Articolo estratto dal volume IV del 1958 pubblicato su Google Libri.
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Abbiamo lamentato che la docenza di Luigi Chiarini, ampia nel tempo e negli scritti, efficace e, sotto molti aspetti, pregevole, sia stata guastata da reagenti estraculturali; ed abbiamo cercato di documentare, attingendo nei suoi scritti, l’azione del primo di essi: la litigiosità*. Ci proponiamo ora di fare altrettanto circa il secondo, cioè la sua passione politica; non senza, tuttavia, aver prima precisato che, tanto per esigenza di elementare onestà, quanto ai fini di questo studio, c’inibiamo qualunque giudizio di merito sulla sua persona e sul suo operato. A parte il fatto che, se egli ha errato ed erra, contò e conta, purtroppo, milioni di compagni, ai quali l’essere in buona fede non impedì di traviare, noi ce l’abbiamo non con l’uomo ma con gli errori da lui esplicitamente insegnati, o avallati dal prestigio culturale che il suo nome riscuote in certi ambienti.
La passione politica
Non ci consta quando il Chiarini abbia aderito al fascismo; sappiamo solo che intorno al 1930 egli ne fu militante convinto e – stanti la sua giovinezza (egli conta gli anni con quelli del secolo, essendo nato nel 1901) e il suo carattere battagliero – ne fu anche caldo difensore. Certo è che la sua “fede” dové essere giudicata più che sicura dagli alti gerarchi del tempo se egli, sui trent’anni, fu assunto come funzionario nel Sottosegretariato per la Stampa e Propaganda, e poi, fondata nel gennaio 1934 la rivista Civiltà fascista, ne fu nominato redattore capo, carica da lui coperta effettivamente per un anno (nominalmente per due), fin quando, cioè, istituitasi sulla fine del 1934, alle dipendenze dello stesso Sottosegretariato, la Direzione generale dello Spettacolo, «il dottor L. Chiarini, scrittore, giornalista prepa rato alla cinematografia attraverso saggi critici interessanti, vivaci e originali... vi passò su designazione del conte Ciano»36.
Stando sempre ai suoi scritti – altre fonti non possediamo – il febbrone ideologico toccò l’acme negli anni imperiali 1935-1939; chi, infatti, oggi legge Cinematografo, Fascismo e letteratura, Problemi del film e le riviste di quegli anni, – specialmente Bianco e Nero e Lo schermo –, vi trova i più alati tra i ditirambi della tragica retorica del ventennio. Non uno dei luoghi comuni, che allora suscitavano spiriti eroici nei baldi petti di molti, i quali oggi la fanno da antifascisti dando del fascista ai propri avversari politici, non vi viene esaltato. Primo tra essi il culto al Capo37; poi, l’inno alato a Roma, redimita la fronte di rinnovata gloria imperiale38, né mancarono, col maturar dei tempi, prima l’esaltazione della volontà di potenza39, poi l’irrisione del pacifismo comunistoide40, ed infine, forse a malincuore, le incensate ai camerati nazisti41.
È che la sua adesione all’ideologia del fascismo fu piena ed incondizionata per assimilazione di quelle tre o quattro tesi, più che altro «dottrina in azione», che ne formarono il nucleo; e ad esse egli intonò coerentemente la sua docenza rispetto alla gioventù: preda ambita da ogni ideologia che vuole cambiare la faccia del mondo. A conferma, valgano alcune sue affermazioni del 1936, atte a documentare il contrasto con la docenza odierna del Chiarini, soprattutto a proposito di libertà politica ed artistica, entro e fuori del cinema.
... ho inteso... fare soprattutto... una dichiarazione di fede politica, di sana intransigenza fascista. Volevo in sostanza riconfermare fermissimamente che per noi oggi nessun aspetto della vita è disgiunto da questa nostra ardente passione fascista, che domina, sintesi suprema, al di sopra di tutto, proprio perché per noi il Fascismo è più di una dottrina politica o di una filosofia scolasticamente intesa: è una fede, è sostanza di cose sperate, e realizzate. Questa passione viva, che viene dall’interno e che ognuno porta e deve portare nella propria attività, sia critico, sia scienziato, sia artista, è la nostra vera bussola ideale, la stella polare che guida ognuno di noi; che in ogni opera ci fa cercare questo nucleo centrale che è il Fascismo.
... i fascisti che credono al Fascismo sul serio non possono ammettere che i valori morali da esso affermati siano transeunti. Perché se è vero che, cambiando i tempi, possono trasformarsi talune esigenze, è altresì vero che, vi sono alcuni valori fondamentali che han sempre costituito in ogni tempo, sia pure con espressioni diverse, i motivi centrali dell’umanità... Tanto per intenderci e stare al sodo: amore, patria, famiglia, religione. Ed è merito del Fascismo averli vigorosamente riaffermati ed impedire ogni azione che tenda a indebolirli e dissolverli. Ogni azione: anche dell’artista.
Il Fascismo agisce sugli italiani di oggi e particolarmente sui giovani, come educatore e formatore di caratteri e coscienze. La sua educazione è viva, la sua influenza è fortissima in quanto si esercita attraverso le opere. La realtà, la verità che il Fascismo giorno per giorno viene creando agisce in quel modo potente e misterioso sugli animi. I giovani sono fascisti, divengono fascisti in quanto il fascismo costituisce per loro quasi una categoria a priori. Lo respirano nel clima in cui vivono, lo assimilano in ogni modo, se ne nutriscono quotidianamente. Non è, insomma, un abito mentale, ma qualche cosa di assai più profondo, che è pensiero, sentimento, azione nello stesso tempo. Facendo, o meglio, formando dei fascisti in questo senso, che a me par poi l’unico e più profondo, si prepara l’arte fascista, la filosofia fascista, l’estetica fascista... Si preparano le opere del secolo delle Camicie Nere... Opere che sicuramente ci daranno i giovani, i quali hanno avuto la fortuna somma di crescere, formarsi e respirare nell’atmosfera dell’Italia nuova e non conoscono altro che questa grande realtà che c’è intorno42.
Applicate all’arte in generale ed al cinema in particolare, queste salde convinzioni portarono il Chiarini ad un’estetica e ad una poetica politiche, sintetizzabili in cinque assiomi. Nel percorrerli, il lettore li paragoni con i canoni dell’estetica e della poetica marxiste: costaterà come essi, mutato “fascismo” in “marxismo”, formulino esigenze ugualmente ferree per le due ideologie.
- L’arte sarà tale solo se sarà politica (cioè fascista)43;
- Per quanto necessaria, la tesi politica non ostacola il lavoro creativo dell’artista44;
- L’arte non è libera: la censura può e deve limitarla qualora l’opera artistica contrasti con le verità del regime45;
- Il cinema, più di ogni altra arte, deve essere solo un’arma in mano del regime46;
- La critica sarà tale solo se sarà fascista47.
* * *
Ragionando, dopo la caduta del regime, delle Inibizioni di un cinema di dittatura, R. Renzi commentava: «Risulta ovvio pertanto che nel passato regime furono completamente liberi soltanto gli autori che avevano accettato, in coscienza, i principi del regime stesso. Altri ve ne furono, la cui libertà fu, per così dire, di frodo nei riguardi del regime, il quale non sapeva talvolta distinguere un avversario e un dissidente. Chi operò in quel tempo dové rientrare in queste categorie»48. Anche se ufficialmente, a causa delle cariche che copriva, il Chiarini dovette risultare sempre tra i primi, sembra che sul finire del ventennio, quando il carrozzone si rivelò destinato allo sfacelo, sia passato tra i secondi. Abbiamo letto anche di «resistenza sotterranea», ma non ci risulta in che cosa essa sia consistita49. Certo è che col 1941, in Bianco e Nero, i brani “impegnati” diminuiscono di numero e calano di tono e che, col 1942, cessano del tutto; e certissimo, inoltre, è che nei numeri della ripresa tutto grida che qualcosa nel 1943 è successo. Vi si riconosce, per esempio, «che il cinema, il buon cinema va a sinistra», vi si auspica una revisione della censura, vi si sollecita il libero contraddittorio, «convinti che cultura, arte, scienza vivono solo nella più illuminata libertà interiore ed esteriore» ; gli ex luoghi comuni d’impero, educazione fisica, sacrificio vengono sostituiti dai nuovi: costituzione, libertà, democrazia e, soprattutto, ma tardivamente, dai «valori della resistenza»; anzi vi si favoreggia, con un pizzico d’ingenua demagogia, l’iniziativa dei sindacati dei lavoratori dello spettacolo contro la burocrazia dello Stato.
Che il risultato delle elezioni del ’48 abbia consigliato qualche prudente temperamento? Fatto sta che, nonostante la più che onesta coloritura materialista e marxista che, per firme di scrittori, per argomenti e per spirito, la rivista mantenne negli anni 1949-195150, ormai scemano negli scritti del Nostro i colpi troppo polemici contro i cattolici e contro le posizioni di pensiero identificate con essi. Ma questi riprendono dopo il 1951 – data della sua estromissione dal C.S.C. (1950) e da Bianco e Nero – anzi superano di molto l’asprezza di una volta e, a detta dei suoi avversari, si caricano di un «personalismo non giovevole a nessuno, e soprattutto alla cultura cinematografica»51. Da allora non è sempre facile distinguere nei suoi scritti l’espressione delle sue convinzioni dagli espedienti della polemica, e perciò i valori di una docenza culturale dai disvalori del politicantismo. Vi spicca ora, caratteristica di prima evidenza, l’antifascismo, che, tuttavia, si manifesta più con condanne generiche che con un ripudio aperto dell’ideologia come tale. Una volta lo sorprendiamo eccezionalmente duro nel commiserare l’Italia «lasciatasi far preda di una masnada di scalzacani in camicia nera»52; di solito è, invece, misurato nelle condanne; così, per esempio, quando accusa il fascismo di aver «dato la misura di una potenza che, all’atto pratico, si rivelò inconsistente»53, e quando, con un accento di rimorso che gli fa onore, commisera i giovani formati alla sua retorica e poi in gran parte «sacrificati in modo così ingiusto alla imprevidenza di un folle imperialismo»54. Ma, più che altro, il Chiarini ricorre all’antifascismo per gettare l’accusa, o la suspicione, di fascista contro i “clericali” e le cose loro. Dopo quello generico, dei «clericali più accesi e della concentrazione monarchico fascista che intorno a loro si va maturando», il suo bersaglio preferito è naturalmente il C.C.C., la cui azione, intonata secondo le direttive
«di un ometto di azione cattolica, già specializzato in mistica fascista», giudica per tutti «Vecchia guardia, film fascista» e «addita agli spettatori come altamente educativi i film esaltatori della guerra e della violenza, i film fascisti... i film celebrativi di quelle gesta e di quello spirito che sono costati all’Italia una tanto amara esperienza. Non è senza significato – continua il Nostro – che mentre un giornalista [marxista] viene condannato da un tribunale militare per aver reagito alla retorica fascista dalla quale era stato avvelenato e della quale ha visto e sofferto le tragiche conseguenze, il C.C.C. faccia circolare fin nelle sale parrocchiali quei film che, invece, ne fanno l’esaltazione»55.
Altro suo bersaglio preferito è la D.C., per lui sinonimo di “clericali”, rea di mantenere in piedi «nei suoi alti gradi quella burocrazia della Direzione generale dello Spettacolo improvvisata e formata dal fascismo, che, per la deformazione psicologica subìta nel ventennio, non dà garanzie di sapersi adeguare alla nuova situazione»; e rea, in sfregio alla Costituzione, garantente «libere l’arte e la cultura», d’infierire, peggio del fascismo, in fatto di censura.
«Il comitato della scure, che doveva tagliare tanti rami secchi, non si sa bene che fine abbia fatto: forse alla scure hanno aggiunto il fascio littorio, ma si deve avvertire che durante il fascismo questi organismi funzionavano meglio di ora» per esempio: «il movimento (delle riviste specializzate) prese avvio durante il fascismo e, in quel periodo, ad essere onesti, fu appoggiato concretamente e largamente dallo Stato senza che venissero imposte eccessive limitazioni: oggi invece...» e «l’equilibrio della censura fascista era tale, a dire il vero, che non ha mai sacrificato un’autentica opera d’arte»; mentre invece, oggi, in Italia «ogni volta che si parla di censura è a proposito di film che hanno importanza artistica e, comunque, valore e impegno culturali»56.
Che si tratti di colpi provocati da calor polemico più che ad essere onesti e a dir il vero, lo dimostrano i titoli di almeno due film: Quai des brumes, del 1938, e La grande illusion, del 193757, sacrificati dalla censura fascista, sull’artisticità dei quali vogliam credere che, oggi, il Chiarini non nutra dubbi; e lo manifestano altre sue affermazioni sulla stessa censura:
Appena entrava in ballo una camicia nera i censori drizzavano le orecchie e tagliavano le cose più innocenti per paura che il ministro togliesse loro la sedia di sotto... Terrorizzata dai terremoti che succedevano al ministero della Cultura Popolare quando in un fotogramma o in una pagina di giornale sfuggivano le cose più ingenue, che potevano prestarsi ad accendere la coda di paglia di chi stava in alto... Chi non ricorda quanto era sensibile il fascismo per la miseria di Napoli quando per avventura se ne scriveva o ne capitava di straforo un aspetto in un fotogramma?...58.
E siffatta censura allora non ostacolava la libertà artistica!59.
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Altra nota della sua attività scrittoria di questi ultimi anni è il largo contributo dato con essa alla causa del marxismo, svolgendosi in gran parte su giornali e periodici tra i più marxisti, anticlericali, anticattolici ed antireligiosi d’Italia, quali, per esempio, l’Avanti!, il Contemporaneo e Cinema nuovo. Per tacitare chi gli rimproverava, a lui non comunista, siffatta accondiscendenza, egli ha dato risposte, al solito, tanto categoriche quanto sorprendenti; prima di tutto ha opposto i comunisti ai «clericali... che con la loro politica culturale di lotta al laicismo hanno respinto gli uomini più rappresentativi del cinema italiano... perché chiedevano loro di abdicare alle convinzioni e agli atteggiamenti spirituali che li animavano; i comunisti, invece, hanno sempre mostrato di intenderne le esigenze e se ne son fatti paladini attuando una politica intelligente e realistica a un tempo di alleanze e di aperture»; poi rileva – sono passati i giorni quando il comunismo era «la bestialità rossa»! – che i comunisti «son sempre i primi a prendere iniziative e posizioni decise in difesa di cause giuste», e che lui, modestia a parte, è uno di «quegli uomini che naturalmente si schierano dalla parte della giustizia»60.
È noto che, a differenza del fascismo, il marxismo, pur riservandosi la libertà di applicarlo integralmente solo a tempo e luogo, fonda la sua prassi su uno schema dottrinale rigido e totalitario, al quale non sfuggono né l’estetica né la critica d’arte; tuttavia rileviamo con piacere che, nonostante i servigi da lui resi ai suoi compagni di barca, il Chiarini finora s’è sottratto alle più anticulturali delle loro imposizioni circa questo argomento. Gli fa onore, in questo senso, il commento ironico con cui sgonfia la critica di U. Barbaro, già suo commilitone al P.N.F., passato armi e bagagli sotto la barbara logica dei «contenuti dialettici»61: e più alto onore gli fa la coerenza con cui, in contrasto con i critici marxisti, che, per giudicare con fa loro testa, hanno atteso per anni l’absolvo te del rapporto ChrušÄev, più d’una volta s’è rifiutato di «giudicare i film in base ad astratti contenuti politici»62.
Si avverte, tuttavia, nei suoi ultimi scritti qualche cedimento, che induce a ritenere non tanto solida la sua estetica-critica anticontenutistica; per esempio, a proposito del neorealismo italiano, all’elemento “realtà sociale”, recentemente egli ha dato un peso che ci pare eccessivo. Speriamo che le tentazioni della polemica politica non lo facciano capitolare da quanto c’è di valido nelle sue posizioni estetiche, già instabili sui loro presupposti idealistici, e che non venga mai recata a U. Barbaro l’attesa “bella notizia”, del passaggio del Nostro dall’idealismo al materialismo dialettico, sulla scia luminosa (per i marxisti) di un Bela Balàzs e di un György Lukács63.
Esemplificazioni “dialettiche”
Esemplifichiamo quanto siamo venuti esponendo con alcune tra le posizioni “dialettiche” alle quali la polemica politica ha condotto il Chiarini, iniziando da due questioni circa quel neorealismo di cui egli si autodefinisce «strenuo difensore»64.
Prima questione: — Ci sono o non ci sono, nei film di questa corrente, fermenti cristiani? — Parrebbe di sì:
1) È ancora più importante che un dotto padre domenicano abbia riscontrato nei film di cui si parla... un profondo spirito cristiano che è caratteristico del nostro cinema... 2) Il neorealismo del binomio De Sica-Zavattini... è permeato da uno spirito autenticamente cristiano... Il profondo sentimento cristiano di De Sica e Zavattini li porta alla denuncia di certe condizioni e ingiustizie sociali su un piano morale... 3) Qualche critico cattolico ha difeso il neorealismo trovandovi fermenti di cristianesimo: osservazione giustissima... 4) Tra tutti i film di questa corrente non ve n’è uno che possa considerarsi ideologicamente comunista, mentre in quasi tutti, se mai, prevale un diffuso spirito cristiano...
E parrebbe anche di no se è vero che:
Da prima i cattolici hanno combattuto il preteso monopolio ideologico dei comunisti e han cercato di dimostrare che il neorealismo è fondamentalmente cristiano e che la sua spiritualità propone il problema della trascendenza. Ma vedendo incrinate le loro posizioni dai marxisti che, alla luce del realismo, erano certamente più vicini a un’esatta interpretazione...65.
Seconda questione: — Quali valori costruiscono una nuova civiltà sulle rovine di quella che è rovinata, o sta rovinando? Quelli del regime fascista o quelli del neorealismo? — Risposte. Nel 1936, esaltando i primi, il Chiarini scrive del «tramontato mondo della cultura liberalesca..., del Risorgimento, liberato dalla scoria di una cultura liberalesca... superato l’asso-individualismo... Con la guerra (del 1914-1918) ha fine la civiltà dell’ottocento sorta dalla rivoluzione francese...», e canta, come abbiamo letto, «le opere del secolo delle Camicie Nere, che avrà anche una sua civiltà artistica, della quale, del resto, già si vedono i primi segni» ; ma nel 1954, parlando del neorealismo italiano, antitetico del fascismo, egli afferma: «Volendo definire il neorealismo nel cinema italiano del dopoguerra, occorre analizzare quelle opere che... caratterizzano la personalità dei singoli artisti, e presentano aspetti stilistici comuni: sarà facile da questi risalire a una comune visione del mondo e ritrovare quei fermenti morali e politici che sono il segno di una civiltà nuova sotto le grandi spoglie di quella che sta agonizzando»66.
Altre due questioni, in cui la docenza del Chiarini varia con i tempi, riguardano le relazioni tra la libertà del cittadino, artista o spettatore, e l’azione dello Stato: — Deve, o può, lo Stato assumere in proprio imprese di produzione, di noleggio o di gestione, o deve lasciarle all’iniziativa privata? L’istituto della censura è lecito ed utile, o vessatorio e dannoso?
Due risposte “dialettiche” nel tempo sistemano la prima. Mentre, infatti, nel 1948, egli non dubita che: «Occorre risolvere il problema degli enti parastatali, come l’Enic, il Luce, Cinecittà, lo stesso C.S.C., abbisognevoli... dell’appoggio dello Stato, cui appartengono, e al quale devono rimanere»; nel 1954 afferma: «Perché lo Stato debba gestire stabilimenti... produrre film, importarli e noleggiarli, e gestire cinematografi, oggi come oggi, non si riesce a capire...»67.
A proposito della censura, invece, se il Chiarini propone soluzioni opposte, lo fa attraverso significative gradazioni. Sua soluzione di partenza (anno 1936-XIV) fu quella di una censura politica e necessaria, la quale né noceva all’opera d’arte, come abbiamo visto, né ledeva la presunta autonomia dell’artista68; del resto (anno 1939-XVII) «tutti ammettono che il cinema ha una forza molto maggiore della stampa e che, proprio per questo non può essere lasciato in mano alla libera speculazione...»; inoltre (anno 1941-XIX) «nella maggioranza dei casi le opere cinematografiche non hanno un livello tale da poter essere giudicate col metro dell’estetica; ed, infatti, questa esigenza ha indotto tutti gli Stati ad istituire una censura»69.
Ma al lume della “conversione” (anno 1950), egli comincia a vedere i pericoli di questa censura, e precisamente tre; tuttavia, “sistemato” alla spiccia il terzo, gli altri due li giudica motivi tutt’altro che validi per abolirla; anzi, ragionando come un “clericale” del C.C.C., redarguisce l’on. Terracini di averne fatta, sconsideratamente, la proposta:
I pericoli della censura sono di tre ordini: il primo consiste nel dare con troppa facilità il visto per la proiezione a film che sotto l’innocente aspetto del romanzo rosa, giallo o poliziesco, nascondono un sottile veleno morale...; il secondo nel vietare autentiche opere d’arte, per la loro stessa natura sempre educative, perché contengono brani che la legge prevede come censurabili; il terzo di agire in funzione politica, limitando la libertà di pensiero. Diciamo subito che quest’ultimo punto non ci riguarda, perché non investe soltanto la censura, ma è in rapporto al regime di libertà che esiste in un determinato paese o in un dato momento storico. Il primo e il secondo, invece, sono proprio inerenti al sistema della revisione cinematografica... Appare evidente che i medesimi inconvenienti si verificherebbero anche se la censura preventiva fosse abolita e il giudizio morale e artistico, sulla base del codice penale e delle leggi comuni, venisse affidato alla magistratura, anziché, come ora, a commissioni dove pure un magistrato è presente, e quella dovesse formularsi in base alla grossolana formulazione contenuta nella legge... Noi non crediamo che sarebbe un toccasana abolire qualsiasi forma di censura, mettendo il cinema sul piano delle altre arti o addirittura del giornale e del libro, come è stato recentemente sostenuto dal sen. Terracini70.
Negli anni 1953-1954, per quanto «l’intervento politico... predominante, non sia la sola causa dell’attuale situazione (catastrofica)... né la pressione della censura debba costituire un comodo alibi per quei registi che troppo facilmente hanno rinunciato alle istanze morali del neorealismo», resta assodato per il Chiarini «che l’attuale crisi del neorealismo... è conseguenza della frattura prodotta nel paese a causa della D.C.», per la quale, tra l’altro, «in dispregio della Costituzione... è stata mantenuta la censura»; dunque, posizione di arrivo (anno 1954): ogni censura dev’essere abolita!
La verità è che la censura nei confronti del cinema non deve essere modificata o diversamente regolata, ma più semplicemente abolita... Il male della censura sta nella sua stessa esistenza... Non esistono in nessun paese del mondo censure intelligenti e liberali... Ogni persona veramente convinta della libertà di espressione cui hanno diritto gli uomini di cinema, chiede l’abolizione della censura, bastando a reprimere gli abusi le leggi ordinarie e l’intervento del magistrato... Togliere all’arte la libertà e volere che resti arte, è come tentare la quadratura del circolo71.
* * *
Ripetiamo che non sta a noi giudicare meriti e demeriti di un uomo: ce ne manca il mandato e ci sfuggono tutti gli elementi essenziali del giudizio: quelli che solo ogni uomo vede nell’intimo della sua coscienza, vede e soppesa l’unico esauriente Scrutatore dei pensieri e degli affetti umani (Ps. 7,10). Appartiene, tuttavia, alla critica culturale analizzare sviluppi e contenuti degli scritti di un autore pubblico, ed appartiene all’apostolato della verità denunciare gli errori eventualmente rilevativi.
Perciò, raccogliendo le impressioni del nostro viaggio, non possiamo non rammaricarci che caratteristiche personali e contingenze di tempi difficili abbiano spesso portato il Chiarini ad avvilire il suo magistero, rendendolo tanto dannoso quanto efficace72. Chi legge, infatti, i suoi scritti non può non riconoscergli acutezza d’ingegno, bontà di cultura e di stile, finezza di gusto, sicurezza di senso critico e vivacità polemica; ma deve anche lamentare che il destinatario di tanta grazia di Dio, durante gli anni della sua formazione culturale e professionale, abbia dato nelle ragne dell’idealismo, sicché, irretito in quelle, sia restato facile preda dei miti politici del momento, provvisti più di profetiche strombazzature che di verità reali; e che l’educazione “laica”, peste dell’Italia inizio secolo, gli abbia fatto assimilare della fede cristiana e della Chiesa cattolica quasi soltanto i pregiudizi sufficienti e necessari per disprezzare l’una e l’altra come anticultura.
Ce ne dispiace per il danno causato dalla sua docenza, pubblica e vasta, dai libri, dalle cattedre e da posti direttivi72, e ce ne dispiace per lui; e proprio perché ne riconosciamo le doti umane, non valorizzate da una salda formazione filosofica e religiosa, ci auguriamo che nella età, in cui le severe esperienze della vita esortano a rivalutare i valori eterni, termine e misura delle realtà che passano, egli trovi nella saggezza della philosophia perennis, e nel pensiero cattolico che la fa propria e la sublima, tutte le risposte attese dalla sua dialettica irrequieta; e, a queste condizioni, ci auguriamo che, non più nocivo alle menti e alle anime di quanti lo apprezzano, egli continui la sua docenza nel campo ch’è suo: quello della cultura e della critica cinematografiche.
* Un maestro dialettico: meriti limiti di una docenza, in Civ. Catt. 1958, II, 383-398.
36 L. FREDDI, op. cit., vol. I, p. 91. Per tutto questo paragrafo cfr anche: Film e moschetto, in B. e N., 1956, n. 5, pp. 138-142.
37 «Noi possiamo scorgere (il fascismo) nella sua forza ognora creativa e propulsiva nel genio di Mussolini, che, come ognun sa, non si presta a definizioni di sorta... Egli è il fondatore, oltre ogni sistema dottrinale o filosofico, di una civiltà, di un orientamento spirituale o, come Egli ha scritto, di una dottrina di vita... Il Fascismo, infatti, non ha pastoie di astratto dottrinalismo libresco, come mostra lo scritto del Duce per l’Enciclopedia Italiana, che è pensiero, dottrina provata dall’azione e in azione... Mussolini, con la sua genialità, unico fra milioni di uomini, aveva intuito fin dall’inizio il carattere rivoluzionario della guerra. Il Fascismo sorge da questa grande intuizione, ne è lo sviluppo logico... Tanto in Scipione quanto nei Condottieri è espressa una esigenza e una fatalità storica del nostro popolo, che ha segnato le più grandi conquiste sempre e solamente sotto la guida di un Capo» (Fascismo e letteratura, pp. 9 e 113; Lo schermo, 1937, n. 8).
38 «Scipione l’Africano rappresenta il ritorno al culto della romanità intesa come forza viva ed attiva: opera questa assoluta del Fascismo, che ha levato, appunto, la romanità dalla polvere dell’archeologia e dell’erudizione e l’ha portata nel cuore pulsante del Paese, facendolo circolare come mito operante nel popolo... Si pensi al mito di Roma ritornato realtà, a questo allacciamento spirituale e materiare della Roma dei Cesari con la Roma di Mussolini... Col Fascismo la Roma antica torna nella sua vera luce e si fonde con quella moderna, la Roma di Mussolini: il legame spirituale tra il Dittatore perpetuo e il Duce appare ogni giorno più evidente attraverso l’abisso dei secoli» (ivi; Fascismo e letteratura, pp. 19 e 13).
39 «Sentinelle di bronzo, dopo il Grande appello, che rappresentava la conquista dell’Impero, è già il film della coscienza imperiale di un popolo... I Condottieri, invece, rappresenta la coscienza dell’unità d’Italia e lo spirito militare su cui deve basarsi l’unità della nazione: spirito militare, che, per gli italiani, è eroismo, slancio, generosità... Chiediamo film che esprimano lo spirito del nostro popolo così come è stato forgiato dal Fascismo: dei film che accendano (gli spettatori) per quegli ideali... di cui il Duce ha parlato, e che dànno un alto e nobilissimo significato alla nostra volontà di potenza, al nostro spirito guerriero e militare» (Lo schermo, 1937, n. 8; Cinematografo, p. 50).
40 «La grande illusione, un film figlio di quel pacifismo comunistoide e patriottardo che caratterizza un certo intellettualismo francese, falso e retorico, appunto, perché mancante di ogni sincerità... Non è chi non veda il falso dell’assunto: il popolo che è oggi il nerbo della guerra sa che quando essa si scatena in giuoco la sua stessa esistenza e la conduce con uno spirito, con una forza e un odio per il nemico che sono, appunto, ignoti agli internazionalismi intellettualoidi...» (Cinema, 1937, n. 28, p. 115).
41 «Il successo di Vecchia guardia rappresenta in primo luogo un cameratesco e cordiale tributo di omaggio della Germania Nazista all’Italia Fascista e alle aue origini squadriste e rivoluzionarie. Nessuno meglio del popolo tedesco può apprezzare la lotta eroica degli uomini ormai lontani della vigilia, quando, primo, il Duce alzò la bandiera della riscossa nazionale e della lotta ad oltranza contro il comunismo. Non per nulla vanno sotto il nome di fascismo tutti quei movimenti politici che si oppongono alla bestialità rossa...» (Lo schermo, 1937, n. 5). Ma non tanto a malincuore, nel volume Problemi del film, il CHIARINI e U. BARBARO riportarono per intero le ventun pagine del discorso del ministro Goebbels, meritevoli di «particolare attenzione per la aua chiarezza, specifica conoscenza dei problemi e il suo coraggio» (ivi, p. 6).
42 Fascismo e letteratura, pp. 22, 42, 15 e 23.
43 «Si può dire che ogni vera opera d’arte che sorga oggi in Italia non può non essere fascista, non rispecchiare i caratteri di questo nostro tempo, della sua civiltà... Ché, ogni opera letteraria degna di questo nome ha rispecchiato e illustrato e idealizzato il proprio tempo in quanto aveva di meglio... Restare fuori dei problemi (affrontati dal Fascismo) significa essere condannati alla sterilità e alla morte... all’incomprensione e all’oblio... Il Fascismo è una rivoluzione spirituale... Un artista italiano che non intende codesto rinnovamento, mostra già una personalità sorda, limitata: potrà avere del talento, ma non potrà creare opere d’arte vigorose... L’arte ha da essere arte e come tale frutto del nuovo clima, cooperazione attiva all’attuale vita italiana... Tutta l’arte, insomma, e la letteratura che non considerano la vita come un problema morale, sono assolutamente estranee allo spirito del Fascismo, ma sono anche arte e letteratura decadenti» (ivi, pp. 14-33).
44 «Film politico potrà e dovrà farsi solo in questo senso: quando, cioè, la passione politica sarà spontaneo motivo di ispirazione e non verrà quindi a turbare la creazione artistica, che nascerà, cosi, assolutamente libera... Ecco perché, secondo me, il cinema politico non è di materia o di soggetto, ma di uomini: uomini nuovi e giovani, che il Fascismo lo abbiano nell’animo e non debbano cercarlo negli argomenti, che senza pensarci e preoccuparsene portino nelle loro opere lo spirito che li muove» (B. e N., 1941, p. 61; Cinque capitoli..., p. 112).
45 «Anzi si può dire che tanto più l’opera d’arte sarà veramente realizzata, tanto più l’uomo politico – nel caso che vi ravvisi un pericolo sociale – sarà indotto ad impedirne la circolazione e la diffusione. Quando si proibiva la traduzione del libro di Remarque, non si emetteva un giudizio estetico, ma semplicemente un giudizio di opportunità politica. Si tratta, nel caso, di stabilire se il rispetto per l’opera d’arte debba essere incondizionato e giungere al punto di posporvi, sempre, le ragioni politiche. Sarebbe opportuno far circolare liberamente in Italia, per esempio, un romanzo il quale, al di fuori di ogni fine propagandistico ed essendo pienamente realizzato in quanto opera d’arte, esprimesse uno spirito antitetico a quello fascista? A me sembra, e spero di non fare scandalizzare nessuno, di no. Qui, ripeto, non è in ballo l’autonomia o la libertà dell’arte, ma bensì quella degli artisti, anzi della loro attività pratica, soggetta a tutte le limitazioni come quella di qualsiasi altro cittadino. È in ballo piuttosto l’autonomia dello Stato, di quello spirito che esso, in un determinato momento storico, incarna e rappresenta» (Fascismo e letteratura, p. 26).
48 «... a dispetto di tutte le estetiche, c’è l’altro lato della questione che non può essere trascurato: il modo come un fascista deve concepire il cinematografo. E qui bisogna dire che innanzi tutto esso deve essere considerato come un potentissimo mezzo di educazione ed elevazione delle masse... Film politico deve essere ogni film che si gira in Italia, qualunque carattere esso abbia. Voglio dire che non è concepibile la creazione in Italia di un film che non sia consono al clima fascista e che in ogni modo non serva il Regime... Un film politico in tal senso non potrà essere realizzato altro che dai giovani... In effetti gli uomini di ieri seguiteranno ad essere di ieri e concepiranno sempre la cinematografia sotto la specie esclusivamente speculativa, credendo che il popolo italiano non sia affatto cambiato dai tempi di Giolitti ad oggi... Diciamolo chiaro: questi uomini che cosa hanno a che vedere col Fascismo, anche se portano in tasca la tessera e sono osservanti delle Leggi e della Gerarchia? Ecco perché solo dai giovani che provengono dalle organizzazioni fasciste, che hanno respirato il nuovo clima di quest’Italia guerriera, c’è da aspettarsi un rinnovamento... Per questi giovani non è possibile concepire un film altro che fascisticamente... Essi potranno perfezionarsi... frequentando i corsi del C.S.C., il quale... per l’atmosfera di cui vive... dovrà essere in grado di fornire all’industria cinematografica italiana degli uomini nuovi, che siano preparati a fare della cinematografia quella potente arma che il Fascismo desidera...
«Ogni opera d’arte che sia veramente tale ha una forza propagandistica; cioè afferma con la potenza e la suggestione che è propria all’arte alcune idee e alcuni sentimenti. Ammesso questo, che del resto è provato da tutta la storia dell’arte, si deve riconoscere che un regime rivoluzionario come quello fascista ha non soltanto il diritto, ma il preciso dovere di incanalare le manifestazioni artistiche verso quell’orientamento ideale che esso ha dato al paese. Ha il diritto e il dovere di servirsi della potente suggestione dell’arte per compiere quell’opera di educazione e di formazione spirituale che è alla base del suo stesso essere» (Cinematografo, p. 117; Lo schermo, 1935, n. 1; Fascismo e letteratura, p. 46).
47 «Nessuna scuola critica e letteraria... ha potuto dimostrare di essere quella buona, quella fascista. E ciò era più che ovvio... Il critico, se veramente è fascista – crede insomma nei valori fondamentali che il Fascismo afferma – non si troverà mai nell’alternativa di essere cattivo critico o cattivo fascista... Il cattivo fascista è anche cattivo critico» (ivi, pp. 8, 23 e 35).
48 B. e N., 1948, n. 8, p. 49.
49 «Mentre gli uomini di mestiere o servivano il regime assoggettandosi a realizzare opere che avrebbero dovuto creare quel cinema fascista che, in effetti, non fu mai vivo... si veniva a formare, sotterranea, una corrente che potremmo dire della resistenza cinematografica, a carattere sostanzialmente antifascista, anche se non tutti i suoi componenti ne avevano una piena consapevolezza politica» (Cinema quinto potere, p. 168). Su questo argomento, molto più vicino al vero ci sono parsi i rilievi di R. REDI, in Il mito dell’evasione (Cronaca del cinema e della televisione, 1958, n. 25, p. 23). Sulla resistenza di molti bei nomi di “antifascisti” postumi, quali Luigi Russo, Roberto Longhi, Alberto Moravia, Carlo Muscetta, Luigi Chiarini e Piero Calamandrei, cfr Civ. Catt. 1955, I, 224-225.
50 Così fu affermato in Civ. Catt. 1955, III, 427: e L. Chiarini, su Cinema nuovo (1955, n. 69, p. 305), lanciando l’accusa di «deplorevole leggerezza di chi trincia giudizi senza una doverosa documentazione» e di «cattiveria» verso «l’incauto recensore», enumerò autori e titoli dell’annata 1951 a documento del «carattere antologico, aperto a tutti i seri contributi, al di fuori di ogni discriminazione ideologica» che la rivista avrebbe conservato. A nostra volta forniamo questa doverosa documentazione. L’esame delle tre ultime annate dirette dal Chiarini dà: scrittori marxisti o materialisti: Aristarco (una decina di firme), U. Barbaro (due), Chiaretti (una), Lizzani (due), Pandolfi (sei), Quaglietti (sette), Sadoul (nove), Viazzi (otto). Chiare posizioni antireligiose e anticattoliche li avvertono in Lizzani (1949, n. 2, p. 43), Pandolfi (1951, n. 6, p. 55). Materialismo non sconfessato in Viazzi: 1949, n. 3, p. 16 ss. Con facilità si criticano e si mettono in berlina i cattolici: D’Amico (1951, n. 6), Rondi (ivi, n. 4), Pabst (1949, n. 4, p. 90), Vincent (1950, n. 2, p. 72). Si critica molto spesso il cinema americano (qui non si discute se a ragione o a torto), perché capitalista (1949, n. 3, p. 47 11., n. 8, p. 31 ss.; 1951, n: 7, 28; n. 10, p. 22), mentre, invece, abbondantemente si parla, esaltandola, di ogni attività di oltre cortina: nel 1949 il Pandolfi esalta L’educazione dei sentimenti (n. 3, p. 90), Sadoul il cinema polacco (n. 6, p. 90), Iliu il cinema romeno (n. 6, p. 93), Viazzi consacra trenta pagine al cinema sovietico, con chiare battute di propaganda (n. 7, p. 17 ss.); nel 1950 Aristarco e Viazzi presentano Eisenstein (n. 1, pp. 51 ss., 60 ss.), Granich consacra ventiquattro pagine al quinquennio sovietico 1934-1938 (n. 4, p. 28 ss.) e altre tre Aristarco (p. 81). Una rassegna della stampa c’istruisce sui pionieri russi della fotografia cinematografica (p. 93); Viazzi presenta una storia del cinema sovietico (n. 10, p. 60 ss.) e consacra diciassette pagine al festival di Karlovy Vary, comunista (n. 12, p. 53 ss.). Nel 1951: G. A. fornisce dati sul recente contributo della letteratura sovietica (tutta in russo, e perciò non accessibile al pubblico d’Europa: n. 1, p. 61 ss.), ed Eisenstein viene di nuovo affidato a U. Barbaro (n. 6, p. 17 ss.). Riguardo all’articolo del p. Taddei, non entrando in merito di esso né della lettera che lo presentava, notiamo che in tutta Bianco e Nero è l’unico che la direzione s’è creduta in dovere di postillare precisando che «le idee del p. Taddei non collimano con le nostre»; su quel che segue, cioè che la rivista «vuol essere aperta, come lo è stata fin dal suo sorgere, a tutte le opinioni a tutti i dibattiti basati solo sulla forza delle argomentazioni», dopo quanto siamo andati rilevando nel testo, ci permettiamo di dubitare. Ancora un’osservazione: si guardi quante e quali firme passarono, insieme col suo direttore, da Bianco e Nero alla R.C.I., «che di Bianco e Nero volle essere la ideale proseccuzione» anzi: «L’unico legittimo continuatore» (ivi, n. 1, pp. 3 e 58).
51 «Vorremmo... consigliare a quanti si occupano di cinema di considerare esaurito l’ormai biennale dibattito sulle ingiustizie e le recriminazioni subite ed avanzate da Luigi Chiarini. Che in tutte le questioni in cui presente, direttamente o indirettamente, qualcuno che non la pensa come il Chiarini, debba essere ricordata una vicenda del tutto personale, e che quindi tutti i dibattiti debbano svolgerli sul piano del più acido personalismo, ci sembra cosa non giovevole a nessuno e soprattutto alla cultura cinematografica. Né per questo ci si può imputare scarsa sensibilità morale, in quanto – se non bastasse una opportuna sentenza del Consiglio di Stato, che ha riconosciuto la legittimità del provvedimento riguardante il Chiarini – rimane il fatto che a posti di natura fiduciaria non possono non andare persone che godano della fiducia di chi le nomina. Se comprendiamo quindi da un punto di vista umano le amarezze del Chiarini, non vediamo legittima la sua lamentela, perché quelle autorità, per le quali per altro il Chiarini stesso non ha mai mostrato soverchia considerazione, ad un certo momento abbiano ritenuto di fare a meno della sua collaborazione. Né ci stracceremo le vesti se un editore, come tutti gli editori di questo mondo, ad un certo momento ha deciso di affidare una sua pubblicazione a persona diversa dal Chiarini, poiché questa vicenda propria di tutti i giornali e periodici, nei quali le cariche direttive o redazionali non hanno mai avuto carattere vitalizio» (Filmcritica, 1952, n. 12, p. 96). Più di una volta il Chiarini allude alle dolorose conseguenze economiche seguite al provvedimento: cfr «bisogna dire che i clericali sono stati molto conseguenti e il sistema dello sfilatino hanno seguito ad applicarlo... praticamente» (Cinema quinto..., p. 214).
52 R.C.I., 1953, D. 12, p. 88.
53 Cinema quinto..., p. 26.
54 «Gli uomini di quelle generazioni che all’avvento del Fascismo avevano superato i vent’anni... dovrebbero mostrare una maggiore e più umana comprensione per quei giovani che si sono formati, invece, nel clima fascista e della cui formazione la maggior parte di noi anziani in qualche modo responsabile. In questi giovani la reazione alla retorica, con cui sono stati nutriti per tanti anni, e della cui enorme vuotezza e falsità hanno avuto la misura nei tragici avvenimenti della guerra, naturale che sia violenta e spietata; giusto che essi anelino alla verità, anche se amara e crudele, come all’unico mezzo di riscatto delle passate colpe e degli errori e, insieme, qual dura, ma salutare, lezione per non ricadere mai più in quelle colpe e in quegli errori. Come non possono avvertire gli anziani queste esigenze morali e comprenderle anche quando colpisce quel residuo di fascismo che sonnecchia in ognuno e dal quale sembra tanto difficile liberarsi?» (R.C.I., 1953, n. 9, p. 3).
55 Cinema quinto..., p. 149,162. In clima siffatto, una insinuazioncella per chi, durante il ventennio, stava in alto non guasta: «Le parole di Pio XI, di compiacimento per quei governi che ispiravano la produzione cinematografica, debbono riferirsi quasi certamente al governo fascista» (ivi, p. 137)
56 Ivi, pp. 218, 61, 213, 83; Cinque capitoli..., p. 131.
57 L. FREDDI, op. cit., pp. 163 e 177.
58 Cinema quinto..., pp. 72, 80, 161.
59 «È un luogo comune – scriveva egli nel 1938 – dire che sono le censure dei vari Stati che limitano la libertà artistica cinematografica: un luogo molto comune, anche perch6 la censura interviene ad opera compiuta e, generalmente, ha dei canoni precisi che sono già nello spirito dell’artista dei singoli paesi...» (B. e N., 1938, n. 7, p. 5). – Oh che? Non si era egli «compiaciuto» di riportare, a questo proposito, del discorso pronunciato il 22 maggio 1936-XIV al Senato da Galeazzo Ciano, quel brano dedicato alla censura libraria: «Mettiamo bene in chiaro che non si tratta di una miope e gretta censura, che circoscriva la libertà dell’artista o limiti l’esperienza dello scienziato. Ogni pura manifestazione del pensiero è accolta e rispettata e diffusa!>? (Fascismo e letteratura, p. 9).
60 Cinema quinto..., pp. 167, 166, 97; 174. – Per esempio, nell’azione politica cinematografica dei comunisti, che poi, guarda caso, egli stesso dové condannare come errata!
61 «Una scienza per cui 2+2 può fare, a seconda dello scienziato, 8, 12, 48 e almeno per ora, mai 4, non può non sollevare il sospetto anche da parte di chi non ha mai civettato col latinaccio dei vecchi logici... Diro a conclusione che gli scritti di alcuni marxisti, come quello del Barbaro, sono caratteristici per il loro dommatismo, proprio di chi, in possesso ormai di una concezione del mondo, che è la sola filosoficamente e scientificamente valida, ha già in tasca la soluzione di tutti i problemi, in precedenza, prima di affrontarli, anche quelli dell’arte, in virtù, questi, di un’estetica veramente scientifica, che da quella concezione del mondo sgorga naturalmente come l’acqua della fonte. Di qui certi giudizi su uomini, opere, movimenti artistici e culturali che hanno il sapore della giustizia sommaria. Restano a noi, poveri mortali, i dubbi e i travagli del pensiero, che non si arresta soddisfatto nella conquista della verità una volta per sempre.
«Si vuole rilevare la comune tendenza a dare all’opera d’arte un valore ideografico (il suo derivare ed esprimere una precisa e valida idea della realtà, scrive il Barbaro), in cui non c’è più posto per il sentimento, discacciato come residuo romantico e mistico. Questa riduzione dell’arte a pura discorsività porta a poggiare e sul suo contenuto – l’idea valida – e sulla sua tecnica – il linguaggio con cui tale idea espressa – astrattamente presi l’una e l’altra. Coi risultati che tutti possono vedere in tante opere del “realismo socialista”, sia pittoriche, letterarie, cinematografiche dove le idee sono espresse con la chiarezza e la forza propria della oleografia, al manifesto pubblicitario, al manuale didattico e di propaganda, ma raramente con la forza e chiarezza dell’arte» (R.C.I., 1953, n. 6, pp. 3 e 5).
62 Così, se giudica il Potiomkin per quel capolavoro che è, lo fa argomentando prevalentemente dall’uso che Eisenstein vi fa del taglio e del montaggio; stronca, se deve stroncarlo, i Cosacchi del Cuban, di Piriev; giudica del tutto mancato poeticamente La caduta di Berlino e, se proprio deve lodare in qualche modo un film «del nuovo corso politico», come La cicala, di Samsonov, lo fa in modo che chi deve intendere intenda (ivi, p. 56; Il film nella battaglia..., pp. 263 e 108; Panorama..., p. 511 ss.). – Ma poi non c’è un po’ di pregiudizio nello stroncare La strada, di Fellini, cui tardivamente tuttavia riconosce uno «slancio lirico»? E non ce n’è nel giudicare mancato, sul Contemporaneo, il film On the Waterfront, che solo su Panorama... diviene «di meriti notevoli»? (ivi, pp. 141- 145 e 319; R.C.I., 1954, n. 8, pp. 49-56).
63 «Credo che Chiarini senta l’esigenza di teorizzare la sua preferenza per il realismo. Egli sente che non si tratta di una semplice tendenza, ma di qualche cosa che trascende le questioni di gusto, e che merita di conquistare una validità universale: sente, credo, che il realismo si identifica con l’arte e vorrebbe dirlo con rigore teorico. Si capisce, almeno io credo di capire, che il Chiarini sta per romperla definitivamente con le concezioni idealistiche e che la sua esperienza lo sospinge verso l’istanza di restituire al film, e all’arte in genere, la dignità di un contenuto di idee, da un verso, e della pratica funzionalità, dall’altro. È chiarissimo, per me, che a questo tende Chiarini. Però le sopravvivenze idealistiche lo impacciano e gli fanno contrapporre termini d’arte e termini di politica, ovvero di educazione sociale o addirittura di propaganda; gli fanno sostenere che l’illuminazione del neorealismo italiano consiste nell’esser stato al di fuori di presupposti ideologici ed educativi, e così via» (ivi, 1953, n. 6, p. 32).
64 Cinema quinto..., p. 10.
65 B. e N., 1948, n. 1, pp. 3-5; Il film nella battaglia..., p. 265; R.C.I., 1954, 1, p. 5; Panorama..., p. 163; Cinema quinto..., p. 180.
66 Fascismo e letteratura, pp. 11, 12, 13, 15, 23; Il film nella battaglia..., p. 89.
67 B. e N., 1948, n. 1, p. 5; n. 2, pp. 4 e 80, dove aggiunge: «Solo il Luce potrebbe fornire un cinegiornale veramente di informazione e anche di formazione... dando positive garanzie di obiettività sul piano politico, anche proprio se non assoluta, come avviene alla Radio»; Cinema quinto..., pp. 59-63.
68 Contro l’autonomia dell’artista egli cosi allora ironizzava: «Tutto ciò (l’esaltazione degli Indifferenti, di Moravia), la critica ha potuto fare in nome della libertà astratta della creazione artistica, della sua assoluta indipendenza dalla morale e soprattutto dalla politica, che se ne deve stare paga del profano senza intromettersi nelle cose divine. L’arte non si tocca! L’artista non può essere chiamato a render conto delle sue azioni, che sono le sue creazioni, come il politico; l’artista, quando ha raggiunto il cielo cristallino dell’arte, è limpido e libero come una stella. L’artista è come il medium: quando è in trance non risponde di nulla»; e concludeva: «Si possono graduare le opere d’arte e gli artisti secondo una scala di valori proprio come si possono graduare le personalità umane, per la semplice e buona ragione che se l’artista non fa, né si pretende che faccia, il moralista, il filosofo, il politico, esso non può non essere tutte queste cose insieme nel momento che è artista, che esprime e rappresenta, cioè, questo suo mondo con animo commosso anziché con mente pacata e serena» (Fascismo e letteratura, pp. 40-41).
69 Problemi del cinema, p. 6; Cinque capitoli..., p. 106.
70 B. e N., 1950, n. 4, p. 6.
71 R.C.I., 1953, n. 12, p. 5; 1954, n. 3, p. 49; n. 2, p. 4. Cinema quinto..., pp. 81, 127 e 188. Ma siffatta posizione, polemicamente paradossale, ripugna al suo animo bennato, al suo senso di padre di famiglia e di onesto cittadino; eccolo, allora, quando non lo assillano le esigenze della lotta, rettificare: «Unico criterio di valutazione dell’arte resta sempre e solo il giudizio estetico. Tutto ciò non significa che sul piano pratico non si debba intervenire (famiglia, scuola, stato) ponendo delle limitazioni alla circolazione dell’opera d’arte, suggerite da considerazioni morali...», e notare (a proposito di Senso, di Visconti) che quando un artista ha veramente qualcosa da dire, trova sempre il «mezzo di dirlo», e, a proposito di film come Touchez pas au grisbi, Il selvaggio, Venticinque minuti con la morte e Totò all’inferno, prevedere che la censura «non senza ragioni» taglierà certe espressioni un po’ crude, o rilevare che «possano turbare l’animo di alcuni giovani» e che i loro «spettacoli di orrore e di violenza non rispondono certo a fini educativi», o, infine, giudicare «grave che film di questo genere possano circolare» (Il film nella battaglia..., p. 183; Panorama..., pp. 43 e 370; R.C.I., 1954, n. 8, p. 39; Contemporaneo del 12-2-56 e del 18-6-55).
72 Nel 1942 così esprimeva, a questo proposito, A. LI. sull’Osservatore Romano del 21 dicembre, le sue preoccupazioni: «... poiché è precisato che il libro (Cinque capitoli sul film) raccoglie appunti per lezioni dall’autore tenute agli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, non possiamo non nascondere che la loro diffusione in aule frequentate da giovani... Il Centro sperimentale italiano di cinematografia ha un pubblico còmpito ed una pubblica responsabilità. Se siamo bene informati, dovrebbe avviare i giovani di ambo i sessi alla carriera cinematografica, istruendoli nei vari settori tecnici e artistici. I suoi corsi, quindi, dovrebbero aumentare la cultura degli allievi nel campo dello scibile con attinenza specifica al cinema, non trasformarsi in palestre pseudo-filosofiche, a carattere tendenzioso e polemico». Pari meraviglia espresse Diego FABBRI sulla Rivista del cinematografo, 1942, n. 1, p. 1.