Articolo estratto dal volume III del 1980 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Del professore di Toronto Marshall McLuhan abbiamo presentato, nei tratti essenziali, il profilo gli scritti e il pensiero1. Ci proponiamo ora di darne una valutazione: prima, dall’esterno, menzionando quel che ne hanno detto molti autori; quindi descrivendo il suo conclamato mondo alogico; infine rilevando quelli che riteniamo alcuni suoi filosofici ed etici vuoti di valore.
Tra stroncatori ed entusiasti
Di un centinaio di autori che hanno trattato del Nostro, circa due dozzine ne hanno fatto oggetto di osservazioni sistematiche2. Dei rimanenti: non pochi ne hanno riferito en passant, dando ragione a chi ha scritto di un McLuhan «troppo citato e poco letto» (A. Bourdin); mentre altri non sono andati oltre a qualche suo scritto o a qualche sua trovata, per trarne più o meno valide applicazioni, oppure per lanciare critiche più o meno viscerali. Tra tutti, in ogni modo, molti sono gli stroncatori; anche più numerosi sono i moderatamente critici; mentre non pochi, tutto sommato, si mostrano a lui favorevoli; e rari i suoi entusiasti.
In apertura dell’antologia3 che – insieme a quella del Rosenthal4 – tanto doveva contribuire a far conoscere ed a far discutere su McLuhan, a proposito di stroncatori, nel 1967 G.I. Stearn notava:
«Nel mondo della cultura, McLuhan ha sollevato una tempesta insolita. Si può affermare che egli conti nemici accaniti, partigiani fedeli e critici arrabbiati più di qualsiasi altro intellettuale odierno. Le sue idee hanno suscitato tante reazioni da alimentare un’intera Litania di epiteti antiMcLuhan. Infatti l’hanno detto: stregone metafisico invaso da mania spaziale; Nkrumah canadese all’assalto della logica; corruttore dell’intelligenza e della sensibilità della gioventù, pontefice del culto-pop, celebrante la messa nera (per dilettanti) nell’altare del determinismo storico; scrittore razziatore di tutta la cultura, dalle pitture rupestri al rotocalco Mad, per puntellare la sua traballante costruzione; mente creativa che pianta chiodi enormi, ma che colpisce sempre un po’ storto...».
Nel frattempo, soltanto attingendo alla ventina di pubblicisti citati dallo stesso Stearn in apertura di libro, la pittoresca litania si è ornata di un’altra mezza dozzina di titoli; quali: «predone di truismi, ed imbroglione consapevole a tutti i livelli» (F. Chatelet), «pseudo Einstein» (G. Bonnot), «giocoliere da fiera, che sciorina tutto quel che gli passa per la testa» (Réalités), «non scienziato, né economista, ma verbòcrate» (A. Vernay), «pedante rumoroso, fatto su misura per le alienazioni del nostro tempo» (J.-M. Benoist). Ed altri ancora ne hanno aggiunti altri autori:
H.M. Enzensberger lo qualifica «ventriloquo e ciarlatano»; E. Morin scrive di «furbizia intellettuale, che sconfina nella prestidigitazione»; G. Wagner scrive di «chitarrata intellettuale», e di un McLuhan «in cui, con espedienti da prestigiatore, il punto di partenza si cambia in tesi provata»; e B. Ferri, oltre che «giocoliere da fiera», lo qualifica «istrione, schizofrenico geniale, dotato dei poteri caratteristici dei grandi ciarlatani, antropologo dilettante che parla per dilettanti».
Per T. Roszak, McLuhan è un «freddurista dilettante»; per N. Halper è uno «storiografo e dottore da camera», mentre M. Walsh, ironizzando su i suoi mcluhanismi «che pungono», lo paragona alla zanzara, o al buffone di corte. Ancora: per P. O’Donovan è «un guru [=santone] americano»; per R. Rebetez – ripreso da T. Nairn – è «un alchimista, luminare popolare e populista, Socrate da fiera [...],uno di quegli abili scrittori americani, “pubblicisti di confine”, che scorrazzano in lungo e in largo sbandierando le loro grammatiche, ricettari, citazioni dell’Apocalisse e panacee per i cervelli e per gli intestini». E non mancano critici, come E. Morin, che quasi quasi lo catalogherebbero tra gli agitati mentali, scrivendo di «delirio interpretativo» e di «riduzione monomaniaca»5.
Meno caustici, una buona ventina di autori – da N. Compton, M. J. Arlen, J. Mousseau... a S. Frosali, F. Paolone, F. Ferrarotti... preferiscono trattarne tra la celia e l’ironia, chiedendosi: «eroe o eretico?», «ciarlatano o santo?»; oppure qualificandolo con titoli come: «il commensale più invitato di New York», «con Mao, Marx e Marcuse, uno dei quattro "Magni M” dell’editoria radicale USA», «la cometa canadese», «l’iconoclasta di Toronto», «l’ideologo dell’anti-ideologia», «jongleur di grosse dimensioni, e sociologo pittoresco», «più romanziere o poeta che sociologo», «primo filosofo pop», «l’uomo rana dei mass media», «il profeta (o “l’oracolo, il James Joyce”) dell’elettronica», «il sacerdote (anzi: “il papa”) dei mass media»...
All’altro estremo: due buone dozzine di entusiasti di McLuhan. Tra i quali, oltre Atlantico, D. Duffy, S. Finkelstein, G. Cohn, R. Kostelanetz..., e soprattutto John Culkin6, il docente di filosofia alla York University di Toronto J. C. Jarvie7 e l’ingegnere elettronico Barrington Nevitt8; e, in Italia, R. Barilli, E. Fulchignoni, E. Mascilli Migliarini, R. Prini..., e soprattutto lo studioso di sociologia e funzionario della RAI-TV Giampiero Gamaleri9 e il docente di mass media Rosario Esposito10.
Quando non si limita ad un’accoglienza globale acritica del suo pensiero, o a smussarne le spine più acute, l’ammirazione di molti di questi suoi entustiasti esplode in encomi che sfiorano l’apoteosi.
McLuhan viene celebrato – citiamo alla rinfusa – «il numero uno degli scrittori canadesi», «la personalità più in vista della cultura americana», «il pensatore più importante dopo Newton, Darwin, Freud, Einstein e Pavlov», «uno dei più importanti ricercatori nel campo della sociologia dei mass media», «il più grande teorico della età della tecnica, e filosofo dell’età atomica», «uno degli studiosi più geniali che abbiano compreso la profondità, il carattere e il significato della trasformazione culturale in corso», «scienziato» tout court...
La sua opera viene elogiata per «le sue geniali intuizioni», «cosi brillanti che si dicono mcluhanismi»; essa «avvia ad un’educazione e ad una coscienza di verità da noi ignorata, quasi rendendo visibile l’invisibile e conscio l’inconscio»; è una vasta e poderosa impresa culturologica», «con validi titoli per porsi ai nostri giorni come la più autorevole erede della Scienza nuova vichiana». In particolare, i suoi libri «hanno segnato altrettante pietre miliari degli studi sui mass media», sicché «parlare dei mass media senza citare McLuhan è come se un predicatore non ricordasse ogni volta di citare sant’Agostino...».
Il suo mondo logico
Non stroncatori a priori, e neanche entusiasti di McLuhan, preferiamo accertare e valutare criticamente il suo pensiero, a cominciare dallo spazio (a)logico in cui egli sempre si muove. Inizieremo con l’individuare il «genere» – poetico-profetico, e non storico-scientifico – in cui tutta la sua opera s’iscrive; quindi invalideremo a priori la scientificità che qualcuno gli ha attribuito: prima denunciando la sistematica ambiguità della sua terminologia (e, perciò, anche del suo mondo concettuale), e poi l’inconcludenza delle sue anomale procedure alogiche.
Circa il «genere» ricordiamo come, fin da studente universitario, a McLuhan sono sempre restati congeniali solo gli interessi letterari. Interessi, per giunta, volti non ai contenuti delle opere e alle idee degli autori, né alla filologia e alla teorizzazione estetica – discipline che richiedono un certo rigore logico-oggettivo –, bensì all’aspetto formale stilistico delle opere, dove, tra l’altro, si attuava in qualche maniera il suo futuro paradosso di un messaggio (poetico) che si risolveva nel mezzo (linguistico). Ricordiamo, inoltre, la sua precoce allergia per ogni speculazione logico-analitica, che sin d’allora lo portò a preferire l’enciclopedismo alla specializzazione, i sofisti ai dialettici e, tra gli artisti-poeti, quelli che nella pratica (T. Nashe...), oppure teorizzando (T. S. Eliot...), riscattavano e privilegiavano i valori sensoriali rispetto a quelli concettuali; e, in ogni modo, a simpatizzare per i «visionari» che – come John Donne, William Blake, James Joyce... – avevano fatto della scapigliatura una loro norma di stile e di vita. Né siffatta congenialità per il letterario s’è attenuata nel «profeta dei mass media». «Il mio interesse per essi – confiderà a G. I. Stearn – deriva dai miei lavori letterari, e ne sono il prolungamento. Se potessi formare una buona équipe di giovani ricercatori interessati ai media, tornerei volentieri al mio dada letterario» (p. 254).
Una conferma di questo suo privilegiare i valori dell’immaginativa poetica a scapito del sapere scientifico si ha nel ruolo esclusivo che, per «rifare il mondo», egli assegna, non ai politici, né ai filosofi o ai sociologi, bensì all’arte e ai poeti. Scrive in Il medium è; messaggio:
«Ora ci siamo resi conto della possibilità di organizzare l’intero ambiente umano come un’opera d’arte, come una macchina didattica destinata a massimizzare la percezione e a fare dell’apprendimento quotidiano un processo di scoperta. L’applicazione di questa nozione sarebbe l’equivalente di un controllo termostatico della temperatura ambiente» (p. 68). «Il poeta, l’artista, l’agente investigativo – chiunque acutizzi la nostra percezione – tende ad essere antisociale; raramente “adottato”, egli non riesce a seguire le correnti e le tendenze» (p. 88). «Il professionismo è ambientale, il dilettantismo è antiambientale. Il professionismo immerge l’individuo nei moduli dell’ambiente totale: il dilettantismo ricerca lo sviluppo nella consapevolezza critica delle norme fondamentali della società» (p. 93).
Ci conferma su siffatta congeniale «ascientificità» di McLuhan il fatto che, contro i molti che gliel’hanno obiettata come invalidante tutte le sue teorie e proposte, egli non si difende negandola, ma piuttosto vantandosene. Se una volta gli capita di darsi (a G. I. Stearn) per «tecnico dei mass media» capace di fornire risposte «scientifiche», più frequente è il suo dispregio per ogni criterio culturale e per spiegazioni a partire dalle cause. Sbandiera che i suoi non sono né concetti né affermazioni, ma sondaggi e razzi. Dice (a J. Grapin): «Io non adopero concetti, ma percezioni; studio gli effetti dei fenomeni, non i fenomeni in sé»; e (a R. K. Merton): «Con me non aspettatevi di conoscere la realtà delle cose. Potete conoscere le mie affermazioni, alle quali non do peso, né le condivido, e non la situazione. lo ricorro alle affermazioni solo come a mezzi di sondaggio».
Soprattutto egli invalida a priori ogni possibile critica logico-lineare obiettando che «questa non potrebbe essere espressa che in termini anacronistici, modellandosi in una tecnologia [quella gutenberghiana!] oggi superata». Infatti, se in Understanding Media egli spiega, a suo modo, il passaggio dalla casa rotonda (pre-alfabetica) a quella quadrata (alfabetica), mette subito le mani avanti precisando: «La spiegazione può non essere ovvia alle persone di cultura visiva» (p. 1J5). Gli oppongono l’autorità di un Galbraith? Lo spaccia con un perentorio: «È uno che al cento per cento ragiona con l’emisfero sinistro [logico] del suo cervello [...] , quando sono i cervelli destri, acustici ed irrazionali, che di fatto orientano la società». Alla conclusione di una sua conferenza un ascoltatore gli contesta ben ventotto contraddizioni? Il Nostro risponde: «Lei continua a pensare linearmente!»; ed a G. Gozzer – che ne nota l’abilità con cui sfugge alle domande – McLuhan rimprovera che «noi insistiamo sul nostro mondo “gutenberghiano” della parola scritta, di cui siamo ancora prigionieri»...
Ambiguità semantica
Così sostituite le sensazioni ai concetti, e ridotte le affermazioni a razzi, come pretendere da McLuhan una terminologia coerente? Di fatto egli segue una piena ambiguità semantica. «Le parole – nota H. Halper – per sé hanno un significato. Ma come le adopera McLuhan significato e peso si riducono presso che a nulla»11. Sorvolando su «galassia», di ovvia e tollerabile accezione figurata, con lo stesso Halper potremmo esemplificare con i termini «moderno» e «mosaico», «omerico» e «frontiera»...; ma ci limitiamo alle tre coppie di termini – «caldo»-«freddo», «esplosione»-«implosione» e «mezzo»-«messaggio» – con le quali, almeno sino al 197712, egli ha puntellato il suo profetismo.
A ragione la prima coppia è stata criticata come «il punto più vulnerabile» (G. Cohn) e «uno dei punti più equivoci» (J. Cazeneuve) del mcluhanismo. C’è, intanto, la scelta volutamente antifrastica – cioè rovesciandone le accezioni correnti – dei termini «caldo (hot)» e «freddo (cool)», col presumere che «la forma calda esclude, la forma fredda include»; quando buon senso, intelligibilità di linguaggio e teoria dell’isomorfismo13 richiedevano un minimo di equivalenza tra significati originali e significati traslati; sì da poter intendere caldi i media che comportino intensità di partecipazione, e freddi quelli che ne comportino scarsa o nulla, come avviene appunto quando comunemente qualifichiamo caldi o freddi, ad esempio, colori, caratteri, passioni, l’oratoria, le discussioni...
L’ambiguità aumenta quando McLuhan pasticcia col termine-concetto di «partecipazione», nel quale la distinzione dei media in caldi e freddi si fonda. Nota a proposito F. Balle:
«Partecipazione» può intendersi in tre modi. Nel primo si rileva la più o meno globale mobilitazione dell’attenzione del recettore, più o meno escludente nello stesso altre attività concorrenziali. Nel secondo ci si riferisce al diverso impatto dei media sul pubblico nell’informarlo sugli eventi. Infine, il terzo, forse più presente nella mente di McLuhan, riguarda il minore o maggiore impegno richiesto al recettore nell’interpretare il messaggio, secondo che i media lo trasmettano più o meno ricco di particolari. Ora McLuhan tende a confonderli o, piuttosto, passa indifferentemente dall’uno all’altro14.
Gli equivoci infittiscono quando il Nostro, nell’applicare la coppia «caldo»-«freddo», passa, come s’è visto nel precedente articolo, dai media di comunicazione propriamente detti, ad ogni tecnologia e realtà-attività umana: dall’automobile agli sport, dalle città alle calze da donna, ai presidenti degli Stati Uniti...; per giunta riducendo gli hot-caldi a lineari e detribalizzanti, ed i cool-freddi a mosaici e ritriba-lizzanti.
Le cose non vanno meglio con la coppia «esplosione»-«implosione», seconda chiave, in McLuhan, per spiegare tutta l’evoluzione socio-culturale dell’umanità. Intanto si tratta di una terminologia iperbolica e deviante rispetto ai fenomeni cui il Nostro si riferisce. Infatti, nel linguaggio corrente come in quello tecnico, «esplosione» sta per passaggio violento, generalmente accompagnato da fragore («scoppio»), di un corpo o di un sistema di corpi da uno stato di equilibrio instabile ad uno di equilibrio stabile: primo tra tutti il big bang iniziale del nostro Universo; mentre «implosione», ricalcato sul precedente, sta per cedimento violento, anch’esso generalmente fragoroso, delle pareti di un corpo cavo – tale il cinescopio del televisore – sotto l’azione di una pressione esterna. Se traslati a realtà psico-socio-culturali, i due termini convengono bene, dunque, a fenomeni repentini, cause o conseguenze di rivolgimenti e di risonanze profonde in vasti corpi sociali; ma non a trasformazioni praticamente inavvertite perché lente e graduali nel tempo e nello spazio: alle quali, invece, convengono termini più discreti, quali espansione-contrazione, dilatazione-riduzione, diffusione-riflusso15... Per giunta, non risulta sempre chiaro né costante in McLuhan che cosa in realtà, nella storia culturale dell’uomo, sarebbe esploso o imploso per effetto degli stimoli indotti dalle mutazioni ad esso esterne. Ora, in quanto ad «esplosione», se si tratta degli arti dell’uomo – il piede e la mano provvisti di semplici attrezzi, arnesi... –, niente vieta di parlare, metaforicamente, di prolungamenti-estensioni; se invece si tratta del ricorso fatto dall’uomo a sempre più potenti fonti energetiche, e soprattutto se ci si riferisce alla creazione di macchine complesse che trasformano le stesse energie in lavoro: parlare di prolungamenti-estensioni dei muscoli dell’uomo è soltanto fuorviante, dato che, se uno scopo l’uomo si è proposto ed ha ottenuto nell’inventare ed usare macchine sempre più potenti ed autonome, è stato proprio quello di ridurre al minimo il proprio sforzo-lavoro muscolare. Ed è addirittura mistificante parlare d’«implosione», come fa McLuhan, a proposito del sistema nervoso centrale16 per effetto dei media elettrici. Dato, infatti, e non concesso che questi abbiano radicalmente mutata la struttura del sistema nervoso umano, resterebbe da provare come e perché la mutazione abbia interessato solo il sistema nervoso centrale; ed anche che detta mutazione sia stata rapida e violenta.
In realtà qui McLuhan cade in tre equivoci. Il primo, come già s’è visto, sta nel confondere la tutta odierna realtà elettronica con l’«elettrico»: operante ormai da un secolo e mezzo nel mondo produttivo-comunicativo17. II secondo sta nel ragionare, per rischiosa analogia, della struttura e del comportamento del sistema nervoso umano ricalcando sulla struttura ed il comportamento delle odierne macchine cibernetiche-elettroniche; le quali, «come» il sistema fisiologico dell’uomo, non solo sono capaci di ricevere «informazioni», ma incorporano «memorie» per conservarle, ed anche meccanismi di controllo e di elaborazione per rifornirle all’esterno. Né è da escludere che nella mente di McLuhan si verifichino altri due trapassi discutibili, più o meno consapevoli: cioè dal sistema nervoso biologico dell’uomo individuo ad un supposto sistema nervoso globale umano, a metà tra l’inconscio collettivo bergsoniano e le biosfera-noosfera teilhardiane; ed, insieme, dall’accezione fisiologica-cibernetica del termine «informazione» a quella pubblicistica (di circolazione di notizie), oppure a quella socio-culturale: d’incremento di socializzazione.
Resta la coppia «mezzo»-«messaggio». Ancora tutto attento a cose e fatti riguardanti la umana comunicazione intenzionale, in The Gutenberg Galaxy McLuhan sembra conservare ai due termini le accezioni correnti in tutti gli schemi dell’atto linguistico18, comprendente mezzi (naturali o tecnici) con i quali gli uomini rendono comuni ad altri i propri contenuti di coscienza – appunto i messaggi –: gli uni codificandoli (in segni sensorialmente percepibili) e gli altri decodificandoli, secondo codici formati su precedenti comuni acquisizioni culturali. Ma già in Understanding Media, e poi sempre più in seguito, egli confonde le carte, intendendo per media, come s’è visto, pure i mezzi e i veicoli di trasporto; poi anche tutti i prodotti tecnologici dell’uomo e la tecnologia tout court, nonché molte attività dell’uomo scarsamente riducibili alla stessa; insomma, tutta intera «quella che per gli antropologi è la cultura materiale» (B. Ferri), vale a dire: il globale ambiente socio-culturale che l’uomo storico si è andato via via costruendo, nel quale le variazioni indotte sarebbero i messaggi. Alla fine, egli fa mezzo quasi sinonimo di contenuto, decretando, in un giuoco di scatole cinesi, che «il contenuto di un medium è sempre un altro medium. Il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa, e la stampa quello del telegrafo»; insomma, come «il carico è il contenuto della ferrovia»19. Veramente «alla fine della lettura di un libro di McLuhan uno si chiede disorientato che cosa non sia per lui un medium»20, e che cosa non sia per lui un messaggio.
Dove l’ambiguità terminologica in McLuhan tocca il colmo è a proposito di «elettricità» e «luce elettrica»: media, veicoli, tecnologia o contenuti-messaggi? Leggiamo in Understanding Media:
«La LUCE ELETTRICA è informazione allo stato puro. È un medium, per così dire, senza messaggio; a meno che non lo si impieghi per formare qualche annuncio verbale [...] . Che la si usi per qualche operazione al cervello, o per una partita di calcio notturna, non ha alcuna importanza. Si potrebbe sostenere che queste attività sono, in certo senso, il "contenuto” della LUCE ELETTRICA, perché senza di essa non potrebbero esistere [...]. La LUCE ELETTRICA non appare, a prima vista, un medium di comunicazione, proprie perché non ha un "contenuto”» (pp. 16-17).
«Le nostre vite personali e collettive sono diventate processi d’informazione perché con la TECNOLOGIA ELETTRICA abbiamo posto fuori di noi il nostro sistema nervoso centrale [...]. Tranne la LUCE, tutti gli altri media arrivano a coppie, nelle quali l’uno funge da "’contenuto” dell’altro, confondendo l’operazione di entrambi» (p. 62).
«L’ILLUMINAZIONE come estensione delle nostre possibilità ci offre l’esempio più evidente di come queste estensioni modifichino le nostre percezioni [...]: con l’ILLUMINAZIONE ELETTRICA ogni dubbio viene a cessare. In questo campo il medium è il messaggio e quando la LUCE è accesa esiste un mondo dei sensi che sparisce appena la LUCE si spegne [...]. La LUCE è informazione, come il missile è un veicolo senza ruote e senza una strada» (p. 138).
«È indispensabile renderci conto di questo fatto per capire l’ERA ELETTRONICA, e in particolare l’automazione. Ogni energia e produzione tendono a fondersi con l’informazione e la conoscenza. Ciò fa parte dell’implosione ELETTRICA [...] . L’ERA ELETTRONICA è letteralmente un’epoca d’illuminazione, che, nella sua applicazione pratica, illumina tutto ciò che tocca» (pp. 373-374).
Limitiamoci a rilevare con U. Eco21:
«Tutto il ragionamento di McLuhan è dominato da una serie di equivoci gravissimi per un teorico della comunicazione, per cui non si stabiliscono le differenze tra il canale della comunicazione, il codice e il messaggio. Dire che le strade e la lingua scritta sono media, significa mettere alla pari un canale con un codice. Dire che la geometria euclidea e un vestito sono media, significa appaiare un codice (un modo di formalizzare l’esperienza) con un messaggio (un modo di significare, in base a convenzioni vestimentarie, qualcosa che voglia dire: un contenuto). Dire che la luce è un medium, significa non rendersi conto che giuocano qui almeno tre accezioni di “luce”: 1. la luce come segnale (trasmetto impulsi che, in base al codice Morse, significheranno poi particolari messaggi); 2. la luce come messaggio (la luce accesa alla finestra dell’amante, che significa “Vieni”); 3. la luce come canale di altra comunicazione (se in una strada ho la luce accesa posso leggere il manifesto affisso al muro) [...]. Inoltre McLuhan usa la parola “contenuto” in due accezioni diverse (per lui significa “ciò che viene detto”, mentre per la teoria dell’informazione significa “il numero di scelte binarie necessarie per dire qualcosa”)».
Anche da siffatta ambiguità semantica dipendono gli sconcordanti significati e giudizi del mcluhaniano «Il mezzo è il messaggio» da parte degli autori, siano critici o partigiani del Nostro. Per quelli per i quali, secondo il McLuhan più ovvio, «mezzo» vale, nell’accezione più lata e comprensiva, l’ambiente umano, e «messaggio» sta per gli effetti in genere indotti nell’uomo storico che in esso viva ed operi: la tesi-slogan – lungi dal proporre un paradosso, né tanto meno una scoperta bastante per immortalarne l’Autore – non fa che proclamare un truismo; vale a dire: una verità ridicola ad enunciare tanto è da tutti risaputa. Più numerosi, invece, sono quelli che continuano ad intendere «mezzi» e «messaggio» nelle accezioni ricorrenti – come s’è visto – negli schemi comuni dell’atto linguistico, cioè riferendosi ai mezzi della comunicazione intenzionale ed ai contenuti-messaggi della stessa. Di questi: alcuni pochi sbandierano alla lettera «Il mezzo è il messaggio» quale scoperta copernicana del Profeta dei mass media, mentre (per noi e) per altri lo slogan vale soltanto come un paradosso; vale a dire: un aforisma ad effetto, di cui occorre smussare la perentorietà, sì da ricavarne un senso ragionevolmente accettabile22.
E scompiglio dialettico
In siffatto scompiglio terminologico, quali le procedure (diciamole) probatorie di McLuhan? – Autori e commentatori hanno avuto buon giuoco nel rilevarne l’insufficienza, quando non anche la fallacia. Commentano ancora i due critici nostrani23:
«Il pensiero e l’esposizione di McLuhan procedono a spirale o, forse meglio, a elicoide. Essi non sono mai frazionabili in segmenti che possono essere commisurati tra di loro e, così, ridotti ad una logica tipo cartesiana. Ogni battuta suscita una o più immagini ed offre lo spunto alle successive, senza veramente necessitarle e senza esserne, a rigore di termini, convalidata [...]. Tutto McLuhan è una varia e geniale polemica intesa a dimostrare o, per dir meglio, a persuaderci: il “dimostrare” appartenendo ad una precedente civiltà delle comunicazioni, oggi in declino.
«Non un discorso per sillogismi, ma per aforismi. Gli aforismi (ricorda McLuhan) sono incompleti e richiedono perciò una profonda partecipazione. In questo senso il modo di argomentare che egli usa corrisponde perfettamente al nuovo universo a cui siamo invitati ad integrarci. Questa tecnica però comporta alcuni difetti. Il primo è che per ogni affermazione McLuhan ne allinea una opposta, assumendole entrambe come argomenti [...]. Non si preoccupa neppure di pensare se tutti i suoi argomenti siano veri: si accontenta che siano. Quello che dal nostro punto di vista potrebbe parere contraddizione, dal suo è semplicemente con-presenza».
Dei cinque procedimenti poco o nulla probatori, che con un po’ di buona volontà si possono individuare nel Nostro, il primo è quello degli aforismi-razzi:
«Epigrammi, giuochi di parole e bisticci, da lui usati come scosse elettriche»24; «immessi nel bel mezzo di un periodo, con riflessioni del tutto estranee al contesto [...]. Nove volte su dieci sono giudizi categorici e perentori su un argomento nel quale il lettore è affrontato come se ne fosse il più grande specialista mondiale [...]. Egli giustifica questi razzi lanciati all’impazzata spiegando che, se si fermasse a svilupparli, il suo libro non procederebbe mai»25.
Oltre a quelli che abbiamo riportati presentando le sue due opere più note, eccone, a mo’ d’esempio, alcuni altri a proposito del sensorio umano:
«La televisione usa l’occhio come se l’occhio fosse l’orecchio», «In televisione si verifica un’estensione del senso del tatto attivo ed esplorativo che coinvolge contemporaneamente tutti i sensi». Il quale senso del tatto, poi, «è un rapporto tra tutti i sensi, e non il contatto isolato tra pelle ed oggetto». Viceversa, «nella pagina stampata è l’occhio che viene usato, in un certo senso, come organo di tatto», mentre «la fotografia tende verso il carattere uditivo». «Solo incidentalmente l’elettricità è visiva ed uditiva: anch’essa è soprattutto tattile». «I pubblici inglesi vedono i film, mentre i francesi sono orali»: «essi dicono “la conosco come la mia mano”, e in quest’espressione c’è un’idea di udito».
Dopo di che il suo compatriota J.M. Smith non può trattenersi dal dedicargli questo distico: «McLuhan l’orecchio al telescopio pose/ E disse: "Tocco un buon odor di rose”»26.
Un secondo contestabile procedimento probatorio del Nostro sta nell’ammassare citazioni di opere di autori di ogni tempo ed argomento27:
«Egli sfrutta a fondo la miscela delle discipline. Cita Joyce, e subito dopo ricorda una notizia pubblicata in una rivista scientifica. Salta dalla cibernetica alla poesia, dalla matematica alla filosofia, dalla fisica alla critica letteraria. Subito dopo utilizza tutto ciò in una sua sintesi globale fatta di simultaneità interdisciplinare [...]. Spesso si ha l’impressione di un giuoco eccitante per la mente e stimolante per l’immaginazione, che però sfugge a qualsiasi controllo»28.
Sulle prime incanta. Poi subentrano, nel lettore avvertito, diffidenza e dubbi sulla consistenza reale di tanta erudizione enciclopedica29, ed anche sulla validità delle «autorità» da lui addotte senza discuterne il valore; soprattutto quando, con molti commentatori, lo si sorprende impegnato a piegare autori ed opere alle proprie tesi. Ad esempio, quando in La galassia Gutenberg fa rientrare nel «meccanicismo» le tre scoperte – della stampa, della polvere da sparo e del magnete – che,«secondo Francesco Bacone, da sole hanno cambiato l’intera faccia e lo stato di cose di tutto il mondo» (p. 247); oppure quando fa risalire alla stampa il fenomeno del nazionalismo citando C. Hayes: il quale, invece, lo fa derivare dalla rivoluzione industriale (p. 293).
Un terzo suo equivoco procedimento probatorio consiste nell’arguire per analogia su vaghe rassomiglianze tra cose distinte e disparate. Scrive, ad esempio, ancora su La galassia Gutenberg:
«Il passaggio dal movimento circolare al movimento alternativo verificatosi nel passaggio dalla macina al pestello nella fabbricazione della carta nel sec. XII fu molto simile [?!] al passaggio che, nella stessa epoca, si verificò dalla prosa periodica ciceroniana alla prosa senechiana del periodo spezzato» (p. 207).
«Come si fa a ragionare con una persona che ritiene di potersi gettare contro una sega a nastro dal momento che i denti della sega sono invisibili? Questo è stato il destino dell’io unificato nell’età della segmentazione operata dalla stampa» (p. 327).
Quanto opportunamente M. Blondel, nel lontano 1919, esortava Teilhard de Chardin «ad evitare diligentemente di contentarsi di simboli, di immagini e di figurazioni speciose, tanto più insufficienti e devianti quanto più sembrano esatte ed esaurienti»30! E con quanta ragione Ezra Pound, in ABC of Reading – vedi un po’: uno dei libri preferiti da McLuhan! – scriveva che «con le analogie non si può provare nulla. L’analogia o è deviante o è pasticciona [...]. Usata come mezzo di prova porta soltanto a discussioni inutili»31! Quando, poi, dall’inferire per analogia McLuhan passa all’argomentazione storica, la sua efficienza probante non risulta maggiore. Forse esagera A. Bourdin, biasimando «il suo carattere provocante, che prende talvolta l’andamento di un antistoricismo tracotante»32; ed esagera B. DeMott, scrivendo di un McLuhan «storico prestigiatore [...], sapientone, che non si tuffa mai nello studio di una questione storica senza uscirne con qualche invenzione mirabolante, prima del tutto ignorata»33; sta, tuttavia, il fatto che abbondano i commentatori che, secondo le proprie competenze, lo colgono spesso in fallo; e che il giuoco riesce bene anche a non specialisti che abbiano a portata di mano qualche modesta enciclopedia. Alcuni esempi?
Egli sentenzia: «Nessuno ha mai commesso un errore di grammatica in una società non alfabetica». L’assioma, lì per lì, ti fa colpo. Ma, dissipato il fumo, rammenti che gli errori di grammatica vennero detti «solecismi» dalla città di Soli in Cilicia, i cui abitanti, duemila anni fa, ne commettevano a iosa34. Sempre in La galassia Gutenberg egli ci accerta che Leopoldo Bloom, nell’Ulisse di Joyce «ci viene mostrato nella Dublino moderna tra la frontiera contemporanea che divide l’audiovisivo dal verbale» (p. 112): evidentemente effetto della presenza dei moderni media elettr(on)ici. «Sennonché – gli precisa N. Halper – le prime emissioni radio avvennero nel 1920, mentre Joyce scriveva l’Ulisse nel 1914; e vi scriveva di un evento che faceva risalire a dieci anni prima»35.
E tutta una serie di sbagli scopri quando vi leggi: «L’effetto più spettacolare della stampa durante il Rinascimento furono le campagne militari della Controriforma organizzate da spagnuoli come sant’Ignazio di Loyola. Il suo ordine religioso, il primo dall’invenzione della stampa, concretizzò una forte accentrazione visiva degli Esercizi spirituali, nell’intensa preparazione letteraria e nell’omogeneità militare dell’organizzazione» (p. 298). Infatti – sorvolando sulle tre amenità finali –, se ti documenti un po’ scopri: primo: che il Rinascimento terminava prima che iniziassero le campagne militari della Controriforma; secondo, che sant’Ignazio di Loyola, spagnuolo o no, non ne organizzò alcuna; terzo, che la sua Compagnia di Gesù non è affatto il primo ordine religioso fondato dopo l’invenzione della stampa (1440), dato che, prima dei gesuiti (1540), erano stati fondati i somaschi (1528-1540), i barnabiti (1530-1533) ed i teatini (1524- 1533): tutti «chierici regolari» come i gesuiti.
Avanti a questi, e a molti altri errori, più di un commentatore si è chiesto se il Nostro sgarri sempre per inavvertenza o incompetenza, oppure svisi anche per calcolo. E si propende per la prima ipotesi almeno quando egli s’avventura nell’ignoto della tecnica; ad esempio trattando di «definizione» televisiva o di programmatori elettronici36. Ma ci s’inclina verso la seconda ipotesi quando egli palesemente manipola autori – come Joyce, Baudelaire e Shakespeare – rispetto ai quali si dà quale esperto.
A proposito di Joyce: il citato N. Halper, che al Poeta e Romanziere ha consacrato tutta la sua vita, chiude il suo saggio, rigoroso quanto spiritoso, su McLuhan scrivendo:
«M’interesso a McLuhan perché, dandosi come “intenditore di Joyce”, è da presumere che sia capace di dirci qualcosa di nuovo su di esso. Purtroppo non lo fa. S:ì ha letto Joyce, e legge libri su di lui. Ce l’ha in testa e, senz’altro, anche sulla lingua. Nel senso odierno del termine si può dire brillante. Ma non fa che affastellare: e ciò non gli conferisce autorità [...]. In quanto a Joyce, McLuhan scarabocchia, non pensa»37.
Per Baudelaire: in Gli strumenti del comunicare McLuhan afferma che il Poeta «in un primo tempo intendeva intitolare il suo Fleurs du mal: “Les limbes”, pensando alla città come estensione collettiva dei nostri organi fisici»; ma E. Zolla gli nota:
«Agitato dalla frenesia di battere le mani ad ogni ed a qualsiasi novità, qualche volta McLuhan diventa assurdo e capzioso. Infatti, parla della poesia di Baudelaire come presagio del mondo audiovisivo e come ritorno alla carnalità primitiva [...] argomentando dal titolo che il Poeta voleva dare ai Fleurs du mal: “Limbes”, cioè Limbi, o Labirinti. II lettore non afferra che cosa McLuhan voglia dire, finché stupefatto non capisce che egli giuoca sul termine francese limbes, visualmente simile all’inglese limbs (membra), credendo che Baudelaire volesse paragonare la sua poesia ad una specie di laparatomia di Parigi, o almeno ad una sua esplorazione carnale»38.
Per Shakespeare, valga quest’esempio. In apertura della prima edizione di Understanding Media egli scrive: «Ci si potrebbe chiedere se Shakespeare non intendesse [nel 1591!] riferirsi alla TV [?!] quando diceva in Giulietta e Romeo: “Piano, quale luce irrompe da quella finestra lassù? Ecco, parla...: e tuttavia non dice nulla”» (p. 17); ed in apertura dell’edizione paperback, dell’anno dopo, ammette candido: «Alla pagina 9 ci sono alcuni versi da Giulietta e Romeo modificati in modo bizzarro per alludere alla TV. Alcuni recensori [ingenui!] hanno immaginato che questa fosse una citazione involontariamente sbagliata»! (p. X).
Concludendo: avanti a siffatta kermesse dialettica ed a siffatto mondo logico non-lineare della «Cometa McLuhan», è difficile non condividere i giudizi severi, tra gli altri, di D. MacDonald e di N. Compton:
Scrive il primo a proposito di Understanding Media: «Si tratta di un ibrido non-senso, con qua e là qualche senso [...]. Le parti valgono più del tutto. Una pagina t’impressiona, due ti stimolano; alla quinta cominci a dubitare, a dieci i peggiori dubbi si rafforzano; e il lettore temerario è ancora lontano dall’ultima pagina quando l’accumularsi delle contraddizioni, i discorsi sconclusionati, i fatti deformati e fasulli e le esagerazioni di ogni tipo [...] l’hanno reso insensibile alle idee autenticamente originali»39.
E si chiede il secondo: «Quando si generalizza partendo da casi isolati, quando si propongono sillogismi senza mezzo termine, quando i “cosi”, i “perciò” e gli “in questo modo” si adoperano per legare proposizioni scarsamente relazionate, che meraviglia se i logici pongono il fabbricatore di siffatti sofismi a un livello che non merita di essere trattato seriamente?»40.
I vuoti di valore
Così comprovata la fondamentale «alogicità» ed «ascicntificità» del pensiero di McLuhan, potremmo senz’altro procedere allo scopo diretto e sostanziale di queste pagine: che è giudicare nel merito il suo paradosso, e – prescindendo dalle prove da lui addotte o meno – rilevare quanto in esso si salvi di utile nella prassi culturale e religioso-pastorale. Ci sembra tuttavia non disutile completare quanto s’è detto notando nella sua opera alcuni vuoti di valore; imputabili, beninteso, appunto all’opera, e non alla persona del Nostro, in quanto egli – non scienziato e non filosofo, non teologo e non moralista – sicuramente non ne è consapevole, e tenta, con le migliori buone intenzioni del mondo, di proporre in termini nuovi i problemi centrali della comunicazione sociale.
Per il primo vuoto di valore: G. Gurvitch ha un bell’affermare che vana impresa è tentare la spiegazione di quei macrofenomeni che sono le civiltà e le culture riducendone al minimo le componenti. Tutta l’impresa di McLuhan poggia, di fatto, sul più rigido monismo, a tre livelli via via più monocausali. Egli infatti, come abbiamo visto, prima rapporta tutto il cambio sociale al solo mezzo ambiente; poi privilegia in esso i media di comunicazione propriamente detti; infine considera questi media esclusivamente nei loro rapporti col sensorio umano.
A questo primo vuoto, diciamolo, scientifico, ne affianca un secondo più grave, filosofico. Per quanto esuli dal volere e dal potere di McLuhan l’inquadrare il proprio pensiero in precise correnti filosofiche, sta il fatto che, leggendolo, si rileva come sul problema fondamentale filosofico della conoscenza umana egli segua due correnti inaccettabili, quali quella di un empirismo, diciamo, alla Berkeley-Hume, e quella di un sensismo, diciamo, alla Condillac41. Di qui le note accuse rivoltegli dai critici, di «determinismo tecnologico» (R. Kostelanetz), «materialismo culturale» (R. Barilli), «tecnomorfismo» (E. Rescigno), di «profetismo tecnocratico» e «sensualismo» (F. Balle), di «riduzione ossessiva al sensoriale tecnologico» (E. Morin)...
Un altro vuoto di valore, questa volta etico-sociale, riguarda lo spazio di libertà – quindi anche di responsabilità, personale e sociale – che in pratica lasci oggi agli individui umani questo suo tecnomorfismo. Per quanto la cosa possa sembrare singolare, McLuhan non si è mai posto di proposito la questione. Però, deducendo a priori dal suo determinismo, occorre concludere che detto spazio è propriamente nullo. E più o meno alla stessa conclusione si giunge anche partendo dalla sua automatica parusiaca visione dell’azione globale, culturale ed etico-politica, dei mass media nel mondo d’oggi: cioè il trionfo della Galassia Marconi su quella declinante di Gutenberg. Non per nulla siffatto suo profetico scaricare ogni effetto sociale sui media elettrici gli attirò il favore degli studenti americani negli anni della contestazione ’67-’68:
«Gli stessi organi dei grandi media, che già avevano generato la pop art, e stavano per diffondere le droghe, gli happening e il camp, trovarono nel Professore canadese una giustificazione per continuare a fare, senz’arrossire, quello che con tanta grazia McLuhan affermava che avevano fatto del tutto naturalmente»42.
E non senza qualche ragione, in seguito, alcuni autori – marxisti e non marxisti – l’hanno accusato di favorire, con questo suo automatismo tecnologico, l’evasione dei giovani (e dei non giovani) dai reali e gravi problemi del mondo d’oggi, più o meno riflessi anche dai mass media. Vero è che verso il 1972, al dilagare del consumismo, della droga e del terrorismo nel mondo, pare che la sua parusiaca visione dei media elettrici si sia andata annebbiando, se non anche del tutto oscurando. Ma proponendo, questa volta, come unico rimedio un pessimistico e drastico: «Togliere la spina!», egli non desiste dall’attribuire ai mass media un determinismo (psicologico), riducendo la libertà dei recettori ad un’inattuabile utopia, se non ad una boutade.
Un ultimo vuoto è di natura etico-religiosa. Più di un autore, veramente, lo ignora, dalla sua indubbia vita di cattolico praticante inferendo una sua posizione cristiana-cattolica di pensatore:
Scrive G.I. Stearn: «Occorre ricordare il cattolicesimo di McLuhan, e il suo debito rispetto al pensiero scolastico. Egli dice: o da tutto questo tiriamo fuori un’unità, o finiamo nel caos»43. Osserva N. Compton: «Se, malgrado l’analisi pessimista del mondo americano, McLuhan non è pessimista, ciò dipende dalla sua fede cattolica»44. Per U. Saxer c’è «un’esigenza cristiana in McLuhan: egli pone la sua normativa nella linea del messaggio cristiano. I suoi media sono possibili trasmettitori di salvezza»45; mentre, per R. Esposito, McLuhan apparterrebbe senz’altro «all’ambito della profezia e dell’annunzio di messaggi culturali capaci di offrire all’umanità un’ancora salvifica»46.
Ma si tratta di affermazioni scarsamente attendibili, non foss’altro perché si rifanno a momenti del pensiero e della personalità di McLuhan del tutto diversi; come, del resto, è inattendibile l’affermazione dell’amico W. Ong, che infatti riguarda il lontano McLuhan della Sposa meccanica: «McLuhan non parla mai né di dogma né di liturgia, ma apre centinaia di prospettive praticamente riguardanti ogni settore della vita cattolica. Avendolo conosciuto alla St. Louis University e poi all’Università di Toronto, sono sicuro che egli lo fa a ragion veduta»47.
Personalmente, a proposito di valori etici pensiamo che sia da rilevare nell’opera di McLuhan un costante assenteismo morale, dandosi egli come «esteta» e rifiutandosi come «moralista»; e pensiamo, inoltre, che specie in alcuni suoi scritti più recenti, sia da notare un’evoluzione dell’etica sessuale, che non si comprende bene se si limiti a rilievi sociologici di fatto, oppure se avalli il tramonto di valori etici e cristiani. A proposito, poi, di suoi apprezzamenti più o meno critici di fatti ecclesiali – liturgia, latino, catechesi, magistero... – appare una conoscenza teologica piuttosto sommaria ed approssimativa. Infine, a proposito dell’insegnamento della Chiesa in tema di comunicazione sociale e di mass media – centinaia di documenti, molti dei quali recenti e recentissimi –, si nota in McLuhan una totale ignoranza (o misconoscenza?). Nel profluvio delle «autorità» da lui, come abbiamo visto, utilizzate nei suoi scritti ed interviste, di tale insegnamento della Chiesa egli riporta soltanto tre righe: d’interesse secondario, del lontano 14 luglio 1955, riportate fuori del proprio contesto, e con la data sbagliata.
Fortunatamente – come vedremo in un prossimo saggio conclusivo – quanto di valido e di utilizzabile si salva dal paradosso del Nostro, non viene infirmato dall’alogicità e dai vuoti di valore del suo mondo di pensiero.
1 Cfr E. BARAGLI, Il caso McLuhan - L’uomo, le opere, il pensiero in Civ. Catt. 1980 II 433. Anche in questo secondo articolo si presentano – ridotto al minimo l’apparato di documentazione e di note – alcune linee di quanto largamente si espone e si discute nell’omonimo volume di prossima edizione: E. BARAGLI, Il caso McLuhan, Roma, La Civiltà Cattolica, 1980, 8º, 428.
2 Ad esempio, fuori d’Italia: Balle, J.M. Bermudo, K.E. Boulding, A. Bourdin, J. Carey, J. Cazeneuve, N. Compton, S. Finkelstein, R. Kostelanetz, E. Morin, R. Riesman, R. Rosenthal ed U. Saxer; e in Italia: G. Barbiellini Amidei, R. Barilli, U. Eco, G. Gamaleri, C. Pellizzi ed E. Rescigno.
3 G.I. STEARN, McLuhan Hot & Cool, New York, Dial Press, 1967; che seguiamo nella versione francese Pour ou contre McLuhan, Paris, Seui!, 1969. Annota il Compilatore: «Questo libro [...] è una galassia di opinioni. Ho scelto saggi e critiche, commenti ed interventi, riguardanti McLuhan, ed anche qualche passo dello stesso: il tutto incluso nel periodo che va da La sposa meccanica, del 1951, a La galassia Gutenberg, del 1962, sì da documentare la genesi delle idee che dovevano maturare nei libri successivi. I pezzi, più di 20, non recano quasi mai titoli e fonti.
4 R. ROSENTHAL, McLuhan: Pro & Con, New York, Funk & Wajlnalls, 1968; che seguiamo nella versione castigliana: McLuhan: Pro & Contra, Caracas, Monte Avila, 1969. Raccolta di 22 saggi (oltre un Prologo dello stesso Rosenthal) di autori USA o canadesi, quasi tutti molto critici.
5 Né meno pesante è la mano di alcuni osservatori quando, dagli epiteti, passano a giudizi più o meno articolati. Scrive R. ESCARPIT (in Scrittura e comunicazione, Milano, Garzanti, 1976, 75): «Il pensatore canadese è senza dubbio il profeta più popolare dell’era elettronica, ma al tempo stesso, o è un genio coscientemente al servizio della società del consumo, oppure è un genio incapace di frenare l’abuso della sua visione da parte di chi ha interessi commerciali e politici ben precisi»; B. Lieberman (in G.I. STEARN, op. cit., 219) scrive di «un ammasso di teorie zoppicanti, di generalizzazioni tanto dommatiche quanto gratuite di discorsi sconclusionati, di frasi vuote di logica, di osservazioni tra parentesi slegate dal contesto, e di salti spettacolari tra una cima oscura e un’altra»; ed il già cit. Ferri: «La sua “scienza” prende il carattere di una rivelazione di esplosiva originalità, e causa una eco che sarebbe da ammirare se non fosse una melanconica prova della massiccia ignoranza dei suoi adepti [...]. Il mondo di oggi è infestato da queste “nuove scienze” e da queste “nuove filosofie”, figliate da fisici che la fanno da sociologi, da paleontologi che la fanno da filosofi, da professori di lettere che si scoprono antropologi. È il caso di McLuhan!».
6 Uno dei primi seguaci di McLuhan, suo collaboratore alla Fordham University di New York, ed ivi direttore, dal 1965 al 1970, del Center for Understanding. Suoi scritti sono in G.I. STEARN, op. cit., 36, e in R. ROSENTHAL, op. cit., 269. Nel 1972 ha pubblicato Doing the Media.
7 Autore di Una sociologia del cinema, Milano, Angeli, 1977 (Civ. Catt. 1980 I 97).
8 Suoi scritti ed interventi specialmente in Teoria dell’informazione, a cura di J. ROGER, Bologna, Il Mulino, 1974 (Civ. Catt. 1977 I 199).
9 Ed oggi incaricato di teoria e tecnica della comunicazione di massa all’Università di Autore specialmente di La galassia McLuhan: Il mondo plasmato dal media?, Roma, Armando, 1976, e dell’Introduzione a M. McLUHAN, La galassia Gutenberg, Roma, Armando, 1976 (Civ. Catt. 1976 IV 615).
10 Di suo, oltre al più recente volume La massificazione non esiste, Roma, Paoline, 1978 (Civ. Catt. 1979 IV 96), cfr, tra l’altro, Un trapasso è in allo nella pastorale catechetica, in Seminarium XXVII (1975), In particolare per il settore pastorale-catechetico egli ha scritto: «Tutti i sociologi e i catecheti che intendono realizzare l’integrazione del dialogo infraumano e saIvifico tenendo conto dei mass media si rendono ben conto che solamente con l’impostazione mcluhaniana è possibile concludere qualcosa di costruttivo [...] ; le sue prese di posizione, che si amano definire “paradossali” [...], per loro natura – si pensi a Darwin, a Freud, a Teilhard de Chardin; vale a dire a tutti gli esploratori dello spirito – hanno una componente fantasiosa e futurologica. Ma nessuna impostazione meglio di questa si presenta disponibile per l’assunzione calcolatamente ottimistica dei mass media». (Profilo dell’uomo audiovisivo, in Sussidi per la catechesi, marzo-apr. 1973, 4).
11 Cfr R. ROSENTHAL, op. cit., 73. Molti autori hanno rilevato le affinità poetico-profetiche tra McLuhan e il p. Teilhard de Chardin; ma, salvo sviste, nessuno ha notato la ambiguità dei termini comune ai due.
12 Perché a detto anno pare che risalga l’ultima scoperta di McLuhan, cioè la coppia «figura»-«sfondo», nel senso proposto dallo psicologo danese Edgar Rubin nel lontano 1915. Cfr in proposito il recentissimo M. McLUHAN – K. HUTCHON – E. McLUHAN, La città come aula, Roma, Armando, 1980; dove il Nostro, ignorate ormai le coppie caldo-freddo ed esplosione-implosione (nonché gli emisferi cerebrali, per far capire il linguaggio e i media ricorre soltanto, appunto, alla «figura»-«sfondo».
13 Secondo la quale due fenomeni si considerano isomorfi quando, avvenendo in ambienti diversi – l’uditivo, il visivo, il tattile... – producono analoghe reazioni sensoriali o emotive in chi li percepisce.
14 Cfr F. BALLE, Institutions et publics des moyens d’information, Paris, Mont-chrestien, 1973, 125-128 (cfr Civ. Catt. 1976 III 197).
15 Ora, contrariamente a quanto sembra pensarne McLuhan, la storia della cultura umana, di «esplosioni» ne conta poche assai; e quasi soltanto in tempi molto a noi vicini, caratterizzati appunto da mutamenti rapidi e profondi, coinvolgenti zone sempre più vaste di umanità. Tali, ad esempio, le esplosioni energetica e demografica, dell’industrializzazione e della tecnotronica, dell’alfabetizzazione e dell’informazione, della cosiddetta opinione pubblica quale potere di pressione, e della generale presa di coscienza dei diritti fondamentali dell’uomo... Mentre in tempi via via più remoti, invenzioni – magari in sé rivoluzionarie, quali, ad esempio, la scrittura (e la stampa di Gutenberg) – ebbero nei gruppi umani risonanze, nello spazio e nel tempo, molto lente.
16 Si tenga presente che il sistema nervoso, centro della vita psichica della specie umana, si distingue in centrale e periferico. Quello centrale comprende gli organi (encefalo e midollo spinale) disposti nel canale osseo craniorachideo. Da questo si originano gli organi del sistema nervoso periferico, comprendente due strutture parallele: una detta afferente, l’altra detta efferente. L’afferente è: formata da fibre con terminali di natura sensoriale, atti cioè a ricevere gli stimoli provenienti dagli organi periferici. Ogni stimolo, nel punto colpito, modifica la fibra nervosa (stato di eccitazione locale), e se raggiunge un certo grado, si propaga lungo la fibra nervosa (impulso nervoso). Tali stimoli, trasmessi al cervello, vengono inviati alle zone deputate alla loro interpretazione: alla corteccia quelli sensitivi coscienti e dei movimenti volontari, e all’ipotalamo quelli del sistema neurovegetativo. Da questa interpretazione dipende il tipo di risposta – motoria, oppure sensitivo-emotiva – che viene portata dalle fibre: efferenti; le quali cosi attivano ed organizzano i comportamenti rispetto all’ambiente.
17 Al 1832-’35 risalgono i primi generatori meccanici di corrente elettrica; al 1837 il telegrafo Morse; al 1876 il telefono; al 1880 la lampada a incandescenza; al 1896 e al 1900 la radiotelegrafia e la radiotelefonia... Al 1906, invece, la valvola termoionica, al 1907 la radiotrasmissione delle immagini, al 1926 la televisione, al 1935 il radar ...; e soltanto negli anni ’40-’50 inizia praticamente l’era elettronica; intendendo per elettronici i dispositivi, non necessariamente di comunicazione, con funzionamento basato prevalentemente sull’uso di valvole termoioniche, tubi a vuoto o a gas, o componenti a stato solido, come i transistor.
18 Ad esempio: per N. Trubetskoj l’atto di parola (Sprechakl) presuppone una persona che parla (emittente), un’altra alla quale ci si rivolge (recettore) e un argomento (contenuto-messaggio) del quale si tratta; sicché ogni comunicazione linguistica ha tre lati, essendo, insieme, un’espressione del parlante, un appello al destinatario e una rappresentazione dell’argomento. Di K. Bühler è la tripartizione della lingua come mezzo (organon) usato da un emittente, per comunicare un messaggio su un dato estralinguistico, indirizzato ad un ricevente. E secondo R. Jakobson il messaggio richiede, in primo luogo, il riferimento ad un concetto (il referente). Concordano R. Wright e J.M. Bermudo, intendendo per contenuto l’idea obiettiva comunicata, la quale, quando si usi il codice in modo adeguato, nel recettore coincide con l’intuizione dell’emittente.
19 M. McLUHAN, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1967, 16.
20 C. PELLIZZI, L’uomo elettrico di McLuhan, in Video, sett. 1967, 36.
21 U. ECO, Il cogito interruptus, in Quindici, ott.-nov. 1967; ed anche in Il medium è il messaggio, in Marcatré, magg. 1968, 37.
22 Dopo quelle di E. Biertnaski, J. Cazeneuve, U. Morra e B. Spoletini (Civ. Catt. 1980 II 441), ecco altri tre esempi di «ragionevoli» riduzioni: «La tesi di McLuhan è la seguente: La società è sempre stata modellata in larghissima misura dalla caratteristica particolarità dei mezzi di comunicazione [...] così come dal contenuto di queste comunicazioni» (S. BAMBERGER, Christentum und Film, München, Paul Pattloc, 1968, 40). Secondo McLuhan «non è che il messaggio sia poco importante e che solo il canale meriti attenzione; ma il medium è esso stesso un messaggio che raggiunge un livello più profondo della realtà sociale» (A. BOURDIN, Marshall McLuhan: profeta o mistificatore?, Torino, SEI, 1974, 59). E secondo G. DAL FERRO (Comunicazione sociale e partecipazione, Bologna, Dehoniane, 1979) la tesi di McLuhan a p. 38 sarebbe che «i mass media non sarebbero portatori di messaggi, ma siano essi stessi il contenuto del messaggio»; invece, a p. 64, sarebbe che «è secondario il messaggio trasmesso dalla comunicazione di massa in quanto, già esistendo, cambia l’uomo»; infine, a p. 115. che «è secondario quello che i mass media comunicano rispetto a quello che essi costituiscono per l’utente».
23 C. PELLIZZI ed U. Eco, opp. citt., passim.
24 R. ROSENBERG, in G.I. STEARN, op. cit., 194.
25 H.L. GOSSAGE, ivi, 28.
26 G. WAGNER, in R. ROSENTHAL, op. cit 181.
27 Tra anonimi ed innominati, nelle sole due opere maggiori si possono contare non meno di 365 autori e di 310 opere. Per l’elenco completo cfr E. BARAGLI, op. cit., 194.
28 N. KATTAN, in Critique, mars 1967.
29 Nota D.M. DAVIN, in G.I. STEARN, op. cit., 178: «McLuhan si ritrova con un’erudizione straordinaria a proposito di fonti secondarie, ma dà l’impressione di incompetenza in quelle di prima mano, si tratti di antropologia, di letteratura greca e latina, di filosofia medievale o di teologia. In ciò egli si trova nel vicolo cieco di ogni erudito moderno, che, per voler dominare, nel breve spazio di una vita, un troppo esteso campo del sapere, fatalmente diventa specialista delle specialità, senza possederne alcuna».
30 H. DE LUBAC, Blondet et Teilhard de Chardin, Paris, Beauchesne, 1965, 23. Il quale De Lubac, in La pensée religieuse du Père Teilhard de Chardin (Paris, Aubier, 1962), consacrava all’argomento tutto il cap. XVII: Néologismes et analogies, e si chiedeva: «Dunque siamo in piena analogia, e il filosofo può tranquillizzarsi. Ma non è proprio quest’abuso analogico dei concetti che fa difficoltà allo scienziato?».
31 Riportato da R. KOSTELANETZ, in R. ROSENTHAL, op. cit., 246.
32 Op. cit., 66.
33 Riportato in G.I. STEAKN, op. cit., 244.
34 Se poi vai a consultare G. Borden, che se n’intende, vieni a sapere che «secondo la tradizione, la prima teoria organizzata della parlata orale risale a Teisias, o Corax, o a tutti e due, nel sec. V a.C., in Siracusa, per facilitare il processo legale di passaggio di proprietà. Del resto è: provato che gli antichi egiziani conoscevano già la necessità di metodi di parlare correttamente» (Introducción a la teoría de la comunicación humana, Madrid, Ed. Nacional, 1974, 31).
35 In R. ROSENTHAL, op. cit., 75. .
36 Più severo, U. Eco (op. cit.), a proposito di cervello elettronico scrive: «Quando McLuhan giuoca cinicamente con le opinioni correnti, sapendo che sono false, allora ci insospettisce. Poiché egli sa che un cervello elettronico esegue moltissime operazioni a velocità istantanea in un solo secondo, ma sa anche che questo fatto non può permettergli di affermare che “la sincronizzazione istantanea di numerose operazioni ha posto fine al nostro sistema meccanico di disporre le operazioni in una sequenza lineare”. Infatti, la programmazione di un cervello elettronico consiste proprio nella predisposizione di sequenze lineari di operazioni logiche scomposte in segnali binari. Se c’è qualcosa di poco tribale, avvolgente, policentrico, allucinatorio e non-gutenberghiano, è proprio il lavoro del programmatore».
37 In R. ROSENTHAL, op. cit., 88.
38 In R. ROSENTHAL, op. cit., 202.
39 In G.I. STEARN, op. cit., 201.
40 In R. ROSENTHAL, op. cit., 128.
41 Nei suoi scritti McLuhan ignora Condillac; mentre in Gli strumenti del comunicare (p. 95) sembra aderire in pieno a Hume scrivendo: «Nella società alfabetica occidentale è ancora plausibile ed accettabile dire che una cosa “consegue” a un’altra, come se esistesse una causa capace di determinare una sequenza del genere. È stato David Hume a dimostrare, nel Settecento, che in nessuna sequenza naturale e logica esiste un nesso di causalità. La sequenza è soltanto additiva, non causativa. L’argomentazione di Hume, disse Immanuel Kant, “mi ha destato dal sonno dogmatico”. Ma né Kant né Hume seppero individuare nell’invadente tecnologia dell’alfabeto la causa nascosta della fede occidentale nella “logicità” della sequenza. Oggi, nell’era elettrica, ci sentiamo liberi di inventare logiche non lineari».
42 L.J. WEISS, in R. ROSENTHAL, op. cit., 52.
43 Op. cit., 234.
44 In R. ROSENTHAL, op. cit., 123.
45 Messianismus und Wissenschaft bei Marshall McLuhan, in Communicatio Socialis, 1968, 2, 88.
46 Presentazione del La Galassia Gutenberg, cit. (ciclostilato), Roma 1976.
47 In G.I. STEARN, op. cit., 85.