NOTE
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1 Qui in gran parte sunteggio quanto ampliamente è esposto e documentato in E. BARAGLI, L’Inter mirifica, Roma 1969: L’iter conciliare, 91 ss.

2 Cfr BARAGLI, op. cit., 97 e 490.

3 Circa questo Segretariato, Giovanni XXIII aveva detto al Bea: “Credeva meglio che il nuovo organo, anziché Commissione si chiamasse Segretariato: così [...] esso poteva più liberamente muoversi nel campo, piuttosto nuovo, assegnatogli” (Cfr G. CAPRILE, Il Concilio Vaticano II, vol. I, parti I e II, Roma 1967, 59).

4 Scrisse poi D. COMPOSTA, in Gli strumenti della comunicazione sociale, Torino 1968, 35: “Il Segretariato fu radicalmente soppresso. Fu l’unico delle 15 Commissioni preparatorie a subire questa sorte. Ragioni per questo provvedimento vi erano certamente: le conosce bene S. Ecc. Mons. Felici, l’ex Segretario del Concilio; ma ne nacque, certo, un disagio. Per avere un’idea dello sconquasso provocato da questa decisione basti osservare che il Presidente dell’ex Segretariato fu nominato membro, ma solo all’undicesimo posto, nella Commissione conciliare dell’Apostolato dei laici. Più tardi fu assunto come Vice Presidente della medesima Commissione, che – come si disse – assunse la tutela del testo; il Segretario fu nominato perito, e in vece sua fu eletto mons. Galletto [...]; dei 46 componenti del Segretariato solo 4 furono eletti nella nuova Commissione. Evidentemente il testo doveva raccomandarsi da sé [...]. Rammaricarsi per questo? In parte sì: le vicende che ora stiamo per narrare lo confermano; ma in parte ci si doveva allietare: lo Schema giunse in porto tra i primi e bene; così bene che fu giudicato capace a reggersi e camminare [...] senza la tutela del padre da cui era nato”.

5 A conferma: Mons. G.G. Higgins, nell’U.S. Bishof’s Press Panel del 25 novembre 1963, avrebbe comunicato che “numerosi Padri conciliari espressero la loro opinione, in privato, che ritenevano l’argomento non tanto importante perché il Concilio promulgasse un Decreto in merito”.

6 Un perito conciliare, il noto Häring, (ivi), comunicò che “probabilmente lo Schema non sarebbe stato promulgato come Decreto [...], ma sotto forma privata. Potrebbe essere pubblicato come un’Istruzione...”.

7 Cfr BARAGLI, L’Inter mirifica, cit., 155.

8 Un intendente in materia, W. UGEUX (Le chrétien le citoyen et l’Etat avant le Décret, in la Revue Nouvelle lug-ag. 1964, 52) faceva notare, giustamente, che altre organizzazioni, pur qualificatissime, non se la sarebbero cavata meglio del Concilio. Dopo aver concesso che il Decreto comporte pas mal d’imperfections, chiude il suo saggio così: “Supponiamo che, non la Chiesa, ma un’organizzazione come l’ONU, avesse convocato gli specialisti più eminenti, con lo scopo di redigere una specie di codice sulle tecniche di diffusione, il caso non sarebbe stato troppo differente e, con molte probabilità, ne sarebbe uscito un documento con difetti anche più vistosi”, Anzi, secondo J.W. MOLE, almeno in qualche punto, col Decreto il Concilio avrebbe nettamente battuto l’ONU (cfr E. BARAGLI, L’Inter mirifica, cit. 337, nota 13).

9 EDWARD HESTON, Notes on Vatican II, Indiana (USA) 1966, 26. Nello stesso senso J. Vieujean, J.W. Mole, A. Valtierra, L.M. Pignatiello, l’Agenzia Studio e, tra i critici, R. Hyot, H. Linnerz, T. Burke, R. Serrou, R. Laurentin, S. Stuber. Cfr i relativi testi in E. BARAGLI, L’Inter mirifica, cit., 236 ss., nota 5 ss.

10 Così Opinion publique (numero speciale di Vie Catholique, 29 1964): “Si tratta di un documento conciliare che, come tale, ormai fa parte del magistero della Chiesa”. – T.J.M. BURKE (in W.M. ABBOTT – J. GALLACHER, The Documents of Vatican II, New York 1966, 318): “Questo è il primo mandato generale della Chiesa al clero e ai laici sull’uso di questi strumenti”; e, sul cinema, R. MAY (Cinecircoli, 1965, n. 6, 2): “I documenti pontifici e pastorali sul cinema (prima del Concilio) erano ricchissimi in senso dottrinario, ma non ’facevano legge’, salvo per l’aspetto normativo della Vigilanti cura. Oggi la legge esiste, e ci impone ’dovete fare’”.

11 Sentiamo, per la stampa, mons. R. STOURM (Que faut-il en penser? in TV-Revue de télévision et radio, 1964), il quale riferisce questa confessione di mons. (oggi cardinale) Guyon: “Per conto mio ho pensato a tutti quegli impiegati, specialmente nella stampa, che lavoravano senza sempre riscuotere la comprensione che le loro fatiche avrebbero meritato, ed ho gioito dell’incoraggiamento che questo Decreto apportava al loro impegno e per la conferma ufficiale che esso dava alla loro missione”; e poi scrive in proprio: “I cattolici che per lunghi anni si sono consacrati senza risparmio per porre questi strumenti al servizio del Regno di Dio, in mezzo a tanta incomprensione ed indifferenza dei propri fratelli, finalmente possono andare a testa alta. Ormai non è più lecito non prenderli sul serio, tanto meno è lecito criticarli. Il Decreto afferma che essi compiono un lavoro ecclesiale, oggi quanto mai urgente. Anzi fa di più: impegna i vescovi, non solo a riconoscere l’importanza del loro lavoro, ma ad aiutarli praticamente, ad incoraggiarli ed a vedere nella loro attività un aspetto essenziale dell’apostolato moderno”.
Per il cinema, ecco il riconoscimento di un pioniere: A. RUSZKOWSKI (in Rivista del cinematografo, 1964, n. 7, 315): “In molti paesi andavano sorgendo Uffici promossi da gruppi di persone entusiaste [...] senza però ch’essi conseguissero, nella misura auspicabile, un appoggio deciso da parte della gerarchia. Non è oggi un segreto per nessuno il fatto che soltanto alcuni paesi seguirono la raccomandazione di Pio Xl. Non mancarono, purtroppo, crisi di totale disconoscimento dell’enciclica [...]. Rimaneva una riserva circa le eventuali intenzioni di vescovi in varie regioni del mondo [...], le encicliche non potevano dare la sicurezza che la maggioranza dei vescovi del mondo avrebbero condiviso quel punto di vista. Ora che più del 92 per cento dei Padri Conciliari, vale a dire la stragrande maggioranza dei vescovi di tutto il mondo, hanno dato il loro placet al Decreto, possiamo ben dire che la materia dello storico documento è libera espressione della loro volontà, più decisa che mai, al fine di assicurare la presenza attiva della Chiesa nel mondo del cinema e degli altri mezzi di comunicazione sociale [...]. Il Decreto apre loro maggiori speranze [...]. Costatiamo che il Decreto apre una nuova epoca per l’apostolato cinematografico, e particolarmente per l’esistenza dei nostri Uffici Nazionali [...]. Il merito del Decreto conciliare è che ci conferma in questo cammino”.
E, per l’insieme di tutti gli strumenti, ecco la soddisfazione dello studioso W. UGEUX (op. cit., 49): “Tanto negli ambienti cattolici come negli altri, quanti si occupano delle scienze dell’opinione sanno ormai che la più alta autorità morale del mondo riconosce il valore capitale della loro azione e delle loro ricerche. Tutti quelli che si consacrano alla ricerca e all’insegnamento dei mass media vi hanno trovato un conforto, di cui, per dire la verità, spesso sentivano la mancanza”.

12 Per i due documenti conciliari:
 
per gli Atti personali di Paolo VI:
 
per i testi riportati dello stessi Atti di Paolo VI:
 
per le Lettere della Segreteria di Stato:
 
per gli Atti delle S. Congregazioni Romane:
 
per quelli della Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali:
 
per quelli della Communio et progressio:

13 Per la relativa ampia discussione e documentazione, cfr BARAGLI, L’Inter mirifica, cit.: Approccio al Decreto, 261 ss.

14 Precisamente in Ad gentes tre volte (nn. 19, 31 e 36), una volta in Apostolicam acruositatem (n. 8), una in Christus Dominus (n. 13), una in Optatam totius (n. 2), due nella Gravissimum educationis (nn. 0 e 4) e tre nella Gaudium et spes (nn. 6, 54 e 61). E quasi sempre in senso proprio. Fanno eccezione Apostolicam actuositatem, n. 8, dove i termini hanno un’accezione generica; e Gaudium et spes con accezione non del tutto propria al n. 54, e dubbia al n. 61. Invece esatto è il subsidia communicationis socialis di Gravissimum educationis, n. 0, dove s’intendono anche, ma non soltanto, questi strumenti.

15 Tra gli altri: J. DE VESVROTTE (Dynamique chrétienne de la communication moderne, Parigi 1966, 243 e 322): "Dans un’option résolument optimiste, les Pères du Concile ont ignoré le terme mass média”. O.B. ROEGELE (Die Autorität der Freiheit, München 1967, 355), anche se poi lamenta che nel Decreto non si siano tirate tutte le belle conseguenze implicite in esso, rileva che con questo “titolo i Padri conciliari ebbero cura di definire la sfera dei mezzi di comunicazione in tutto il loro insieme e nella struttura essenziale”. E. GABEL (Décret sur les moyens..., Parigi 1966, 384): "La formule [...] est une heureuse trouvaille [...]. Il serait grandement souhaitable que l’expression soit utilisée par d’autres milieux que les catholiques”. A. WENGER (Vatican II: Chronique de la deuxième session, Parigi 1963, 124): "Ce nom est nouveau. On ne l’a pas assez remarqué; [...] Le terme trouvé par le Sécrétariat [...] est des plus heureux et devait être retenu dans les documents de l’Eglise et dans la manière de parie, des catholiques [...]. Il comporre les avantages des autres termes, sans les inconvénients”. I. KESSLER (Dokumente des Zweiten Vatikanischen Konzil, Trier 1965, 101) rileva che il Decreto inizia con una sconfitta del tedesco e con una vittoria del latino: la sua dizione essendo più comprensiva ed esatta del tedesco Publizistischen Mittel. C. SORGI (Osservatore Romano, 10 ag. 1965): “Uno degli aspetti più originali dell’intervento del Concilio sui problemi [...] è quello di aver chiamato queste moderne conquiste della tecnica col nome di strumenti della comunicazione sociale”.
Fin troppo elogiativo N. TADDEI (Rivista del cinematografo, 1964, n. 7, 300 ss.) “Si tratta di un titolo così felice e pregnante da costituire veramente un punto di arrivo e un punto di partenza nello sviluppo in materia del pensiero della Chiesa [...]. Dando questo titolo [...] per dare la misura saggiamente e cristianamente rivoluzionaria del dono che la Chiesa ci ha fatto”. E. G. TINACCI MANNELLI (Le grandi comunicazioni, Firenze 1967, 21): “Anche i Padri conciliari hanno percepito chiaramente l’insufficienza terminologica e lo sfaldamento concettuale delle denominazioni sin qui in uso, e nel loro Decreto su queste tecniche e forme di comunicazione le hanno definite Instrumenta communicationis socialis, ripudiando nelle note i termini sin qui usati [...]. La definizione prescelta dal Decreto conciliare ha il merito di allontanarsi da un concetto ambiguo come quello di ’massa’”.
Più recentemente: CH. FORD (Caméra et mass média, Parigi 1970, 14): "Que l’on ait, ou que l’on n’ait pas, face aux moyens de communication sociale, des préoccupations religieuses, la limpidité et la logique de l’argumentation emportent l’adhésion à; une terminologie désormais invulnérable”; e A. MONTERO MORENO (La información religiosa en sus vertientes teológica y periodistica, Madrid 1969, 9): "Los estudios de la comunicación [...] se muestran concordes en aplaudir la denominacinó; [...] ’Medios de comunicación social’ ".

16 Correntemente viene detta, in italiano "Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali”. Ma la dizione deve essere intesa come ellittica di quella latina ufficiale, che è "Pontificium Consilium INSTRUMENTIS Communicationis Socialis praepositum”.

17 Nel sito Chiesa e Comunicazione è pubblicato un indice aggiornato dei Messaggi delle Giornate Mondiali delle Comunicazioni.

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Articolo estratto dal volume I del 1974 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Il 4 dicembre 1963, chiudendo la sua Seconda Sessione, il Vaticano II approvava il Decreto sugli strumenti della comunicazione sociale Inter mirifica. Mette conto, a dieci anni di distanza, sorvolando sulle ingiuste critiche cui fu fatto segno, verificare quali ne siano stati i frutti nella Chiesa.

Il Decreto esiste

Il primo frutto dell’Inter mirifica è che esso, intanto, c’è. Infatti, le alterne vicende che ha dovuto passare per venire alla luce come documento del Vaticano II non sono state tutte favorevoli; anzi, alcune, decisamente avverse1.

Favorevole fu l’interesse che alcune poche persone prestarono all’argomento fin dai primi giorni della fase Antipreparatoria del Concilio, iniziata nella Pentecoste (17 maggio) del 1959. Ad esse si deve se una delle Commissioni Interne – la Terza – della Commissione Antipreparatoria Centrale, venne incaricata di studiarlo e di discuterlo. Ma il suo stesso titolo – Dei mezzi moderni di apostolato – ne denotava l’incertezza del contenuto e dell’angolatura.

Non proprio favorevole, invece, fu il risultato della consultazione generale indetta nella Chiesa da Giovanni XXIII nel giugno ’59, e praticamente conclusa nella primavera del ’60. Membri della gerarchia, superiori generali religiosi ed istituti di studi superiori interpellati – in tutto 2.812 – inviarono 2.150 risposte, con complessive 9.348 proposte. Orbene, di queste, solo 18 riguardavano i mass media; delle quali: 15 formulate da vescovi, 3 da superiori maggiori, nessuna da istituti di studi superiori. Per giunta, le 18, unificando quelle praticamente identiche, si riducevano a 13, di cui: 7 di carattere generale, e 5 riguardanti l’uno e l’altro medium. Inoltre: circa metà erano di natura – come poi diranno i giornalisti – “moralistica”.

Quante probabilità aveva, d’introdurre l’argomento tra le materie conciliari, il “Voto” che la Terza Commissione Interna, a conclusione dei suoi lavori, inoltrava, nel marzo ’60, a quella Centrale Antipreparatoria? Forse non molte, se un alto personaggio – poi ingenerosamente bistrattato dagli stessi critici – non avesse amichevolmente perorata la causa presso Giovanni XXIII. Il quale, di fatto, accedé alla richiesta; ma, pare, all’ultimo momento e, probabilmente, su un provvidenziale equivoco. Infatti, il 30 maggio 1960, preannunciando ai cardinali la prossima pubblicazione del motu proprio Superno Dei nutu, egli comunicò che avrebbe istituito nove Commissioni Preparatorie ed un particolare Segretariato, “che potrà consentire ai Fratelli separati di seguire i lavori del Concilio”. Sui mass media non una parola. Invece, sei giorni dopo, il 5 giugno, nel Motu proprio le Commissioni diventarono dieci, ed i Segretariati due: il secondo dei quali incaricato di “trattare i problemi attinenti ai moderni mezzi di divulgazione del pensiero: stampa, radio, televisione, cinema, ecc.”.

Si considerino i termini “trattare i problemi (quaestionibus expediendis)”, che fissavano lo scopo, si direbbe tutto pratico, del Segretariato; ben diversi da quelli che fissavano lo scopo delle Commissioni: “fare oggetto di studio e di ricerche gli argomenti da Noi scelti (materias per Nos selectas studio et pervestigationi subiciant)”. L’equivoco sembra chiaro: il Papa – forse ignorando il “Voto” anzidetto, che proponeva una Commissione preparatoria dei mass media, la quale poi passasse a Commissione conciliare2 –, con tutta probabilità pensò ad un Segretariato quale organo tecnico, incaricato di assistere durante il Concilio i giornalisti ed il mondo dell’informazione in genere; scopo pratico come quello dell’altro Segretariato "Dei Fratelli separati”: assistere gli Osservatori nei lavori conciliari3. Sta tuttavia il fatto che – equivoco o no – il 30 dello stesso mese di giugno il Segretariato inoltrava alla Segreteria Generale un Elenco di argomenti da trattare, e ne faceva senz’altro oggetto di incontri di studio in vista di un testo da presentare al Concilio.

Favorevolissimo fu, in compenso, l’esito di questi incontri. Infatti, nel marzo del ’62 il Segretariato poteva presentare il suo Schema alla Commissione Centrale, e questa l’approvava, con alcuni suggerimenti, quasi all’unanimità. Lo stesso, in maggio, faceva la Commissione degli Emendamenti. Di qui la provvidenziale decisione di Giovanni XXIII di farlo includere tra le prime materie da discutere in Concilio, e precisamente nel volume degli Schemi che i Padri conciliari si trovarono nelle mani nel Primo Periodo: il che ne permise la discussione, sia pure quando esso stava per chiudersi.

Meno bene andarono le cose poi. Intanto si può dire che l’argomento entrò in Concilio per una porta di servizio, un po’ come una Cenerentola a Corte; e, pensiamo, neanche per la porta più giusta. Esso poteva rientrare, e forse meglio, anche in altri argomenti, trattati poi in altri documenti del Vaticano II; per esempio: nel ministero, la vita e la formazione sacerdotale, o nell’ufficio pastorale dei vescovi (Presbyterorum ordinis, Optatam totius, Christus Dominus), nell’attività missionaria della Chiesa, la libertà religiosa, l’educazione cristiana (Ad gentes, Dignitatis humanae, Gravissimum educationis), ed anche nella Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes); perciò – ferma restando la decisione di ridurre al minimo le Commissioni Conciliari (ed i Segretariati) conglobando quelle (e quelli) di materie affini – il Segretariato Della stampa e dello spettacolo (come sempre si chiamò) poteva venire aggregato a qualche altra Commissione; per esempio a quella De disciplina cleri et populi christiani, come, infatti, in un primo momento si pensò di fare. Fu deciso, invece, di aggregarlo – o, diciamo meglio, di attaccarlo come appendice – alla Commissione X dell’apostolato dei laici4. Forse anche a questa circostanza si devono l’eccessiva attenzione poi prestata ai rapporti tra i mass media ed i laici, ed alcune delle critiche che ne seguirono.

Ma anche peggio andarono le cose sulla fine del Secondo Periodo, quando – nella burrasca delle polemiche – l’argomento rischiò seriamente o di essere ridotto a qualche menzione generica in qualche altro documento conciliare, o di essere rimandato tutto al Magistero ordinario.

Avvisaglie in questo senso non erano mancate fin dalla fase Preparatoria del Concilio. Nel marzo-aprile del ’62, nove membri della Commissione Centrale preparatoria avevano suggerito:

“Questi Schemi sono stati preparati con massima diligenza e competenza, e contengono molte cose utilissime. Tuttavia, molti ecc.mi Padri pensano che così non possono proporsi al Concilio. Sarebbe però un vero peccato se tanto lavoro andasse perduto. Perciò occorre trovare un modo di farlo servire, in argomento di tanta importanza. Forse converrebbe che il Segretariato raccogliesse in un’Istruzione, o Epitome o Direttorio ’sui mezzi di diffusione’, tutto ciò che non conviene proporre al Concilio [...] e lo pubblicasse con l’approvazione del Sommo Pontefice. Agendo così si avrebbe il vantaggio di avere una legge non definitiva, come deve essere un decreto conciliare, ma da mutare, completare e perfezionare secondo le circostanze”.

Altre avvisaglie si profilarono, in Aula, nel Primo Periodo. Disse, per esempio – una volta tanto facciamo dei nomi – il card. G. Godfrey: “Dubito se sia materia da concilio ecumenico, e penso che sia meglio pubblicare questa materia in un documento separato. Non di tutto, infatti, deve trattare il Concilio”. E il card. L. Suenens: “Si potrebbe dare al testo un’approvazione di massima da parte del Concilio; poi, in seguito, si potrebbe pubblicare come documento del magistero ordinario della Chiesa. Intanto la Commissione potrebbe estrarne una serie di ’voti’ di carattere pastorale, come avviene nei congressi, che si concludono, appunto, con ’voti’”. E mons. G. Beck: “Il Concilio approvi lo Schema in genere, e poi rimetta tutto l’affare alla Pontificia Commissione”. E mons. D. Nezic: “Lo Schema è tanto bello e tanto utile che sarebbe un peccato tagliarlo e ridurlo. Piuttosto che permettere ciò, venga emanato come sta dalla Pontificia Commissione, a nome del Concilio, il quale lo accompagni con una sua esortazione a tutti gli interessati”; e lo stesso propose mons. A. Kozlowieki5.

E, invece, il rischio si ripresentò, e molto più pericoloso, alla fine del Secondo Periodo, quando l’ondata di opinione avversa, che vociferava di “Un Decreto indegno di un concilio” e proponeva l’alternativa: “Meglio non presentare nessuno Schema piuttosto che ritenere questo”, fruttò 503 Non placet6. Infatti, se l’Assemblea non avesse votato lo Schema nella Sessione Solenne del 4 dic. 1963, ma ne avesse rimandato la discussione-votazione a tempi conciliari più maturi, questa – come ormai s’erano messe le cose – avrebbe dovuto cercare di dotare lo Schema dell’ossatura teologico-filosofico-sociologica richiesta dalla critica francese, d’introdurvi i cinque punti dell’opposizione tedesca; e, per tacitare l’opposizione americana, tra l’altro, avrebbe dovuto ritrattare tutto il problema dell’arte-morale, rielaborare funzioni e caratteristiche della stampa cattolica, rettificare la dottrina dei rapporti fra Stato e mass media in armonia con la Costituzione americana (?!), trattare il problema dell’informazione nella Chiesa...: insomma avrebbe dovuto rielaborare uno Schema nuovo. Ora, un’impresa del genere – come bene documentò la Commissione Conciliare7 – era, allora, materialmente impossibile, e tale sarebbe restata anche durante i due successivi Periodi conciliari.

Infatti, dato e non concesso che il Concilio disponesse di altri membri, consultori e periti sufficienti per costituire una diversa Commissione di redazione, più capace di quella che aveva elaborato e proposto lo Schema, restava altamente improbabile che la stessa potesse redigerne un altro, nuovo, in tempo utile: basti osservare che la redazione di un documento molto meno impegnativo, quale la Communio et progressio, ha richiesto poi sette anni di lavoro! E restava anche più improbabile che l’Assemblea, sempre più impegnata in altri argomenti mano mano che il Concilio stringeva i tempi, avrebbe trovato l’opportunità per discuterlo con calma. Nell’ipotesi, poi, che uomini tempo e voglia si fossero trovati, niente autorizzava a credere che il nuovo Schema sarebbe stato approvato dall’Assemblea, date anche le proposte più “moralistiche” e “illiberali” avanzate da qualche centinaio di Padri.

Oggi, invece, l’Inter mirifica esiste come Decreto di un Concilio. E ciò non è poco. Non tanto perché non si possa dire anche di esso quanto Franklin notava della Costituzione americana: “Io la accetto perché non spero che ne sia proposta una migliore”8, perché migliore, almeno in astratto, certamente poteva essere; quanto perché non c’è dubbio che – come poi rilevò il futuro Presidente della Pontificia Commissione E.L. Heston – "È meglio questo Decreto che nessuno”9.

Intanto perché non solo – al dire del card. A.G. Cicognani (27 ott. 1965) – Decretum conciliare effecit ut primum in Sacra Hierarchia conscientia de hac re excitaretur, ma l’ha anche spronata, la Gerarchia, all’uso impegnato e sistematico dei mass media in funzione apostolico-pastorale, molto più efficacemente di quanto potessero mai fare altri documenti, già esistenti o futuri, del Magistero ordinario. Infatti, per i ritardatari e restii ai “segni dei tempi” si tratta ormai di un documento, non già “ricevuto da Roma”, ma discusso ed emanato da quelli stessi che vi sono chiamati a curarne l’applicazione e l’esecuzione10. Inoltre, per quelli – sacerdoti, religiosi e laici – che, spesso incompresi e lasciati soli, da anni e decenni andavano profondendo nella stampa, nel cinema e nella radio-televisione le loro migliori energie, si tratta del più solenne ed universale riconoscimento, e del più autorevole incoraggiamento che potessero sperare, a perseverare nella loro opera, ormai non più come pionieri mal sopportati11.

Ormai cardine del Magistero ordinario

Altro chiaro merito del Decreto è che esso – non “corretto” né “migliorato” da altri documenti conciliari, ma in armonia con essi – ha costituito il cardine principale ed insostituibile di tutto il posteriore Magistero della Chiesa sui mass media.

Infatti, in dieci anni, non meno di 67 volte esso vi è stato richiamato e allegato, o per applicarne le norme e per stabilire e confermare istituti in esso previsti, oppure per ribadire autorevolmente principi morali e pastorali. Soprattutto spiccano i due documenti conciliari Christus Dominus e Gravissimum educationis, e ben 24 richiami in Atti personali di Paolo VI: encicliche, discorsi, lettere, ecc.

In essi il Papa, quasi, si direbbe, per neutralizzare le critiche correnti, ha tra l’altro, qualificato l’Inter mirifica “frutto, non di poco valore, del nostro Concilio [...], che potrà riuscire di guida e d’incoraggiamento a moltissime forme di attività [...] nell’esercizio del ministero pastorale e della missione cattolica del mondo”; uno “dei molti frutti che, non senza assistenza e l’aiuto della divina Bontà, la Chiesa di Cristo ha riportato dal Vaticano II”; e l’ha lodato perché “ha parole che suonano come uno squillo, a raccolta di tutte le energie [dei Pastori e dei fedeli] buoni ed esperti”, e perché ha riservato “alla stampa parole, quali più pertinenti e più autorevoli sarebbe difficile concepire”; infine: perché ha scorto nei mass media, “con un sano ottimismo, gli strumenti meravigliosi, capaci di sollevare ed arricchire lo spirito dell’uomo”.

A questi Atti personali di Paolo VI seguono 41 richiami della Santa Sede, di cui: 16 Lettere della Segreteria di Stato, 6 Atti delle quattro S. Congregazioni Romane: dei Seminari, dei Religiosi, del Clero, dei Vescovi; e, infine, 19 della Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali, di cui 15 nell’istruzione pastorale Communio et progressio12.

 

Arricchimento magisteriale-pastorale

Chi legga i documenti del Magistero sulla stampa, il cinema, ecc. posteriori all’Inter mirifica e li confronti con quelli preconciliari, oltre a questi continui riferimenti al Decreto, non tarda a scorgervi un radicale “aggiornamento” nella visione globale dei problemi dottrinali e pratico-pastorali, ed un ampliamento degli stessi verso settori più o meno connessi con i mass media. Vi hanno influito: la nuova terminologia del Decreto, la Giornata Mondiale e le polemiche giornalistiche.

La terminologia del Decreto13 – Contrariamente a quanto una lettura frettolosa potrebbe far pensare, l’Inter mirifica, per designare la realtà che ne sono l’argomento specifico, non ne ha adoperato i comuni temini generici, ma termini specifici e declaratori, espressamente elaborati ex novo, e non senza resistenze ed incomprensioni, dagli organismi che hanno preparato il Decreto: giustamente persuasi che non si trattava tanto di semplice questione di lessico, quanto di mettere a fuoco concetti troppo confusi e, con ciò, di escludere o d’includere nel Decreto precisi interessi culturali ed altrettanto precise competenze ecclesiali.

S’è visto che la prima Commissione – del 1959 – venne detta Dei mezzi moderni di apostolato. Se ne noti l’imprecisione e la ristrettezza, non corretta dalla dichiarazione che, in realtà, si trattava delle “nuove tecniche audiovisive: cinema, radio e televisione”, alle quali poteva “essere aggiunta la stampa”. A parte l’ambiguità di quelle “nuove tecniche audiovisive” e l’arbitrarietà con cui venivano incluse in esse soltanto il cinema e la radio-televisione – insieme con la stampa, che “audiovisivo” non è –, da un lato si potevano allineare, accanto ad esse, altri “mezzi moderni di apostolato”, mentre, dall’altra, l’aspetto di apostolato non esauriva affatto i motivi che inducevano la Chiesa a proporli come materia conciliare.

Cercando di ovviare a queste incongruenze, il “Voto” del maggio ’60 già parlava di “tecniche moderne di comunicazione sociale” e di “mezzi moderni di diffusione”. Ne tenne qualche conto il motu proprio Superno Dei nutu del giugno ’60, parlando di “problemi attinenti ai moderni mezzi di divulgazione del pensiero”; tuttavia, il Segretariato in esso costituito, con termini non meno impropri, venne detto Della stampa e dello spettacolo. Ma: quale stampa? Quali spettacoli? E dove mettere la radio, che spettacolo non è? Di qui, da parte del Segretariato, la ricerca di termini più appropriati, che, da una parte denotassero le caratteristiche necessarie e sufficienti dei “mezzi moderni” che rientrassero nella sua propria competenza, dall’altra escludessero tutti gli altri mezzi – come l’editoria, il teatro, ecc. – che, per quanto culturalmente rilevanti, non le verificassero.

Prese, allora, in considerazione le terminologie più correnti – delle quali, per altro, non una era “pacifica”, neanche nella pubblicistica “laica” – e le scartò via via tutte come insufficienti o equivoche (e, ciononostante, usate ancor oggi, anche da cattolici, ed anche trattando dell’Inter mirifica). Scartò, per esempio, audiovisivi, in quanto non comprensiva di tutti i mass media e, in ogni modo, se usata rettamente, riguardante solo l’uso didattico degli stessi; e scartò anche tecniche di diffusione, o d’informazione collettiva, d’uso corrente nell’area culturale francofona: perché attenta esclusivamente alla loro tecnicità, oppure all’informazione (che è una soltanto delle loro funzioni): come pure scartò mass media e mass communications, correntemente usate nell’area culturale anglofona e altrove: anche per evitare, da parte di un testo conciliare, qualsiasi ombra di avallo all’accezione pessimistica che al termine massa – onde “massificazione” – attribuivano (e attribuiscono) fin troppi sociologi.

Dopo di che il Segretariato addivenne alla terminologia esclusivamente usata – ben 35 volte – dal Decreto, poi seguìta da altri sei documenti del Vaticano II14: Strumenti della comunicazione sociale; nella quale: Strumenti denotava la spiccata tecnicità; di questi mezzi ed, insieme, la con-presenza in essi dell’uomo causa efficiente (il che non avveniva col termine “tecniche”); Comunicazione ne rilevava la funzione propria e generalissima che portava la Chiesa (e la cultura umana) ad interessarsi ad essi molto più che non a qualsiasi altra “invenzione tecnica”, magari rilevantissima, ma meno rapportata alla comunicazione umana; infine Sociale inteso in accezione non generica, ma tecnico-antonomastica – ne denotava la caratteristica propria di agenti massimi dell’odierna socializzazione ed, insieme, di veicoli di comunicazione propri di complessi umani già fortemente socializzati.

Molti autori ne hanno giustamente rilevato la novità e lodata la precisione15; però nessuno, che si sappia, ne ha notato tutto il potenziale dottrinale e pratico. Quando, invece, intanto, essa dimostra che la visuale in cui il Decreto ha affrontato l’argomento non è affatto moralistico-clericale, bensì socio-culturale generale. Inoltre la terminologia traccia la via ottimale agli sviluppi dottrinali che – come s’è visto – irragionevolmente certa critica ha preteso dallo stesso Decreto. Infatti, è specialmente dalla loro tecnicità; che occorrerà partire per trattare la problematica industriale ed economica dei mass media, condizionante, tra l’altro, la loro espressione-comunicazione artistica, anche in rapporto alla cosiddetta “cultura di massa”; interessante, inoltre, la teologia delle realtà temporali, le questioni di competenza clero-laici, ecc. È soprattutto dal concetto di comunicazione, più che non da quello, per esempio, dell’“immagine”, che bisognerà partire negli studi di filosofia, di psicologia e di teologia dei mass media: via già tracciata da Pio XII nella Miranda prorsus ed in parte ricalcata dalla recente Communio et progressio. Ed è dal sociale rapportato alla socializzazione che occorrerà prendere le mosse per approfondire una sociologia dei mass media, nonché un’etica ed una morale a respiro, appunto, sociale.

Infine, merito non minore né ultimo della nuova terminologia (e del Decreto) è di aver indirizzato gli interessi culturali morali e pastorali, tanto degli operatori quanto dei recettori, non più prevalentemente sui singoli mass media, ma sull’azione globale di essi e sui massimi fenomeni sociali connessi con gli stessi. All’epoca del pre-Concilio, ed anche del Concilio, questa visione “profetica” era di pochi; come, del resto, in campo cattolico, non è di molti neanche oggi. Di qui, nell’elaborazione dell’Inter mirifica – e lo stesso poi s’è ripetuto in quella dell’istruzione pastorale Communio et progressio – le insistenze da parte degli esponenti delle Associazioni Internazionali Cattoliche, diciamo, “di categoria” – UIPC, OCIC e UNDA – perché il Documento conciliare trattasse largamente e soprattutto dei singoli strumenti; rispettivamente: della stampa, del cinema, della radio-televisione. Il che, tra l’altro, portò all’eccessiva lunghezza degli Schemi e, per reazione, alla loro troppo drastica riduzione; ma, fortunatamente, a vantaggio della problematica globale dei media, riducendo al minimo quella particolare dei singoli.

Questa, nel Decreto, ormai acquisita visione globale fruttava subito un risultato pratico-pastorale, crediamo, della massima importanza: l’estensione a tutti i mass media delle competenze dello “Speciale Ufficio della Santa Sede che è a servizio del Sommo Pontefice nell’esercizio della sua suprema cura pastorale” in questo settore (Inter mirifica, n. 19). Infatti, quella che Pio XII, il 20 genn. 1948, aveva istituito quale “Commissione Pontificia per la Cinematografia didattica e religiosa”, e che lo stesso Pio XII successivamente aveva sviluppato, prima (1º genn. 1952) in “Pontificia Commissione per la Cinematografia e la Radio-Televisione”, proprio per esaudire il Voto dell’Inter mirifica (Art. 19, Nota), Paolo VI, con l’In fructibus multis (2 apr. 1964), la istituiva e nominava “Pontificia Commissione degli strumenti della comunicazione sociale16.

La Giornata Mondiale - In Aula conciliare non mancarono voci contrarie ad una proposta “Giornata Mondiale” dei mass media da celebrare ogni anno nella Chiesa “per rendere più efficace il suo multiforme apostolato in questo settore” (Inter mirifica, n. 18). Una affermò che una proposta del genere disdiceva ad un Concilio — Deleatur! Non decet loqui de hac re in textu conciliari! —; altre osservarono che “Siffatte giornate annuali andavano moltiplicandosi sino alla nausea, tanto che il celebrarle diventava controproducente rispetto agli scopi intesi — Tales Dies annuales fere ad nauseam multipilcantur, adeo ut finis ad quem dirigantur, eo ipso quod celebrantur, iam diminuatur! —; altre, infine, paventarono che nuove “Giornate” venissero a snaturare ulteriormente l’impianto dell’anno liturgico... Ma si trattò di allarmi sporadici, che non si concretarono in mozioni contrarie, sicché la “Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali”, come è stata detta, oggi c’è: unica, tra le poche estese a tutta la Chiesa, indetta da un Concilio.

Orbene, a dieci anni di distanza, se bisogna riconoscere che tale provvidenziale istituzione non ha riscosso nella Chiesa tutti i frutti pastorali che era lecito attendersi, si deve riconoscere che almeno li ha riscossi, ed oltre ogni previsione, a livello di Santa Sede; la quale, infatti, ne ha preso occasione per moltiplicare i suoi interventi magisteriali via via toccando i più urgenti e vasti problemi umani ed ecclesiali connessi con i mass media. Spiccano tra essi sette Atti personali di Paolo VI, tutti relativi appunto alle sette Giornate celebrate sino ad oggi. Vale a dire: il discorso solenne da Lui rivolto nella Basilica Vaticana ai professionisti dei mass media in occasione della Prima Giornata (1967); e poi i sei Messaggi da Lui inviati per le successive, su altrettanti temi in rapporto con i mass media: Il progresso dei popoli (1968), La famiglia (1969), La gioventù; (1970), L’unità degli uomini (1971), Il servizio della verità; (1972), La promozione dei valori spirituali (1973)17.

Sono altrettanti capitoli di un ormai quasi completo Corpus dottrinale deontologico-pastorale, coronati recentemente – 23 maggio 1971 – dall’istruzione pastorale Communio et progressio, altro frutto diretto dell’Inter mirifica, che espressamente l’ha ordinata (Art. 23), ma che particolari circostanze hanno allargata a temi e a questioni estranee al Decreto. Ci riferiamo a

Le polemiche giornalistiche che l’accompagnarono durante e dopo il Concilio. Quale ne possa essere il giudizio definitivo, certo è che esse fruttarono due vantaggi. Intanto impedirono che il Documento conciliare passasse quasi inosservato, forse anche da parte dei Pastori e dei fedeli, ma soprattutto nel mondo dei professionisti dei mass media. Inoltre, resero attualissimi alcuni problemi più o meno connessi con i mass media – in particolare quelli dell’informazione e delle opinioni (pubbliche) nella Chiesa –; sicché nell’elaborazione dell’Istruzione pastorale non poterono non essere presi in considerazione, e largamente svolti. Così la Pontificia Commissione degli strumenti della comunicazione sociale si trovò a svolgere un compito suppletivo, che poteva essere svolto da altre, più competenti, istanze del Magistero; e si deve riconoscere che lo svolse in maniera che, specialmente per i giornalisti, non poteva essere migliore.

In conclusione: la Communio et progressio, unitamente con l’Inter mirifica, di cui dev’essere considerata sussidiaria e complementare, può considerarsi la Magna Carta di deontologia professionale, di prassi pastorale e di condotta personale rispetto alle cosiddette “comunicazioni sociali”. Nel suo nucleo dottrinale, dunque, l’Inter mirifica s’è dimostrato tutt’altro che “banale” e “indegno di un Concilio”. Si può dire, anzi, che sotto il profilo del Magistero questo suo bilancio decennale si è chiuso con un ottimo attivo.

Resta da vedere se lo stesso si può dire per l’attuazione pratico-pastorale del Decreto. Lo vedremo in un prossimo articolo.

1 Qui in gran parte sunteggio quanto ampliamente è esposto e documentato in E. BARAGLI, L’Inter mirifica, Roma 1969: L’iter conciliare, 91 ss.

2 Cfr BARAGLI, op. cit., 97 e 490.

3 Circa questo Segretariato, Giovanni XXIII aveva detto al Bea: “Credeva meglio che il nuovo organo, anziché Commissione si chiamasse Segretariato: così [...] esso poteva più liberamente muoversi nel campo, piuttosto nuovo, assegnatogli” (Cfr G. CAPRILE, Il Concilio Vaticano II, vol. I, parti I e II, Roma 1967, 59).

4 Scrisse poi D. COMPOSTA, in Gli strumenti della comunicazione sociale, Torino 1968, 35: “Il Segretariato fu radicalmente soppresso. Fu l’unico delle 15 Commissioni preparatorie a subire questa sorte. Ragioni per questo provvedimento vi erano certamente: le conosce bene S. Ecc. Mons. Felici, l’ex Segretario del Concilio; ma ne nacque, certo, un disagio. Per avere un’idea dello sconquasso provocato da questa decisione basti osservare che il Presidente dell’ex Segretariato fu nominato membro, ma solo all’undicesimo posto, nella Commissione conciliare dell’Apostolato dei laici. Più tardi fu assunto come Vice Presidente della medesima Commissione, che – come si disse – assunse la tutela del testo; il Segretario fu nominato perito, e in vece sua fu eletto mons. Galletto [...]; dei 46 componenti del Segretariato solo 4 furono eletti nella nuova Commissione. Evidentemente il testo doveva raccomandarsi da sé [...]. Rammaricarsi per questo? In parte sì: le vicende che ora stiamo per narrare lo confermano; ma in parte ci si doveva allietare: lo Schema giunse in porto tra i primi e bene; così bene che fu giudicato capace a reggersi e camminare [...] senza la tutela del padre da cui era nato”.

5 A conferma: Mons. G.G. Higgins, nell’U.S. Bishof’s Press Panel del 25 novembre 1963, avrebbe comunicato che “numerosi Padri conciliari espressero la loro opinione, in privato, che ritenevano l’argomento non tanto importante perché il Concilio promulgasse un Decreto in merito”.

6 Un perito conciliare, il noto Häring, (ivi), comunicò che “probabilmente lo Schema non sarebbe stato promulgato come Decreto [...], ma sotto forma privata. Potrebbe essere pubblicato come un’Istruzione...”.

7 Cfr BARAGLI, L’Inter mirifica, cit., 155.

8 Un intendente in materia, W. UGEUX (Le chrétien le citoyen et l’Etat avant le Décret, in la Revue Nouvelle lug-ag. 1964, 52) faceva notare, giustamente, che altre organizzazioni, pur qualificatissime, non se la sarebbero cavata meglio del Concilio. Dopo aver concesso che il Decreto comporte pas mal d’imperfections, chiude il suo saggio così: “Supponiamo che, non la Chiesa, ma un’organizzazione come l’ONU, avesse convocato gli specialisti più eminenti, con lo scopo di redigere una specie di codice sulle tecniche di diffusione, il caso non sarebbe stato troppo differente e, con molte probabilità, ne sarebbe uscito un documento con difetti anche più vistosi”, Anzi, secondo J.W. MOLE, almeno in qualche punto, col Decreto il Concilio avrebbe nettamente battuto l’ONU (cfr E. BARAGLI, L’Inter mirifica, cit. 337, nota 13).

9 EDWARD HESTON, Notes on Vatican II, Indiana (USA) 1966, 26. Nello stesso senso J. Vieujean, J.W. Mole, A. Valtierra, L.M. Pignatiello, l’Agenzia Studio e, tra i critici, R. Hyot, H. Linnerz, T. Burke, R. Serrou, R. Laurentin, S. Stuber. Cfr i relativi testi in E. BARAGLI, L’Inter mirifica, cit., 236 ss., nota 5 ss.

10 Così Opinion publique (numero speciale di Vie Catholique, 29 1964): “Si tratta di un documento conciliare che, come tale, ormai fa parte del magistero della Chiesa”. – T.J.M. BURKE (in W.M. ABBOTT – J. GALLACHER, The Documents of Vatican II, New York 1966, 318): “Questo è il primo mandato generale della Chiesa al clero e ai laici sull’uso di questi strumenti”; e, sul cinema, R. MAY (Cinecircoli, 1965, n. 6, 2): “I documenti pontifici e pastorali sul cinema (prima del Concilio) erano ricchissimi in senso dottrinario, ma non ’facevano legge’, salvo per l’aspetto normativo della Vigilanti cura. Oggi la legge esiste, e ci impone ’dovete fare’”.

11 Sentiamo, per la stampa, mons. R. STOURM (Que faut-il en penser? in TV-Revue de télévision et radio, 1964), il quale riferisce questa confessione di mons. (oggi cardinale) Guyon: “Per conto mio ho pensato a tutti quegli impiegati, specialmente nella stampa, che lavoravano senza sempre riscuotere la comprensione che le loro fatiche avrebbero meritato, ed ho gioito dell’incoraggiamento che questo Decreto apportava al loro impegno e per la conferma ufficiale che esso dava alla loro missione”; e poi scrive in proprio: “I cattolici che per lunghi anni si sono consacrati senza risparmio per porre questi strumenti al servizio del Regno di Dio, in mezzo a tanta incomprensione ed indifferenza dei propri fratelli, finalmente possono andare a testa alta. Ormai non è più lecito non prenderli sul serio, tanto meno è lecito criticarli. Il Decreto afferma che essi compiono un lavoro ecclesiale, oggi quanto mai urgente. Anzi fa di più: impegna i vescovi, non solo a riconoscere l’importanza del loro lavoro, ma ad aiutarli praticamente, ad incoraggiarli ed a vedere nella loro attività un aspetto essenziale dell’apostolato moderno”.
Per il cinema, ecco il riconoscimento di un pioniere: A. RUSZKOWSKI (in Rivista del cinematografo, 1964, n. 7, 315): “In molti paesi andavano sorgendo Uffici promossi da gruppi di persone entusiaste [...] senza però ch’essi conseguissero, nella misura auspicabile, un appoggio deciso da parte della gerarchia. Non è oggi un segreto per nessuno il fatto che soltanto alcuni paesi seguirono la raccomandazione di Pio Xl. Non mancarono, purtroppo, crisi di totale disconoscimento dell’enciclica [...]. Rimaneva una riserva circa le eventuali intenzioni di vescovi in varie regioni del mondo [...], le encicliche non potevano dare la sicurezza che la maggioranza dei vescovi del mondo avrebbero condiviso quel punto di vista. Ora che più del 92 per cento dei Padri Conciliari, vale a dire la stragrande maggioranza dei vescovi di tutto il mondo, hanno dato il loro placet al Decreto, possiamo ben dire che la materia dello storico documento è libera espressione della loro volontà, più decisa che mai, al fine di assicurare la presenza attiva della Chiesa nel mondo del cinema e degli altri mezzi di comunicazione sociale [...]. Il Decreto apre loro maggiori speranze [...]. Costatiamo che il Decreto apre una nuova epoca per l’apostolato cinematografico, e particolarmente per l’esistenza dei nostri Uffici Nazionali [...]. Il merito del Decreto conciliare è che ci conferma in questo cammino”.
E, per l’insieme di tutti gli strumenti, ecco la soddisfazione dello studioso W. UGEUX (op. cit., 49): “Tanto negli ambienti cattolici come negli altri, quanti si occupano delle scienze dell’opinione sanno ormai che la più alta autorità morale del mondo riconosce il valore capitale della loro azione e delle loro ricerche. Tutti quelli che si consacrano alla ricerca e all’insegnamento dei mass media vi hanno trovato un conforto, di cui, per dire la verità, spesso sentivano la mancanza”.

12 Per i due documenti conciliari:
 
per gli Atti personali di Paolo VI:
 
per i testi riportati dello stessi Atti di Paolo VI:
 
per le Lettere della Segreteria di Stato:
 
per gli Atti delle S. Congregazioni Romane:
 
per quelli della Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali:
 
per quelli della Communio et progressio:

13 Per la relativa ampia discussione e documentazione, cfr BARAGLI, L’Inter mirifica, cit.: Approccio al Decreto, 261 ss.

14 Precisamente in Ad gentes tre volte (nn. 19, 31 e 36), una volta in Apostolicam acruositatem (n. 8), una in Christus Dominus (n. 13), una in Optatam totius (n. 2), due nella Gravissimum educationis (nn. 0 e 4) e tre nella Gaudium et spes (nn. 6, 54 e 61). E quasi sempre in senso proprio. Fanno eccezione Apostolicam actuositatem, n. 8, dove i termini hanno un’accezione generica; e Gaudium et spes con accezione non del tutto propria al n. 54, e dubbia al n. 61. Invece esatto è il subsidia communicationis socialis di Gravissimum educationis, n. 0, dove s’intendono anche, ma non soltanto, questi strumenti.

15 Tra gli altri: J. DE VESVROTTE (Dynamique chrétienne de la communication moderne, Parigi 1966, 243 e 322): "Dans un’option résolument optimiste, les Pères du Concile ont ignoré le terme mass média”. O.B. ROEGELE (Die Autorität der Freiheit, München 1967, 355), anche se poi lamenta che nel Decreto non si siano tirate tutte le belle conseguenze implicite in esso, rileva che con questo “titolo i Padri conciliari ebbero cura di definire la sfera dei mezzi di comunicazione in tutto il loro insieme e nella struttura essenziale”. E. GABEL (Décret sur les moyens..., Parigi 1966, 384): "La formule [...] est une heureuse trouvaille [...]. Il serait grandement souhaitable que l’expression soit utilisée par d’autres milieux que les catholiques”. A. WENGER (Vatican II: Chronique de la deuxième session, Parigi 1963, 124): "Ce nom est nouveau. On ne l’a pas assez remarqué; [...] Le terme trouvé par le Sécrétariat [...] est des plus heureux et devait être retenu dans les documents de l’Eglise et dans la manière de parie, des catholiques [...]. Il comporre les avantages des autres termes, sans les inconvénients”. I. KESSLER (Dokumente des Zweiten Vatikanischen Konzil, Trier 1965, 101) rileva che il Decreto inizia con una sconfitta del tedesco e con una vittoria del latino: la sua dizione essendo più comprensiva ed esatta del tedesco Publizistischen Mittel. C. SORGI (Osservatore Romano, 10 ag. 1965): “Uno degli aspetti più originali dell’intervento del Concilio sui problemi [...] è quello di aver chiamato queste moderne conquiste della tecnica col nome di strumenti della comunicazione sociale”.
Fin troppo elogiativo N. TADDEI (Rivista del cinematografo, 1964, n. 7, 300 ss.) “Si tratta di un titolo così felice e pregnante da costituire veramente un punto di arrivo e un punto di partenza nello sviluppo in materia del pensiero della Chiesa [...]. Dando questo titolo [...] per dare la misura saggiamente e cristianamente rivoluzionaria del dono che la Chiesa ci ha fatto”. E. G. TINACCI MANNELLI (Le grandi comunicazioni, Firenze 1967, 21): “Anche i Padri conciliari hanno percepito chiaramente l’insufficienza terminologica e lo sfaldamento concettuale delle denominazioni sin qui in uso, e nel loro Decreto su queste tecniche e forme di comunicazione le hanno definite Instrumenta communicationis socialis, ripudiando nelle note i termini sin qui usati [...]. La definizione prescelta dal Decreto conciliare ha il merito di allontanarsi da un concetto ambiguo come quello di ’massa’”.
Più recentemente: CH. FORD (Caméra et mass média, Parigi 1970, 14): "Que l’on ait, ou que l’on n’ait pas, face aux moyens de communication sociale, des préoccupations religieuses, la limpidité et la logique de l’argumentation emportent l’adhésion à; une terminologie désormais invulnérable”; e A. MONTERO MORENO (La información religiosa en sus vertientes teológica y periodistica, Madrid 1969, 9): "Los estudios de la comunicación [...] se muestran concordes en aplaudir la denominacinó; [...] ’Medios de comunicación social’ ".

16 Correntemente viene detta, in italiano "Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali”. Ma la dizione deve essere intesa come ellittica di quella latina ufficiale, che è "Pontificium Consilium INSTRUMENTIS Communicationis Socialis praepositum”.

17 Nel sito Chiesa e Comunicazione è pubblicato un indice aggiornato dei Messaggi delle Giornate Mondiali delle Comunicazioni.

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
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