Articolo estratto dal volume III del 1960 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Per quanto sollecitati da più parti a trattare dell’ultimo film di Fellini, di proposito, durante sei mesi, ce ne siamo astenuti, per non gonfiare di più il già troppo lucrativo clamore che lo accompagnava, mentre ritenevamo di aver contribuito sufficientemente ad orientare l’opinione pubblica mediante una nostra tempestiva nota di cronaca, ripresa e diffusa da quasi tutti i quotidiani d’Italia1. Ne trattiamo, invece, oggi in quanto crediamo che, abolite le prime curiosità e date giù le asprezze polemiche, sia meno difficile esprimere un giudizio attendibile sul film in se stesso e sulle iperboliche reazioni e controversie cui esso ha dato luogo2. E siccome riteniamo che problemi e reazioni, confusioni ed equivoci, fioriti intorno alla Dolce vita, o prima o dopo rifioriranno sia pure in toni meno parossistici, intorno a molti altri film, intendiamo scriverne con una certa ampiezza, in modo che la casistica della Dolce vita ci serva a lumeggiare alcuni dei dati dottrinali e dei criteri morali più utili a giudicare obiettivamente dei fatti cinematografici in generale, ed a regolarsi rispetto ad essi con illuminata coscienza, non solo quando esplodono, come nel caso presente, in forme scandalistiche, bensì anche nelle loro manifestazioni più ordinarie. Nel farlo, per esigenza di chiarezza, distingueremo e toccheremo separatamente prima gli aspetti contenutistico ed estetico, poi quelli religioso, morale e sociale del film; tuttavia sia ben chiaro che il nostro giudizio totale del film vuol tener conto di tutti essi insieme, ma soprattutto di quelli che fanno del cinema lo strumento forse più formidabile del pensiero e costume moderni.
Fantasia-linguaggio o realtà-documento?
Ci sembra che il primo equivoco che si è ripetuto nella Dolce vita sia quello fondamentale di tutto il cinema. Esso consiste nell’accedere allo spettacolo cinematografico – anche quando la macchina da presa vi serva da strumento creativo e non da registratore meccanico –, non come ad un linguaggio, bensì come ad una ripresa difatti accaduti.
Inequivocabilmente il film si ambienta nella Roma odierna; perciò reazioni e giudizi, in massima parte hanno preso l’abbrivo soprattutto dalla più o meno ammessa o impugnata oggettività, o calunniosità, del film; per esempio, la deplorazione da parte del Consiglio araldico nazionale e della Giunta araldica centrale della nobiltà italiana (20 febb. 1960) contro i «nobili che si sono indotti a partecipare ad un film lesivo del decoro della Nobiltà italiana»; la reazione di alcuni ambienti dell’Italia produttiva ed industriale (leggi: Milano, Genova, Torino, il Nord), che nel film hanno trovato conferma sul modo in cui allegramente consuma l’Italia burocratica ed improduttiva (leggi: la Capitale e il Sud)3, le interpellanze alla Camera di deputati, preoccupati «che la rappresentazione di un mondo moralmente deteriore... possa gettare un’ombra calunniosa sulla popolazione romana e sulla capitale d’Italia e del cattolicesimo»4; le polemiche della grande stampa, nella quale si è dato come pacifico che la Dolce vita documenti, anzi denunci, una realtà bene individuata, restando controverso soltanto – secondo i colori politici, morali o religiosi delle testate – l’oggetto della denuncia (i nobili?, i ricchi?, Roma?, la Chiesa?, l’Italia?, la società capitalista?, tutta la società moderna?) o, come si diceva, la fedeltà di essa5.
Orbene, ci sembra che siffatte distinzioni siano del tutto fuori luogo, perché partono appunto dall’equivoco cinema = documento (e = denuncia). Conveniamo che si può benissimo fare del cinema per insegnare o chiarire nozioni e avvenimenti (film didattici), o per approvare, disapprovare, convincere o dissuadere circa qualche verità o errore, ideologico o di costume, ed anche che ciò si faccia correntemente (film “a tesi”, per esempio di Cayatte, e quasi tutti quelli della propaganda marxista, o edificante); ma riteniamo che La dolce vita, nelle intenzioni del regista, non sia un film “a tesi” bensì a tema fantastico-poetico, dunque “vero” soltanto nella fantasia di Fellini.
Se c’è un regista refrattario a costruzioni logiche, a tesi e a teorie, nonché a posizioni denunciatorie e comiziesche, questo è Fellini. Emotivo, fantastico, impulsivo e primario di natura, l’istruzione e l’educazione scapigliata ricevuta in una giovinezza girovaga ed avventurosa, e l’ambiente romano e cinematografico da lui, provinciale, respirato ma scarsamente assimilato, ne hanno fatto un artista viscerale, tutto allergico alle emozioni e quasi affatto alle idee, tutto visivo ed incantato avanti all’insolito, all’esoterico, comunque e dovunque egli lo incontri; “fanciullino” nell’accezione pascoliana, culturalmente asistematico, ideologicamente indipendente ed anarcoide. Chi lo conosce un po’ – anche se scarsamente fiducioso nelle affermazioni degli artisti “fanciullini”, per natura inclini a scambiare la fantasia col vero –, non stenta a credergli quando dichiara: «L’interesse polemico... a me manca completamente... Non ho mai pensato di fare un film mosso da moralismo politico, da un sentimento sociale: ho voluto solamente raccontare, quasi in maniera narcisistica, qualche cosa che riguarda me, profondamente»; in particolare: «La dolce vita non ha un preciso intento sociale. È una favola in chiave di ballata»8.
Che ciò risponda a verità lo comproverebbe l’analisi interna dei suoi film ricchi di temi fantastici e sentimentali, per lo più trasfigurazioni di ricordi autobiografici, e non di “tesi” vere e proprie, né politiche né morali, se non forse un po’ nella Strada, con l’ormai celebre allegoria del sassolino, più eccellente in dottrina che in valori cinematografici; e lo confermano due argomenti estrinseci, ma a loro modo apodittici, quali i contraddittòri valori tematici morali-religiosi attribuiti ai film di Fellini dai critici cattolici, e l’ostracismo decretato fino a ieri contro di essi da quelli marxisti, i quali accusavano Fellini di aver tradito i valori morali e poetici del neo realismo italiano, perché egli ignorava ogni impostazione e soluzione materialistica dei problemi sociali.
Di fatto La dolce vita riassume tutto il patrimonio fantastico col quale la sua poetica magica s’era espressa nei film precedenti, da I vitelloni su su fino alle Notti di Cabiria: le grige ombre dei crepuscoli, anzi, di preferenza, le tenebre notturne; le piazze buie e vuote, in cui il vento spazza barattoli e carta straccia; le spiagge aperte e deserte sotto il cielo incombente; le distese di paesaggi incantati, dilatati dalla presenza di oggetti metafisici, come grosse condutture isolate, aeree ragne di tubolari, gratuiti primi piani di cavalli neri zoccolanti nella notte... E poi lo stravagante campionario di umanità che gli è familiare: maghi, saltimbanchi e girovaghi, vitelloni e bidonisti, storpi, idioti, fatui fraticelli e più fatue monacelle, rozzi bestioni, ragazzini sorridenti e ingenue prostitute, clienti d’alto bordo, ballerine esotiche e mantenitori di malavita..., che puntualmente alternano deliri mistici (scatenati sempre da “apparizioni” mariane), con gazzarre orgiastiche: dal carnevale dei Vitelloni al capodanno (con velleità di spogliarello) del Bidone, dalle osterie e dal pranzo di nozze della Strada al night club (con ballo negro ed anticipato Caracalla’s) delle Notti di Cabiria. In questo contesto, i molti personaggi o avvenimenti “documentaristici”, ai quali, come si è detto, si rifarebbe la Dolce vita, o già di per sé non sono più “realtà”, in quanto scelti da Fellini proprio per il loro carattere insolito e mostruosamente mirifico, o, se banali ed ordinari, perché sono da lui visti, e quindi immersi, e quindi mostrati in una tutta sua caratteristica atmosfera incantata.
A Cannes, a chi gli domandava se veramente i fotoreporter si scatenano in quel modo, l’attore Mastroianni rispondeva col tono di chi non ammette replica: «Ma guardateli qui alla Croisette!». Ebbene: noi li abbiamo visti operare, in mute scatenate ed impietose, alla Croisette, al Lido ed altrove, e poi li abbiamo visti fotografati dal vero; ma quella loro “realtà” non ha nulla che fare con la spietata inumanità con cui figurativamente li ha espressi Fellini. E lo stesso crediamo si debba affermare di tutto il resto. Potremo benissimo vedere una statua di Cristo trasportata in elicottero, o un sottoscala allagato come quello in cui si prostituisce Maddalena, o una diva giunonica vagare di notte con un gatto sulla testa e tuffarsi in una fontana, o un organista far risonare la Toccata e fuga in re maggiore di Bach sotto le volte di una chiesa deserta...: ma l’emozione che questi, ed altri eventi, ci arrecano nella Dolce vita nasce tutta dalla pregnanza delle immagini in cui sono resi. Anche le sequenze che, a prima vista, si direbbero più naturali, sono come stregate da qualche particolare espressivo che le trasfigura: così la scenata notturna tra Marcello ed Emma si svolge sotto la luce irreale di un pleonastico, altissimo, solitario parco lampade, e le due orge assumono particolari toni incantati dai due sottofondi musicali che le accompagnano: il Möritat, di Weil, nel castello nobiliare, e Patricia, nella villa di Fregene. Altre sequenze contengono contrasti grotteschi, quali quella dell’ascensione che la diva compie in vesti eccclesiastiche sulla cupola di San Pietro, e quella della raccolta d’intellettualoidi nel salotto Steiner; altri subiscono una esasperazione di azione e di toni, come l’arrivo della diva in aereo, e soprattutto la sequenza del “miracolo”, stregata da un parossistico puntare di luci in macchina e da un imperversare di vento e di pioggia, tanto allucinante e “voluto " quanto metereologicamente improbabile.
A ragione è stato asserito che questo è il più felliniano dei film di Fellini. Anche se fossero tutti “veri” i suoi settantotto ambienti, sono tutte sue la mobilità della macchina, la fantasia del montaggio e le luci in cui essi si amalgamano in un’unica fantasmagoria; anche se fossero tutti individuabili per nome e cognome i circa ottocento personaggi che vi agiscono, solo frutto della sua fantasia è la maniera nella quale si muovono, tale che, distrutta ogni differenza tra interpreti e personaggi veri, essi formano una sola umanità frenetica ed annoiata, volteggiante in una giostra barocca, addensata negli interni soffocati ed irreali, sperduta negli esterni dilatati e senza echi. La stessa struttura del film, svincolato dal solito arco narrativo e disperso in eventi non obbligati né come numero, né come disposizione, né come durata, tanto che il film potrebbe, senza variazioni sostanziali, alterarne e numero e disposizione e durata, lo dimostra film tutto di regia, combinato ed ispirato nel e dal suo farsi concreto durante la ripresa.
A conferma di questa nostra impressione diretta, il lettore si documenti sul modo di lavorare tutto personale ed improvvisato di Fellini, violentatore di ogni preesistente e predisposta realtà concreta, scorrendo il buon volume che racconta la genesi del film, nonché la più attendibile delle interviste concesse dal regista. Egli non avrà difficoltà a condividere l’opinione comune a tutti i suoi collaboratori. «Non ho mai visto – ha detto l’attrice Anouk A. – un regista dirigere cosi poco con la testa e tanto col cuore»; «La responsabilità di questo film – gli ripeteva il soggettista sceneggiatore E. Flaiano – sarà tutta registica. Altre sceneggiature ti hanno dato il sostegno preciso di una vicenda, di una costruzione logica. Qui non avrai niente. Dovrai dare la sostanza attraverso la forma». «Tutto è stato scelto – confida lo stesso Fellini – in funzione di una particolare visione surrealista... Mi pare che il film sia continuamente trasfigurato... e quindi realistico per quel che riguarda me, cioè in rapporto alla mia personalità... Certi incantesimi fanno proprio parte della mia personalità»7.
Bello o brutto?
Sè tutto ciò risponde a verità, il primo giudizio che la Dolce vita sollecita è quello estetico. Film, dunque, stilisticamente valido, o non valido? In altre parole: Film bello, o brutto?
A questo proposito la critica ha ondeggiato tra le demolizioni e le apoteosi: «Discreto filmetto realistico»; «Si affianca ai veri capolavori della storia del cinema»; «Arte mai presente lungo le tre ore e passa della proiezione; arte disperatamente assente»; «Una delle vette più alte che l’arte cinematografica abbia mai toccato nella storia del cinema»; «Noia spaventosa... Con questo film Fellini si è rovinato come regista»; «La più grande opera cinematografica di tutti i tempi...»8. Per parte nostra, mentre opiniamo che quelli del cinema ci guadagnerebbero assai ad evitare certe espressioni sbardellate, che squalificherebbero qualsiasi critico di altre attività artistiche, e diffidiamo del valore di certe apoteosi o stroncature decretate da fogli, o impegnati politicamente, o economicamente foraggiati da produttori che ne sono parte in causa, nella fattispecie riputiamo il film troppo “nuovo " e complesso per azzardarci a darne un giudizio estetico definitivo, fidandoci delle impressioni di una prima visione. S^, propendiamo a riconoscergli – ed in parte li abbiamo già rilevati9 – eccellenti valori stilistici, ma non siamo del tutto certi che l’impressione, indubbiamente forte, che esso produce, sia tutta di natura estetica; anzi abbiamo le nostre brave ragioni per dubitarne. Insieme con R. May e con G. Aristarco sospettiamo che non tutto vi sia esteticamente necessario; col compianto M. Gromo e con Zavattini avvertiamo che esso non lievita, non vibra, raramente commuove; con V. Bonicelli, che il residuo di struttura narrativa mantenutovi col conservarvi, pur caotico com’è e come vuole essere, distinti episodi, gli nuoce come un residuo di compromesso; che l’alto numero di questi episodi e la lunghezza eccessiva di tutto il film, più che rendere la grandiosità della visione dell’artista, o, come è stato detto, dell’«affresco apocalittico», denunci una non sufficiente decantazione dell’ispirazione; e, soprattutto, che l’ambiguità tematica – su cui presto torneremo –, la disparità dei punti di vista e quindi le disparate “partecipazioni” che esso denoterebbe nell’autore, e permette allo spettatore, arguiscano più che ricchezza di un mondo interiore, difetto di chiarezza e di unità nella fantasia creatrice.
In ogni modo, qualunque ne sia per essere il definitivo giudizio estetico della critica, con buona pace anche del lepido Marotta10, neghiamo che in esso debba esaurirsi ogni interesse del film, o che tutti quelli che restano siano secondari, marginali, in ciò opponendoci ai moltissimi che, anche in questa occasione, sono caduti nel tenace equivoco: cinema (o film) = solo arte ", non meno grossolano, alla prova dei fatti, di quello che abbiamo rilevato, del “cinema = realtà documentata”. Sia, infatti, esso arte eccelsa o meno, è innegabile che – incontri, dibattiti, interviste, giornali, rotocalchi ed interpellanze parlamentari aiutando – La dolce vita, per tre mesi buoni è assurta, in Italia, allo spurio onore dei “fatti del giorno”, alla stregua dei casi di Capocotta, di Egidi e di Ghiani, dell’esecuzione di Chessman, delle morti di Coppi o di Buscaglione... Già sotto il profilo strettamente economico esso ha costituito un evento straordinario. Costato, si dice, settecento milioni di lire, dopo tre o quattro settimane di programmazione in Italia era in vista dal primo miliardo di incassi. La stampa tecnica, non incline ad amplificazioni letterarie, scrisse di «film di maggiore incasso, sul mercato italiano, di questo secondo dopoguerra...»; di «incassi superiori da cinque a dieci volte quelli realizzati in passato da ottimi film di grosso successo commerciale...»; di medie giornaliere dai tre ai quattro milioni nelle città chiave, e di un milione in quelle di provincia...; di «cifre, cioè, che suppongono affollamenti mai visti, un interesse che non trova riscontri, un’attesa spasmodica...»; di «file di spettatori in attesa di comprare il biglietto d’ingresso, la quale cosa in Italia non è mai accaduta... nei giorni feriali»11.
Soltanto un ridevole ripiego polemico può spiegare siffatta frenesia collettiva col richiamo di un eccezionale fatto di arte, quasi che sia credibile che l’Italia di Lascia o raddoppia, del Canzoniere e di Campanile Sera, di Grand Hotel, delle bersagliere e delle pizzaiuole, si sia ritrovata tutta, di punto in bianco, invasa dall’entusiasmo umanistico che scosse la Roma di Giulio II allo scoprimento del Laocoonte! Si tratta, piuttosto, di un complesso fatto di costume, che coinvolge molti interessi e valori della odierna travagliata civiltà, ben più vasti e profondi che non siano quelli, pur ragguardevoli, dell’arte, e, tra essi, soprattutto di valori religiosi (e morali). Su questi, appunto, portiamo ora la nostra attenzione, con l’intento di districare e chiarire alcuni tra i molti pregiudizi ed equivoci affiorati nelle polemiche.
Cattolico? Cristiano? Religioso?
Un critico, che non possiamo non stimare nonostante che militi per una concezione religiosa della vita agli antipodi della nostra, dopo aver rilevato che «mai un film ha avuto una tale eco nella vita nazionale» come La dolce vita, pertinentemente aggiunge che «mai sono state scritte tanto madornali sciocchezze sia da parte dei detrattori... che degli esaltatori»12. Orbene: le più madornali sono state scritte intorno al cattolicesimo e il cristianesimo del film e del suo autore.
Alcuni, per lo più all’estero, hanno semplicemente dedotto così: «Fellini non è regista marxista, dunque è cattolico»; di conseguenza, hanno interpretato cattolicamente, come gli altri suoi film, così anche questo»13. Altri, specie in Italia, hanno ragionato, non meno semplicisticamente, in questa forma: «Questo film non è marxista, non è materialista, dunque è cattolico»; gli uni e gli altri nella falsa supposizione pratica che tutto quello che non è cattolico (o cristiano, o religioso) debba per forza essere marxista, e che tutto quello che non è marxista debba per forza essere cattolico (o almeno cristiano, religioso). Ora, che Fellini sia cattolico, in quanto battezzato nella Chiesa cattolica, perciò teologicamente e giuridicamente membro di essa, non abbiamo ragioni di dubitare; ma, mentre ci rifiutiamo di crederlo «cattolico ateo», come lo vorrebbe L. Russo14, non ci consta che egli sia «cattolico credente», come lo dà asseveratamente P. Ricci su un periodico marxista15, e neanche «cristiano e religioso», come lo dànno il “laico” M. Morandini e, da tempo, alcuni critici cattolici francesi e spagnuoli16; anzi, dolenti, congetturiamo di no, ritenendo meno lontani dal vero Moravia, quando scrive: «Dicono che Fellini sia un cattolico: lo sarà senza dubbio, a modo suo»17, e G. Moscon, che ironicamente rincalza: «Non marxista, se mai cattolico, a suo modo s’intende, da buon italiano»18. Ma siffatta discussione ci sembra concludente fino ad un certo punto, dato che il metodo che dalla religione dell’autore arguisce il contenuto religioso della sua opera, specialmente nel cinema, è piuttosto ferace d’induzioni fantasiose19. Preferiamo perciò passare a quanti s’interessano direttamente ad esso.
Capintesta n’è il marxista P. P. Pasolini, per il quale «l’ideologia di Fellini si identifica con un’ideologia di tipo cattolico», dato che «l’unica problematica ravvisabile alla lettera, o quasi, nella Dolce vita è il rapporto non dialettico tra peccato ed innocenza... perché regolato dalla grazia»; opinione, crediamo, che prova tutto, in chi la sostiene, meno che la conoscenza dei primi elementi del catechismo cattolico; o, meglio, forse prova soltanto il più cieco furore polemico in chi è capace di aggiungere: «Soltanto delle goffe persone senza anima... soltanto i clerico-fascisti romani... possono essere cosi ciechi da non capire che con La dolce vita si trovano avanti al più alto e al più assoluto prodotto del cattolicesimo di questi ultimi anni»20. Anche per l’anticlericale L. Russo il film è «tutto ispirato al cattolicesimo... ma ad un cattolicesimo putrefatto, cioè àteo», tanto è vero che – egli continua - «nel film io ho sentito la putredine di una religione che fu la religione purissima di mia madre»21: affermazione che di encomiabile ha soltanto l’edificante testimonianza di tenerezza filiale. Sulla strada di un cattolicesimo (o cristianesimo) corretto (o guastato) da qualificativi, per il “laico” P. Bianchi si tratterebbe di un «cristianesimo di tipo romantico, alla Chateaubriand, ingenuo, luministico, intriso di un bellissimo sentimento delle cose create»22; per altri, di un cattolicesimo esistenzialista; così per l’altro “laico” L. Zorzi, secondo il quale il film è «un prodotto di un cattolicesimo decadente e contaminato da velleitarie coloriture esistenziali»23, e, in un primo tempo, anche per il militante ateista F. Fortini, il quale, poi, tutto sodisfatto, scopre che, invece, su uno «sfondo di esistenzial-cattolicesimo», il film è «ateo, nel senso volgare della parola» 24•
Crediamo che a G. Aristarco vada attribuita la trovata di questo cristianesimo esistenzialista nella Dolce vita, e nei film di Fellini in genere. Con sfoggio di erudizione fuori posto e d’illazioni gratuite, egli, dato per assiomatico che irrazionalismo e cristianesimo su per giù si equivalgono e che «l’irrazionalità, anzi, la distruzione della ragione sono (nella Dolce vita) più radicate nell’autore», e dato (il teologo P. P. Pasolini fa scuola!) che «la grazia – il miracolo – (vi) è avanzata come unica soluzione», afferma che «La dolce vita è un film cattolico, e per certi versi anche cristiano» (come dire: «la tartaruga è un mammifero, e per certi versi anche animale»), e che anzi, «nella critica e nell’esigenza di un rinnovamento del cattolicesimo cui esso rimanda, va cercata la vera natura, o tendenza religiosa, e cioè la novità del film stesso»; quindi, dando fuoco a quanto gli resta delle polveri teologiche, conclude:
Il carattere autobiografico di Marcello espressamente riconosciuto dal regista, e la sua confessione rientra nella natura del cattolicesimo attuale, in un beghinismo e conformismo del praticante, che non teme il peccato, ma che anzi ha per esso una predisposizione morbosa, in quanto sorretto dalla possibilità dell’assoluzione, ottenibile con un sacramento – la confessione appunto –, e quindi aperto alle nuove suggestioni del peccato stesso25.
Anche per un noto critico cattolico «il film è sostanzialmente cristiano»26; tuttavia, per quanto abbiamo letto, riletto e soppesato, con animo quanto più ci è stato possibile sereno, gli argomenti apportati a sostegno di questa sua ardua tesi, confessiamo che non siamo riusciti a giudicarli probanti; anzi qualcuno ci è parso paradossale, tanto che abbiamo finito col supporre che alla obiettività del critico abbia fatto velo una in sé lodevole e tutta apostolica sollecitudine verso il regista.
Quanto c’è di oggettivo – ci chiediamo ancora oggi – nell’individuare la chiave tematica del film nella sequenza iniziale del Cristo lavoratore trasportato in elicottero, e nella susseguente spiegazione di tutti i particolari di essa, incluso «l’accenno devoto e simbolicamente messianico delle ragazze che prendono il sole»? Quanto di vero c’è nell’affermazione apodittica, che dà per «chiara formulazione di un problema da parte dell’autore» le domande: “Dov’è, nelle venute di oggi del Cristo, il netto staglio dominatore, perché spirituale, perché elevante? Dove va questo Cristo?”? Vogliono significare proprio «l’indice costante di un bisogno ultraterreno» la sostituzione della maschera esotica al Cristo e la scenografia cinese della casa della Maddalena? È proprio obbligatorio ammettere, pena l’accusa di cecità critica, che poi, per tre ore, «il racconto cinematografico lega strettamente tutte le sequenze a quella iniziale del Cristo», sì da indicare «il riaffiorare del Cristo in quel suo penoso cammino attraverso un mondo corrotto»? E quanta buona volontà interpretativa c’è nel vedere in Paolina «il sorriso, la tattica, la realtà della Grazia»? Non sembra forse troppo sacerdotalmente bella, per essere felliniana, questa trionfante conclusione?:
È un’intuizione splendida quella che ha guidato Fellini nell’aprire il film con la sequenza del Cristo e nel chiuderlo con quella di Paolina: l’intuizione dell’Incarnazione del Cristo che continua – sebbene non avvertita – nel suo Corpo Mistico e che si fa visibile attraverso il volto dell’innocenza in un mondo impastato di peccato. Ed nella luce di questa imponente intuizione che si può capire il pieno significato tematico della Dolce Vita.
Il critico rigoroso non riprende forse il sopravvento sull’amico benevolo quando ridimensiona in questi termini le sue affermazioni?
... l’intuizione dell’Incarnazione del Cristo resta solo intuizione... ; gli elementi che definiscono l’autenticità (del film) in chiave esplicitamente cristiana non sono efficacemente sviluppati... La presenza di Paolina troppo fugace... Nella sequenza iniziale, il senso del «Dove va?» attutito dall’irruenza del racconto immediato e dai contrasti che riempiono quella pregnante sequenza. Il significato pur evidente (?!) della «discesa» di Cristo resta troppo velato nel complesso del film... In tal modo, la chiave cristiana di una vita “autentica” resta troppo poco differenziata dalla chiave naturalistica... ed il significato del suicidio di Steiner assume una velatura di tematica pessimistica. Questo, ovviamente, attenua... il valore positivo del film...
Il che gli fa ridurre il primo troppo ottimista giudizio «film sostanzialmente cristiano», se non ancora in quello di «confessione laica», in questi altri due: «un film precristiano, in quanto, dopo aver testimoniato il crollo dei miti nell’era che muore, prospetta le basi naturali sulle quali si profila e può radicarsi l’esigenza cristiana«, «opera imponente di pensiero perlomeno naturaliter cristiano».
Orbene, per quanto rispettosi delle opinioni altrui, soprattutto se suffragate da argomenti che almeno abbiano qualche parvenza di validità, non ce la sentiamo di passare questo film per cristiano; tanto meno per cattolico; anzi, neanche per religioso. Che se poi ci càpita di leggere Fellini stesso uscire in queste asserzioni: – «lo non so perché alcuni cattolici condannino il mio film. Ma so perché alcuni lo approvano. Essi lo approvano perché è un film cattolico. Ha ragione Pasolini quando dice che io osservo i miei personaggi “con amore”. Ma sarebbe più esatto dire che li osservo con pietà cristiana»21 - prima di tutto ci viene fatto di dubitare che esse, se da lui proferite, rispecchino il vero e stabile suo pensiero; poi, nel caso che lo rispecchino, ci persuadono che, allora, nella Dolce vita, prima che circa i fatti cinematografici, la confusione regna circa i concetti più elementari, e gli stessi vocaboli che li dovrebbero esprimere. A conferma, ecco alcune affermazioni di B. Rondi, collaboratore artistico di Fellini:
Semmai, se di cattolicesimo si può parlare per questo film, nel senso che una indubbia tensione religiosa sta nel suo fondo: l’insoddisfazione che vibra nei suoi meandri, l’attesa e l’inquietudine che lo dominano, il suo senso inorridito della vita sbagliata e l’aspirazione a un superamento si riferiscono senza dubbio a un registro di spiritualità che potrebbe aspirare alla qualifica di cattolico, dando a questa parola il senso meno ufficiale, meno codificato, meno politico28.
Tensione religiosa..., registro di spiritualità..., cattolicesimo ufficiale..., codificato..., politico...: discutiamo per chiarire i problemi o per imbrogliarli? Si sia o non si sia cattolici, o cristiani, o religiosi, non sarebbe il caso, almeno per far capire agli altri che cosa si approva e che cosa si combatte, che cosa uno vuole essere e che cosa uno non vuole essere, mettersi d’accordo sull’accezione e sull’uso di questi qualificativi? E, almeno noi cattolici, perché non stare ai significati e all’uso tradizionale, teologicamente corretti?29.
Salvo errore, religioso è il rapporto di dipendenza in qualche modo riconosciuto e praticato dell’uomo, creatura, da Dio, suo principio e termine ultimo; quindi, concezione e prassi religiose di vita possono e debbono dirsi solo quelle che siffatto rapporto accettano, e ad esso commisurano in qualche maniera i valori teorici e pratici dell’esistenza umana e di quanto la concerne. Ulteriormente, per noi, cristiano aggiunge a religioso la storicamente certa e, oggi, teologicamente necessaria mediazione di Gesù Cristo, figlio di Dio, rivelatore, redentore, legislatore, santificatore e glorificatore, vitalmente presente nella Ecclesia da lui voluta; quindi chiamiamo concezione e prassi cristiane di vita solo quelle che su siffatta insostituibile mediazione fondano le norme del credere e dell’agire umano. Per noi, infine, cattolico specifica il cristiano aderente alla Chiesa cattolica-romana, quale centro e culmine gerarchico di tutta la cristianità; perciò qualifichiamo per cattoliche soltanto la concezione e la prassi di vita che armonizzano col credo e la morale garantiti come “cristiani” dalla Chiesa di Roma e dalla sua gerarchia. Come, dunque, senza contraddizione, possono qualificarsi cattoliche le persone (e le loro dottrine) che la dottrina cattolica, non diciamo “non praticano” – perché, purtroppo, non in tutti la vita morale collima con la fede –, ma negano, e la Chiesa cattolica fondamentalmente ignorano? La corretta prassi lessicale le qualifica, secondo i casi, eretiche, acattoliche... Come, senza pari contraddizione, possono essere qualificate cristiane (e tanto meno cattoliche) persone, dottrine od azioni che negano, o radicalmente ignorano, Gesù Cristo, la sua opera, la sua dottrina? Per esse, in buona lingua, valgono, secondo i casi, i termini: infedeli, pagane, idolatre... Finalmente, come, senza errore, può qualificarsi religioso, e non deve piuttosto dirsi ateo, agnostico, irreligioso, areligioso..., chi Dio, teoricamente o praticamente, nega, o non professa mai di conoscere?
In linea con queste precisazioni, opiniamo che La dolce vita, per quanto abbondi di riferimenti religiosi, anzi cristiani e cattolici, nella più benigna delle interpretazioni debba dirsi film areligioso. Come nei suoi film precedenti, si direbbe che a Fellini continui a sfuggire la vera natura del genuino fatto religioso, mai irrazionale o ipo-razionale, anche se, in dati casi, super-razionale. In parte seguendo la fantasia poetica del “fanciullino” che gli si agita dentro, ed in parte cedendo, egli per primo, ad uno dei “mostri” da lui rimproverati ai dissestati personaggi della sua Dolce vita, egli tende ad afferrare della religione (cattolica), ed a portare sullo schermo, il lato esteriore, spettacolare, possibilmente parossistico, cinematografico appunto, o confinante con la superstizione, o superstizione in pieno: – la processione nella Strada, processione, baraonda e parossismo isterico del Divino Amore nelle Notti di Cabiria; qui: statue aereotrasportate, turistiche ascensioni cupolari, falsi miracoli ed isterismo di folla e di reporter –; oppure tende a ridurla ad un valore crepuscolare, iporazionale, concretizzandola in personaggi infantili e semplicetti (le due suorine della Strada, fra Giovanni...), o semifatui (Gelsomina, Cabiria...). Se centra in pieno il rapporto religioso raccontando l’apologo del sassolino nella Strada, lo mette in bocca al personaggio funambolesco del “pazzo”, così rendendone un po’ ambigua la portata universale e la validità razionale.
Ma tutta religiosamente ambigua ci sembra La dolce vita. Non neghiamo che il problema fondamentale dello sconquassato mondo moderno, in parte rievocato dal film, sia problema religioso, anzi è nostra fermissima convinzione che solo un ritorno a Dio e alla sua legge – vale a dire nel ritorno almeno ad un senso religioso della vita – sia la premessa necessaria alla soluzione di tutte le crisi del mondo odierno. Neghiamo tuttavia che il film dica ciò esplicitamente (né lo pretendiamo) o che, almeno, induca a pensare così lo spettatore che già non vi fosse determinato per altre ragioni. Lo spettatore comune vi resta del tutto libero di interpretarlo a modo suo, non soltanto perché si tratta di cinema, alogico linguaggio di immagini, bensì perché Fellini non vi ha potuto trasfondere una ben definita tematica religiosa, che non ha. Di qui le esegesi religiose di esso, al massimo contrastanti. Se per un critico cattolico, come abbiamo visto, il volo del Cristo lavoratore riveste un significato religiosamente positivo30, per un altro critico, sempre cattolico, «il crocifisso (?!) che pende da un autogiro... è una caricatura e parodia dell’avvento di Cristo alla fine dei tempi» e «la sequenza blasfema del miracolo conferma questa impressione di ridicolo con la quale il film si apre»31. Per due marxisti qualificati, come Aristarco e Zavattini, nella stessa sequenza c’è, sì, la tematica del film, ma anticlericale, o antireligiosa, e “sociale”.
Scrive il primo: «Il cattolicesimo è stato liquidato come peso regolatore e deve ritornare alle origini per ritrovare la sua funzione. Il Cristo lavoratore che vola, portato dall’elicottero, sulla capitale del cattolicesimo mette subito a punto una situazione concreta, la denuncia di un magistero ormai avvilito, di una funzione sociale – quella della religione – che ha perso la sua vitalità... L’inizio dell’“affresco” – il Cristo ridotto a simbolo, a statua impotente, che esclude la realizzazione nella prassi: l’imitazione di Cristo – prelude non solo alla notte del falso miracolo, ma ad un altro simbolo: a quella cappella che intravediamo verso la fine, polverosa e deserta (!?), durante la carrellata che scopre i saloni decadenti in cui si consuma la “notte del castello”: Fellini afferma che nell’età contemporanea non vi è affatto vero cattolicesimo, e che esso appartiene al passato e non c’è più posto per Dio» (329 – E Zavattini: «la corruzione della inutile grandezza di Roma. Vi (?!) avvengono miracoli più o meno separati dal potere ecclesiastico, ma è dal 1947 che non vi avviene più niente che dia fiducia ai mezzi propri dell’uomo. La storia si è fermata. In quell’alba del castello, la cosa per me più rivelatrice è la principessa che se ne va nella cappella di famiglia con il sacerdote ad ascoltare la messa, tutta in Dio e mai stata tra la gente; con due fuggenti immagini tutta una biografia»33.
Ci consta, invece, che moltissimi spettatori cattolici, o non avversi al cattolicesimo, hanno stimato in gran parte ingiustificato siffatto ricorso a persone e cose del mondo cattolico, e perciò lo hanno giudicato su piano di educazione civile, di scarso buon gusto, e su quello religioso, irriverente e profanante, soprattutto quando ha esagerato nei più «stridenti accostamenti tra il sacro e il libertinaggio» (statua del Cristo e ragazze seminude, la Ekberg vestita con abito ecclesiastico...), rilevati anche dal Centro Cattolico Cinematografico34. Dobbiamo dire che anche noi li abbiamo sofferti come una profanazione, neanche sempre giovevole su piano di espressione artistica. Ma non è con questo particolare che intendiamo chiudere questo nostro giudizio sull’ambiguità religiosa del film, bensì su di un altro che ci pare tanto più fecondo di considerazioni quanto più è stato ignorato dai critici. Esso parte dal parallelo tra La dolce vita, ed il Satyricon – suggerito, se non erriamo, per primo dal Moravia, quindi ripreso da G. Aristarco e da altri – e poi coi Fleurs du mal, di Baudelaire.
Si è affermato che il film è naturaliter cristiano. Possamo concederlo appena nel senso che i pochi valori genuinamente umani in esso salvati non sono estranei al messaggio cristiano, elargitoci per sublimare, non per distruggere, tutto ciò che umanamente ci nobilita; ed anche nel senso che quegli stessi valori, pure se non formalmente cristiani, in Italia forse più che altrove, di fatto sono retaggio prezioso di una ininterrotta venti volte secolare educazione cristiana, sicché oggi molti ancora li respirano e li tramandano, i quali magari osteggiano, od ignorano, il cristianesimo, o si professano, in teoria o in pratica, materialisti. Ma, su questa premessa, non sappiamo se l’altra qualifica di precristiano, in definitiva, verrebbe a concretarsi in una lode o in un biasimo al film sotto l’aspetto religioso. Infatti, se cronologicamente è precristiano il Satyricon – almeno nel senso che si rapporta ad un mondo e ad un tempo in cui la diffusione della buona novella si era appena iniziata –, postcristiana è La dolce vita: ma quale differenza religiosa sostanziale si avverte tra i due? Mondo fradicio e senza speranza quello della Roma neroniana del Satyricon, e mondo fradicio e senza speranza quello della Roma della Dolce vita; inefficiente ed irriverente presenza degli dèi nel romanzo di azioni immorali e di linguaggio ignobile raccontato con freddo realismo da Petronio, inefficiente ed irriverente presenza di elementi cristiani nel condensarsi di azioni immorali e di linguaggio ignobile reso dalla allucinata “cronaca” di Fellini, come se Gesù Cristo non fosse venuto, nel frattempo, uomo tra gli uomini; come se il suo messaggio di fede e di speranza non fosse stato, da millenni, divulgato, e la storia umana non avesse lievitato per la presenza della sua Chiesa, signum in nationibus, e come se questa Chiesa non avesse il suo cuore proprio in questa Roma, dove il film è stato girato, e che il film descrive, attiva oggi forse più mai (per quanto non cinematograficamente!) nel santificare gli individui, ed anche, nonostante il prevalente clamore dell’Avversario, nel penetrare le strutture stesse della società umana: moralmente, socialmente, mondialmente! Sì, senza dubbio, più che nel Satyricon, circola nella Dolce vita un senso di stanchezza e di disgusto del vizio; ma, a ben considerare, non una sola volta il disgusto si apre a valori nettamente – sia pure implicitamente – cristiani, vale a dire al male come peccato ed all’aspirazione, se non proprio all’invocazione, della grazia di Cristo, che insieme dia la forza, agli individui ed alla collettività, di rompere il suo imperio e faccia germinare dalla corruzione del vizio la vita eterna,. Manca, insomma, il cielo. L’ha riconosciuto lo stesso Fellini: «Il cielo, col suo mistero, da questo film è escluso!... La nostra dolce vita è al confine con la catastrofe... È il film di una persona smarrita, disperata, confusa». «È un mondo abitato da gente che non crede più a niente, anche se, forse, aspetta qualcosa. Ma che cosa? Non lo sanno. L’arrivo dei marziani, forse; o lo scoppio della terza guerra mondiale, o qualche miracolo di Giovanni XXIII»35.
Siamo ancora all’amari aliquid del pagano Lucrezio, semplicemente, all’animal triste degli psicologi; insomma, nella condizione senza speranza di coloro che san Paolo commiserava appunto come qui spem non habent (Ef 2,12), perché non conoscevano il Redentore venuto. Qui perciò soccorre, come dicevamo, per contrasto, il ricordo di Baudelaire e dei Fleurs du mal da lui pubblicati, con non minor “scandalo” della Dolce vita, un secolo fa. Anch’egli ha sofferto e descrive tutto il vuoto oscuro e l’angoscia esausta di una sensualità sfrenata; ma, cattolico convinto, toccato il fondo dell’abiezione, la sua poesia s’illumina in un lucore di speranza:
Dans la brute assoupie un ange se réveille!
Oh, se un giorno, anche il nostro Fellini, con le sue immagini incantate, finalmente illuminato dalla fede, sciogliesse la sua solitudine ed il suo disgusto nell’accorata preghiera, religiosa e cristiana, di Baudelaire:
Ah! Seigneur! Donnez - moi la force et le courage De contempler mon coeur et mon corps sans dégoût!
1 Cfr Civ. Catt. 1960, I, 551-552. – La nostra nota, occasionata dalle interpellanze di due senatori e di tre deputati avverse alla Dolce vita, e dalla risposta loro data dall’on. Magri il 17 febbraio, andava in stampa il 27 dello stesso mese. Ci consta che, ai primi di marzo, almeno quaranta tra giornali e settimanali d’Italia l’avevano riportata, quasi tutti per intero. Nel numero del 25 febbraio, il, settimanale Vita (pp. 39-40) aveva anticipato ai suoi lettori il nostro pensiero.
2 Tra gli scritti di maggior interesse finora usciti sul film ricordiamo: 1°) il volume La dolce vita, di Federico Fellini, curato da TULLIO KEZTCH, n. 13 della collana di Cappelli “Dal soggetto al film”. Esso, con tutti i pregi e i difetti degli altri volumi della collana da noi regolarmente recensiti, fornisce una minuta cronaca del film, dalla prima idea a tutti gli sviluppi di lavorazione, sorprendendo, in fase creativa, un Fellini spesso inedito. Testo e materiale illustrativo riescono utili agli studiosi di cinema; non tanto, invece, crediamo, specialmente alcune fotografie, ai curiosi e profani, ai quali riteniamo che la collana di preferenza punti, a scapito del maggiore valore culturale che potrebbe godere. – 2°) I principali dibattiti o interviste di FELLINI stesso, pubblicate: nel citato volume di Kezich (che crediamo la più scanzonata: pp. 122-127); su Bianco e nero, che crediamo la più seria ed attendibile (1960, nn. 1/2, pp. 2-18); sull’Europeo (1960, n. 8, pp. 40 ss.) e su Schermi (1960, n. 21, pp. 54-60). – 3°) I seguenti articoli e saggi di maggiore impegno: G. ARISTARCO, La dolce vita (in Cinema nuovo, 1960, n. 143, pp. 39-44); G. BEZZOLA, La dolce vita (in Ferrania, 1960, n. 4, pp. 8-12); R. BRANCA, Ministri e preti imparino che cos’è il cinema (in Scena illustrata, 1960, n. 3, pp. 39 ss.); E. BRUNO – C. Bo – A. FRATEILI – P. P. PASOLINI – B. RONDI (in Filmcritica, 1960, 94, pp. 73-87); F. COLOGNI, Postille a La dolce vita (in Vita e Pensiero, 1960, n. 4, pp. 264-271); A. PESCE, Federico Fellini e la Dolce Vita (in Humanilas, 1960, n. 2, pp. 138-147); P. RICCI, La dolce vita (in Il Contemporaneo, 1960, n. 22, pp. 87-92); L. RUSSO – G. MOSCONI – M. PETRINI (in Belfagor, 1960, n. 2, pp. 226-234); N. TADDEI, La dolce vita (in Letture, 1960, n. 3, pp. 209-221), integrato da Chiarificazione, ivi, n. 7, pp. 529-530; J.-L. TALLENAY, La dolce vita (in Signes du temps, 1960, n. 6, pp. 37 ss.); G. TAYMANS, L’affaire de La dolce vita (in Choisir, 1960, n. 8, pp. 20-22).
3 Cosi, per esempio, MARMIDONE (Europeo, cit. p. 38).
4 Resoconto Camera dei Deputati, n. 260, p. 4.
5 Cfr M. VERDONE, in Quotidiano, 6/2; J.-L. TALLENAY, cit. p. 37; G. TAVMANS, cit. p. 21; G. ARISTARCO, cit. p. 42.
6. Bianco e Nero, cit., p. 14; L’Europeo, cit., p. 41.
7 T. KEZICH, La dolce vita, di Fellini, cit., pp. 60 e 54. – In questo senso il volume ci sembra uno dei più funzionali della fortunata collana Cappelli, anche se, purtroppo, pure in esso manca la sceneggiatura definitiva. Vi risaltano in particolare la totale libertà usata nel film per la scelta degli episodi e dei personaggi-attori ed il più deformante uso dei mezzi tecnici e psicologici per la resa di essi, per esempio degli obiettivi da 75, 100 e 150 invece del normale 50 (p. 75), dei costumi (p. 107), nonché del turpiloquio usato per “montare” gli attori (p. 109).
8 Nell’ordine: F. COLOGNI, cit., p. 269; M. VERDONE, Il Quotidiano, 6/2; Kosmos, 11 e 13/2; Paese Sera, 12/2; F. VOLPINI, in Paese Sera, 11/2; I. MONTANELLI, in Paese Sera, 16/2. – Come preannuncio delle apoteosi di cui lo gratificherà la critica estera, A. MONJO lo dà per «una delle maggiori realizzazioni del cinema neo realista» (Humanité, 19/5), a C. M. STAEHLIN scrive che pocas veces se ha hecho una pelicula tan valiente (Echos y dichos, giugno 1960, p. 521).
9 Cfr Spettacolo, arte e morale al XIII Festival di Cannes, Civ. Catt. 1960, II, 607.
10 Che così scrive sull’Europeo (cit. p. 50): «Fellini, perdona loro, ché non sanno ciò che fanno. Io nella camicia tua mi limiterei a dire: “Signori, i miei cinquanta o cento personaggi non hanno in tutta Roma, in tutta Italia, sull’intera faccia della terra, gemelli di sorta. Li ho inventati e sognati, come Poe inventava e sognava discese nel Maelstrom e gatti murati vivi, irrazionali cose ed individui, che però nell’interno dei suoi racconti erano più miracolosamente veri del vero. Supponete che io vi abbia mostrato cinquanta o cento fenomeni. E con ciò? Il mio film è bello o brutto, è un’opera d’arte o no? Questo, unicamente questo, voi, pubblico e critica potete e dovete decidere”».
11 Giornale dello spettacolo, 27 febbr. I 960 . Lo stesso (30 luglio) scrive: «La Dolce vita nei primi due mesi di programmazione ha brillato nel firmamento del cinema come la costellazione dell’Orsa, con un introito eccezionale e fulmineo di oltre un miliardo e 315 milioni».
12 Cinema nuovo, cit., p. 158.
11 Valga una testimonianza per tutte. M.M. scrive in Espril (1960, nn. 7/8, pp. 1283 e 1285): Il ne cesse de s’interroger sur le péché (?!)... Chez Fellini l’effort d’enquête et de critique est perpétuellement sous-tendu par une charité que l’auteur puise dans ses convinctions chrétiennes (?!); perciò riteniamo che chiaramente equivochi J. D’YVOIRE scrivendo che on s’est un peu trop complu dans cer tains milieux italiens (?!) à opposer (Fellini) aux cinéastes de gauche comme champion des valeurs chrétiennes... (Radio-Telévision-Cinéma, 1960, n. 541, p. 53).
14 Belfagor, cit., p. 226.
13 Contemporaneo, cit., pp. 87 e 91.
14 In Nuovo ideale, 1960, 12/3; i quali, a voce e in scritto, passano per cristiano anche Zavattini, individuando perciò chiari messaggi cristiani non solo nella Strada e nelle Notti di Cabiria, ma anche in Ladri di biciclette, Umberto D., Miracolo a Milano...
17 Espresso, 14/2.
18 Belfagor, cit.
19 A conferma, tra i più fantasiosi passaggi da un Fellini “cattolico” a temi cattolici della Dolce vita, ricordiamo J. DONIOL-VALCROZE, il quale in France Observateur (19/5) scrive: «È chiaro che le intenzioni del film... vanno inserite in una prospettiva cristiana. Ci viene fatta vedere la decadenza di un mondo senza Dio e si cerca di farci comprendere che è per la mancanza di un minimo di fede che il personaggio centrale ed i suoi accoliti non trovano la salvezza»; D’ACCONCI (Cinema Nuovo, n. 144, p. 101) non esclude che l’insistenza con cui Marcello torna ad Emma durante il diverbio notturno nella strada periferica... possa essere una presa di posizione del cattolico Fellini contro il divorzio... (?!). – Qualcuno ha visto nell’occhio del pesce morto... l’occhio di Dio! Per A. MONJO (Humanité, cit.) «in Fellini c’è il cristiano che ci fa vedere la Sodoma del 1960»; e finalmente per E. M. MARTINEZ (Film ideal, 1960, n. 50, p. 7), col solito pesce morto «il film illustra questa frase dell’Apocalisse: “E vidi uscire dal mare una bestia... E la terra tutta intera seguiva la bestia”»(?!).
20 P. P. PASOLINI, in Paese Sera 13/2; ed anche in Filmcritica, cit. p. 83. Naturalmente la definizione di tanto maestro è indiscutibile per i due relatori varesini di cui in Nuovo ideale, cit.
21 Belfagor, cit., pp. 227 e 226.
22 Il Giorno, 6/2.
23 Comunità, cit., p. 106.
24 Film-Selezione, 1960, n. 1, p. 28. – E. BRUNO (Filmcritica, cit. p. 397) scrive di «visione religiosa» di Fellini.
25 In Cinema nuovo, cit. passim. – A questo punto, per dimostrare che Fellini in «posizione esistenzialistica, se non uguale, analoga a quella di Kirkegaard», Aristarco confonde in un unico pastone la solitudine-angoscia teologica (peccatograzia), la solitudine-angoscia ontologica (essere finito-infinito) e la solitudine-angoscia psicologica (il singolo-gli altri), e, riscontrata in Fellini un’«incomunicabilità dei personaggi», la giudica senz’altro «ontologica», anzi «senza prospettive se non quella mistica»; quindi ne individua, divinando, «le fonti ideologiche, anche se inconsapevolmente nel regista, in quella letteratura d’avanguardia tra le due guerre che ha come padre spirituale (appunto) Kirkegaard»; infine, orecchiando, commenta il “miracolo” del film con un testo isolato dello stesso Kirkegaard, attribuendo al filosofo danese ed al regista italiano visibili comunanze teologiche ed antiecclesiastiche.
26 Letture, cit., p. 219 e passim.
27 Europeo, cit., p. 43.
28 Filmcritica, cit., p. 87.
29 Per ulteriori commistioni tra cattolico, paracattolico, cattolico decadente, cattolicesimo ereticale, cattolici-laici, ecc. sentire come parlano dei “laici” in Schermi, 1960, n. 21, pp. 63 e 65.
30 «Duemila anni di venuta del Cristo: esplodente dominio sui regni della potenza romana (l’elicottero sfila sugli acquedotti romani e l’ombra ne sottolinea il passaggio dominatore); ombra benedicente, non accolta, nelle case dell’umanità di oggi... Nella grande piazza, segno di una raggiunta affermazione anche esteriore (il colonnato, le statue, il rombo delle campane) il Cristo benedicente scende» (Letture, cit., p. 214).
31 E. M. MARTINEZ, in Film-Ideai, cit. p. 7.
32 Cinema nuovo, cit., n. 143, p. 40.
33 Ivi, n. 144, p. 141.
34 Quotidiano, 9/2. – Per il cattolico S. SALVATORI (Vita, cit. p. 38) «la statua del Cristo, trasportata da un elicottero e sbattuta dal vento, supera ogni limite di irriverenza». Che non abbia tutti i torti lo dimostrano le interpretazioni di tre “laici ": per R. Rossanda e Fellini, dal Cristo che vola al miracolo, se la prende con la clericalizzazione»; per V. Bonicelli il Cristo volante «è visto in chiave assolutamente ironica», anzi è «una profanazione»; per G. Ferrata «quel Cristo non è affatto ironico»; significa: Cristo è arrivato a Roma, ma Roma è senza Cristo» (Schermi, cit., p. 63).
35 Bianco e Nero, cit., p. 16; Europeo, cit., p. 41; Schermi, dic. 1958, p. 308. – E gli fanno eco molti critici. J.-J. GAUTIER scrive: «Si potrebbe intitolare “La speranza è morta! Qui tutto è buio!”» (Le Figaro, 12/5); V. SPINAZZOLA: «È un film di una crisi, la crisi del personalismo cristiano (?!) del regista: scomparsa è la speranza, scomparsa è la fede» (Nuova generazione, 21/2); e T. CHIARETTI: «La chiave del regista è quella di un tramonto inevitabile, malinconico, di una società borghese, che non lascia posto a nulla di migliore» (Il Paese, 5/2).