NOTE
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1 Ne hanno parlato, tra gli altri, G. NASCIMBENI, in Il Corriere della Sera del 31 luglio 1975; O. CALABRESE, in l’Unità; del 4 agosto 1976; D. BIONDI, in Il Resto del Carlino del 22 agosto 1976; F. CAMON, in Il Giornale del 25 agosto 1976; M. BIGGERO, in Il Giorno del 18 ottobre 1976.

2 Tra gli autori che ne hanno trattato ricordiamo: C.B., I ragazzi e Carosello, in Rivista del cinematografo, 1973, n. 12, 612; O. CALABRESE, Il fenomeno Carosello e Spettacolo e reclame in Carosello, in SIPRA, 1974, n. 6, 91-100; 1975, nn. 1/2. 94; G.P. CESERANI, I persuasori disarmati, Bari, Laterza, 1975, 90-95; A. FARNIA, Televisione e democrazia dell’informazione in Italia, in Questitalia, 1969, n. 133, 11-20; FAX, Dieci anni di pubblicità televisiva, in SIPRAdue, 1966, n. 2, 5-11; A. FUÀ, Il racconto pubblicitario televisivo, in SIPRA, 1973, n. 6, 20-27; C. GAGLIARDI, Carosello al Museo d’arte moderna di New York, in Studi Cattolici, 1971, n. 128, 714 ss.; G. GALLI – V. MELCHIORRE – F. ROSITI – F. SELINGHERI PES, Modelli e valori della pubblicità televisiva, in Ikon, 1969, nn. 69/70, 123-173, ed anche, meno documentato, in Quaderni Ikon, 1970, n. 12, 3-36; A. GIOVANNINI, Carosello in pillole, Milano, L’Ufficio Moderno, 1973; M. GIUDICI, La teletrappola, in Edar, 1975, n. 34, 566 ss.; G. GUARDA, Zoom su Carosello, in SIPRAdue, 1968, n. 6, 54-58; Un’eredità scomoda, in Bonnie e Clyde, Supplemento a SIPRAdue, 1969, 4, 38-48; Carosello come allo stadio, in SIPRA, 1970, n. 5, 120-123; N. IVALDI, La pubblicità, Padova, Radar, 1969, 42-51; M. MARCHESI, Caro Carosello, in SIPRAdue, 1969, nn. 1/2, 21-28; E. MARIGONDA, Rapporti tra parte spettacolare e parte pubblicitaria nel Carosello televisivo, in Ikon, 1971, n. 79, 9-37; A. MURA, La pubblicità: discorso pedagogico, Roma, Bulzoni, 1975, 57-62; G. ROMANO, I ragazzi e la pubblicità, in Rivista del cinematografo, 1973, n. 12, 589; R. S1GURTÀ, La pubblicità televisiva nel rapporto col suo pubblico: il gioco di Carosello, in AA.VV., Pubblicità e televisione, Torino, ERI, 1968, 193-198.

3 Seguirono, parte sul I parte sul II programma, nel 1959 Gong e Tic Tac, nel 1961 Arcobaleno, nel 1962 Intermezzo, nel 1964 Girotondo, infine nel 1968 e dopo: Do-Re-Mi, Break...

4 Per ogni inserto, la tariffa per il solo affitto del tempo-antenna è salita dal milione e mezzo del 1957 ai quasi sette milioni di oggi; il che, per ogni ciclo di sei trasmissioni, fa la bellezza di trenta e passa milioni; ai quali occorre aggiungere altri milioni per il filmato: una decina e più, se si ingaggiano grossi nomi di registi e di attori; sicché si va non molto lontano dai cinquanta milioni. E non siamo ancora al costo reale, perché – come ha notato, non sappiamo quanto correttamente, O. Calabrese sull’Unità; – «ad essi vanno aggiunte le percentuali dell’agenzia pubblicitaria [...]. Per farla breve: ogni singolo short costava in media venti-venticinque milioni; dieci Caroselli: duecentocinquanta milioni».

5 Perché la RAI-TV – a differenza delle televisioni commerciali estere, che si reggono esclusivamente sui proventi della pubblicità – si dava e si dà come servizio pubblico e, come tale, già finanziato col canone dei suoi abbonati. «Il vizio risale alle origini dell’Istituzione, vale a dire al Regio decreto-legge del 1º maggio 1924, n. 65. istitutivo dell’allora URI (= Unione Radiofonica Italiana), col quale venivano definiti i contenuti delle radiodiffusioni: concerti, teatro, conversazioni, notizie. Veniva inoltre regolato il sistema di finanziamento ai futuri concessionari attraverso la pubblicità commerciale e i canoni di abbonamento, una prassi che resterà immutata in tutta la storia della radiodiffusione italiana, l’unica al mondo ad adottare entrambe le forme di entrate, considerate incompatibili fra loro in altri Paesi» (F. MONTELEONE, La radio italiana nel periodo fascista, Venezia, Marsilio, 1976, 27).

6 Marcello Marchesi, autore di alcuni tra i più fortunati slogan «caroscllari» l’ha detto «un mini-short, che sta a un film come un telegramma sta a un romanzo».

7 La rassegna, a cura della SIPRA – l’ente che gestisce la pubblicità della RAI-TV –, è avvenuta alla presenza di critici televisivi, studiosi di mass media, pubblicitari ed operatori economici, nel settembre 1971, su invito del direttore dello stesso Musco, Van Dick: «convinto che la chiave del successo dei prodotti pubblicitari italiani era anche nel proporre una formula nuova e funzionale». A detta dei critici dell’Associated Press e del New York Times, si trattò «di una manifestazione artistica e di una lezione che gli enti televisivi americani e i pubblicitari USA dovrebbero non dimenticare». Con tutta probabilità siffatti elogi furono anche in reazione al modo barbaro con cui colà viene praticata la pubblicità televisiva, interrompendo continuamente tutti i programmi, anche i più seri. Non per nulla l’ammiraglio John Will, presidente della Camera di Commercio italo-americana, dopo aver assistito alla rassegna affermò che era venuto il momento di cambiare radicalmente il sistema pubblicitario americano: «Non vogliamo essere trattati come bambini ritardati. Chiunque si pone di fronte ai nostri programmi televisivi e assiste agli shorts che interrompono così frequentemente le trasmissioni, non può fare a meno di sentirsi offeso».

8 La SIPRA (= Società Italiana Pubblicità per Azioni), il cui capitale è tutto della RAI-TV, concessionaria del tempo-antenna, reperisce la clientela e ne fissa le tariffe; la SACIS (= Società per Azioni Commerciale Iniziative Spettacolo}, anch’essa consociata alla RAI-TV, è competente per il controllo tecnico dei programmi. Trattando di «operazioni della SIPRA, certamente non al di sopra di ogni sospetto», O. Calabrese scriveva su l’Unità: «Per esempio: il regolamento della Società prevedeva che chi desiderasse acquistare una serie di spazi dovesse impegnarsi ad allargare la propria campagna promozionale acquistando obbligatoriamente anche un certo spazio radiofonico. Ma non è tutto: quando l’inserzionista avesse deciso di affiancare a quella televisiva anche una campagna di stampa, sarebbe stato in certo qual modo obbligato a dirottare i propri annunci anche su riviste e quotidiani per i quali non aveva il minimo interesse, ma che erano gestiti dall’Azienda [...]. Succedeva insomma che buona parte del gettito derivante da una tale campagna pubblicitaria andasse a finanziare testate di importanza magari relativa, ma legate a precisi gruppi editoriali e finanziari. Ma non basta: esisteva anche un altro meccanismo che permetteva alla società di gestione di operare degli eventuali boicottaggi verso quei clienti che non intendessero stare al gioco. Infatti la società concedeva alla ditta richiedente determinati momenti di programmazione, in determinati periodi dell’anno, ed entro determinate rubriche [...]: se voleva boicottarla era facile concederle dei periodi e degli orari “morti”».

9 Se lo spazio lo permettesse, un commento a parte meriterebbe la rozzezza dei procedimenti persuasori ricorrenti nei «codini» per dimostrare – si fa per dire! – l’efficacia magica dei prodotti reclamizzati. A parte l’uso della donna e di una, spesso pesante, simbologia erotica per reclamizzare, magari, birre ed acque minerali, benzine e gomme d’auto, si direbbe che per i carosellari ideatori di motivi e di slogan persuasòri, quello della RAI-TV sia un pubblico di beoti. Per l’acquirente-cavia da essi massificato dovrebbero essere verità di fede che contro il logorio della vita moderna c’è Cinar: «perché è a base di carciofo»; che tutti i tonni, è risaputo, si tagliano con l’accetta o si spaccano con la dinamite, eccezion fatta per il tonno Nostromo, «tanto tenero che si taglia con un grissino»; che «tutte le grandi marche di lavatrici [quali?] usano Dixan»; che con Galbani vai sicuro, «perché Galbani vuol dire fiducia»; che i prodotti Cirio «portano il sole – di Napoli! – in casa» (anche quando piove?); che per Falqui «basta la parola»...; che le donne devono preferire la biancheria Bassetti, «perché Bassetti è dalla parte [?!] della donna».

10 Nota l’ALBERONI (cit.) che «nel 1957, quando inizia, Carosello punta sul divismo, proponendo personaggi-divi portatori di una normativa dell’agire di consumo attraente come la loro vita. Negli anni della recessione economica (1963-1964), il divismo si sposta ai divi della canzone, e poi ai personaggi di animazione reale-irreale, evasione verso l’infantile. Poi, nel ’64-’68, si barcamena tra vecchi e nuovi modelli e valori giovanili ...

11 M. LIVOLSI, in Comunicazioni e cultura di massa, Milano 1969, 15.

12 Scrive Sandro Cova: «L’industria sorta intorno a Carosello (106 case cinematografiche, 698 mila giornate lavorative annue, il 57 per cento dell’intera produzione filmata) ignora la crisi e tira, sempre e comunque, a pieno ritmo. Ai registi offre una chicca inconsueta: il pagamento in contanti anziché in cambiali; agli attori propone cachet da capogiro: 80 milioni Raffaella Carrà, 300 milioni Sofia Loren, quasi un miliardo Brigitte Bardot e Frank Sinatra. Con Carosello Paolo Ferrari, il “signor Fustino”, ha potuto acquistare una villa, il compianto Enrico Viarisio si è assicurato una vecchiaia serena (“Ullalà, è una cuccagna!”), Ernesto Calindri ha arricchito (“Contro il logorio della vita moderna”) il suo conto in banca».

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Articolo estratto dal volume IV del 1976 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Pare che questa volta Carosello stia davvero per morire. Un primo annuncio di una sua prossima soppressione l’aveva dato, nel settembre del ’74, l’allora direttore generale della RAI-TV Ettore Bernabei; che però, malamente investito dagli utenti della rubrica presi alla sprovvista, dovette disdirlo. In obbedienza, poi, ad una ridistribuzione degli spazi pubblicitari della RAI-TV disposta dalla Commissione di vigilanza, nell’autunno del ’75 l’Azienda tornò ad annunciarne il decesso per il maggio di quest’anno 1976; ma il maggio è passato, e Carosello è sopravvissuto. Tuttavia per poco, perché – e questa volta, sembra, definitivamente – i funerali ne sono stati fissati alla fine dell’anno.

L’evento – come subito vedremo – non poteva non fare notizia; sicché non sembri strano che anche noi, al pari di molta altra stampa1, gli dedichiamo un po’ di commento. Lo faremo rilevando le dimensioni socioeconomiche del fenomeno, e poi quelle culturali ed etico-pedagogiche.

Made in Italy

Quello che doveva gonfiarsi in un fenomeno di costume tra i più rilevanti e durevoli dell’Italia di oggi, tanto da richiamare l’attenzione di psicologi, sociologi, politologi, pubblicisti e cattedratici2, iniziava alle ore 20,50 del fatidico 2 febbraio 1957, quando Carosello dava il via alle rubriche pubblicitarie della RAI-TV, di cui poi doveva rimanere, senza contrasti, la più popolare3. E gli esiti economici, imprevisti, non si fecero attendere. Nonostante gli alti costi – decine di milioni!4 –, e le insolite condizioni redazionali ad essi imposte – a prima vista, come vedremo, tutt’altro che redditizie–, gli inserzionisti presto divennero folla, in vent’anni superando il migliaio; sicché la rubrica si rivelò uno dei casi più vistosi e discussi della fuga della pubblicità (e del suo ossigeno!) dalla stampa d’informazione e, in ogni caso, una delle concause più efficaci del dilagare, pure in Italia, dell’odierno consumismo, anche a livello popolare.

Fenomeni grossi, questi, senza dubbio; ma non tanto quanto quello che la rubrica ha causato nel costume dei giovanissimi e dei bambini e, per essi, nel costume di tutti gli italiani, a cominciare dallo sconvolgimento dei tradizionali orari serali. Ai suoi tempi Hegel notava che il giornale stava diventando la preghiera del mattino dell’uomo moderno; con maggior ragione si può affermare che Carosello è diventato la preghiera della sera di tutti i bambini italiani: nelle campagne come nelle città, impensabile il mandarli a nanna senza vederlo! Anzi, è diventato il premio e il castigo che chiude la loro giornata. Quanti abbiamo passato la quarantina, se eravamo stati bambini buoni, papà e mamma ci premiavano con una caramella o con un bel bacio, e ci punivano, se eravamo stati cattivi, mandandoci a letto senza cena; ma da vent’anni, in Italia i genitori minacciano: «Se sei cattivo, niente Carosello!»

Non basta. Questo quotidiano happy end preghiera-premio, diventato istituzione nazionale, ha plasmato il mondo fantastico e la stessa condotta della nuova infanzia anche con i suoi contenuti. Sorvoliamo, per il momento, sulla validità o meno dei loro valori etico-culturali e sulle norme di condotta che ne derivavano: ma, a noi bambini, residui di una cultura audio-orale, la mamma conciliava il sonno con le favole, ingenue ma fantasiose, di Cappuccetto rosso o del Gatto con gli stivali...; scolaretti, conoscemmo il lupo e l’agnello, la cicala e la formica, il corvo e la volpe, e gli altri personaggi di Esopo e La Fontaine, e poi anche quelli patetici del De Amicis e quelli retorici della storia patria; invece, l’italiana infanzia vidiota plasmoniana-liofilizzata-vespizzata degli anni ’50-’70, mamma TV l’ha addormentata con la prosaica fauna teratologica di Silvestro e Calimero, Jo Condor e Topo Gigio, Pippo l’ippopotamo e la vacca Carolina...; e l’ha educata – vedremo a quali valori e a quali norme di condotta – con gli improbabili e disarticolati personaggi di Carmencita e Caballero, Gringo e Gregorio («guardiano del Pretorio»), Tato e Tata, Geo e Gea, Babbutt-Mammutt e Figliutt ...

Se si pensa che, ogni sera, negli ultimi anni, questo favoliere da infanzia regressa, oltre ai nove milioni di spettatori bambini o adolescenti, ha raccolto avanti al teleschermo sui sedici milioni di italiani adulti – indice di ascolto, questo, superato sì e no da Canzonissima, dai film e dalla Domenica sportiva –, non sembra eccessiva l’ironia di chi ha attribuito a Carosello il merito di aver fatto finalmente l’unità d’Italia, e di chi l’ha giudicato – si tratta dello studioso Guido Guarda – «un fatto culturale [?!], alla vigilia del Duemila, importante quanto... l’opera lirica nell’800, l’Arcadia nel 700, la commedia dell’arte nel 600, la polifonia nel 500...».

Una formula indovinata

A che si deve questo successo spropositato? Certamente all’orario privilegiato della rubrica, posta subito dopo il telegiornale e in apertura dei programmi di maggior ascolto della serata: sceneggiati, film, commedie, varietà...; e alla tarantella napoletaneggiante della sigla d’apertura e di chiusura; ma soprattutto alla struttura tutta spettacolaristica della rubrica, escogitata dalla RAI-TV per propinare ai telespettatori una pubblicità malgradita e, riteniamo, illecita5. La formula – sorvoliamo sulle poche varianti intervenute in vent’anni – infatti è stata questa: ogni sera, una serie di cinque Caroselli di non più di uno/due minuti ciascuno, formati sostanzialmente da un «pezzo» spettacolare, con esclusione di ogni riferimento pubblicitario, e da un «codino» finale di appena trenta secondi, dove relegare – ma col divieto di nominarli più di cinque volte! – la menzione dei prodotti, ditte e marchi reclamizzati.

Gli inserzionisti, sul principio, ne diffidarono. Perché mai, e con quale loro vantaggio, dovevano finanziare essi, e non l’Azienda televisiva, un programma che si risolveva (quasi) tutto in spettacolo-divertimento? Ma si ricredettero non appena costatarono che la rubrica, in realtà, giovava magnificamente, oltre che alla RAI-TV, anche ai prodotti reclamizzati, proprio grazie alla sua formula. Infatti, la necessità di trovare storie – comiche, patetiche o (pseudo) drammatiche – sempre nuove e divertenti, aguzzò l’inventiva dei pubblicitari e degli autori; la necessità, poi, di condensarle, quelle storie, negli appena cento secondi del «pezzo», indusse soggettisti e registi ad eliminare ogni fronzolo e ritardo6. Anche la difficoltà, intrinseca alla formula, di raccordare in qualche modo il «codino» pubblicitario al «pezzo» spettacolare, stimolò gli ingegni a trovate singolari, sicché gli esiti, o di naturalezza, o di stramberia tra il giallo e l’enigmistico, hanno fornito anche a spettatori seriosi, poco o nulla interessati ai prodotti o allo spettacolo, sufficiente motivo d’interesse per la rubrica.

Va aggiunto che alla non facile impresa hanno prestato – pagatissimi! – la loro opera registi quali Bolognini, Olmi, Salce, Patroni Griffi e i fratelli Taviani, Rosi, Zurlini, Lelouch, Pontecorvo, Gregoretti e, non ultimo – non sappiamo con quale coerenza ideologica – il grande contestatore del consumismo borghese: Pier Paolo Pasolini, che l’aveva definito «la fabbrica del cretinismo». Cosi si spiega come Carosello sia diventato «il rappresentante eminente di tutti gli spettacoli pubblicitari [...], un classico della televisione italiana e dell’arte pubblicitaria in generale» (Mura); la rubrica che dà prestigio alle ditte fortunate che riescono ad ottenerne lo spazio, e che ci viene invidiata dal resto dell’Europa e dall’America; anzi, secondo Godard – Honni soit qui mal y pense! –: «la cosa migliore del cinema italiano». Paradosso (o ironia?) a parte, una selezione di sedici Caroselli non ha forse avuto l’onore di essere presentata, lodatissima, nel Museo d’arte moderna di New York7?

Un servizio pubblico?

Durante questa ventennale carosellite acuta non sono mancate le critiche contro la rubrica, e la RAI-TV sua gerente. Già si è accennato all’accaparramento della pubblicità da parte di un’azienda, praticamente, «di Stato», a danno della stampa d’informazione; ed anche alla molto discutibile prassi di un’azienda che, da una parte, si fa pagare dagli utenti le proprie prestazioni qualificandole «servizio pubblico» e, dall’altra, li martella con una pubblicità, arcipagata da gente che tutto si propone meno che di servire il pubblico. Altri hanno denunciato le pastette politico-economiche, combinate, pare, dalla SIPRA e dalla SACIS, vassalle della RAI-TV8. Pochi però, insieme a queste critiche – del resto estendibili alle altre rubriche pubblicitarie dell’Azienda –, ne hanno mossa un’altra specifica contro la formula stessa di Carosello, che, a nostro parere, per vent’anni ha fatto di questa rubrica una scuola permanente di diseducazione e di massificazione etico-culturale nazionale.

Quale, infatti, il meccanismo che ha strutturato i suoi «pezzi» spettacolari? Semplice. Primo: creare e moltiplicare negli spettatori bisogni, reali o fittizi, facendo leva sulle loro aspirazioni istintive più elementari; secondo: presentarle, queste aspirazioni, quali unici, autentici valori umani; terzo: mediante una retorica mistificatrice9, proporre dette aspirazioni come raggiungibili, subito ed automaticamente, usando i prodotti-servizi reclamizzati nel «codino»; quarto: immergere il tutto in un’atmosfera spettacolare tra l’infantile e il naturalistico-romantico, in cui i quotidiani problemi reali dell’esistenza umana, o vengono ignorati, o svaniscono nell’evasione favolistico-ludica.

Uniche aspirazioni-valori della donna – soggetto-oggetto onnipresente nei Caroselli – sono la bellezza, la giovinezza, la vitalità, la linea e il fascino, per cui le amiche la invidiano, i ragazzi le ronzano intorno, gli uomini si voltano; e poi un matrimonio romantico, una casa provvista di tutto, uno o due bambini paffuti, vivaci e che, possibilmente, non siano gli ultimi della classe...; mentre uniche aspirazioni-valori degli uomini sono la prestanza fisica, l’attivismo, la sicurezza di sé, il successo nella vita (soldi) e nelle conquiste (donne). Per tutti indistintamente, l’ideale primo assoluto ed irrinunciabile è quello di «stare bene», ad ogni costo; quindi la proposta-dovere di evitare ad ogni costo, non solo ogni dolore e fatica, ma anche ogni molestia o incomodità per quanto, almeno fuori dei Caroselli, sopportabile.

Infatti gli uomini caroselloti, sebbene fusti, paventano il ronzio di una mosca o di una zanzara, meditano propositi uxoricidi se la camicia è ruvida, disarmano solo se la moglie gliela lava con Lip. Anche più vulnerabili – nonostante le loro batterie di saponi, creme, shampo, lozioni, ciprie, ombretti, lacche, smalti, stick, bombole e spray – le donne carosellote. Ragazze, hanno il problema di non appestare il prossimo: come parlare ad un ragazzo, se non «ti spunta un fiore in bocca»?, e come presentarti ad un ballo, se usi un sapone che «ti lascia in asso»? Sposate, il problema resta. Perché lui torni a farti la corte devi usare Camai «dal delicato profumo francese»; inoltre, se – per quanto giovane e benportante – non ti reggi in piedi, colpa tua, che non ricorri al Laim dei Caraibi (?!), o al bagno-schiuma Vidal...

Mamme e massaie: problemi e necessità aumentano. Intanto occorre dilatare l’armamentario infantile: dai pannolini (svedesi!) alle scarpe (ortopediche!), dalle acque (minerali!) ai biscotti e allo scatolame di proteine e di omogeneizzati (naturali!), e ai vari formaggini e nutelle... Poi torna il problema – ma è una mania! – dello sporco e degli odori. Stoviglie e pentole da governare con detersivo «al vero limone»; il bucato non basta che sia pulito: dev’essere così bianco «che più bianco non si può»; maioliche del bagno e pavimenti della casa non basta che siano netti: devono, letteralmente, abbarbagliare, e nell’acquaio ci si deve «poter mangiare dentro». Non ultimo: il problema dei cibi. In una suspense alla Hitchcock, passato il primo piatto, tutti i commensali tamburellano sul desco: una tragedia, se la massaia non arriva con i bastoncini Findus! La quale massaia, nel sonno, smania e si dimena? La stolta! Nel frigorifero ricolmo le è rimasta «una sola» scatola di carne Simmenthal!

Mai che si faccia appello, nei Caroselli, a valori meno effimeri, quali la cultura, l’onestà, la virtù: che con ciò stesso vengono declassati a non-valori; e mai che, almeno, per raggiungere aspirazioni e scopi in sé ragionevoli, si suggeriscano vie e mezzi che richiedano qualche impegno – tanto meno qualche sacrificio! –, che non sia l’acquisto-consumo dei prodotti reclamizzati. Pierino, a scuola, è un somaro? La colpa non è sua, che non studia, ma della mamma, che non lo nutre a formaggini Mio! Sempronia è stufa di fare tappezzeria e dispera di trovare un marito passabile? Be’, non cerchi di essere, se possibile, meno oca: basta che rida Durbans! Anche Sempronio non frequenta l’università, e se la spassa? Vada tranquillo: sarà un professionista brillante se vestirà Facis! E che cosa mai assicurerà la felicità ai due sposini, se non una cucina scomponibile Salvarani? In quanto al loro amore: non temano che s’intepidisca se, di giorno, Vecchia Romagna etichetta nera creerà un’atmosfera, e se, di notte, li scalderà la coperta di soffice lana Somma. In quanto, poi, ai figli, nessuna preoccupazione di educarli e di prepararli alla vita: sonni tranquilli con la Polizza di assicurazione Pai!

Scuola permanente

Questa scuola permanente di (non-) valori, oltre che alimentare una esasperata civiltà consumistica, è diventata una perentoria condizionatrice di comportamento sociale evasivo-borghese da quando i pubblicitari, accortisi che gli attori-divi, veri o animati che fossero, degli sketches facevano troppo spettacolo a sé, e che così finivano con mangiarsi il messaggio pubblicitario10, ne modificarono i contenuti spettacolaristici, ripiegando sempre più su scenette realistiche, con non-attori, o attori meno noti, operanti in situazioni e ambienti non favolistici, apparentemente di vita corrente. Allora più che mai risultò che

«Carosello equivaleva ad un grosso convincente discorso sul nuovo modo di vivere della società in arrivo. Le sue immagini, i suoi personaggi erano l’esempio di quanto si desiderava, si ambiva. Tanto più efficace in quanto apparentemente non comportava nessuno scopo preciso, nessun tentativo di discorso “importante”, al di là di quello dei singoli prodotti. Solo che, a lungo andare, la risultante assunse un significato preciso e convincente».11.

È un modo di vivere che compendia, esaltandoli, tutti gli usuali stereotipi – problemi, situazioni, personaggi – della pubblicità. Come le malattie, la vecchiaia e la morte, vi sono sconosciuti tutti gli altri problemi che angustiano la vita quotidiana: tutti i malanni umani riducendovisi a nevralgie, indigestioni, intestino pigro e sonnolenza, forfora e calvizie, a debellare i quali – all’istante! – bastano una pillola o una lozione. Ignorato anche ogni problema e conflitto sociale: la fame degli altri, il dramma degli esclusi, dei minorati, degli incurabili, dei vecchi pensionati... Praticamente ignorato anche tutto il mondo del lavoro. I personaggi di Carosello non provengono dalle fabbriche; se rurali, certo non sono braccianti: in ogni caso non sfacchinano, ma stornellano e smandolinano. Borghesi, quasi sempre ripresi nel salotto buono, o a tavola, al caffè, in auto – insomma, non in ambiente di lavoro –, praticamente ignorano la fatica, mentre le massaie, più che sfaccendare, sembrano gingillarsi, perennemente fresche e in ordine, con quei moderni status symbol che sono i cento elettrodomestici.

Oltre a non lavorare e a non studiare, ragazzi e ragazze non fanno politica, non contestano, non hanno problemi. Identificata la libertà con una vitalità frenetica, magari teenagers balzano in moto-cross, cavalcano in pseudo-western, sciano sulla neve, sciano sul mare, veleggiano in yacht lussuosi: e soprattutto e sempre bevono, cantano, strimpellano, ballano. Borghesi o proletari che siano, miracolosamente, basta un’aranciata Fanta, o una Gomma del ponte, a renderli euforici. Un nuovo Marx (made in USA!) li elettrizza tutti: Giovani di tutto il mondo, unitevi: «È tempo di Coca Cola!».

* * *

Come s’è detto, con questo dicembre Carosello morirà. Se ne rammaricheranno, c’è da crederlo, milioni di bambini e di mamme, nonché milioni di italiani, privati del favoliere-nanna quotidiano. E se ne dorranno registi e animatori, soggettisti ed attori, defraudati del supplementare facile pane e companatico12. Ma non lo rimpiangeranno quanti ritengono che è tutt’altro che compito di un’azienda praticamente di Stato avallare, per vent’anni, come servizio pubblico una pubblicità quale Carosello che, più di altre rubriche, ha identificato l’essere col sembrare, il dovere col piacere, la felicità col possesso, il senso sociale col consumismo.

1 Ne hanno parlato, tra gli altri, G. NASCIMBENI, in Il Corriere della Sera del 31 luglio 1975; O. CALABRESE, in l’Unità; del 4 agosto 1976; D. BIONDI, in Il Resto del Carlino del 22 agosto 1976; F. CAMON, in Il Giornale del 25 agosto 1976; M. BIGGERO, in Il Giorno del 18 ottobre 1976.

2 Tra gli autori che ne hanno trattato ricordiamo: C.B., I ragazzi e Carosello, in Rivista del cinematografo, 1973, n. 12, 612; O. CALABRESE, Il fenomeno Carosello e Spettacolo e reclame in Carosello, in SIPRA, 1974, n. 6, 91-100; 1975, nn. 1/2. 94; G.P. CESERANI, I persuasori disarmati, Bari, Laterza, 1975, 90-95; A. FARNIA, Televisione e democrazia dell’informazione in Italia, in Questitalia, 1969, n. 133, 11-20; FAX, Dieci anni di pubblicità televisiva, in SIPRAdue, 1966, n. 2, 5-11; A. FUÀ, Il racconto pubblicitario televisivo, in SIPRA, 1973, n. 6, 20-27; C. GAGLIARDI, Carosello al Museo d’arte moderna di New York, in Studi Cattolici, 1971, n. 128, 714 ss.; G. GALLI – V. MELCHIORRE – F. ROSITI – F. SELINGHERI PES, Modelli e valori della pubblicità televisiva, in Ikon, 1969, nn. 69/70, 123-173, ed anche, meno documentato, in Quaderni Ikon, 1970, n. 12, 3-36; A. GIOVANNINI, Carosello in pillole, Milano, L’Ufficio Moderno, 1973; M. GIUDICI, La teletrappola, in Edar, 1975, n. 34, 566 ss.; G. GUARDA, Zoom su Carosello, in SIPRAdue, 1968, n. 6, 54-58; Un’eredità scomoda, in Bonnie e Clyde, Supplemento a SIPRAdue, 1969, 4, 38-48; Carosello come allo stadio, in SIPRA, 1970, n. 5, 120-123; N. IVALDI, La pubblicità, Padova, Radar, 1969, 42-51; M. MARCHESI, Caro Carosello, in SIPRAdue, 1969, nn. 1/2, 21-28; E. MARIGONDA, Rapporti tra parte spettacolare e parte pubblicitaria nel Carosello televisivo, in Ikon, 1971, n. 79, 9-37; A. MURA, La pubblicità: discorso pedagogico, Roma, Bulzoni, 1975, 57-62; G. ROMANO, I ragazzi e la pubblicità, in Rivista del cinematografo, 1973, n. 12, 589; R. S1GURTÀ, La pubblicità televisiva nel rapporto col suo pubblico: il gioco di Carosello, in AA.VV., Pubblicità e televisione, Torino, ERI, 1968, 193-198.

3 Seguirono, parte sul I parte sul II programma, nel 1959 Gong e Tic Tac, nel 1961 Arcobaleno, nel 1962 Intermezzo, nel 1964 Girotondo, infine nel 1968 e dopo: Do-Re-Mi, Break...

4 Per ogni inserto, la tariffa per il solo affitto del tempo-antenna è salita dal milione e mezzo del 1957 ai quasi sette milioni di oggi; il che, per ogni ciclo di sei trasmissioni, fa la bellezza di trenta e passa milioni; ai quali occorre aggiungere altri milioni per il filmato: una decina e più, se si ingaggiano grossi nomi di registi e di attori; sicché si va non molto lontano dai cinquanta milioni. E non siamo ancora al costo reale, perché – come ha notato, non sappiamo quanto correttamente, O. Calabrese sull’Unità; – «ad essi vanno aggiunte le percentuali dell’agenzia pubblicitaria [...]. Per farla breve: ogni singolo short costava in media venti-venticinque milioni; dieci Caroselli: duecentocinquanta milioni».

5 Perché la RAI-TV – a differenza delle televisioni commerciali estere, che si reggono esclusivamente sui proventi della pubblicità – si dava e si dà come servizio pubblico e, come tale, già finanziato col canone dei suoi abbonati. «Il vizio risale alle origini dell’Istituzione, vale a dire al Regio decreto-legge del 1º maggio 1924, n. 65. istitutivo dell’allora URI (= Unione Radiofonica Italiana), col quale venivano definiti i contenuti delle radiodiffusioni: concerti, teatro, conversazioni, notizie. Veniva inoltre regolato il sistema di finanziamento ai futuri concessionari attraverso la pubblicità commerciale e i canoni di abbonamento, una prassi che resterà immutata in tutta la storia della radiodiffusione italiana, l’unica al mondo ad adottare entrambe le forme di entrate, considerate incompatibili fra loro in altri Paesi» (F. MONTELEONE, La radio italiana nel periodo fascista, Venezia, Marsilio, 1976, 27).

6 Marcello Marchesi, autore di alcuni tra i più fortunati slogan «caroscllari» l’ha detto «un mini-short, che sta a un film come un telegramma sta a un romanzo».

7 La rassegna, a cura della SIPRA – l’ente che gestisce la pubblicità della RAI-TV –, è avvenuta alla presenza di critici televisivi, studiosi di mass media, pubblicitari ed operatori economici, nel settembre 1971, su invito del direttore dello stesso Musco, Van Dick: «convinto che la chiave del successo dei prodotti pubblicitari italiani era anche nel proporre una formula nuova e funzionale». A detta dei critici dell’Associated Press e del New York Times, si trattò «di una manifestazione artistica e di una lezione che gli enti televisivi americani e i pubblicitari USA dovrebbero non dimenticare». Con tutta probabilità siffatti elogi furono anche in reazione al modo barbaro con cui colà viene praticata la pubblicità televisiva, interrompendo continuamente tutti i programmi, anche i più seri. Non per nulla l’ammiraglio John Will, presidente della Camera di Commercio italo-americana, dopo aver assistito alla rassegna affermò che era venuto il momento di cambiare radicalmente il sistema pubblicitario americano: «Non vogliamo essere trattati come bambini ritardati. Chiunque si pone di fronte ai nostri programmi televisivi e assiste agli shorts che interrompono così frequentemente le trasmissioni, non può fare a meno di sentirsi offeso».

8 La SIPRA (= Società Italiana Pubblicità per Azioni), il cui capitale è tutto della RAI-TV, concessionaria del tempo-antenna, reperisce la clientela e ne fissa le tariffe; la SACIS (= Società per Azioni Commerciale Iniziative Spettacolo}, anch’essa consociata alla RAI-TV, è competente per il controllo tecnico dei programmi. Trattando di «operazioni della SIPRA, certamente non al di sopra di ogni sospetto», O. Calabrese scriveva su l’Unità: «Per esempio: il regolamento della Società prevedeva che chi desiderasse acquistare una serie di spazi dovesse impegnarsi ad allargare la propria campagna promozionale acquistando obbligatoriamente anche un certo spazio radiofonico. Ma non è tutto: quando l’inserzionista avesse deciso di affiancare a quella televisiva anche una campagna di stampa, sarebbe stato in certo qual modo obbligato a dirottare i propri annunci anche su riviste e quotidiani per i quali non aveva il minimo interesse, ma che erano gestiti dall’Azienda [...]. Succedeva insomma che buona parte del gettito derivante da una tale campagna pubblicitaria andasse a finanziare testate di importanza magari relativa, ma legate a precisi gruppi editoriali e finanziari. Ma non basta: esisteva anche un altro meccanismo che permetteva alla società di gestione di operare degli eventuali boicottaggi verso quei clienti che non intendessero stare al gioco. Infatti la società concedeva alla ditta richiedente determinati momenti di programmazione, in determinati periodi dell’anno, ed entro determinate rubriche [...]: se voleva boicottarla era facile concederle dei periodi e degli orari “morti”».

9 Se lo spazio lo permettesse, un commento a parte meriterebbe la rozzezza dei procedimenti persuasori ricorrenti nei «codini» per dimostrare – si fa per dire! – l’efficacia magica dei prodotti reclamizzati. A parte l’uso della donna e di una, spesso pesante, simbologia erotica per reclamizzare, magari, birre ed acque minerali, benzine e gomme d’auto, si direbbe che per i carosellari ideatori di motivi e di slogan persuasòri, quello della RAI-TV sia un pubblico di beoti. Per l’acquirente-cavia da essi massificato dovrebbero essere verità di fede che contro il logorio della vita moderna c’è Cinar: «perché è a base di carciofo»; che tutti i tonni, è risaputo, si tagliano con l’accetta o si spaccano con la dinamite, eccezion fatta per il tonno Nostromo, «tanto tenero che si taglia con un grissino»; che «tutte le grandi marche di lavatrici [quali?] usano Dixan»; che con Galbani vai sicuro, «perché Galbani vuol dire fiducia»; che i prodotti Cirio «portano il sole – di Napoli! – in casa» (anche quando piove?); che per Falqui «basta la parola»...; che le donne devono preferire la biancheria Bassetti, «perché Bassetti è dalla parte [?!] della donna».

10 Nota l’ALBERONI (cit.) che «nel 1957, quando inizia, Carosello punta sul divismo, proponendo personaggi-divi portatori di una normativa dell’agire di consumo attraente come la loro vita. Negli anni della recessione economica (1963-1964), il divismo si sposta ai divi della canzone, e poi ai personaggi di animazione reale-irreale, evasione verso l’infantile. Poi, nel ’64-’68, si barcamena tra vecchi e nuovi modelli e valori giovanili ...

11 M. LIVOLSI, in Comunicazioni e cultura di massa, Milano 1969, 15.

12 Scrive Sandro Cova: «L’industria sorta intorno a Carosello (106 case cinematografiche, 698 mila giornate lavorative annue, il 57 per cento dell’intera produzione filmata) ignora la crisi e tira, sempre e comunque, a pieno ritmo. Ai registi offre una chicca inconsueta: il pagamento in contanti anziché in cambiali; agli attori propone cachet da capogiro: 80 milioni Raffaella Carrà, 300 milioni Sofia Loren, quasi un miliardo Brigitte Bardot e Frank Sinatra. Con Carosello Paolo Ferrari, il “signor Fustino”, ha potuto acquistare una villa, il compianto Enrico Viarisio si è assicurato una vecchiaia serena (“Ullalà, è una cuccagna!”), Ernesto Calindri ha arricchito (“Contro il logorio della vita moderna”) il suo conto in banca».

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3197, vol. III (1983), pp. 402-408
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3053, vol. III (1977), pp. 385-398
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2950, vol. II (1973), pp. 347-358
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
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n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
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n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408

In argomento

Televisione

n. 3197, vol. III (1983), pp. 402-408
n. 3053, vol. III (1977), pp. 385-398
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2904, vol. II (1971), pp. 563-575
n. 2875, vol. II (1970), pp. 59-63