, rispetto all’attenzione prolungata (lezioni e compiti scolastici) richiesta da questa; e soprattutto l’indiscusso prestigio-autorità unidirezionale (priva di feed back) della prima, rispetto al contestabile (e oggi contestatissimo) prestigio-autorità della seconda; nella scuola dovendo valere il detto, e non chi lo dice, nella televisione, invece, valendo lo speaker-star che lo dice.

12 Citando B. Russell, nota: «Il linguaggio serve non soltanto a esprimere il pensiero, ma anche a rendere possibili i pensieri, che senza di esso non potrebbero esistere» (p. 126).

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
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