NOTE
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1 BISCARDI – L. LIGUORI, L’impero di vetro. Torino, SEI, 1978, 8°, 439.

2 Altra peregrina proposta fiorita tra i giornalisti quella di «ritenere, e sinceramente credere, che la televisione [...] debba essere, prima ancora di fornire informazioni, fornitrice di evasione» (p. 386); ragion per cui, a dirigerla, ci sta ottimamente «un uomo che, per lo meno, conosce il mondo dello spettacolo...? pazienza se «non conosce gran che di giornalismo» (p. 396).

3 Al lettore vigile rilevare altre questioni di dettaglio. Ad esempio: quali sarebbero le «autorevoli fonti del Vaticano» che oggi «riconoscono la faziosità e le storture del periodo bernabeiano» (p. 48)? Perché nelle Bibliografie si ignora il, pur ottimo, Zingale (Civ. Catt. 1976 III 207)? E perché nella Bibliografia di pag 323 tanta polarizzazione... levogira? Tra il Segretario della DC e quello del PSDI, chi ha ragione? il primo: sostenendo che in Italia «non c’è una radiotelevisione di Stato» (p. 53), oppure il secondo, che per sette volte qualifica «di Stato» la RAI-TV (pp. 76 ss.)?, ecc.

4 Consuona l’ex Direttore dell’Osservatore Romano, che in tema di morale e di religione rileva: «La RAI-TV non può non considerare nelle sue dimensioni reali il fatto religioso che oggi investe tutti i settori della vita politica e della vita internazionale; non può non considerare nelle sue dimensioni il Vaticano per quello che è, anche come magistero morale, di pace, di carità, di assistenza, come stimolo al progresso della civiltà in un momento di crisi cosi acuta, di oscuramento di valori. Deve, in ogni caso, tenere conto della sensibilità di tanta parte dei suoi ascoltatori. Siccome, poi. la RAI-TV è Ente di Stato, e quindi giustamente dominanti, deve anche nella scelta delle sue polemiche, pur nella libertà assoluta, autoimporsi un limite» (p. 328). Ed a proposito di presenza cattolica nella radiotelevisione, osserva: “Il mondo cattolico, con tutta la sua vitalità e i suoi meriti, pesa troppo, è un po’ lento in questo settore, arriva sempre un po’ dopo. Qui bisogna subito porsi il problema e assumere iniziative di presenza immediata. Bisogna sollecitare il mondo cattolico ad esercitare quelle libertà che sono concesse a tutti i cittadini. Ciò che presuppone uomini, strutture, organizzazione [...]. Bisogna sbrigarci» (p. 333).

5 COLOMBO, lpertelevision. Roma, Cooperativa Scrittori, 1976, 16°, 169 L. 3.000. L’Autore insegna tecnica del linguaggio della radio e della televisione all’Università di Bologna, ed ha insegnato alla New York University e a Berkeley. Di lui, in Civ. Catt. 1975 III 207 e 1978 II 103, abbiamo già presentato il saggio Televisione: la realtà come spettacolo, e la collaborazione alla guida bibliografica Radio e televisione.

6 Sotto questo aspetto sono degni di nota anche i suoi rimandi alla guerra del Vietnam: «la prima guerra visiva nella storia del mondo» (p. 64). e alle «presenze» televisive realizzate da Pannella e dai suoi radicali (pp. 79 e 125). Per altre ragioni segnaliamo i passi che riguardano la differenza radicale tra il cinema e la televisione (p. 74), e il «feticcio della presa diretta» (p. 133). Infine, da rilevare, ma anche da discutere, quanto l’Autore sostiene a proposito di una televisione «civile ed astensionista» (pp. 129 e 143).

7 D. ALIMENTI, TG Segreto, Torino, SEI, 1978, 8°. 200. L. 4.000. Se è lecito fargli un appunto marginale: alle pp. 149 e 156 andrebbe meglio precisato quanto egli, di passaggio, scrive su McLuhan. .

8 P. BERTOLINI – M. DALLARI – F. FRABBONI - V. GHERARDI – M. MANINI – R. MASSA, I bambini e la tv, Milano, Feltrinelli, 1976, 16, 167. L. 3.000. Dato l’Istituto che ha curato la ricerca, e dato l’edirore che la pubblica, nessuna meraviglia che i ricercatori ce l’abbiano col «perbenismo della morale borghese» (p. 62) e contro «il vissuto ordinario contrassegnato da un’alta percentuale di valori etici o pseudo etici, trasmessi da un adulto come la mamma, la nonna, la nurse, ecc., che piega il bimbo alle categorie primarie dell’etica borghese: la frustrazione, l’inibizione, l’assenso, il silenzio, l’obbedienza, il rigido controllo dei movimenti, l’autodisciplina» (p. 63).

9 F. P1NTO, Intellettuali e tv negli anni ’50, Roma, Savelli, 1977, 16°, 208. L. 2000. I reperti archeologici sono (nell’ordine) di: R. Lombardi. P. Dallamano. FILS (= Federazione Italiana Lavoratori dello Spettacolo?), S. Tutino, G. Archibugi Gismondi, E. Zolla, A. D’Alessandro, G. Gramigna, F. Parri, A. Bellotto, Ragionamenti.

10 S. SAVIANE, Video malandrino, Quindici anni di RAI-TV. Milano, SugarCo, 1977, 8°, 342. L. 3.500. Per Dietro il video, cfr Civ. Call. 1973 III 339.

11 AA.VV., La videéo, un nouveau circuit d’information, Paris, Edition du CNRS, 1977, 4°, 107.

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Articolo estratto dal volume II del 1978 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

La più grande indagine sulla RAI-TV?

Abbiamo sottocchio sette volumi che trattano di radio-televisione. Il più nutrito e recente è L’impero di vetro1. A parte «di vetro» che rimanda alla sua corte-acquario di Viale Mazzini, «impero» qualifica a pennello la RAI-TV. Che conta, infatti, 600 tra dirigenti e funzionari, 12.000 dipendenti, fissi o a tempo determinato; tra i 20 e i 25.000 collaboratori pagati a prestazione, circa 10.000 collaboratori, che si spartiscono la bellezza di 20 miliardi annui per diritti d’autore. Il suo cosiddetto «servizio pubblico» serve 12 milioni di abbonati, e segna punte di 28 milioni di telespettatori. Un bilancio annuo di 500 miliardi, che la pone tra le 20/25 massime industrie italiane...

Indulgiamo al vanitoso «la prima grande indagine sulla RAI-TV», con cui il titolo s’infiocca. Sta il fatto che quest’indagine raccoglie ben 62 contributi di VIP (Very Important Person): politici, uomini di governo e sindacalisti, addetti ai lavori, operatori culturali, giuristi, giornalisti...; i quali, parte in interviste, parte con esposizioni autonome, toccano, si può dire, tutti i problemi del post-riforma. Come, e per colpa di chi, andavano (tutte e sempre?) male le cose prima, e perché vanno meglio oggi, o andranno meglio in futuro; se si tratta davvero, e perché, di «servizio pubblico» e di radio-televisione «di Stato»; ruolo (anomalo?) del Parlamento, e del Consiglio di Amministrazione; il garbuglio di un monopolio politico, vanificato dalle emittenti (sulle 1.200 radio, e sulle 100 TV!) private o libere che dir si voglia, e dalle multinazionali, con all’orizzonte una fantomatica Terza Rete; il rompicapo di equilibri politici, lottizzazione, professionalità e pluralismo: verticale, cioè a reti, canali e testate ideologico-antagonisti, oppure contestuale: all’interno delle reti, strutture, testate e di tutti i settori aziendali; problemi dell’informazione oggettiva (notizia: sacra, più commento: libero) e dell’accesso; le spese faraoniche di un Ente che succhia, insieme, al canone e alla pubblicità; sorte della stampa – complementare, concorrente o vittima? – spogliata della pubblicità...

Ideologie e interessi

Ovviamente, opinioni, denunce e proposte divergono secondo le ideologie e gli interessi degli interpellati. Cogliendo fior da fiore, notiamo che, in fatto di riforma, qualcuno ha il coraggio di cantare extra chorum. Così il Direttore dell’Espresso, che non dice male del «deprecato Guala» (p. 395); i Direttori della nostra Rivista e del Giornale Nuovo, che hanno da eccepire contro una radio-televisione monopolio di Stato (pp. 337 e 411); e il Capogruppo DC della Commissione di Vigilanza, che ricorda il modello ottimale della radio-televisione olandese (p. 137), in parte echeggiato dal già citato Direttore dell’Espresso (p. 397).

Ancora, ma per tutt’altre ragioni, spicca la peregrina proposta di riservare ai giornali la precedenza nella concessione di radio-tv private, avanzata – Cicero pro domo sua! - da tre notissimi giornalisti (pp. 379, 400 e 405)2, mentre fanno senz’altro bella mostra di sé i polloni libertari che spuntano nell’orto comunista. Che godimento nell’apprendere che il Direttore dell’Unità; paventa «eventuali interferenze esterne tendenti ad influire sulla situazione italiana, che costituirebbero inammissibili attentati alla nostra sovranità» (p. 416); e nel vedere un membro della Segreteria del PCI denunciare «steccati ed anacronistiche preclusioni» (p. 389) e proclamare – se lo sapesse la Pravda! - «l’informazione quale diritto-dovere del cittadino» (p. 390)! E quale sorpresa nel sentire lo stesso Segretario del PCI reclamare «il rispetto della pluralità», e denunciare «la politica integralista», il «vero e proprio settarismo ideologico» della DC, «i messaggi che non sono né obiettiva informazione, né corretto commento, bensì aperta propaganda di parte» (pp. 60-62)!

Aperture e lacune

Nell’insieme3, proprio nella diversità delle opinioni e delle proposte, questa indagine una valida introduzione nell’impero di vetro la dà, non foss’altro perché convince che non è possibile risolvere semplicisticamente problemi e situazioni che semplici non sono. Tra l’altro, molti intervistati notano, a ragione, che è troppo presto per fare il consuntivo di profitti e perdite a due anni appena dalla Legge di riforma; mentre uno di essi rileva che non sarà neanche facile farlo domani, stante la rapida evoluzione della scienza e della tecnica elettronica, purtroppo ignorata dalla stessa riforma. Oggi, egli scrive, «nell’epoca teletronica, o della comunicazione globale» nella quale viviamo, usi e servizi rivoluzionari del televisore sono già possibili e, per la maggior parte, attuabili.

«Un televisore a struttura composita [. ..], cioè formato da componenti di base, cui, per i diversi usi e servizi, si possono aggiungere componenti opzionali (“scatole”, “cartoline”) [...], riceve programmi dalle reti nazionali con emittenti a terra e, in talune zone, programmi provenienti direttamente da oltre confine (originati da emittenti estere con impianti a terra); programmi via-cavo “ridistributori” del segnale ricevuto da emittenti nazionali ed estere via-etere con impianti a terra; programmi regionali e locali (via-etere e via-cavo); programmi dal satellite nazionale a ricezione diretta (nazionali o esteri ritrasmessi); programmi da altri satelliti di nazioni estere che debordano dalla zona di pertinenza a ricezione diretta; su comando, programmi da centro archivi, nastroteche (a pagamento-tariffa, o gratuiti); informazioni, richieste, da centrali-dati e da elaboratori; informazioni scritte (giornali), a scelta di “testata”, riprodotti su carta (abbonamento, in ore prestabilite); messaggi scritti o grafici sul teleschermo, in sovrapposizione memorizzata; può consentire la scelta e l’esecuzione di programmi (anche di quelli che non sono in visione contemporanea); la riproduzione di nastri, videocassette, videodischi da commercio; può servire da videotelefono, da video-citofono, da monitor di servizi, di osservazione o di sorveglianza» (p. 202).

Inoltre: «I sistemi di televisione via-cavo vanno configurati in una dimensione di grande polivalenza e di ricca potenzialità, costituenti cioè reti trasparenti, capaci, – dato l’altissimo numero di canali utilizzabili – di servire l’utente, sia delle comunicazioni telefoniche, sia di quelle di tutte le stazioni radio e televisive di zona; sia della filo-diffusione, che di altri innumerevoli servizi, dal “giornale stampato in casa”, ai facsimile di documenti, ai notiziari continuamente aggiornati sui fatti di cronaca, della politica e della finanza, sia collegandoli con banche di dati, con archivi, con centri di elaborazione ed informazione specializzata, consentendogli anche di intervenire direttamente nel circuito con messaggi digitalizzati, o addirittura in voce in video, bilaterali o multilaterali, e informazioni simili a quelle del Teletext» (p. 205).

Da notare, inoltre, che – forse per una comprensibile deformazione professionale-pubblicistica dei due intervistatori, oppure per il loro costante riferirsi alla Legge di riforma – in questa loro indagine viene ignorato qualsiasi interesse che superi quelli politico-partitici che detta riforma hanno sollecitato ed attuato; salvo errori, con due sole eccezioni. La prima riguarda la denuncia di quella piaga tutta italiana che è l’analfabetismo informativo civile-politico, più cronicizzato che ridotto dall’avvento della radio-televisione. Notano tre giornalisti:

«In altri Paesi l’avvento della televisione avvenne ad abitudine di lettura del quotidiano radicata» (p. 382); in Inghilterra, in Germania o in Francia, per esempio, «c’è stata un’industrializzazione, e quindi un’urbanizzazione e un’alfabetizzazione di massa: i giornali vi hanno raggiunto livelli di diffusione altissimi, hanno creato un tipo di rapporto con questa massa profondamente radicato, che sopravvive anche all’era della televisione» (p. 403); mentre il pubblico italiano, fra le sue esperienze storiche fondamentali, non ha avuto quella della lettura quotidiana: è passato direttamente «dalla fase della comunicazione parlata (la predica, i comizi, la chiacchiera, il capannello di paese) alla fase della comunicazione audiovisiva» (p. 393).

La seconda eccezione riguarda i valori morali-religiosi. Anche in Italia, portatori qualificati degli stessi dovrebbero essere tutti, senza eccezioni di etichette politiche, i cattolici. Ma qui – segno della grezza e smodata politicizzazione che ci contraddistingue – intervistatori ed intervistati riducono «cattolici» a «DC», per poi trattarne esclusivamente a proposito di, auspicati o paventati, incontri-scontri col PCI. Soltanto in presenza di due personaggi inequivocabilmente «di chiesa», quali il Direttore della nostra Rivista e quello dell’Osservatore Romano, gli intervistatori scoprono che si può ipotizzare anche una morale non ridotta a politica. Fortunatamente i due «clericali», tanto a proposito dei riflessi morali della comunicazione radio-televisiva quanto a proposito di una responsabile presenza dei cattolici tout court in essa, non... spropositano. Precisa il primo trattando di valori morali:

«La radiotelevisione avrà una funzione sempre più grande e determinante nella formazione della mentalità e del costume, cosicché non sarà possibile prescindere da essa quando si affronti il problema della promozione integrale dell’uomo [...]. Ecco perché chiunque è preoccupato della promozione “integrale» dell’uomo – promozione, quindi, di “tutti” i valori umani: sia di quelli d’ordine fisico e materiale, sia di quelli d’ordine spirituale, culturale, morale e religioso - non può non preoccuparsi dell’incidenza, positiva o negativa, che la radiotelevisione può avere su tale promozione “integrale”. Alla luce di questa preoccupazione [...], e non soltanto di difendere interessi, posizioni di potere, ideologie e cose simili, va giudicata, sia la Riforma della RAI-TV, sia la sua applicazione» (p. 336). «Riferendomi alle note polemiche su alcune recenti trasmissioni [il “caso Fo”]: credo che non soltanto il mondo cattolico abbia avuto motivo di deplorarle. Salvi sempre i diritti di libera opinione e di libera espressione, penso che [...] in una convivenza civile alcuni valori professati da rilevanti gruppi sociali andrebbero in ogni caso rispettati, tanto più in trasmissioni che, in un regime di monopolio come quello italiano, passano come “dello Stato”» (p. 338).

E rispetto ad una presenza dei cattolici nella radiotelevisione: «Penso che il discorso da fare oggi in campo cattolico sia soprattutto quello di un necessario coordinamento. Le iniziative “private” dei cattolici sono già numerose; manca invece una visione di insieme che sappia utilizzare mezzi, competenze, programmi. L’imminente attuazione della Terza Rete [...] ripropone ai cattolici italiani la necessità di coordinamento e di inserimento nei diversi campi di elaborazione culturale [...]. Inspiegabilmente, molti ancora non vogliono rendersene conto» (p. 339)4.

Ipervisione: mezzo e messaggio

Il più recente saggio di F. Colombo5 spicca nel sostenere che se di «impero» si tratta, questo non si fonda tanto sulle strutture, riformate o meno, della RAI-TV, quanto – anzi: prima e soprattutto – sull’ipervisione, superlativamente attuata rispetto a tutti gli altri massmedia, in Italia come altrove, dalla Iper-televisione. Spiega:

«La ipervisione – o serrato bombardamento di immagini nel tessuto di una cultura – è un fenomeno di penetrazione e di contaminazione che produce mutamenti interni alla cultura aggredita, in relazione ai caratteri della comunicazione trasformata in visione» (p. 36). «Il fenomeno nasce subito, anche quando la televisione è sviluppata modestamente e modestamente gestita. Crea un alone di effetti sociali capaci di riverberarsi su chi la televisione la vede poco o niente [...]. Il mutamento riguarda un intero ambiente sociale, non individui separati» (p. 21). «Si forma così una lealtà forte ed implicita alla “televisione accesa”, che non ha niente a che fare con ciò che la televisione trasmette e con i dibattiti sui suoi contenuti, organizzazione e programmi» (p. 24).

Siamo al mcluhaniano «Il mezzo è il messaggio»? Senz’altro! Ma l’Autore rettifica il paradosso parlando di «missile che esce gradatamente dalla sua orbita» (p. 95), di «devianza» (p. 63) e di «catastrofe del messaggio» (p. 53), di «ribellione dell’informazione» (p. 88); e chiarendo:

«I valori che viaggiano a bordo del messaggio non sono il dato essenziale della trasformazione che questa forma di comunicazione [visiva] produce». (p. 34). «Data la situazione organizzativa tecnica ed economica che ha determinato l’organizzazione (di ogni televisione), l’espressione del messaggio non può che avvenire secondo un codice che è composto dal dato tecnico, da quello temporale (il “tempo” della televisione, non quello reale, che la televisione tende a negare) e da un repertorio limitato di forme» (p. 37). «Il processo di comunicazione non è lineare; dipende solo in parte dall’intenzione soggettiva, e in parte anche minore dal suo contenuto» (p. 93).

«Fra il momento in cui il messaggio è pensato e il momento in cui è ricevuto, una serie di alterazioni sono avvenute [...], spesso così gravi da rovesciare il senso “voluto” del messaggio, che esprimono una tendenza alla “ribellione” interna al processo di comunicazione» (p. 88). «È il risultato obiettivo e inevitabile del meccanismo di produzione che sta alle spalle del messaggio» (p. 41).

Tra le applicazioni socio-comportamentali che l’Autore propone di questa sua teoria6, una ci pare che possa interessare particolarmente, non solo i politici, ma anche moralisti e pastoralisti. Egli rileva:

«Il messaggio, quando ha le componenti strane e inedite della televisione [...], è creatura autonoma persino rispetto alla forza dell’istituzione, persino a confronto con il suo grado di credibilità, ed anche quando esso è gravemente compromesso. Gli italiani hanno dimostrato questo sdoppiamento continuando a guardare la televisione in massa proprio così come la voleva l’istituzione che ne aveva il controllo, ma facendo scelte culturali e politiche opposte [...], per poi tornare a guardare, con gli stessi indici di gradimento, la stessa televisione. Tanto che la grande pressione per la riforma è stata una battaglia politica più di vertice che di massa [...], e non ha mai veramente trascinato la base del Paese, che ha continuato a non amare la RAI, ma a offrire la sua fedeltà [...] allo schermo televisivo» (p. 94).

Con altre chiavi D. Alimenti7 ci introduce, con trentasei tra brevi schede e capitoli, nei segreti della televisione in genere, ed in particolare del giornale televisivo, mediante l’analisi dei suoi processi di produzione e di divulgazione delle notizie. Scorrendolo, ricordavamo una consegna – «Coscienza e competenza» – tanto cara a Pio XI. La competenza tecnico-redazionale gli deriva dall’aver realizzato centinaia di servizi su eventi internazionali e dall’aver conosciuto da vicino i metodi di lavoro delle più efficienti televisioni del mondo. In quanto alla coscienza: in queste pagine egli mostra una non comune sensibilità ed attenzione ai problemi di deontologia professionale. Si veda, ad esempio, quanto egli afferma sull’obiettività dell’informazione nel pluralismo, sulla violenza nell’informazione, sullo scoop giornalistico; e si leggano le sue otto «regole» (p. 147), e quanto egli scrive – del tutto inedito in libri del genere – sull’informazione religiosa (p. 90):

«Forse chi ha il delicato compito di volgarizzare, attraverso la televisione, la vita della Chiesa deve avere una marcia in più. Se per il resocontista comune è indispensabile una conoscenza approfondita della materia specifica, per l’informazione religiosa la preparazione dottrinale deve essere ancora più profonda. Un’infarinatura non basta; serve soltanto per mascherare le magagne più macroscopiche, ma non per riuscire a “comunicare”. Per la religione, più che “conoscere” bisognerebbe addirittura “vivere” ciò che si comunica. Comunque, un buon grado di conoscenza è già sufficiente per la compilazione di una decorosa informazione».

Gli altri quattro

Su I bambini e la tv8, «la prima ricerca sull’esperienza televisiva dai 3 ai 6 anni», condotta da sei universitari nel 1970 a cura dell’Istituto di psicopedagogia dell’apprendimento della Regione Emilia-Romagna, non occorre spendere molte parole. Si tratta, appunto, di una ricerca, d’interesse ultraspecialistico, «talvolta pedante» (p. 1.5), che approda a questo scontato risultato, offerto «ai genitori e agli educatori, e ovviamente non solo a loro: che la fruizione televisiva della seconda infanzia non è un fatto insignificante, perché il meccanismo condizionante delle emissioni televisive si esercita anche e forse soprattutto nei primi sei anni [...]. Chi lo ritenga generico e prevedibile, lo accetti almeno come aiuto fondato a una operatività sociopolitica e socioeducativa attentamente meditata» (p. 251).

Anche meno parole merita l’esumazione antologica Intellettuali e tv negli anni ’50, del sociologo dell’arte e della cultura presso l’Università di Napoli F. Pinto9. Il volume, per quasi la metà, è occupato da un lambiccato saggio dello stesso curatore. Seguono diciannove tra articoli e saggi, esumati da una decina di riviste di quel «decennio DC», per aggiornare – meditando sulle carenze del passato – la critica di sinistra verso una politica culturale capace di avanzare proprie proposte nell’odierno dilagare delle radio libere e delle televisioni private. Sussidio, evidentemente, ad uso interno del PCI; a noi esterni, oltre che il torpore, causa una domanda: Quale teoria-prassi della televisione avremmo oggi (o domani) in Italia se negli anni ’.50 (o negli ’80) la RAI-TV fosse stata (o sarà) tutta in mano, non della DC, come nell’infausto decennio, ma del PCI?

In quanto, poi, al libello Video malandrino10, in cui il critico televisivo dell’Espresso screma il peggio delle malignità sarcastiche che da quindici anni va collezionando in quel settimanale, basta ed avanza indicarlo – non meno del precedente Dietro il video – quale campionario di un giornalismo equivoco e disfattista.

Merita, invece, viva attenzione lo studio La vidéo, un nouveau circuit d’information11 del parigino Centre National de la Recherche Scientifique, che dalla televisione, diciamo così, convenzionale passa ad interessarsi a quella integrata nelle nuove tecnologie portatili, in funzione di informazione alternativa e di contro-informazione. Oggetto diretto, infatti, ne è appunto la vidéo, vale a dire: il video-registratore (e riproduttore) portatile, in Italia usato prevalentemente in tv a circuito chiuso, e in Francia, pare, in vidéo-bus.

Premesso che con «informazione» essi non intendono «la notizia» di attualità, distinta dall’insegnamento e dal divertimento, ma l’insieme delle comunicazioni di fatto trasmesse dall’uno o dall’altro medium, gli Autori si pongono la questione se la vidéo operi o meno come un mass medium propriamente detto: (cinema o) televisione. E la risposta è che no.

In prova, lo studio comincia col presentare il contesto economico e amministrativo della vidéo, tutt’altro da quello dei mass media tradizionali. Poi passa a rilevare le caratteristiche psico-sociologiche dei gruppi-video: dilettanti o militanti. Quindi propone una tipologia ternaria dei prodotti vidéo-lape secondo il grado di elaborazione espressiva: 1) di grado nullo (soltanto interviste, non montate, suono sincrono, tempo reale; massima distanza dal cinema convenzionale, somiglianza con la tv in diretta); 2) di grado medio (ancora prevalenza di interviste, ma con qualche elemento espressivo estraneo; modesti interventi correttivi di montaggio, ma sonoro ancora sincrono; nell’insieme: dozzinale imitazione della tv); 3) di grado pieno (interviste ridotte al minimo, sonoro asincrono, utilizzazione di inserti diversi, montaggio significativo, movimenti di macchina, tempo cinematografico: somiglianza spaccata con la tv in differita).

A questo punto gli Autori sottopongono a rigorosa analisi contenutistico-formale due vidéo-tape campione: l’una di grado medio, l’altra di grado pieno, per poi passare a rilevarne le reazioni e gli effetti riscossi da parte dei rispettivi destinatari: la popolazione di una cittadina di provincia i primi, gli abitanti di un arrondissement parigino i secondi; per concludere (sintetizziamo) che la vidéo è un medium con caratteristiche proprie tra la tv di massa e il Super-8; che l’impatto sui destinatari dipende, sì, da queste sue caratteristiche tecnologico-strutturali, ma anche dalle condizioni psico-sociali dei sottogruppi recettori; e che, in definitiva, «per modificare la forma e il contenuto dell’informazione, favorire un’espressione più diretta del pubblico, occorrono cambiamenti e tirocini molto superiori alla semplice invenzione della vidéo. L’illusione tecnicistica è ormai chiaramente e seccamente smascherata» (p. 107).

Tra i meriti degli Autori: quello di sbollentare, con buona pace di McLuhan, certi monismi ed entusiasmi tecnologici irrazionali; quello d’indicare con chiarezza le condizioni necessarie per usare il nuovo medium sì da ottenerne gli effetti ai quali è tagliato, e non altri ad esso estranei; quello di offrire un esempio di rigore nella impostazione, ricerca e soluzione di problemi, raro nella pubblicistica dei mass media.

E mettiamoci anche quello di offrirci un ponte per passare dalla recente editoria sulla radio-televisione a quella dei mass media in generale. Il che faremo con un’altra rassegna.

1 BISCARDI – L. LIGUORI, L’impero di vetro. Torino, SEI, 1978, 8°, 439.

2 Altra peregrina proposta fiorita tra i giornalisti quella di «ritenere, e sinceramente credere, che la televisione [...] debba essere, prima ancora di fornire informazioni, fornitrice di evasione» (p. 386); ragion per cui, a dirigerla, ci sta ottimamente «un uomo che, per lo meno, conosce il mondo dello spettacolo...? pazienza se «non conosce gran che di giornalismo» (p. 396).

3 Al lettore vigile rilevare altre questioni di dettaglio. Ad esempio: quali sarebbero le «autorevoli fonti del Vaticano» che oggi «riconoscono la faziosità e le storture del periodo bernabeiano» (p. 48)? Perché nelle Bibliografie si ignora il, pur ottimo, Zingale (Civ. Catt. 1976 III 207)? E perché nella Bibliografia di pag 323 tanta polarizzazione... levogira? Tra il Segretario della DC e quello del PSDI, chi ha ragione? il primo: sostenendo che in Italia «non c’è una radiotelevisione di Stato» (p. 53), oppure il secondo, che per sette volte qualifica «di Stato» la RAI-TV (pp. 76 ss.)?, ecc.

4 Consuona l’ex Direttore dell’Osservatore Romano, che in tema di morale e di religione rileva: «La RAI-TV non può non considerare nelle sue dimensioni reali il fatto religioso che oggi investe tutti i settori della vita politica e della vita internazionale; non può non considerare nelle sue dimensioni il Vaticano per quello che è, anche come magistero morale, di pace, di carità, di assistenza, come stimolo al progresso della civiltà in un momento di crisi cosi acuta, di oscuramento di valori. Deve, in ogni caso, tenere conto della sensibilità di tanta parte dei suoi ascoltatori. Siccome, poi. la RAI-TV è Ente di Stato, e quindi giustamente dominanti, deve anche nella scelta delle sue polemiche, pur nella libertà assoluta, autoimporsi un limite» (p. 328). Ed a proposito di presenza cattolica nella radiotelevisione, osserva: “Il mondo cattolico, con tutta la sua vitalità e i suoi meriti, pesa troppo, è un po’ lento in questo settore, arriva sempre un po’ dopo. Qui bisogna subito porsi il problema e assumere iniziative di presenza immediata. Bisogna sollecitare il mondo cattolico ad esercitare quelle libertà che sono concesse a tutti i cittadini. Ciò che presuppone uomini, strutture, organizzazione [...]. Bisogna sbrigarci» (p. 333).

5 COLOMBO, lpertelevision. Roma, Cooperativa Scrittori, 1976, 16°, 169 L. 3.000. L’Autore insegna tecnica del linguaggio della radio e della televisione all’Università di Bologna, ed ha insegnato alla New York University e a Berkeley. Di lui, in Civ. Catt. 1975 III 207 e 1978 II 103, abbiamo già presentato il saggio Televisione: la realtà come spettacolo, e la collaborazione alla guida bibliografica Radio e televisione.

6 Sotto questo aspetto sono degni di nota anche i suoi rimandi alla guerra del Vietnam: «la prima guerra visiva nella storia del mondo» (p. 64). e alle «presenze» televisive realizzate da Pannella e dai suoi radicali (pp. 79 e 125). Per altre ragioni segnaliamo i passi che riguardano la differenza radicale tra il cinema e la televisione (p. 74), e il «feticcio della presa diretta» (p. 133). Infine, da rilevare, ma anche da discutere, quanto l’Autore sostiene a proposito di una televisione «civile ed astensionista» (pp. 129 e 143).

7 D. ALIMENTI, TG Segreto, Torino, SEI, 1978, 8°. 200. L. 4.000. Se è lecito fargli un appunto marginale: alle pp. 149 e 156 andrebbe meglio precisato quanto egli, di passaggio, scrive su McLuhan. .

8 P. BERTOLINI – M. DALLARI – F. FRABBONI - V. GHERARDI – M. MANINI – R. MASSA, I bambini e la tv, Milano, Feltrinelli, 1976, 16, 167. L. 3.000. Dato l’Istituto che ha curato la ricerca, e dato l’edirore che la pubblica, nessuna meraviglia che i ricercatori ce l’abbiano col «perbenismo della morale borghese» (p. 62) e contro «il vissuto ordinario contrassegnato da un’alta percentuale di valori etici o pseudo etici, trasmessi da un adulto come la mamma, la nonna, la nurse, ecc., che piega il bimbo alle categorie primarie dell’etica borghese: la frustrazione, l’inibizione, l’assenso, il silenzio, l’obbedienza, il rigido controllo dei movimenti, l’autodisciplina» (p. 63).

9 F. P1NTO, Intellettuali e tv negli anni ’50, Roma, Savelli, 1977, 16°, 208. L. 2000. I reperti archeologici sono (nell’ordine) di: R. Lombardi. P. Dallamano. FILS (= Federazione Italiana Lavoratori dello Spettacolo?), S. Tutino, G. Archibugi Gismondi, E. Zolla, A. D’Alessandro, G. Gramigna, F. Parri, A. Bellotto, Ragionamenti.

10 S. SAVIANE, Video malandrino, Quindici anni di RAI-TV. Milano, SugarCo, 1977, 8°, 342. L. 3.500. Per Dietro il video, cfr Civ. Call. 1973 III 339.

11 AA.VV., La videéo, un nouveau circuit d’information, Paris, Edition du CNRS, 1977, 4°, 107.

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3055, vol. IV (1977), pp. 45-53
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2870, vol. I (1970), pp. 155-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2739, vol. III (1964), pp. 246-254
n. 2729, vol. I (1964), pp. 422-435
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408