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Articolo estratto dal volume I del 1974 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Tutto fa credere che nella prossima primavera avremo in Italia una nuova disciplina in materia di radio-televisione.

La disciplina vigente risale al 26 gennaio 1952, quando lo Stato italiano concedeva in esclusiva, per vent’anni, alla RAI-TV i servizi di radio-audizione, televisione, telediffusione e radiofotografia circolari. Scaduto il ventennio senza che il Parlamento potesse discutere alcuna delle molte proposte di revisione e riforma avanzate nel frattempo, nel dicembre del ’72 la concessione veniva rinnovata per un anno; e, alle stesse condizioni, nel dicembre ’73 è stata rinnovata per altri quattro mesi. Questa volta, però, pare, senza pericoli di ulteriori rimandi, dato che tutte le correnti politiche rappresentate nell’esecutivo e nel legislativo si sono dette convinte della necessità e dell’urgenza, così della revisione della concessione, come di una sostanziale riforma di tutta la disciplina vigente.

Ma il compito non si presenta facile. Anche a prescindere, infatti, dalla particolare situazione italiana, si tratta di armonizzare le possibilità e i limiti di natura tecnica della radio-televisione, oltre tutto in rapidissima evoluzione, e quindi l’effettivo spazio di libertà concesso dal “mezzo” all’iniziativa privata; con le prestazioni essenzialmente d’interesse sociale della radio-televisione, e quindi con la presenza normativa del potere pubblico. Impresa ardua, come dimostrano le diversissime soluzioni adottate dalle diverse Nazioni, tutte non prive di qualche inconveniente; e le convenzioni internazionali, boicottate da regimi politico-ideologici, diffidenti di ogni libera espressione di pensiero e di ogni libera comunicazione di notizie.

Nel caso dell’Italia, in particolare, si tratta di conciliare il diritto, che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini, “di manifestare liberamente il proprio pensiero con [...] ogni mezzo di diffusione” (art. 21), con i principi, pur essi sanciti dalla Costituzione, che l’attività economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno [...] alla libertà [...] umana” (art. 41), e che “a fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente, o trasferire [...] allo Stato, ad enti pubblici, o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese [...] che si riferiscano a servizi pubblici essenziali [...], o a situazioni di monopolio, ed abbiano carattere di preminente interesse generale” (art. 43).

In pratica, sulla necessità di conservare una certa gestione monopolistica – salvo due gruppi minoritari (il PLI e il MSI-DN) – tutti gli schieramenti politici sono concordi. Ma: gestione monopolistica dei soli impianti tecnici, o, com’è oggi, anche dei programmi? Monopolio totale o parziale? Vale a dire: anche della radio, o solo della televisione? Di tutti i canali – compresi quelli via-cavo, o solo di alcuni? In ogni caso: gestione diretta dello Stato, o di un ente concessionario? In questa ipotesi: di un ente privato – come, almeno formalmente, è l’attuale RAI-TV –, oppure di un ente pubblico? Controllato, quest’ente, solo da una (più efficace) Commissione Parlamentare, necessariamente a carattere politico-partitico, oppure anche da altri organi? Un solo “Collegio di garanti”, culturale, sul modello inglese, oppure anche di altre istanze sociali: sindacati, operatori intellettuali: giornalisti, registi, soggettisti, attori...; o anche maestranze tecnico-esecutive? E perché non includervi anche rappresentanti di associazioni di abbonati (esempio: la “marxista” ARTA), o di semplici utenti (esempio: la “cattolica” AIART)?

Altro grosso problema è quello del diritto di accesso o, alla francese, “di antenna”. Come regolarlo, dato che lo stesso mezzo tecnico ne esclude l’uso indiscriminato da parte di tutti? Riservarlo, come in Olanda, solo a gruppi molto consistenti di abbonati, magari passandoli ad azionisti delle aziende radio-televisive, oppure aprirlo a tutti i gruppi – politici, culturali, sindacali, economici, religiosi, sportivi... – nazionali, regionali e locali, anche e soprattutto se minoranze, per garantire un effettivo dialogo sociale paritario? In questo caso: come garantire che, di fatto, favoriti dai proventi della pubblicità, gruppi di potere economico non monopolizzino o non oligopolizzino l’informazione, anche in ambito nazionale? O che partiti politici – si pensi a quanto il PCI già sta operando in Emilia-Romagna – non facciano altrettanto in ambito regionale? In ogni ipotesi: come garantire a tutti, individui e gruppi, il diritto di replica in caso di manifesta disinformazione, o di palese calunnia?

Una proposta ideale

C’è da augurarsi che Governo e Parlamento riescano a risolverli nel modo migliore. Forse, in un’Italia ideale, una soluzione ideale potrebbe prospettarsi più o meno così.

  1. Optare per un monopolio pubblico temperato, tanto a livello centrale quanto a livello regionale, in proporzione al ridursi delle condizioni tecnologiche addotte per giustificare la costituzionalità attuale del monopolio statale. Perrò – sul modello inglese –, a livello centrale: un ente radio-televisivo concessionario, affiancato da un altro, autorizzato, di libera iniziativa; ed a livello regionale – sul modello tedesco -: altrettanti enti concessionari, affiancati anche questi da altri liberi, autorizzati.
  2. Assetto giuridico degli enti concessionari: sembra preferibile la formula dell’ente di diritto pubblico, purché strutturato in modo che possa operare con la necessaria scioltezza, senza troppi intralci giuridici e di controlli amministrativi.
  3. Finalità.
    1. Gli enti concessionari, centrale e regionali – sul modello giapponese -: a carattere prevalentemente d’informazione, di cultura generale ed anche di istruzione scolastica (media, universitaria, professionale); finanziati col canone d’abbonamento, integrato da contributi statali (o regionali). Interdetti i giochi a quiz, ed ogni pubblicità commerciale; obbligatoria, invece, la propaganda-pubblicità promozionale di interessi sociali generali: educazione civica, igienico-sanitaria, ecologica, stradale... Si attengano ad attività collaterali (editoria, sussidi audiovisivi...) esclusivamente attinenti alla propria finalità, non invadendo la libera iniziativa privata.
    2. Gli enti liberi autorizzati, centrale e regionali: aperti a tutti i programmi; informativi, formativi e di svago; finanziati dalla pubblicità o, se enti senza scopo di lucro, da contributi statali o regionali.
  4. Gestione tecnica, amministrativa,
    1. Dell’ente concessionario centrale: affidata ad un organismo eletto prevalentemente dal Parlamento, con alcuni membri rappresentanti i Ministeri economico-tecnico-culturali (Tesoro, Poste e Telecomunicazioni, Istruzione Pubblica...), ed altri eletti dal Presidente della Repubblica, su una rosa di nomi proposta dai Consigli Regionali;
    2. degli enti concessionari regionali: affidata ad organismi eletti prevalentemente dai Consigli Regionali, con alcuni membri designati da gruppi tecnico-economico-culturali, regionali o locali.
  5. Pubblicità dei bilanci annuali degli enti concessionari, ed anche delle retribuzioni, ordinarie e straordinarie, dei quadri, dei collaboratori e dei consulenti. Pubblicità anche del finanziamento degli enti liberi autorizzati.
  6. Organi di controllo
    1. competenti sull’obiettività dell’informazione e sull’effettivo libero accesso degli aventi diritto:
      • dell’ente concessionario centrale: una Commissione Parlamentare, con rappresentanza paritaria di tutti i partiti presenti in Parlamento, più i rappresentanti delle associazioni di utenti a livello nazionale; dotata di poteri maggiori degli attuali, anche sulla progettazione dei programmi;
      • degli enti concessionari regionali: Commissioni Consiliari regionali, anche queste con rappresentanti di tutti i partiti presenti in Parlamento, più i rappresentanti di associazioni di utenti a carattere regionale.
    2. competente su livello tecnico-culturale:
      • dell’ente concessionario centrale: un Comitato di Garanti – sul modello inglese –, con voto consultivo pubblico, eletti per una metà dal Presidente della Repubblica, per l’altra metà da istituzioni sociali-culturali qualificate, più i rappresentanti delle associazioni di utenti a carattere nazionale. Detto Comitato potrebbe avere anche facoltà di giudizi pubblici sui programmi dell’ente libero, autorizzato.
  7. Diritto di accesso: alle fonti ed ai canali di comunicazione, ed alla progettazione, attuazione e diffusione dei programmi degli enti concessionari, centrale e regionali: regolamentato, in modo da renderlo più aperto possibile – un po’ sul modello olandese – ai gruppi sociali (non solo di partiti) di qualche consistenza, purché rappresentati da persona civilmente e penalmente responsabile.
  8. Censura: come per la stampa, abolita ogni censura, tanto nell’ideazione quanto nella realizzazione e trasmissione dei programmi; per eventuali infrazioni alle leggi rispondano i rispettivi responsabili degli enti, concessionari o liberi autorizzati, ed i responsabili dei gruppi sociali che esercitino il diritto di libero accesso. Codice deontologico degli informatori. Regolamentazione del diritto-dovere di rettifica in caso di falso conclamato, seguano o no danni patrimoniali o personali (diffamazione).

Proposta, s’è detto, ideale, per un Paese idealmente civile, democratico e sollecito del bene comune. Ma non c’è da farsi molte illusioni: convenzioni e leggi perfette non esistono. Inoltre, anche le leggi migliori poco o nulla risolvono se quanti devono applicarle o osservarle – l’esecutivo, le forze culturali, sindacali, imprenditoriali, economiche... – siano incapaci di armonizzare i propri interessi, più o meno legittimi, particolari o di classe, con quelli più autentici e vitali della collettività: primo tra questi, oggi, quello di un’informazione oggettiva, tempestiva, completa. Ora, anche che questo avvenga è sommamente desiderabile, ma è poco probabile, stante intanto l’incremento mondiale di un pluralismo che contesta, non solo comportamenti sociali più o meno esteriori, ma gli stessi valori di fondo dell’esistenza umana; e stante, per l’Italia, da una parte un generale scarso senso sociale e politico, dall’altra l’esorbitante politicizzazione di tutti i problemi da parte di opinion leaders e di organi d’informazione più fanatici che raziocinanti.

A questo punto il problema della radio-televisione – come quello dei mass media in genere – diventa prevalentemente un problema di preparazione-educazione di pubblico. Non importa tanto che cosa la radio-televisione trasmetta, quanto l’uso che sappiano e vogliano farne i recettori: sia per l’effetto di feed-back – cioè “di ritorno” (su cui qui sorvoliamo) –, con cui i recettori, col proprio comportamento, possono e dovrebbero condizionare i programmi; sia per l’utilità o il pregiudizio personale che gli stessi recettori possono, in ogni caso, derivarne usandone con maggiore o minore intelligenza e responsabilità.

Questo aspetto, che tocca noi tutti, merita una considerazione di fondo: quella di una già avanzata, e presto quasi totale, inagibilità pratica di ogni normativa esterna, legale o non, in materia di radio-televisione.

Nella rivoluzione tecnologica

È un fatto che la mentalità moderna – se a torto o a ragione è da appurare – non sopporta tutele da parte di chicchessia: tanto meno quando le tutele sembrino attentare a quei diritti inalienabili che sono la libertà di pensiero, di comunicazione e d’informazione; o sembrino trattare da perpetui minorenni persone che siano, o si ritengano, mature; oppure trattino da incapaci di scelte responsabili gruppi sociali civilmente evoluti. Ma soprattutto è anche un fatto che ogni legge, attuale o futura, che voglia o sembri esercitare tali tutele nel campo della radio-televisione, dalla stessa erompente evoluzione tecnologica è destinata a diventare presto tecnicamente eludibile: tanto da chi detenga i mezzi tecnici per trasmettere, quanto dai loro recettori.

Già oggi di fatto, ed anche di diritto, il monopolio della radio in quasi tutti i Paesi è finito da un pezzo: con qualsiasi modesto apparecchio radio si possono ascoltare programmi da qualsiasi parte del mondo. E lo stesso si va verificando rapidamente per la televisione. È ormai finito il tempo quando nei Paesi d’oltrecortina gli apparecchi radio, sprovvisti del bottone di sintonia e provvisti solo della presa di corrente, potevano ricevere soltanto la “Voce del Padrone”; o quando squadre apposite disorientavano sui tetti le antenne televisive per impedire la recezione di programmi dei Paesi capitalisti. Pure in Italia le cose sono a buon punto. Monopolio o non monopolio, anche a prescindere dai ripetitori abusivi, già un buon terzo della Penisola viene regolarmente irrorato, in nero ed a colori, dalle televisioni limitrofe: francese, svizzera, austriaca e iugoslava; mentre un’altra bella fetta si prepara a ricevere quella maltese, in allestimento.

Quando, poi, le diverse ditte costruttrici – giapponesi, americane, olandesi, tedesche, inglesi... – ne avranno unificato gli standards, avremo il boom delle “cassette”, dei videodischi e di altre diavolerie del genere. Inoltre la miniaturizzazione delle telecamere, dei registratori e dei teletrasmettitori ne ridurrà al minimo l’ingombro e il costo; i cavi coassiali – buccia di banana sulla quale è caduto il Governo Andreotti – permetteranno la trasmissione simultanea e bidirezionale di centinaia di programmi. Allora, in Italia, intanto, la stessa legittimità costituzionale di un monopolio di Stato sulla programmazione radio-televisiva, motivato dalla limitatezza del mezzo tecnico - dato e non concesso che essa sussista ancora –, verrà a mancare; in ogni caso qualsiasi controllo, in Italia e altrove, verrà sopraffatto dalla realtà. Come ha dimostrato l’iniziativa di “Tele-Biella” – perseguìta in giudizio, sì, ma per quanto? –, preparare ed irradiare programmi televisivi in circuito chiuso a fabbricati interi e ad interi quartieri, richiederà personale e capitali ridottissimi. Anzi – come dimostra il recente manuale feltrinelliano Senza permesso (Civ. Catt. 1973 IV 511), ad uso di gruppi anarcoidi – registrare e trasmettere messaggi televisivi, anche via-antenna, nel raggio di qualche chilometro (tecnicamente già oggi è possibile), sarà un gioco.

Aggiungiamoci – non è fantatecnica! – il prossimo avvento di satelliti che permetteranno la recezione di programmi televisivi in diretta: cioè non passando, come oggi, attraverso ponti amplificatori e trasmettitori in mano dello Stato; ed aggiungiamoci anche tutte le applicazioni della cibernetica, o dell’informatica che dir si voglia. La Russia – che lo può, e che già ha promesso di farlo – avrà un bello sparare missili sulle voci sgradite. Lì come da noi, o prima o poi, il televisore domestico e – già ci siamo! – individuale, non sarà più lo schermo passivo, nel salotto buono, di programmi imposti, ma un elettrodomestico tuttofare, che, come il telefono, si presterà ad ogni richiesta di noi recettori.

Insomma: non solo avremo la possibilità di scegliere tra i programmi televisivi di altri Paesi via-antenna, e tra programmi nazionali, regionali e locali anche via-cavo; ma potremo, di nostra iniziativa, riprodurre sui teleschermi, ad uso nostro o di vicini, film e programmi elaborati o registrati da noi o da altri. Anzi, su nostra richiesta in codice, potremo ricevere sul nostro tavolo di lavoro, in video-terminale, da banche di dati locali, regionali, nazionali, mondiali: film da cineteca o in programmazione, inchieste giornalistiche e di cronaca, cerimonie religiose, lezioni e comizi, cronache culturali, sportive e di varietà, riproduzioni di monumenti e di opere d’arte dai musei e dalle gallerie, libri e codici dalle biblioteche, dati scientifici...; e, naturalmente, informazioni economiche, di viabilità, metereologiche, ecc.

Concludendo: si faccia di tutto perché la televisione sia buona all’origine. Ma, dati gli interessi concorrenti, il pluralismo odierno e, mettiamoci pure, la malizia umana, di fatto la televisione futura proporrà alla rinfusa, o procurerà su richiesta, contenuti d’ogni genere: giovevoli, dannosi, pericolosi, inutili; o almeno, secondo la preparazione dei recettori, polivalenti. La sua efficacia – che in ogni caso sarà continua ed avvolgente –, ci renderà dunque migliori o peggiori secondo l’uso più o meno intelligente e responsabile che saremo capaci di farne. Ma non saremo capaci di farne un uso ottimale se non ci istruiremo e non ci formeremo ad esso.

Come? – Innanzi tutto migliorando in istruzione-educazione culturale morale e civica generale. Un popolo che – dati dell’UNESCO! – tra vacanze e scioperi, strutture inadeguate, metodi sclerotici ed esami burletta, segna un rendimento scolastico, medio ed universitario, tra i più bassi in Europa, ed uno dei più alti indici di analfabetismo di ritorno; un popolo, riconosciamolo, che acquista pochissimi libri, e meno ne legge; che quasi ignora i giornali d’informazione, mentre si concede il lusso di quattro quotidiani sportivi e segna le tirature più alte di rotocalchi e di fumetti; un popolo che in sette mesi paga per Ultimo tango a Parigi sei miliardi, mentre in vari anni paga per La strategia del ragno, dello stesso regista, dieci milioni; un popolo che rinzeppa ogni festa gli stadi, ma che lascia concerti musei e gallerie ai turisti stranieri: non potrà non restare consumatore abituale ed alimentatore di programmi televisivi, nella migliore delle ipotesi, futili e Kitsch: “Vidiota”, come è stato detto, di Rischiatutti di Canzonissime e di Caroselli.

Ma non basta, per un uso ottimale della televisione, un buon livello culturale etico e civico dei recettori; occorre anche un’introduzione-formazione specifica al mezzo stesso.

Per i minori, questo compito ricade innanzi tutto sulle famiglie. Non tanto per abbondare in divieti e condanne, quanto per formarli, i figli, “a ben comprendere quel che vedono leggono o ascoltano: ne facciano argomento di dialogo con i loro educatori [...], e si addestrino a darne motivati giudizi critici” (Inter mirifica, art. 10).

Per i fedeli, il compito ricade anche sui formatori delle loro coscienze. Non per nulla lo stesso Decreto conciliare Inter mirifica dispone che “nell’insegnamento catechistico si esponga e si spieghi la dottrina e la disciplina cattolica in argomento” (art. 16), e che nella annuale Giornata Mondiale “si istruiscano i fedeli sui loro doveri in questo settore” (art. 18). Per tutti, poi, il compito ricade principalmente sulla scuola: quindi anche, e soprattutto, su “le scuole cattoliche di ogni grado” (art. 16). Se, infatti, compito primario della scuola è formare il cittadino alla vita sociale, ci si chiede quali aspetti di questa non risentano oggi, e più non risentiranno domani, della televisione, dato che questa, come s’è visto, va assumendo in sé le prestazioni, si può dire, di tutti gli altri mass media. Ed, anzi, anche qualche funzione in più. Per esempio: quella della scuola propriamente detta: sia come sussidio dell’insegnamento scolare tradizionale, sia come cattedra autonoma di istruzione-formazione permanente.

Stranamente, questa prestazione, presentissima in molte radio-televisioni di altri Paesi, viene del tutto ignorata nelle varie proposte di revisione-riforma della RAI-TV. Non foss’altro che per farsi ridurre l’accusa di manipolatrice di notizie, massificatrice di cervelli e prima responsabile della civiltà dei consumi, non sarebbe male che essa per prima, con i mezzi unici di cui dispone, contribuisse a formare i suoi recettori.

Dovremo sempre riconoscere che abbiamo la radio-televisione che ci meritiamo; ma, almeno, “Mamma TV” potrebbe dire: La colpa non è tutta mia.

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2870, vol. I (1970), pp. 155-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2739, vol. III (1964), pp. 246-254
n. 2729, vol. I (1964), pp. 422-435
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408