Articolo estratto dal volume IV del 1974 pubblicato su Google Libri.
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Venticinque anni di attesa
L’interesse di Cari Theodor Dreyer ai drammi di Cristo e del popolo ebraico risaliva al 1921, quando il Regista, trentaduenne, girava i film Biade of Satans Bog (=Pagine del Libro di Satana) e Pogrom (o Die Gezeichneten=I segnati): nel primo narrando come Satana, sotto l’aspetto di un fariseo, avesse spinto Giuda a tradire Gesù, e nel secondo descrivendo in forma romanzesca una persecuzione di ebrei da parte di cristiani nella Russia principio di secolo. L’idea di un film – Jesus - tutto dedicato ai due temi congiunti risale alla seconda guerra mondiale1. Per possederne bene l’argomento, scrupoloso come sempre, Dreyer studiò l’ebraico; poi, finanziato dal miliardario americano Blev s David, si recò in Israele per consultarvi persone, conoscerne luoghi, ambienti, paesaggi; quindi a New York, per consultare in quella biblioteca antichi testi biblici. Messa a punto nel 1949 una prima ampia sceneggiatura, nel 1955 sembrò che il progetto stesse per realizzarsi. Dreyer già si disponeva a reclutare sul posto attori e comparse ebrei, che anche nel film parlassero ebraico; in Italia attori italiani che, per i romani, vi parlassero latino; ed in Grecia attori che vi parlassero in greco, riservando ad una voce fuori campo il narratage in inglese. Intanto spediva a Gerusalemme casse di disegni, fotografie, appunti e materiale documentario. Di fatto, per il ritiro del produttore americano e soprattutto per la tensione scoppiata tra i Paesi arabi ed Israele, le casse finirono in un magazzino ed il progetto sfumò.
Solo nel 1967 due fatti nuovi tornarono a rinverdirlo. Il Fondo Danese del Cinema metteva a disposizione del regista tre milioni di corone (qualcosa come 300 milioni di lire italiane di oggi), mentre da parte della RAI-TV andava maturando la proposta di un contributo sostanziale. Ma il 20 marzo 1968 il regista, quasi ottantenne, moriva, senza aver potuto realizzare, dopo venticinque anni di speranze, quello che egli aveva sognato e detto “il film della sua vita”.
Postumo, nel 1968 ne usciva, più che la sceneggiatura, il lungo racconto, completo dei dialoghi, (quasi) tutti presi dai Vangeli, per di più corredati da diffuse note esegetiche e giustificative. Portato integralmente sullo schermo avrebbe preso qualche ora; ragion per cui lo stesso Dreyer si era accinto a ridurlo all’essenziale. Ciò che il regista non poté fare, l’ha compiuto la Compagnia del Teatro Stabile di Torino, che il 14 dello scorso ottobre ne ha offerto la prima rappresentazione – due buone ore! – nel Nuovo Regio della stessa città2.
Questa Nota, frutto di un’attenta lettura del “racconto” dreyeriano e di una prima impressione, “a caldo”, della trasposizione scenica, vorrebbe precisare la tesi del film progettato, sostanzialmente rispettata sul palcoscenico, ed insieme rilevare le prevedibili differenze espressive delle due forme di spettacolo.
Una “vittima della Resistenza”
Sintetizziamo dalle confidenze di Dreyer. Qualche giorno dopo l’occupazione della Danimarca da parte dei tedeschi – 9 aprile 1940 – mi venne l’idea che i giudei, al tempo di Gesù, si dovettero trovare nella stessa nostra condizione: l’odio che noi portavamo verso gli occupanti nazisti essi dovevano provarlo verso i romani.
Il film, dunque, sarà la storia dell’uomo Gesù. Che sia o no stato il Figlio di Dio non mi dice un gran che. Io conosco il Cristo solamente per quello che ha fatto e detto. Ma non si può presentare il Cristo al di fuori del contesto politico nel quale ha vissuto e nel quale è stato un provocatore. Pensai perciò che la cattura di Gesù e la sua condanna a morte non era stata altro che il risultato del conflitto tra la predicazione e la condotta di Gesù e l’insolente potere dell’occupante.
Arrivato negli Stati Uniti ebbi la fortuna di trovare conferma alla mia tesi nello studio, allora pubblicato, Who Crucified Jesus? (Chi ha crocifisso Gesù?), di Salomon Zeitlin, professore nel Rabbinica/ Department del Dropsie College di Philadelphia. L’Autore vi dimostrava che Pilato era stato il vero padrone della Palestina; e che Caifa vi era stato una specie di Quisling del tempo; il quale, gran sacerdote ed insieme capo del popolo giudeo, con la classe dirigente del Paese (i Sadducei) perseguiva una politica di collaborazione, per ridurre – diceva – al minimo i danni dell’occupazione. Nel Paese, invece, tre gruppi di persone perseguivano “politiche” diverse. li primo, benché più numeroso, non preoccupava gran che l’invasore, dato che pazientemente ne sopportava la presenza, nell’attesa rassegnata del Messia annunciato dai profeti e probabile restauratore del regno ebraico. Però poteva essere manovrato da due altri gruppi, poco numerosi, ma “impegnati”: quello dei “farisei dell’Apocalisse”, che attendevano una rivoluzione condotta da un discendente della famiglia di David dotato di poteri soprannaturali; e soprattutto quello dei “sicari”: cosiddetti dalla sica (pugnale aguzzo e curvo) che adoperavano nella guerilla (la “Resistenza” del tempo), tanto contro gli occupanti quanto contro i collaborationisti. I romani tenevano d’occhio gli uni e gli altri senza troppo distinguerli, perseguendoli e crocifiggendoli in massa.
Il Sinedrio che, secondo Marco, Luca e Giovanni, condannò Gesù – continuava Zeitlin – non era un tribunale religioso, bensì politico, eletto dal suo capo collaborazionista, allarmato soprattutto da due imprese di Gesù contrarie alla sua politica: la sua entrata trionfale in Gerusalemme e la sua cacciata dei mercanti dal tempio. Zeitlin – conclude Dreyer – studiò e mise a punto con me la sceneggiatura. Restammo d’accordo su tutti i punti, tranne che sul parallelo Caifa-Quisling.
Ma in realtà i punti di disaccordo risultano almeno due, per quanto, onestamente, Dreyer li qualifichi come opinioni sue personali. Il primo riguarda, appunto, Caifa, il quale – nota il regista –, secondo la mia modesta opinione, non fu il Quisling del tempo, ma un realista, che cercava di salvare il salvabile con una politica di compromessi. Perciò nella mia sceneggiatura non ho seguito lo Zeitlin, mentre l’ho seguito nella sua tesi che non sono stati i giudei a crocifiggere Gesù; anzi – ed è questo il secondo punto di disaccordo – per me è verosimile che l’iniziativa dell’arresto e della condanna di Gesù sia partita dai romani, i quali, disponendo di una Gestapo efficientissima, dovevano essere bene al corrente di quanto, soprattutto sotto la Pasqua, succedeva in Gerusalemme. Confesso, però, che è solo una mia opinione personale.
Come si vede, si tratta di una interpretazione gratuita del Cristo; più o meno, ma su un altro registro, come quella di Pasolini, che nel Vangelo secondo Matteo ha presentato il Cristo come un deluso rivoluzionario sociale. Interpretazione non solo teologicamente falsa – Dreyer, come s’è visto, di estrazione luterana, ne misconosce, ed anche ne nega, la filiazione divina –; ma anche storicamente contraffatta, dato che egli, mentre ignora innumerevoli apodittici testi delle fonti storiche cui afferma di ispirarsi3, all’occasione, le manomette, come quando pone in bocca a Pilato e a Caifa battute del tutto estranee ai Vangeli4.
La riduzione-adattamento di Aldo Trionfo, almeno nel testo, si conserva sostanzialmente fedele alla tesi di Dreyer5. Anche il suo Cristo, sugli inizi della sua vita pubblica, ignora di essere il Messia Figlio di Dio. Se ne persuade gradualmente alla lettura delle profezie che lo riguardano ed al compiersi dei miracoli; che, poi, miracoli non sembrano, ma piuttosto guarigioni di un taumaturgo medianico. Egli vi resta essenzialmente e sempre un provocatore, il “resistente” inconsapevole che delude i “resistenti” consapevoli, ma che ne combina a sufficienza da frastornare la politica collaborazionista del Sinedrio e da provocare la repressione pilatesca.
Solo nel finale viene introdotto un doppio correttivo. Mentre, infatti, il racconto di Dreyer chiude con la morte del Cristo, la scena finale sul palcoscenico presenta in primo piano il Cristo risorto: dunque Egli era Dio, non un fastidioso provocatore!; e nello sfondo presenta l’interno di una chiesa – una specie di Santo Sepolcro di Gerusalemme –, con mensa-altare, croce, candele, lumi e lampadari: dunque abbiamo assistito non alla rievocazione di un episodio “della Resistenza” ma al sacrificio della croce, perpetuato nel sacrificio eucaristico, sacramento della sua Chiesa!
Almeno noi plaudiamo alle buone intenzioni6. Ma questo finale a sorpresa non convince.
Spettacolo buono
A parte il dialogo, già tutto approntato, non era impresa facile trasporre la sceneggiatura di Dreyer in azione scenica. Campi e piani, movimenti di macchina, flash back..., insomma, quasi tutti i mezzi espressivi propri del cinema sono interclusi alla regia teatrale. Eppure il regista Trionfo ed i suoi collaboratori l’hanno portata a termine con esiti, tutto sommato, positivi, e qua e là eccellenti. A cominciare dall’uso del materiale scenografico.
Niente scenario, niente quinte, niente ricostruzioni convenzionali. Al centro, verso il fondo, un’alta costruzione piramidale praticabile, di legno e ferri, sedie, scale e mobili: a volta a volta luogo deputato delle cerimonie nel tempio, delle discussioni nella sinagoga, delle cene pasquali, delle sedute nel Sinedrio, del pretorio di Pilato, del Getsemani; ed insieme, nel suo affastellamento di masserizie tra di soffitta e di trasloco, simbolo di un ghetto fuori del tempo e sempre presente, sino ai nostri giorni, nella tribolata storia del popolo ebraico; quasi a significare la distanza ed insieme l’attualità storica del dramma di Cristo e dell’umanità.
Avanti alla piramide due siparietti scorrevoli che permettono cambiamenti di scena a sipario aperto, e fanno da sfondo a scene di campi ravvicinati. File di sedie in continuo movimento, anche avanti al sipario chiuso, a simulare scene di primo piano, isolando, anche con l’ausilio delle luci, in àmbiti chiusi, i dialoghi ed i miracoli di Gesù con i diversi gruppi sociali: popolani, apostoli, scribi e farisei, zeloti, sinedriti... Ottenendo così una movimentazione, a volte eccessiva, dei circa trenta attori sempre presenti sulla scena.
Altro felice esito quello delle variazioni cromatiche sotto gli anche troppo frequenti giuochi di luci. Sulla dominante dei grigi, dei marroni e dei neri di quasi tutti gli attori, il Cristo in tunica nocciola e in sciarpa granata; e, a tratti, il biancore delle tovaglie e quello sarcastico della tunica chilometrica di Pilato. Pure la scena si mantiene per lo più in penombra, per accendersi una volta nella luce accecante del Cristo quando di colpo prende coscienza del suo essere di Messia, e nel finale già ricordato. Spettacolare, ad apertura del sipario sul secondo atto, il grande drappo bianco che ricopre la piramide centrale, simulando, nella penombra, qualcosa tra un iceberg ed una celeste Gerusalemme: cade il drappo e – eco dello zeffirelliano Fratello Sole, Sorella Luna? - scopre, in luce solare, i mercanti del tempio in un brulicare, sventolare e svolazzare di stoffe, sete, drappi, tappeti, rossi, verdi, gialli, turchini....
In questo quadro stilizzato, le musiche e i canti ebraicizzanti di Sergio Liberovici, e la recitazione degli attori: – eccezion fatta per Caifa e Pilato – tutti giovani e giovanissimi. La recitazione, soprattutto, estrosa e mobilissima del Branciaroli, eccessivamente indulgente alla mimica ed ai toni scanzonati del Cristo della Via lattea di Buñuel, ma sconvolgente quando, sul boccascena, volto alla “quarta parete”, indirizza direttamente a noi, pubblico di oggi, le parole di Cristo, roventi di vita e di condanna. Ancora una volta se ne avverte la quasi intrinseca efficacia sacramentale: le gridi sullo schermo il Cristo pasoliniano o le scandisca, nella finzione scenica, il Cristo provocatore di Dreyer-Trionfo.
Sul piano artistico, più che al capolavoro, siamo ad un dignitoso, e a volte eccellente, teatro sperimentale. Su piano religioso, con tutti i limiti sopra rilevati, siamo notevolmente sopra il recente lacrimogeno tonitruante gran spettacolo di N. Jewison Jesus Christ Superstar.
1 Dato il carattere sommario di queste Note ci dispensiamo dal moltiplicare i rimandi alle fonti dreyeriane alle quali In particolare, sul progettato film Jesus esse sono: la sceneggiatura del film, pubblicata integralmente nel volume C. TH. DREYER, Gesù. Racconto di un film, Tonno, Einaudi, 1969 (Civ. Catt 1969 III 538), e parzialmente in Cineforum, 1968, n. 76, 404 ss., e in Rivista del cinematografo, 1968, 5, 258 ss. Inoltre, lo scritto dello stesso DREYER, Qui a crucifié Jésus?, del 1951, riportato in Cahiers du cinéma, 1964, n. 159, 32 ss.; e le due interviste del Regista: l’una ad Henrik Stangerup, del 1964, riportata in C. TH. DREYER, I miei film, Venezia 1965, 148 ss.; in C. TH. DREYER, Cinque film, Torino Einaudi, 1967, 446 ss. (Civ. Catt 1968 II 99); ed anche in Cineforum, 1964, n. 5, 468 ss.; l’altra a Herbert G. Luft, del 1964 (ivi, 471). E, infine, G. GAMBETTI, Testimonianza, in Bianco e nero, 1968, nn. 7/8, 116 ss.
2 Traduzione di Ernesto Ferrero; riduzione adattamento e regia di Aldo Trionfo; scene e costumi di Emanuele Luzzati: musiche di Sergio Liberovici; luci di Vincenzo Cafiero. Attori: Franco Branciaroli (Gesù) ed altri ventisei (suoi interlocutori).
3 Cfr, tra i testi evangelici, sulle responsabilità di Caifa e del Sinedrio: “Il figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi, che lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani” (Mt 20,17; Mc 10,33); “Allora i sommi sacerdoti [...] si riunirono nel palazzo del sommo sacerdote, che si chiamava Caifa, e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire” (Mt 26,3; Mc 14,1); “I sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano qualche falsa testimonianza contro Gesù per condannarlo a morte [...] e risposero: ’È reo di morte’”. (Mt 26,59-67;27,1; Mc 14,55-64); “I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire [...] ma non sapevano come fare” (Lc 19,47; 22,1); “Ma essi si misero a gridare: ’A morte costui’” (Lc 23,18); "È meglio che un uomo solo muoia per il popolo” (Gv 11,50; 18,14); “A noi non è consentito mettere a morte nessuno” (Gv 18,31).
Sulla condotta di Pilato: “Sapeva bene che glielo avevano consegnato per invidia” (Mt 27,18; Mc 15,10); "’Che male ha fatto?’ [...]. Visto che non otteneva nulla, si lavò le mani davanti alla folla e disse: ’Non sono responsabile di questo sangue’” (Mt 21,23; Mc 15,15); “Non trovo nessuna colpa in lui [...]; e abbandonò Gesù alla loro volontà” (Lc 23,2.13.22; 25,25); “Prendetelo voi e giudicatelo [...]. Io non trovo in lui nessuna colpa” (Gv 18,31.38; 19,4); “Da quel momento Pilato cercava di liberarlo” (Gv 19,12).
Concordano gli Atti degli Apostoli Così san Pietro: “Voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso” (At 2,23); ’“Voi l’avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo” (At 3,13); “Nel nome di Gesù nazareno, che voi avete crocifisso” (At 4,10; 5,30). Così santo Stefano: “Il Giusto, del quale voi siete divenuti traditori e uccisori” (At 7,52). E così san Paolo: “Pur non avendo trovato in lui nessun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso” (At 13,28).
4 Pilato a Caifa: "È a causa di questo Gesù di Nazareth che vi ho chiamati. Voi probabilmente pensate che io non sappia nulla di ciò che succede in questa città, ma, credetemi, io so. Gli uomini al mio servizio non sono ciechi né sordi,! Questo [...] Gesù di Nazareth è stato osservato per mesi. Nulla mi è tenuto nascosto e sono ampiamente informato [...] (Con enfasi:) Quest’uomo deve essere eliminato prima di Pasqua [...]. È mia volonta che sia arrestato e portato da me prima della festa: ciò significa non più tardi di domani sera [...]. Ho avuto informazioni attendibili che i pellegrini hanno progettato una dimostrazione pubblica in suo favore [...]. Sono perfino a conoscenza che hanno progettato di dar fuoco alla città. Ma io mi affido a voi fino a domani sera. Se non me lo avrete consegnato per allora, prenderò la faccenda nelle mie mani”.
Caifa a Pilato: "[...] per conto mio la miglior cosa è di lasciarlo stare per qualche tempo. Noi stessi siamo stati provocati da lui, ma pensiamo che col tempo il popolo si allontanerà da lui e lo dimenticherà. Ha già perso parte della sua popolarità”.
Caifa al segretario del Sinedrio: “Scrivi un ordine: che chiunque sappia dov’è Gesù lo deve rivelare, in modo che le guardie possano prenderlo [...]. Non capite niente. Non vedete che l’ordine è un avviso a Gesù? La cosa più saggia che può fare è capire al volo e scappare oltre confine. Allora sarà salvo, e noi e i romani ci saremo liberati di lui”.
Caifa a Gesù: "È con cuore dolente che ti consegnamo ai romani!”.
5 Compreso il lapsus, che farebbe – se ancora esistessero – sobbalzare nella tomba le ossa di sant’ Atanasio. Ambedue, infatti, fanno affermare a Gesù: “Io e il Padre siamo una persona sola”, invece del giovanneo (Gv 10,30): “Siamo una sola cosa”.
6 Ovviamente ad altri ha dato fastidio. Scrive il critico di Paese sera (16 ott. 1974): “Un solo momento di qualche sorpresa e inquietudine, proprio alla fine, nel trapasso dalla figura di Gesù (nella Passione) all’immagine come rutilante (con luminarie da Duomo del Panettone Motta) e misteriosa, baroccamente affastellata e fastidiosa, dell’eredità che lascia Gesù, o di chi raccoglie quella eredità: insomma, della Chiesa”.
Più coerentemente Dreyer chiude il suo racconto con un messaggio di valore alto, sì, ma non “teologico”, scrivendo: “Gesù muore, ma compie nella morte ciò che aveva iniziato in vita. Il suo corpo venne ucciso, ma il suo spirito vive. Le sue parole immortali portarono all’umanità in tutto il mondo la buona novella dell’amore e della carità annunciata dagli antichi profeti”.