Articolo estratto dal volume IV del 1983 pubblicato su Google Libri.
Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.
I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Può la televisione parlare di Dio? E, se può, come deve farlo? E come, in Italia, lo fa la RAI-TV? Alle prime due domande – la terza li trova quasi tutti consenzienti in un giudizio, tutto sommato, negativo – non pochi sociologi e massmediologi, filosofi e teologi, danno risposte variamente dubitative, secondo che rilevino più l’uno che l’altro dei quattro elementi e fattori del processo comunicativo televisivo; vale a dire: o la natura tecnica del mezzo, o le strutture economico-industriali che normalmente lo detengono, o la natura logico-spirituale (e magari soprannaturale) del messaggio, o, infine, il grado di recettività e di reattività a esso dei destinatari.
A parte, infatti, quanti ancora si rifanno all’estremistica posizione di un «demonismo» proprio del mezzo tecnico, da tempo denunciata dalla Scuola di Francoforte, e di recente dal Mander, per proporre senz’altro la soppressione di ogni televisione1, c’è stato chi ha posto in dubbio l’utilità di una predicazione (o «propaganda»?) religiosa televisiva: o perché è provato che i mass media, in ogni caso, «non convertono», ma solo confermano i recettori nelle proprie opinioni; o perché la comunicazione «per immagini», comune al cinema e alla televisione, non si presta a esprimere e trasmettere contenuti logico-razionali, privilegiando quelli fantastico-emotivi; oppure perché la sua comunicazione, sempre mediata e unidirezionale, non si confà all’esperienza interpersonale e dialogico-comunitaria caratteristica della conversione alla fede e alla prassi cristiana... E c’è stato chi ha argomentato, da una parte, con la presenza tendenzialmente oligopolistica dei produttori e dei programmatori televisivi, mossi da interessi esclusivamente economici o ideologici materialistici, refrattari perciò, se non contrari, a ogni intrusione del religioso; e, dall’altra, con l’estrema estensione ed eterogeneità dei recettori, difficilmente sezionabili per fasce culturali-religiose, in ogni caso più disposti a evadere nel divertimento che a essere ammaestrati; condizionanti, quindi, per tramite dei loro indici di ascolto e di gradimento, quantità e qualità dei programmi: sempre gradevoli e per tutti comprensibili, anche se a scapito della loro completezza dottrinale e della loro ortodossia.
Quarantadue intervistati
Recentemente la questione ha interessato anche la pubblicista e collaboratrice della RAI-TV Laura M. Teodori Bruni; la quale, per partecipare al concorso sugli effetti psico-sociologici della televisione, indetto nel 1979 dalla stessa RAI-TV per il XXV del suo servizio televisivo, si è proposta di svolgere il tema: La comunicazione della fede religiosa attraverso il video. Sulle prime, non confortata o illuminata da precedenti esperienze2, pensò di valutare «scientificamente» gli effetti di sensibilizzazione religiosa dei programmi sul pubblico usando i metodi del sondaggio d’opinione. Ma presto, escluso questo disegno dagli esperti del Servizio Opinioni della RAI3, ripiegò sulla raccolta di esperienze e di testimonianze singole mediante interviste, non al pubblico ma a personalità rappresentative nel mondo della comunicazione televisiva, sottoponendo loro – con qualche variante consigliata dalle circostanze – le domande seguenti:
- È possibile fare evangelizzazione attraverso la televisione, o lo schermo costituisce un diaframma insuperabile per questo tipo di comunicazione?
- Qual è il genere televisivo, e quali sono i meccanismi del linguaggio televisivo più adatti alla comunicazione del messaggio religioso?
- Quali consigli darebbe a un professionista televisivo che volesse fare evangelizzazione attraverso la televisione?
- Nella programmazione della RAI-TV c’è comunicazione della fede religiosa?
- I programmi religiosi della televisione sono utili all’evangelizzazione?
- Qual è il programma della RAI-TV che l’ha maggiormente colpito per la sua carica religiosa?
- Opere televisive come Gesù di Nazareth, L’Albero degli zoccoli, Mille, non più mille, possono fare evangelizzazione?
Il recente volume che raccoglie i testi delle quarantadue interviste4 ben merita qualche parola di presentazione e di commento.
Può la televisione «evangelizzare»?
Va, intanto, rilevata la buona attendibilità delle opinioni sollecitate e raccolte dall’inchiesta, dato lo status di «competenti» comune agli intervistati, in quanto: o direttamente «addetti ai lavori» – quali gli autori, i programmisti e i dirigenti della RAI-TV –, oppure «dottrinari» – quali i docenti di sociologia o di massmediologia, i critici e i teologi5 –; e date anche le loro diverse appartenenze ideologiche e religiose: di credenti e di non credenti, di cattolici, protestanti o ebrei. E va notato che proprio questa varietà di competenze e diversità di provenienze, fin dalla prima questione: Può la televisione parlare di Dio?, ha fatto rilevare l’eccessiva semplificazione di partenza dell’inchiesta.
Da cattolica e praticante in un Paese cristiano e cattolico, la Teodori Bruni pensava, infatti, di poter trattare tout court di «predicazione/evangelizzazione». Invece le risposte degli intervistati l’hanno subito portata a distinguere una, a più livelli, possibile diversa «presenza di Dio» sul teleschermo. Diversa, intanto, quella in un programma soltanto informativo, in cui Dio e il fatto religioso entrino come argomento non diverso da altri profani, da quella in programmi-messaggi propriamente suasòri e «di propaganda»; diversa, inoltre, quella in programmi genericamente religiosi e morali, da quella in programmi specificamente cristiani e cattolici; infine, in questi ultimi – seguendo la Evangelii nuntiandi di Paolo VI – diversa secondo che si tratti di evangelizzazione propriamente detta, cioè di predicazione volta agli ancora non fedeli, per ottenerne una prima adesione alla fede; di catechesi, diretta a una conoscenza ulteriore della fede nelle sue implicazioni dottrinali e morali; di omilia, diretta alla comunità cristiana per farla vivere nella fede già accettata e: conosciuta; e, infine, di possibile partecipazione diretta alla pratica cultuale e sacramentaria.
Di fatto, proprio seguendo queste distinzioni differiscono le opinioni espresse dagli intervistati. Per esempio: sono ovviamente senz’altro affermative a proposito di possibile «presenza di Dio» in programmi «religiosi» secondo la prima accezione: culturale informativa; mentre sorprendentemente negative ne sono due rispetto all’ultima accezione: cultuale e sacramentaria6. Più o meno problematiche, invece, risultano, anche rispetto alla dottrina e alla prassi cattolica7, molte delle opinioni relative alle accezioni intermedie, secondo che si rifacciano – come, appunto, s’è rilevato sopra – o alla dimostrata inefficacia di conversione, alla tecnicità e alla comunicazione unidirezionale di tutti i Mass media, o al linguaggio per immagini della televisione, o alle materialistiche strutture economico-industriali che se ne servono, oppure alla situazione socio-psicologica disomogenea del pubblico televisivo.
Come la televisione deve «evangelizzare»?
Sostanzialmente concordi risultano, invece, le risposte sul come la televisione possa e debba trattare di Dio e del problema religioso. La maggior parte giudica senz’altro opportuna e necessaria una presenza in palinsesto anche di rubriche propriamente religiose: sia culturali e d’informazione (cattolica, ma anche protestante ed ebraica), dirette a recettori indifferenziati; e sia, per i cattolici, di esplicite rubriche – inchieste e interviste, film, telefilm e sceneggiati, opere e drammi... – di catechesi, di predicazione e, in diretta, anche di partecipazione cultuale. Ma con tre avvertenze molto importanti.
Nella prima si segnala il pericolo di ridurre in un ghetto Dio e il problema religioso, a paragone di restanti programmazioni tutte sistematicamente agnostiche, se non anche discordi e avverse, rispetto a una visione e a una prassi religiosa dell’esistenza umana. Di qui la preferenza riconosciuta in molte risposte ai programmi che di fatto «evangelizzino» senza che si presentino esplicitamente come «religiosi»8; e di qui anche la maggiore idoneità di «evangelizzazione» riconosciuta da molti intervistati al televisivo «laico» L’albero degli zoccoli, di Olmi9, piuttosto che al «religioso» Gesù di Nazareth, di Zeffirelli10.
Nella seconda osservazione si rileva la scarsa idoneità comunicatorio-suasiva del mezzo televisivo rispetto ai contenuti-messaggi religiosi soltanto dottrinali-verbali, magari teologicamente più completi, rispetto alla maggiore efficacia di quelli che incarnino modelli di comportamento in immagini di vita vissuta: anche meglio se li adducano, non come esempi avventizi di una precettistica o di un’apologetica religioso-morale, ma come testimonianza, in diretta, di vita religiosa e cristiana autenticamente vissuta. In proposito le risposte ricordano le figure esemplari di Hélder Câmara e di Raoul Follerau, di Teresa di Calcutta e di Martin Luther King..., e specialmente di Paolo VI nella vicenda Moro, e i funerali di Bachelet.
Scrive un critico comunista: «C’è stato qualche fatto, attraverso la televisione, che m’ha colpito: la lettera di Paolo VI alle Brigate rosse, i funerali di Vittorio Bachelet, in cui è stata protagonista una famiglia dalla forte fede cattolica, con una capacità di affrontare la realtà di livello indubbiamente superiore a quello politico generale del Paese» (p. 22).
E scrive una programmista cattolica: «Una trasmissione che credo abbia toccato profondamente la gente è stata quella dedicata ai funerali di Bachelet; la famiglia ha saputo conciliare l’ufficialità dei funerali di Stato con la partecipazione liturgica viva della comunità cristiana, a cui apparteneva la Vittima. La preghiera dei fedeli, pronunciata dal figlio, con parole di perdono, ha scosso profondamente tutti i partecipanti e il pubblico televisivo. Attraverso la trasmissione dei funerali di Bachelet la televisione ha comunicato un’esperienza di fede. Il telespettatore è stato indotto a questa riflessione: cos’è che dà forza a questa famiglia?» (p. 65).
Infine nell’ultima osservazione, inattesa da parte di alcuni «laici», si rileva la necessità, a fianco di una buona professionalità, di convinzioni religiose e cristiane negli autori televisivi, se si vuole che dai loro programmi, anche non «religiosi», né di argomento religioso, quasi traspiri naturalmente la più suasiva testimonianza «evangelizzatrice». Alla domanda dell’intervistatrice: Quale consiglio darebbe a un professionista televisivo che volesse fare evangelizzazione, rispondono:
«L’importante è vivere in prima persona questi problemi, cioè essere cristiani sul serio, dunque col desiderio di comunicare anche agli altri la fede» (Cavalieri, 54). «Il primo consiglio è vivere fino in fondo la propria fede, di sentirla come componente fondamentale della propria realtà personale» (Ceriotti, 57). «Non esistono ricette per fare meglio degli altri trasmissioni religiose. Dipende da ciò che si ha dentro» (D’Alessandro, 79). «L’importante è non separare la vita dalla fede, e che ogni autore esprima i valori in cui crede indipendentemente dal genere del programma e del tema trattato» (Fasciolo, 95). «Il problema è di esprimere quello che uno ha dentro di sé. Chi ha una concezione cristiana della vita la metterà fuori in ogni momento raccontando i fatti» (Fuscagni, 98).
Come «evangelizzare» la RAI-TV?
Tre rubriche religiose televisive cattoliche trovano altrettanti spazi fissi nell’attuale palinsesto della RAI-TV; e tra gli intervistati non manca un addetto ai lavori che ne dà ampia notizia in un’aura di comprensibile interessato ottimismo11. Ma più sono gli intervistati che muovono critiche piuttosto pesanti contro una RAI «in cui il settore religioso della TV, fino alla direzione di Bernabei, era considerato marginale, ma serio; e dove successivamente è rimasta la considerazione della marginalità, ma è venuta meno quella della serietà» (Gaiotti, 102.).
La critica più ricorrente è quella della prevista «ghettizzazione» del sacro e del religioso. Scrivono:
«Preferirei che fossero i servizi speciali del telegiornale, i Tam-Tam, e simili, a parlare, come avviene in Francia, di cose riguardanti la religione. I problemi religiosi non dovrebbero essere trattati isolatamente, ma nei programmi di argomento generale. Inoltre, e questo è il fatto che ritengo più grave, la visione del mondo che viene veicolata dai programmi di fiction (teleromanzi, originali televisivi, ecc.) e dai programmi culturali, prescinde totalmente dal fatto religioso, con evidente forzatura su quanto avviene nella realtà» (Cavalieri, 53).
«Le rubriche religiose sono il prodotto di un senso di colpa della RAI per aver sempre ignorato il fenomeno religioso in Italia, o per averlo imposto in maniera massiccia, e abbrutente, concentrando le trasmissioni sul vertice della Chiesa [...]; dimenticando che la vita della Chiesa non è fatta soltanto dal papa, ma da una pluralità [...] di sforzi di produzione intellettuale, o da una serie di testimonianze, che sono estremamente interessanti. Le televisioni di, altri Paesi si comportano ben diversamente» (Masina, 137).
«Le rubriche religiose sono state relegate in piccoli spazi rispetto all’universo di tutte le trasmissioni. Il problema, quindi, riguarda l’intera programmazione. La scelta dei programmi prescinde dalla considerazione della presenza della religiosità» (Surchi, 186).
«Di chi la colpa?» – si chiedono altri intervistati; per rispondere, forse un po’ esagerando –: «Soprattutto delle carenze dei cattolici».
«Gli attuali dirigenti della televisione sono quasi tutti di estrazione cattolica, ma il grande meccanismo della televisione se li è mangiati [...]. I buoni cattolici sono quelli che hanno fatto lo spogliarello» (Eco, 90).
«Se i cattolici italiani avessero imitato quelli francesi, che hanno dato meno importanza al partito d’ispirazione cristiana e più alla cultura, non saremmo a questo punto. Purtroppo molti di quelli che pomposamente e un po’ retoricamente potrei definire fratelli nella fede, li ho visti più impegnati a fare servizi alla Democrazia Cristiana che a fare servizi alla Chiesa e all’evangelizzazione» (Masina, 138).
«Credo che per i cristiani che lavorano in televisione ci siano due grossi ostacoli. Uno è quello della separazione tra il proprio essere cristiano e la professione. C’è gente che fuori del lavoro fa vita di parrocchia, partecipa ad associazioni cattoliche, ma quando è in televisione fa soltanto la professione, preoccupandosi semplicemente di problemi aziendali e di carriera. L’altro problema è quello di sentirsi più democristiani che cristiani» (Sorgi, 184).
Una situazione, come si vede, molto poco consolante. Potrà quest’indagine concorrere a migliorarla, richiamando quanti operano nella RAI-TV al loro senso di responsabilità nello sfruttare le loro possibilità di «evangelizzazione»? Ce l’auguriamo. E il merito andrà anche all’Autrice che l’ha condotta in porto, come pure alla stessa RAI-TV che l’ha sovvenzionata.
1 J. MANDER, Quattro argomenti per eliminare la televisione, Dedalo, Bari 1981 (cfr Civ. Catt. 1983 IV 196).
2 Fra i rari autori che prima del 1979 avevano in qualche modo trattato l’argomento sono da ricordare da parte cattolica: AA.VV., Radio-Télévision pour le Christ, Fayard, Paris 1960; J.-G. JIMENEZ, Radiodifusión pastoral, Desclée, Bilbao 1962.; E. KOLLER, Religion in Fernseben, Benziger, Zürich 1978; M. MUGGERIDGE, Christ and the Media, Hodder & Stanghton, London 1977; e da parte protestante: J.-M. CHAPPUIS, Information du monde et prédication del’Evangile, Labor et Fides, Genève 1969. Dopo il 1979, da parte cattolica è uscito AA.VV., La Chiesa dell’aria, Ed. Paoline, Roma 1981 (cfr Civ. Catt. 1981 IV 514) e, da parte protestante, G. GIRARDET, Il Vangelo che viene dal video, Claudiana, Torino 1980 (cfr Civ. Catt. 1980 IV 519).
3 Gli esperti obiettarono che, da parte del pubblico, al più si possono avere sensazioni, impressioni di favore, feed back spontanei, testimonianze personali, commenti critici favorevoli e no, indici di ascolto e di gradimento più o meno elevati, ma non prove «scientifiche» di mutati atteggiamenti spirituali e religiosi a livello di massa, data l’impossibilità oggettiva di quantificare, sempre «scientificamente», gli esiti di influenza spirituali-religiose dei messaggi, e di quelli televisivi in particolare: gradi diversi di adesione o di rifiuto, nascita di interessi mai provati, ritorni di antiche fiamme, caduta di pregiudizi o di ostilità preconcette, semplice crescita di sensibilità umana, e anche aperti rigetti.
4 LAURA M. TEODORI BRUNI, Dio in TV?, Religione cd evangelizzazione attraverso il video, Città Nuova, Roma 1983, 122. L. 10.000.
5 Fra i quarantadue intervistati primeggiano i programmisti (D. Alimenti, M. Arosio, L. Chiale, F. Coen, A. D’Alessandro, L. Di Schiena, D. Fasciolo, C. Fuscagni, A. Gaiotti, P. E. Gennarini, G. Girardet, R. Maiocchi, E. Masina, E. Pinto, F. Rocco, C. Sorgi, D. Toaff, S. Trasatti); seguono i teorici, docenti di sociologia o di massmediologia (A. Abruzzese, S. Acquaviva, E. Baragli, U. Eco, F. Lever, V. Rovigatti, N. Taddei); quindi gli autori (G. Bettetini, L. Castellani, V. Ochetto, E. Olmi, F. Zeffirelli), i dirigenti RAI (G. Gamaleri, A. Magli, E. Milano, L. Scaffa, L. Valente), i critici (C. Cavalieri, C. Cesareo, I. Cipriani, P. Pratesi, S. Surchi); infine, due sacerdoti esperti di mass media, mons. F. Ceriotti, direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della CEI, e p. B. Sorge, direttore della Civiltà Cattolica.
6 Così, da parte protestante, G. Girardet: «Escluderei dai generi utili all’evangelizzazione i servizi di culto religioso, perché con questi si trasforma la predicazione di Dio in uno spettacolo. L’Eucaristia, che è un atto comunitario, non può essere trasformata in un teatro, ha senso nella misura in cui la gente la vive. La gente, se va in chiesa, ci va per partecipare, altrimenti non ci va. Non possiamo dare l’illusione dell’impegno e della partecipazione. C’è stata una polemica paradossale, addirittura grottesca, in Scandinavia, in ambito luterano: se nel momento della consacrazione del pane e del vino, il telespettatore potesse spiritualmente partecipare a questa comunione. Il fatto stesso che ci si ponesse questa domanda dimostrava come si fosse perso il senso della Chiesa come luogo dei credenti» (p. 112). E così, da parte cattolica, F. Lever: «La trasmissione della Messa non si dovrebbe fare. La Messa è un fatto di partecipazione: è il momento celebrativo di una comunità, dove ogni partecipante vive il segno del suo incontro con Dio. Sullo schermo non restano che immagini di un avvenimento, a cui non si è affatto partecipi. Credo che questa trasmissione non faccia scandalo soltanto perché scandalo non fa il modo con cui celebriamo le nostre Messe. Se queste fossero sentite come momenti che ha senso vivere solo se personalmente coinvolti, inviteremmo la troupe ad andarsene: credo che neppure penseremmo all’ammissibilità di simili trasmissioni» (p. 119). Sull’argomento cfr anche P. E. Gennarini, p. 108, e E. Pinto, p. 154.
7 Il pensiero del magistero cattolico è riportato dalla Teodori Bruni fingendo un’intervista finale col papa Paolo VI (p. 213) e riportandone la dottrina dalla citata esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, che per altro riguarda tutti i mass media e non la sola televisione. Rispetto a questo primo quesito in esso si afferma: che la Chiesa evangelizza quando cerca di convertire la coscienza personale e collettiva degli uomini all’annuncio evangelico; che destinatari di questo annunzio sono sia i non battezzati, sia i battezzati, perché vivano pienamente la vita cristiana; che, salvo il ricorso sempre privilegiato alla predicazione verbale diretta interpersonale, oggi la Chiesa non può fa a meno di questi media tecnici; anche se il loro uso presenta dei problemi rispetto alla tutta personale conversione alla fede e alla sua pratica quotidiana.
8 Da notare come questo criterio valga non soltanto per un’efficace azione suasoria religiosa, ma anche per la propaganda-pubblicità televisiva profana. Scrive L. SOLARI: «Non si tratta di limitarsi a dar vita a una o più apposite rubriche che, isolate nel contesto generale della programmazione, avrebbero limitata incidenza e potrebbero, in sostanza, risolversi in una sorta di “copertura” di indirizzi opposti, seguiti per tutto il resto delle trasmissioni. L’azione volta al perseguimento di determinati obiettivi deve essere tale per la sua entità da risultare un aspetto caratterizzante del complesso della programmazione radiotelevisiva» (Il persuasore al servizio del cambiamento, Lucarini, Roma 1983, 36).
9 Se ne tratta alle pp. 24, 45, 54, 57, 69, 73, 115, 136, 145, 162, 166, 171 e, dallo stesso Olmi, a p. 148.
10 Se ne tratta alle pp. 24, 39, 45, 54, 57, 62, 73, 109, 115, 121, 132, 135, 141, 146, 161, 165, 187 e, dallo stesso Zeffirelli, a p. 206.
11 L’addetto ai lavori è E. Pinto, programmista-regista della RAI-TV, già responsabile e coordinatore delle rubriche religiose della Rete TV-1. Le tre rubriche sono: Le ragioni della speranza che va in onda il sabato alle 18.40; Segni del tempo (in estate Ricerche ed esperienza cristiane), che va in onda alle 11.30 della domenica, dopo la messa in diretta; infine L’ottavo giorno, che va in onda alle 18.50 del lunedì.