Articolo estratto dal volume IV del 1956 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
L’influsso che nella vita morale dei cattolici di tutto il mondo esercitò nel 1936, e tuttora esercita, l’enciclica di Pio XI Vigilanti Cura sugli spettacoli cinematografici, ci urge a non far passare l’anno ventennale dalla sua pubblicazione senza riandarne gli avvenimenti che l’occasionarono, le caratteristiche che la distinsero, le relazioni che con essa hanno i recenti discorsi di Pio XII sul film ideale, e gli effetti che la seguirono1.
Da Hollywood all’Enciclica
L’Enciclica, prima che agli ordinari di tutti il mondo cattolico, è indirizzata ai vescovi degli Stati Uniti d’America, sia perché in quegli Stati più urgente s’imponeva il problema del risanamento del cinema, sia perché negli stessi il Papa trovava un esempio di attività degli onesti da additare all’attenzione di tutta la cattolicità. Alcuni dati su queste due congiunture, mentre faranno, per i meno competenti, maggior luce sul suo momento storico, ne renderanno più agevole la comprensione.
Già ai tempi del muto il cinema americano aveva tentato d’invadere tutti i mercati del mondo ed aveva segnato visibili successi, spalleggiato com’era dalla sua potente organizzazione industriale e da una solidissima attività commerciale, contro le cinematografie europee, più inclini al dilettantismo organizzativo, magari geniale e non privo di una certa cultura. Se qualche tentativo, per esempio da parte dell’Italia, aveva alimentato tra di noi audaci speranze di resistenza, il concludersi della prima guerra mondiale finì di aprire le dighe al prodotto americano sull’Europa stremata, e per essa, sul resto del mondo, che appunto allora si apriva alle forme più popolari della civiltà tecnica. Con l’invenzione poi del sonoro l’America ebbe partita vinta. Se, infatti, fin allora il cinema, esprimendosi solo con le immagini, non aveva trovato barriere nelle differenze linguistiche dei mercati, sicché qualsiasi film, al più col soccorso di brevi e facili didascalie visive, aveva potuto liberamente circolare ed esser compreso dai pubblici di tutto il mondo, una volta legate le immagini ad espressioni verbali comprensibili solo a particolari zone del pubblico, i produttori delle lingue meno diffuse si trovarono, o rinchiusi in mercati insufficienti da soli a compensarli delle spese di produzione, o ad affrontare la concorrenza in condizioni disperate, costretti come erano ad aumentare i costi doppiando i film per poi lanciarli su mercati già saturi di prodotti a buon mercato. E fu il trionfo di Hollywood.
Agli inizi del quarto decennio del secolo, l’84 per cento dei film nel mondo proveniva dall’industria americana, la quale, con i suoi quasi cinquecento lungometraggi annuali ed altrettanti cortometraggi, si assicurava nei mercati esteri il 30 per cento dei suoi introiti lordi. Calcoli probabili facevano ascendere a dieci miliardi le frequenze mondiali annuali ad essi, di cui più di tre miliardi negli stessi Stati Uniti, nonostante la crisi economica che vi allineava nove milioni di disoccupati (40)2.
Orbene, qual era la merce esportata da Hollywood? Moralmente della peggiore specie. Se negli ultimi anni del muto la produzione aveva toccato livelli di volgarità difficilmente superabili, quelli furono, e di molto, superati, quando il sonoro convocò ad Hollywood schiere di avventurieri da Broadway, i quali non esitarono a volgarizzare sullo schermo quanto fin allora era stato riservato ai relativamente pochi frequentatori dei più corrotti teatri di New York. La gara, si può dire, ingaggiata tra le diverse case, a produrre i film più censurabili, raggiunse tale spudoratezza (11) che in tutta la nazione scoppiarono, più numerose e più forti che nell’immediato dopoguerra, le proteste di privati e di associazioni, specialmente religiose3, tanto che gli stessi produttori, temendo un più drastico intervento censorio degli Stati, pensarono di sottoporsi spontaneamente a un codice che li tutelasse dai peggiori eccessi di licenza (12). Per quanto in maggioranza ebrei, essi si rivolsero al cardinale di Chicago, G. G. Mundelein, il quale incaricò della bisogna il gesuita p. Daniele Lord. Lo schema da questi steso, il 31 marzo 1930 venne integralmente accettato dai due grandi consorzi: Association of Motion Picture Producers e Motion Picture Producer’s Corporation, rappresentanti il 95 per cento della produzione americana e l’85 per cento di quella mondiale, e per essi dal presidente del secondo, il signor Will H. Hays, donde il nome di «Codice Hays» (13)4. Un comitato di censura cominciò subito a funzionare a Hollywood: chilometri e chilometri di pellicola furono mandati al macero, centinaia di soggetti scartati o modificati.
Sembrava che le cose si fossero incamminate veramente bene. Ma l’euforia dei buoni dovette presto cedere alla disillusione5, ché le cose rapidamente tornarono come e peggio di prima (14). Allora i cattolici americani si videro costretti a ricorrere a metodi più persuasivi.
L’annuale conferenza episcopale degli Stati Uniti (National Catholic Welfare Conference), radunatasi il 15-16 novembre 1933 a Washington, nominò una commissione di quattro vescovi per l’esame del problema cinematografico e per la ricerca di un’adeguata sua soluzione; questi, riprendendo un’idea lanciata già nell’ottobre dal delegato apostolico mons. Amleto Cicognani, pensarono d’iniziare un gran movimento di boicottaggio dei film censurabili, e delle sale che li proiettavano, impegnandovi i cattolici con una promessa pubblica e formale. Approvata dall’episcopato, la Legion of decency6 nell’aprile 1934 era cosa fatta. Il suo lancio venne orchestrato all’americana: lettere pastorali di vescovi, discorsi dei tremila sacerdoti addetti al reclutamento dei “legionari”, conferenze di propagandisti, proteste di alunni cattolici guidati dai loro insegnanti, radio e stampa – questa specialmente, forte di trecentodieci tra giornali e periodici, con un totale di oltre sette milioni di esemplari – polarizzarono l’opinione pubblica. In pochi mesi furono diffusi venti milioni di appositi “impegni” (Pledges), i membri della Legione arrivarono prima a cinque, e poi, già nel 1935, a dieci milioni; e, come se esse non bastassero al compito, a queste forze di urto si vennero ad unire quelle della protestante Federated Council of Churches e della ebraica National Council of Jews and Christians (18, 20, 21).
I produttori per un po’ tacquero, in attesa di un rapido decrescere dell’ondata di «fanatismo» (22, 23); poi cercarono di reagire parlando di libertà conculcata e di arte verista oltraggiata7; ma quando, dopo qualche mese, videro gli incassi ridursi del 20 per cento e altre sale chiudersi oltre quelle che la crisi aveva già sacrificate, toccati nel loro unico punto sensibile, la cassetta, issarono bandiera bianca e si recarono a Canossa, cioè a Cincinnati, e quivi, avanti alla commissione dei vescovi, riconobbero di non essere stati ai patti, accettarono le nuove condizioni e le misero lealmente e subito in esecuzione, bonificando recisamente quanto già circolava nel mercato, impostando la nuova produzione su criteri più onesti e disponendo che i gestori di sale potessero liberamente rifiutare la programmazione di film che in altri cinema avessero suscitato giuste critiche per motivi morali.
Bisogna riconoscere che della grande vittoria della Legione essi non ebbero a dolersi; infatti, migliorata la produzione, il numero degli spettatori, nonché decrescere, aumentò, tanto che il direttore dell’Harrison Reports, periodico dei gestori, poté confessare: «L’industria cinematografica non è stata danneggiata dalla Legione, come temevano alcuni pessimisti (16), anzi, come riconoscono i produttori, l’ha salvata dalla morte. Io, per conto mio, sono pronto a sottoscrivere a quest’opinione a due mani»8.
Mentre queste cose avvenivano in America, a Roma negli anni 1932-’33 si costituiva un ufficio cinematografico con lo scopo di curare e coordinare la documentazione del grande Giubileo della Redenzione; esaurito il suo compito con la produzione del film Jubilaeum, e divenuto nel 1934 Centro Cattolico Cinematografico stabile, poté concorrere a preparare la documentazione necessaria all’Enciclica, per la quale ormai i tempi erano maturi. Già nel 1930 Pio XI aveva trattato di cinema nelle encicliche Divini Illius Magistri, sull’educazione della gioventù, e Casti Connubii, sul matrimonio; negli anni 1933-’34 ne aveva fatto argomento di discorso a uomini di cinema, e finalmente nell’aprile del 1936 ne aveva parlato ai delegati del Congresso internazionale della stampa cattolica in termini tali che, chi la conosce, vi trova in nuce le grandi linee dell’Enciclica, la quale a quel tempo doveva essere pronta o quasi; sicché quando il 29 giugno di quello stesso anno essa uscì, la meraviglia fu non perché il Papa si occupasse di cinema, ma perché ne parlasse in un documento tanto solenne quanto una lettera enciclica9.
Contenuto e note caratteristiche
L’Enciclica si può dividere, grosso modo, in tre parti. Introdottosi ricordando l’operato dei vescovi americani e la propria vigile cura per le sorti del cinema e delle anime che questo mette in pericolo (1-8), nella prima parte Pio XI addita a tutto il mondo il loro esempio esponendo quanto essi hanno condotto al più lunsinghiero dei successi (9-23); nella seconda s’indugia a rilevare l’efficacità del cinema, fondata nella natura del suo linguaggio icastico e sulla vastità ed arrendevolezza del suo pubblico, e ne deduce il dovere della massima vigilanza da parte di tutti i vescovi (24-41); nella terza, prima suggerisce consigli pratici per un’opera di persuasione diretta sull’industria cinematografica, specialmente mediante la cooperazione dell’Azione Cattolica, poi dispone la pratica mondiale della «promessa cinematografica» da parte dei fedeli e la costituzione di uffici permanenti nazionali, cui assegna l’incarico di revisionare i film per darne le qualifiche morali, come pure di curare l’organizzazione delle sale cinematografiche cattoliche (42-68).
Se ad una lettura affrettata il documento pontificio può apparire, specialmente a chi non fosse in grado di viverne l’ansia pastorale che lo dettò, piuttosto scarso di contenuto ideale e legato a contingenze particolari del suo tempo e poco sensibile alle possibilità universali e future del cinema, un’attenta lettura di esso, specialmente se si rapporti alle circostanze concrete del suo tempo, ne mostra l’ardimento tempestivo, se non addirittura precorritore, e la ricchezza dottrinale che vi soggiace.
Prima di tutto notiamo che Pio XI non dubita di riconoscere nel cinema un fattore di civiltà capace d’influire profondamente nella storia umana; inoltre, che il rammarico perché di fatto fin allora esso avesse causato più danni che vantaggi alla società umana non gli impedisce di riconoscergli qualità sufficienti per diventare strumento di arte, di cultura e di elevamento morale10. Ora questi concetti, che del resto, tuttora, dalla convinzione di non molti uomini di cultura stentano a scendere al livello della grande opinione pubblica, allora si potevano dire addirittura rischiose divinazioni di pochi pionieri. Per il grosso pubblico il cinema non era niente altro che un divertimento, cui ci si poteva abbandonare senza conseguenze morali o culturali rilevanti, non diversamente dalle montagne russe o dai fuochi artificiali; nel mondo della cultura perdurava la diffidenza verso di esso, la maggior parte dei teorici rifiutandosi di considerarlo come arte; dal canto suo il mondo della produzione pareva che facesse del tutto per dimostrare fondata quella diffidenza adoperandolo solo come facile mezzo per arricchire; per giunta, le manifestazioni più deteriori del divismo, divulgate da una stampa che aveva già perduto ogni ritegno di pudore e di buongusto, contribuivano a diffondere intorno al mondo del cinema un’atmosfera equivoca di sperpero, di stravaganza e di facili costumi. Nella quasi universale disistima facevano pericolosa eccezione i dittatori, i quali in Russia, in Italia e in Germania sagacemente lo adoperavano per diffondere le loro ideologie. Pio XI si mostra molto meglio di loro documentato sull’efficacia di tanto strumento, affermando, e dimostrando che «non si dà oggi mezzo più potente del cinematografo ad esercitare influsso sulle moltitudini, sia per la natura stessa dell’immagine proiettata sullo schermo, sia per la popolarità dello spettacolo cinematografico e per le circostanze che l’accompagnano» (27); ed è strano che a molti zelantissimi apologeti o nemici dei dittatori di cui sopra non siano sfuggite alcune loro frammentarie asserzioni sul cinema e poi sia sfuggito uno schema di trattazione impegnato come quello datone da Pio XI.
Una seconda nota, che dà all’Enciclica la sua illuminata fisonomia, è l’ansia pastorale che la pervade e ne segna come il connettivo di tutte le considerazioni e disposizioni in cui si enuclea. La Vigilanti Cura, infatti, è prima di tutto – e sembrerebbe superfluo rilevarlo se non ci fosse stato chi l’ha giudicata solo su piano di arte e di cultura – un documento religioso. Se parla di cinema lo fa perché «l’argomento riguarda da vicino la vita morale e religiosa di tutto il popolo cristiano» (2); chi la scrive prova «l’angoscia... dei tristi progressi del cinema nella rappresentazione del peccato e del vizio (3, 11, 15), avanti ai quali egli piange il danno delle anime (31), la corruzione della gioventù (19, 35, 36) e dei bambini (37), l’educazione al vizio dei poveri e dei popoli semicivili (26, 34), indifesi contro il suo assalto violento, ma soprattutto l’offesa ai diritti inalienabili di Dio (10). A quest’ansia pastorale, e solamente ad essa, s’intonano i provvedimenti che il Papa consiglia o autoritativamente dispone, ponendo in essi, con un senso di giovanile ottimismo, fondate speranze di riuscita. Ed appunto questo suo non disperare avanti alla vastità del male incombente e, stante la realistica previsione sulle difficoltà, per il momento quasi insormontabili, d’influire direttamente sul mondo della produzione (45), questo suo voler contare nella buona volontà degli stessi direttamente interessati – i fedeli, e i pastori che li guidano – lo dimostrano fiducioso non solo nella bontà fondamentale degli uomini, ma anche persuaso del potere liberante della bontà e della verità, come si addice a chi efficacemente si vuole opporre all’apparentemente infrenabile sopravvalere delle forze del male e dell’errore.
Da Pio XI a Pio XII
Queste considerazioni, ed altre che uno studio meno frettoloso dei testi potrebbero suggerire, sono più che sufficienti a dimostrare quanto infondata sia l’opinione di chi, magari coll’ottimo fine di lodare i due recenti discorsi di Pio XII, ha sorpreso tra il magistero dei due pontefici sul cinema «distacchi», «abissi», «nuovi atteggiamenti della Chiesa», «linguaggio nuovo», «modificazioni notevoli», ed ha ripreso nella Vigilanti Cura «astratto e pedante moralismo», «totale pessimismo», «atteggiamento di “rottura”, che invocava controlli, austerità e, in fondo, ipocrisia»11. A parte, infatti, lo sconcerto e il dolore che proviamo nel sorprendere uno scrittore, che, per quanto si professi liberale, crediamo non avverso alla fede cattolica, giudicare in siffatti termini proprio un documento pubblico e solenne del supremo magistero ecclesiastico, il quale ripetute volte si dà per dettato dal dovere di suprema vigilanza (1, 38, 40, 41, 45, 48, 49, 67), commesso da Gesù Cristo al sommo Episcopus (= sommo vigilante), ci pare che distinzioni e condanne siano del tutto fuori luogo.
È chiaro che i due documenti sono differenti; e come potevano non esserlo? Il primo è indirizzato a vescovi, vale a dire a pastori, ed ha per scopo stimolare la loro vigilanza sui fedeli e su quanto loro può nuocere o giovare, specialmente nell’uso di film già prodotti, buoni o cattivi che essi siano; il secondo è indirizzato a gente del cinema, non tutti necessariamente cattolici o praticanti, ed ha per scopo indicare l’archetipo ideale sul quale dovrebbero modellarsi i film da produrre. Ma differenza non implica sempre superamento, né tanto meno disaccordo, men che mai in documenti del supremo magistero ecclesiastico, noto – anche prescindendo dall’assistenza divina che ne garantisce la continuità nella verità – per la sua tradizionale prudenza e ponderatezza; ma, in casu, un semplice confronto di testi prova che tra i due insegnamenti non c’è alcuna soluzione di continuità. L’uno e l’altro partono dagli stessi principi immutabili di morale cristiana: – Il male morale non va fatto per nessun motivo; tutto nella vita umana: divertimenti, affari e arte compresi, dev’essere subordinato al raggiungimento del fine eterno dell’uomo e all’osservanza della legge di Dio; nell’uno e nell’altro la stessa ansia patema di premunire le anime indifese contro i pericoli di un linguaggio, non cattivo in sé, no, ma pericoloso, che, se può fare molto bene, purtroppo ha fatto e fa anche molto male; la stessa accorata preghiera al mondo della produzione perché si renda conto del formidabile potere di cui dispone e l’adoperi secondo coscienza.
Se proprio si vuole fissare un rapporto tra i due insegnamenti, questo può essere solo quello di uno sviluppo vitale. Da Pio XI a Pio XII si passa dal seme di venti anni fa alla pianta di oggi, dall’imbrigliamento di forze indomite a un piano per l’uso umano e culturale di esse. Dato che, contrariamente a quanto avvenne nel secolo XV per l’invenzione della stampa, il cinema era nato come un passatempo, più che popolare, volgare, e che per un quarantennio era cresciuto, diciamo così, allo stato brado, il problema più urgente vent’anni fa era quello di impedirgli di fare ulteriori danni irreparabili. La Vigilanti Cura risponde specialmente a questa necessità immediata: primum non nocere! Ma non ignora possibili ulteriori sviluppi positivi: tant’è vero che ne fa un cenno sufficiente, per quanto fugace. Quand’essa enumera le possibilità profondamente moralizzatrici del cinema: «Ricreare, suscitare nobili ideali di vita, diffondere preziose nozioni, fornire maggiore conoscenza della storia e della bellezza del proprio e dell’altrui paese, presentare la verità e la virtù sotto una forma attraente, creare, o per lo meno favorire una comprensione fra le nazioni, le classi sociali e le razze, promuovere la causa della giustizia, ridestare il richiamo alla virtù, contribuire quale aiuto positivo al miglioramento morale e sociale del mondo» (37), che cosa fa se non dare il tema e segnare la traccia, che Pio XII poi svolgerà e seguirà nella sua organica trattazione sul film ideale? E non fu forse proprio l’intervento tempestivo di Pio XI nel 1936 a far maturare i tempi e a preparare gli animi, sicché, vent’anni dopo, gli uomini della produzione, anche se non cattolici, fossero meno impreparati a raccogliere l’insegnamento più ampio e completo del suo Successore? Sì: più i due documenti si studiano e si confrontano, più l’omogeneità ed attualità d’insegnamento li dimostrano una sinossi inscindibile e, diciamo, sostanzialmente completa, del pensiero cattolico sul cinema.
Bilanci e previsioni
Dopo vent’anni dalla sua pubblicazione non è troppo presto per tentare un bilancio dei frutti arrecati dalla Vigilanti Cura.
I più facilmente controllabili sono quelli attinenti alla sua parte ultima, dispositiva. Oggi, si può dire, in tutti i territori cattolici funziona il servizio di segnalazioni cinematografiche (56), diffuse, oltre che con pubblicazioni proprie dei centri che le forniscono, dalla più parte dei giornali cattolici e, frequentemente, con affissi o tabelle alle porte delle chiese. Anche gli uffici permanenti nazionali di revisione (58) sono da anni un fatto compiuto in tutto il mondo: all’inizio del corrente anno ventennale se ne contavano ben ventinove, per la maggior parte affidati, come l’Enciclica auspicava, agli organismi centrali delle Azioni cattoliche nazionali12; l’organizzazione delle sale cinematografiche dipendenti dall’autorità ecclesiastica (59), specialmente in alcune nazioni, tra le quali, e avanti a tutte, l’Italia, ha segnato notevoli progressi e, non infrequentemente, brillanti affermazioni culturali ed apostoliche. Ma forse più vasti e profondi sono i frutti non controllabili statisticamente. La Vigilanti Cura smantellò prevenzioni tenaci sia nel campo nostro sia in quello avversario, preparando, come s’è detto, il terreno agli insegnamenti positivamente più espliciti di Pio XII. Se vent’anni fa non era difficile trovare, anche tra cattolici e sacerdoti, dei “benpensanti”, i quali, guidati nel loro angusto giudicare, oltre che da innata prevenzione contro ogni novità, dalle innegabili malefatte del discolo del secolo, proponevano a suo riguardo solo e sempre l’ostracismo, e se, generalizzando ed attribuendo in proprio ai cattolici una diffidenza comune allora agli uomini di cultura, quelli dell’altra sponda non difettavano di pretesti per giudicarci pavidi e retrivi, oggi, grazie specialmente all’Enciclica di Pio XI, questi casi, vogliamo sperare, non si verificano più; anzi, piuttosto veniamo accusati di troppo zelo nell’aprire sale cinematografiche, nell’occuparci del cinema come mezzo di cultura, specialmente mediante la tecnica – invenzione dei cattolici! – dei cineforum e dei dibattiti cinematografici; e non è escluso che la maggior attenzione che il pubblico di tutto il mondo oggi porta ai problemi connessi con l’industria e con l’arte cinematografica affondi le sue radici proprio nel grande documento. Un’enciclica sul cinema, infatti, bene o male che venisse accolta, secondo la devozione fedele o l’animosità prevenuta con cui i lettori riguardavano l’altissima cattedra da cui proveniva, non poteva non dare un rilievo mondiale e duraturo all’argomento da essa trattato.
Doverosa è, dunque, la nostra riconoscenza per il grande pontefice che la dettò. Ma doveroso è anche un esame di quanto le nostre eventuali deficienze di esecutori possano aver compromesso dei frutti intesi dal suo animoso progetto e stringere i tempi nell’osservanza plenaria di quanto in essa venne disposto. Se veramente, anche in Italia, la promessa cinematografica impegnerà seriamente tutti i cattolici e tutti gli onesti; se sempre, rinnegata ogni presunzione, piegheremo concordi la nostra condotta e la nostra mente ai giudizi del Centro Cattolico Cinematografico, e sapremo rinunziare, cattolicamente, anche a qualche nostro diritto, vero o presunto, per una necessaria ed urgente tutela del bene comune; se tutti, quanti facciamo il cinema nelle nostre sale cattoliche, lo faremo sempre a sussidio, diretto o indiretto, della predicazione apostolica, in nessun caso a danno delle anime; se, anche per questo scopo, nell’organizzazione delle nostre sale, e nella loro decorosa gestione, procederemo sempre e tutti uniti in quell’unione di quadri e di direttive che, come purtroppo già fa la forza dei nostri avversari, può e deve fare la forza anche nostra; il cinema ridurrà di molto il suo influsso submorale e subculturale al quale assistiamo ancora troppo spesso; anzi darà, più efficace di quanto già non lo dia, il suo contributo «all’estensione del regno di Dio in terra», elevandosi sempre più «alla dignità di strumento della gloria di Dio»13.
Alla fiduciosa ed animosa concordia nostra e di tutti gli onesti la sodisfazione di concorrere perché si avveri l’alto ideale additato dai due sommi pontefici Pio XI e Pio XII a tutto il mondo del cinema.
1 Pio VI, Lettera enciclica «Vigilanti cura» (29 giugno 1936) Ai capoversi di essa rimandano i numeri in parentesi che sono nel nostro articolo.
Il nostro padre Barbera rileva gli insegnamenti pastorali in essa contenuti in Civ. Catt. 1936, III, 177-185.
2 Per alcuni dati sull’invasione dei mercati mondiali da parte del cinema americano prima e dopo l’invenzione del sonoro, cfr P. BACLIN, Histoirie économique du cinéma, Parigi 1942, pp. 43 ss., 54 ss.
3 Tra le quali le fiorentissime congregazioni mariane e la International Federation of Catholic Alumnae. Statistiche del tempo fanno ascendere a circa un miliardo e mezzo le presenze annuali a tali spettacoli da parte di giovani sotto i 21 anno, e a più di mezzo miliardo quelle dei ragazzi sotto i 14 anni.
4 Essi controllavano le otto più grandi compagnie di Hollywood, e cioè: la Metro Goldwyn Mayer Corporation, la Fox Film Corporation, la Paramount, la R.K.0. Pictures, la Warner Bross, l’Universal Pictures Corporation, la Columbia, la United Artist Studio Corporation; quest’ultima composta da un certo numero di piccoli produttori, quali la Douglas Fairbanks Corporation, la Mary Pickford Corporation, la Charles Chaplin Corporation. Per la storia del Codice Hays e di quanto lo seguì fino alla Legione dell’onestà, cfr l’articolo dello stesso padre DANIELE LORD S.I., La legione della decenza negli Stati Uniti in Rivista del Cinematografo, 1938, n. 2, pp. 25-28.
5 Di questa euforia risente l’articolo del nostro p. BARBERA: L’autocensura dei produttori della cinematografia in America (Civ. Catt. 1931, III, 209-217), il quale termina osservando: «I produttori americani, con il Codice di autocensura impostosi, hanno coraggiosamente rotto il circolo vizioso, per parte loro, dichiarando al pubblico: d’ora innanzi c’impegnamo a darvi pellicole varie ed attraenti, sì, ma oneste; sta ora a voi, se siete onesti, di cooperare con noi con la vostra accoglienza favorevole... Concludendo sul Codice americano di autocensura, possiamo dire che esso è un fatto veramente singolare e importantissimo per il risanamento morale del cinematografo in tutto il mondo; perciò l’opinione pubblica e la stampa che la guida devono accoglierlo con plauso e cooperare alla sua conoscenza e alla sua osservanza, anche con la critica di quelle cinematografie che da esso si dimostrassero difformi» (ivi, pp. 216-217); ma lo stesso scrittore, tre anni dopo, era costretto a scrivere: «È stata invece una delusione, anzi un tradimento» (ivi, 1935, I, 10).
6 In italiano fu resa, alla lettera, con Legion della decenza, non pensandosi che il termine decenza non corrisponde, se non in parte, all’inglese Decency e al latino decentia con cui lo rende l’originale pontificio; perciò nel nostro testo proponiamo il più corretto Legione dell’onestà. Per le vicende di questo movimento cfr, oltre al già citato articolo del p. D. LORD S.I., Una grande vittoria dei cattolici degli Stati Uniti d’America (L’Osservatore Romano: 12 luglio 1934), e Legión de la decencia (in Revista internacional del cine, 1949, n. 1, p. 21 s.), scritto dalla signora JAMES F. LOORAN, presidentessa della sezione cinema nella International Federation of Catholic Alumnae, alla quale, occupandosene essa già in proprio da una decina di anni, dalla stessa Legione fu affidato l’esame sistematico dei film per il loro giudizio morale.
7 Tra i primi a darne notizia in Italia, il Corriere della Sera (19 giugno 1934) commentava: «Come si vede è una cosa seria. E Hollywood? Chi dice che è annichilita, chi dice che si prepara alla controffensiva e che i produttori abbiano già stanziato un fondo segreto di venti milioni di lire per controbattere la campagna»; e finiva ammonendo: «Quest’azione in grande stile dei cattolici d’America va attentamente seguita perché potrebbe avere degli effetti anche in Europa». Infatti...
8 Riportato dal p. D. LORD S.I., art. cit. - G. SADOUL, condendo con saporosi anacronismi i suoi apprezzamenti di marxista di stretta osservanza, della Legione parla in questi termini: «Questa potente associazione era stata fondata nel 1933 dai vescovi americani dietro l’incitamento personale del papa Pio XI, che aveva recentemente (?!) consacrato al cinema l’enciclica Vigilanti Cura... A dir il vero la decenza, il pudore, e perfino gli interessi religiosi, non sono gli scopi principali del Codice e della Legione. L’alto clero cattolico americano difende le posizioni politiche più reazionarie...» (G. SADOUL, Vita di Charlot, Torino 1952, pp. 206-207).
9 Per questi testi cfr Le cinéma dans l’enseignement de l’Église, Città del Vaticano 1955, pp. 5-22.
10 I limiti di un articolo non ci permettono di sviluppare e documentare come vorremmo questi punti. A semplice titolo indicativo notiamo che Pio XI riconosce che il cinema è un’industria (46, 59), può servire e serve di fatto per un onesto svago (15, 23, 24, 26, 32, 40, 48, 51), ma può essere arte (3, 10, 11, 16, 22, 35), mezzo d’istruzione e di educazione (5, 8, 32, 38, 40, 44), anzi può essere veicolo moralizzatore (6, 7, 51) e mezzo di estensione del Regno di Dio nella terra (10, 32, 67).
11 G. DI GIAMMATTEO, La Chiesa e il cinema da Pio XI a Pio XII, in Il Ponte, 1955, n. 11, pp. 1749-1751. Lo stesso critico, cortesemente discutendo un nostro parere sul Tetto (1956), di De Sica-Zavattini, e sul premio attribuitogli dall’O.C I C., avanzando un «tentativo di spiegazione» sul mutato atteggiamento dei cattolici rispetto al cinema neorealista, lo individua nel «discorso del Papa sul film ideale», affermando perentoriamente: «Se prima ne eravamo convinti, ora ne abbiamo la certezza assoluta, quel discorso può costituire una specie di spartiacque nella posizione dei cattolici rispetto al cinema» (Cronache del cinema e della televisione, 1956, 15, p. 19). Orbene. ci pare che oltre ad un manco di obiettività nella questione de iure, di cui discutiamo nel testo, egli non sia nel vero anche nella questione de facto, dato che l’O.C.I.C., prima del Tetto, aveva premiato Vivere in pace, di Zampa (Bruxelles 1947), Cielo sulla palude, di Genina (Venezia 1947), Due soldi di speranza, di Castellani (Cannes 1952), La grande speranza, di Coletti (Berlino 1954), La strada, di Fellini (menzione speciale a Venezia 1954), Amici per la pelle, di Rossi (Venezia 1955), tutti nel filone della corrente neorealista o non molto lontana da essa.
12 Cfr Le cinéma dans l’enseignement de l’Église, cit., pp. 493-546.
13 Pio XII, Discorso «Il film ideale» (1955), n. 48.