Articolo estratto dal volume III del 1961 pubblicato su Google Libri.
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Nato a Berlino nel 1904, nel 1929, venticinquenne ed appena laureato in psicologia sperimentale, Rudolf Arnheim si applicava allo studio del cinema, e già nel 1932 pubblicava il volume Film als Kunst (Berlino, Rowohlt). L’anno seguente ne usciva la traduzione inglese (Londra, Faber & Faber), e a Roma, dove l’Arnheim si stabilì nello stesso 1933 presso l’Istituto Internazionale della Cinematografia Educativa, il docente e regista U. Barbaro, per suggerimento di E. Cecchi, ne sunteggiò le prime centocinquanta pagine. Questo sunto per cinque anni circolò poligrafato; solo nel 1938, prefazionato dallo stesso Arnheim, usci a stampa nella rivista Bianco e Nero (aprile, pp. 11-42). Soltanto oggi quest’opera, che può considerarsi ancora una delle classiche negli studi filmologici, esce in Film come arte1, tradotta in italiano purtroppo solo parzialmente. Essa, tuttavia, si integra con altri quattro scritti dello stesso autore; vale a dire: Le idee che fecero muovere le immagini (breve storia psicologica della tecnica cinematografica), e Il movimento, ambedue voci scritte per l’Enciclopedia del cinema, ideata e condotta da L. De Feo, e, dopo cinque anni di lavoro, quando era già in bozze presso l’editore Hoepli, sospesa nel 1938 con l’uscita dell’Italia dalla Società delle Nazioni; nonché Vedere lontano, sulla televisione, già pubblicato nel 1935 sulla rivista Intercine, e finalmente Nuovo Laocoonte: Le componenti artistiche e il cinema sonoro, pubblicato nel 1938 sulla stessa Bianco e Nero (agosto, pp. 3-33).
Precedono la raccolta una Nota personale, in cui lo stesso Arnheim informa i lettori intorno alla sua attività saggistica nel decennio 1930-1940 ed intorno ai principi psicologici e metodologici che l’hanno ispirata; ed un’ampia Prefazione, nella quale G. Aristarco, riprendendo, rimaneggiando e completando il saggio da lui dedicato all’Arnheim nel volume Storia delle teoriche del cinema2, cerca di stabilire, col suo solito rigore d’informazione, la parte occupata dallo stesso un quarto di secolo fa ed oggi, nella sistemazione dell’estetica e della critica cinematografiche, prima individuando i presupposti scientifici e le linee maestre del suo pensiero, poi sottoponendo gli uni e le altre ad un esame critico, quindi distinguendo quanto in essi egli giudica caduco e sorpassato dall’altro che gli sembra confermato dal tempo e dall’introduzione dei nuovi ritrovati tecnici.
Abbiamo così un volume pregevole non soltanto come documento su cui si sono formate generazioni di teorizzanti e di critici cinematografici, ma anche come strumento tuttora valido di cultura generale, agitando esso molti grossi problemi posti dal confluire della psicologia e della tecnica con l’arte, lo spettacolo ed, in genere, i diversi linguaggi delle comunicazioni umane.
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Alle questioni teoriche più vivamente discusse intorno al 1930 soprastava quella se il cinema potesse o no essere arte. Molti che stavano per il no – in ciò non dissimili da alcuni odierni ritardatari –, arguivano dalla, sostenevano essi, necessitante dipendenza meccanica del film dalla realtà naturale esistente. L’Arnheirn si accinse a smantellare questo equivoco grossolano applicando al cinema una sua Malerialtheorie,
intesa a dimostrare che le rappresentazioni estetiche e scientifiche della realtà si esprimono in forme che non derivano tanto dall’argomento in se stesso, quanto dalle qualità del mezzo – o Material – impiegato... In quell’epoca – egli nota – i miei maestri Max Wertheimer e Wolfgang Köhler stavano ponendo le basi teoriche e pratiche della teoria della Gestalt (forma) all’Istituto psicologico dell’Università di Berlino, e io mi trovai agganciato a quella che potremmo chiamare una tendenza kantiana della nuova dottrina, secondo la quale anche i processi visivi più elementari non producono immagini meccanicamente registrate del mondo esterno, ma organizzano il materiale grezzo fornito dai sensi in modo creativo secondo i principi di semplicità, regolarità ed equilibrio che governano il meccanismo che riceve. Questa scoperta della scuola della Gestalt s’accordava con l’idea che anche l’opera d’arte non è una semplice imitazione o doppione selettivo della realtà, ma la trasformazione di caratteristiche osservate nelle forme di un dato mezzo. Ora, evidentemente, quando si asseriva in tal modo che l’arte è un equivalente piuttosto che un derivato, la fotografia e il cinema rappresentavano un caso tipico... Cercai di dimostrare in particolare come le stesse proprietà che rendono la fotografia e il cinema forme soltanto imperfette di riproduzione, possano essere le forme indispensabili d’un mezzo artistico3.
Su queste premesse non gli è difficile elencare ben venti “deficienze” dell’immagine cinematografica rispetto alla realtà naturale ripresa, dipendenti, per fare soltanto alcuni esempi, dalla trasposizione della realtà spaziale a tre dimensioni in una visione in superficie bidimensionale, dall’inquadratura, dall’illuminazione e dall’angolazione, dall’assenza del suono e del colore, dalla discontinuità spazio-temporale, dall’accelerazione del movimento, ecc. Tali deficienze, già individuate dal Pudovkin – ma riferendosi allo spazio ed al tempo cinematografici, raggiunti mediante il montaggio –, come “fatti differenzianti” l’arte dalla natura, l’Arnheim li qualifica “mezzi formativi” già in se stessi, vale a dire fin nell’elemento più semplice del film: la singola inquadratura, e sentenzia che esse, in quanto tali, non solo non nocciono, né soltanto rendono possibile, ma costituiscono l’elemento artistico del film; quindi, «con ostinata coerenza», deduce che la tendenza dei tecnici e degli industriali a “naturalizzare” lo spettacolo cinematografico non solo costituisce un pericolo per l’artista, facilmente soggiogabile dalla ricchezza dei mezzi tecnici, ma è anti-cinerna ed anti-arte in se stessa; quindi, anche ad innovazioni tecniche già attuate e diffuse, egli ripudia inflessibile il cinema sonoro, quale «mezzo ibrido», il film a colori, come «non mai andato al di là di “schemi coloristici” di buongusto», quello stereoscopico, incapace di «sfruttare artisticamente le nuove possibilità», ed infine il grande schermo, reo di «distruggere le ultime pretese di un’immagine organizzata secondo un significato»; e su tutte queste innovazioni, che dissacrerebbero l’ascetica povertà del muto bianco e nero, egli fa rintoccare la campana a morto del suo epifonema: «Chi osa gareggiare con la natura merita di perdere!»4.
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Qualora, leggendo siffatte conclusioni paradossali, oggi evidentemente contraddette dai fatti, alcuni lettori s’inducessero a credere che il libro ed il suo autore non meritano lo spazio che stiamo loro consacrando, sbaglierebbero. Le sue pagine, se trent’anni fa aprirono alla cultura cinematografica orizzonti in gran parte nuovi, riescono ancora oggi quanto mai utili a far comprendere sul vivo la natura dei fatti filmici, dietro la scorta dell’eccezionale intelligenza, cultura, spirito di osservazione e rigore logico dell’Arnheim, e di una ricca esemplificazione sempre lucida e calzante, anche se vecchiotta. Perciò riteniamo che quanti hanno contribuito a renderne agevole l’accesso e la lettura hanno benemeritato della cultura italiana.
Ci sia tuttavia consentito di tentar una spiegazione – più che una confutazione –, di alcune posizioni dell’Arnheim, che, a parer nostro, sono discutibili. Ci sembra, prima di tutto, che egli si sia un po’ fatto fuorviare dal suo assunto. Infatti, giustamente confutata l’identità tra immagine cinematografica e realtà fenomenica, o, comunque, la loro meccanica e vincolante interdipendenza, da altri addotta per negare l’artisticità del cinema, egli spinge la conclusione al di là di quanto logicamente le premesse gli concedono; perché, se non c’è dubbio che i suoi “fattori differenzianti” siano, per dirla scolasticamente, conditio sine qua non, removens prohibens, affin di distinguere la “natura”, dall’“artificiato”, non sono affatto causa per se sufficiens di arte, nel senso più alto e proprio oggi dato a questo termine; in altre parole, essi si richiedono, ma non bastano, perché si abbia arte. Per essi, i dati fenomenici ripresi possono, sì, assumere un significato, e farsi elementi di linguaggio, ma, affinché si scaldino e si illuminino di bellezza artistica, occorre in più che vengano rigorosamente scelti in funzione di stile da chi sia non semplice artefice, bensì anche artista e poeta. Ed, in astratto, niente vieta che artisti veramente tali possano usare in funzione di stile anche molti elementi “naturalistici” dell’immagine cinematografica, svincolandosi dalla loro presa – lo riconosciamo, molto pericolosa –, e forzandoli a «significare quel che amore loro ditta dentro».
In secondo luogo ci sembra che l’Arnheim sia rimasto troppo vincolato al concetto di immagine cinematografica come esclusivamente visiva, e, per giunta, tributaria del procedimento ottico-chimico-meccanico della fotografia e della proiezione. A rigore, si deve considerare un caso se il Cinématographe Lumière sia stato preceduto dalla fotografia di Daguerre e dalla pellicola di Eastman, ed ancora un caso che il cinema sia venuto alla luce, come i bambini, infante, vale a dire incapace di parlare, e soltanto dopo trent’anni gli si sia sciolta la lingua. Le esperienze “naturalistiche”, di cui una tecnica più matura l’ha arricchito dipoi, i procedimenti di McLaren e le diavolerie elettroniche che preludono ad innovazioni rivoluzionarie, danno, o potranno dare, delle immagini in movimento forse non fotografiche, non proiettate, non mute, non grige e non bidimensionali, le quali non è escluso che verificheranno a pieno la definizione del cinema; che, quindi, una teoria cinematografica, se pienamente valida, non può ignorare.
Ci sembra, infine, che l’Arnheim si sia troppo chiuso nella sua specializzazione di psicologo sperimentale. Ciò ebbe pure i suoi vantaggi, non foss’altro perché la sua estetica psicologica, prevalentemente condizionata da esperienze visuali, venne a fare da contrappeso e correttivo sia, in Italia, agli sterili monismi filosofico-letterari difesi e diffusi dalla mobilitazione idealistica, sia, in Italia e fuori, alle grossolane estetiche dei contenuti, difese e diffuse dagli scritti e dalle opere dei pur grandi registi russi. Resta vero, però, che se l’arte non esula, come fatto dell’uomo, dall’oggetto della psicologia, e perciò questa scienza può molto ad individuare e comprendere i procedimenti artistici ed a spiegarne le condizioni di efficacia, altrettanto vero è che la psicologia, soprattutto sperimentale, non può esaurire l’estetica, la quale, come parte della filosofia, deve necessariamente risalire ad abbeverarsi ad una valida ontologia. E ci sembra che questa deformazione professionale dell’Arnheim spieghi, tra l’altro, come in gran parte gli sfugga, nella pur diligentissima analisi, proprio quello che è la caratteristica specifica dell’arte cinematografica, vale a dire il ritmo delle immagini in movimento; tanto, infatti, egli è felice e ricco nel rilevare le condizioni artistiche dei particolari nell’inquadratura, tanto egli è scarso nel rilevare quelli del discorso, dell’architettura, della sinfonia filmica totale.
Ciò ci conferma nella persuasione che una estetica valida, anche per il cinema – e perciò anche una sua critica –, non può né radicarsi in dommatismi ideologico-politici, né affidarsi a formalismi di gusti soggettivi, né contare solo su reagenti a base di dati sperimentali, né obbligarsi a monismi filosofici che negano l’una o l’altra parte della realtà totale, o l’una o l’altra parte dell’uomo, che vitalmente la stessa realtà totale fa sua e ricrea nell’arte; bensì occorre un illuminato aggiornamento di quella nostra Philosophia perennis, che nulla respinge di quanto il progresso culturale e scientifico odierno propone di necessario e di valido, e già in nuce contiene, ed in formulazioni cristalline, quanto altre estetiche vanno via via scoprendo e proponendo, in termini e in formule non sempre trasparenti. Anche sotto questo rispetto la lettura di Film come arte ci sembra illuminante e vigorosamente stimolante.
1 R. ARNHEIM, Film come arte, Trad. di P. GOBETTI, Milano, Il Saggiatore (Mondadori), 1960, in-8º, pp. 254. Con 16 tavv. f.t. L. 1.500.
2 G. ARISTARCO, Storia delle teoriche del film, Torino, Einaudi, 1960. Cfr in Civ. Catt. 1961, III, 306-311.
3 Film come arte, R. ARNHEIM, nota personale, pp. 40-41.
4 R. ARNHEIM, op. cit., p. 42, ed anche il significativo colloquio riportato dall’Aristarco a p. 30 ss.