NOTE
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1 Capitali, in questo ambito, sono i tre volumi di R. E FELICE, Mussolini il fascista: I - La conquista del potere; II - L’organizzazione dello Stato fascista; III - Mussolini il duce: gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1966, 1968, 1974. Di rilevante valore anche E. NOLTE, De, Faschismus in seiner Epoche, Monaco, Piper, 1963 (ed. it.: I tre volti del fascismo, Milano, Sugar, 1966); E. TANNENBAUM, La experiencia fascista. Sociedad y cultura in Italia (1922-1945), Madrid, Alianza Editorial, 1975 (ed. it. L’esperienza fascista, Milano 1974); M. SCHUTTE, Politische Werbung, und Totalitäre Propaganda, Düsseldorf 1968; A. LYTTELTON, La conquista del potere, Bari, Laterza, 1974. Inoltre: AA.VV., Fascismo e antifascismo, Milano, Feltrinelli, 1962; G. FINK – G. BERNAGOZZI, Propaganda di regime e giudizio della storia, Firenze 1973; P. UGOLINI, Fascismo antifascismo libertà, Firenze, Politica, 1976; R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli, 1963.
In particolare sul fascismo e la cultura: N. BOBBIO, La cultura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973; H. BRENNER, La politica culturale del fascismo, Bari, Laterza, 1965; L. MANGONI, L’interventismo nella cultura, Ivi, 1974; C. L. RAGGHIANTI, Il fascismo e la cultura, in AA.VV., Storia dell’antifascismo italiano, Roma 1964; F. TEMPESTI, Arte dell’Italia fascista, Milano, Feltrinelli, 1976. Infine, circa il teatro, ricordiamo: A. C. ALBERTI, Il teatro nel fascismo italiano, Roma 1974; P. GRASSI, Il teatro e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e antifascismo: lezioni e testimonianze, Milano 1963; L. ZURLO, Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Roma 1972.

2 Ph. V. CANNIZZARO, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, 16°, 497. L. 3.700. Dello stesso A., sull’evoluzione della struttura burocratica statale da cui nacque il fascista Ministero della Cultura Popolare (il famigerato Minculpop): Burocrazia e politica culturale; ed anche il lungo saggio Il cinema italiano sotto il fascismo, in Storia contemporanea, 1972, n. 3, 413-464, che anticipava quanto l’A., in argomento, ha poi inserito nel volume La fabbrica del consenso.
Precedente al volume del Cannizzaro, nel 1974, nell’Enciclopedia Feltrinelli-Fischer: Comunicazioni di massa, curata da P. BALDELLI (Civ. Catt. 1976 I 619), era uscita la bene informata rancorosa e torrentizia requisitoria di A. PANICALI, Fascismo e comunicazioni di massa.

3 A conferma, si legge ancora con utilità il volume autobiografico di A. SIGNORETTI, La Stampa in camicia nera (Roma, Volpe, 1968, L. 2.000). Il quotidiano torinese La Stampa, compiendo i cento anni dalla fondazione (9 febbr. 1967), come vuole la consuetudine pubblicò alcune pagine commemorative, nelle quali osservò un silenzio quasi assoluto sul Ventennio 1925-1945, durante il quale il giornale, come gli altri, si allineò alle direttive di Roma. L’A., che – «diciannovista» e «Marcia su Roma», per quasi undici anni (1932-1943) ne fu il direttore –, colma la lacuna, non nascondendo il suo fascismo, ma rivelando molti retroscena su alcuni personaggi, grossi e meno grossi, che da fascisti pagarono con la propria vita; ma anche i retroscena di altri personaggi che, da lui nominati o meno, oggi passano per vecchi antifascisti. La lettura giova anche per conoscere dal di dentro, e sul filo dei ricordi di uno del Partito, le condizioni della stampa del tempo: senz’altro tristi ed umilianti, ma molto meno repressive di quelle di altri regimi, rossi o neri, passati o presenti.

4 Cfr, tra gli altri AA., F. FLORA, Stampa dell’era fascista: le note di servizio, Roma, Mondadori, 1945, e Ritratto di un ventennio: la stampa dell’era fascista, Bologna, Alfa, 1965; C. MATTEINI, Ordini alla stampa, Roma, Polilibraria, 1945. Inoltre: F. SACCHI, La stampa e il cinema nel ventennio, in AA.VV., Fascismo e antifascismo: lezioni e testimonianze, cit., Milano 1963; V. CASTRONOVO, La stampa italiana dall’unità al fascismo, Bari, Laterza, 1970 (Civ. Catt. 1971 II 93); V. CAPECCHI – M. LIVOLSI, La stampa quotidiana in Italia, Milano, Bompiani, 1971 (Cap. III: Nascita e fine di un’illusione, pp. 67 ss.); O. DEL BUONO (a cura di), Eia, Eia, Alalà: la stampa italiana sotto il fascismo: 1919-1943, Milano, Feltrinelli, 1971; M. SABA, Gioventù italiana del Littorio: la stampa dei giovani nella guerra fascista, ivi, 1973.

5 Ci sono, invece, da segnalare alcuni scritti, di anni recenti, sull’uso che di certa stampa minore – i fumetti e le cartoline – ha fatto il Regime, e sull’immagine bolso-eroica che di se stesso e del Duce esso ha imposto anche alla stampa minore che riuscì a conservarsi, in qualche misura, autonoma. Per i fumetti ricordiamo: AA.VV. Le grandi firme del fumetto italiano, Milano 1971; L. BECCIU, Il fumetto in Italia, Firenze, Sansoni, 1971; G. GENOVESI, Il fumetto, in La stampa periodica per ragazzi, Parma, Guanda, 1977, 199 ss., con ampia bibliografia (cfr Civ. Catt. 1975 III 324); U. ECO, Fascio e fumetto, in Costume di casa, Milano, Bompiani, 1973; e specialmente C. CARABBA, Il fascismo a fumetti (Rimini, Guaraldi, 1973, 8º, 279. L. 3.000): panoramica acido-sarcastica su storie, autori ed eroi dei fumetti del Ventennio (e post). Tra l’altro ricorda le «consegne» del Minculpop, e il tardivo ostracismo (1938) decretato contro le «strisce» USA, goffamente rimpiazzate da quelle autarchiche. In Appendice: tre integrali «storie esemplari» fascio-imperial-italiche dei periodici Nerbini degli anni 1938-’39. Per le cartoline segnaliamo – unico nel suo genere –: C’era una volta il Duce: Il Regime in cartolina, a cura di G. VITTORI, Roma, Savelli, 1975, 4º, s.p. L. 3.900: avvilente galleria-campionario di 149 pezzi di retorica melenso-epica e maschio-italica del fascismo. A coglierne appieno il senso giova molto l’acuto saggio introduttivo di C. A. QUINTAVALLE, La morte di Sigfrido, mentre un po’ meno giova la nota partigiana Il credo fascista di L. M. LOMBARDI SATRIANI.

6 Oltre alle trattazioni più generali – quali, ad esempio, quelle di M. GROMO, Cinema italiano 1903-1953, Verona, Mondadori, 1954 (Civ. Catt. 1955 II 531); di LIZZANI, Storia del cinema italiano, Firenze, Parenti, 1961 (Civ. Catt. 1962 IV .53); di L. L. GHIRARDINI, Il cinema e la guerra, Parma, Maccari, 1965 –, ricordiamo, di L. FREDDI, i due volumi fondamentali Il cinema, Roma, L’Arnia, 1949; di R. RENZI, il diario critico di un ex-balilla Da Starace a Antoniani, Padova, Marsilio, 1964 (Civ. Catt. 1965 II 71), e il più recente Il fascismo involontario e altri scritti, Bologna, Cappelli, 1975. Inoltre ricordiamo G. GEROSA, Da Giarabub a Salò: il cinema italiano durante la guerra, Milano, Cinema Nuovo, 1963 (Civ. Catt. 1964 III 507); il volume curato da G. TINAZZI, Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, Padova, Marsilio, 1966; AA.VV., Fascisme et résistence dans le cinéma italien, a cura di J. A. GILI, in Etudes cinématographiques, Paris 1970, nn. 82-83; G. OLDRINI, Teoria cinematografica in Italia durante il fascismo, in Problemi di teoria e storia del cinema, Napoli, Guida, 1976, 25; E. G. LAURA, Il linguaggio della propaganda in un decennio di cinegiornali LUCE, Grado 1972; la raccolta curata da G. BERNAGOZZI, Come si documenta il crimine: Il fascismo nel cinema italiano, Bologna, Pàtron, 1975 (Civ. Catt. 1976 II 414).

7 F. SAVIO, Ma l’amore no: Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943), Milano, Sonzogno, 1975, 4º, 411. L. 5.000. — Dello stesso A. abbiamo presentato Visione privata: Il film occidentale da Lumière a Godard, in Civ. Catt. 1973 III 433.

8 C. CARABBA, Il cinema nel ventennio nero, Firenze, Vallecchi, 1974, 8º, 356. L. 1.600. — Da segnalare a G. Grazzini, e agli altri critici di cinema tutori di un’etica del buon gusto, questo passo che l’A. riporta dal noto lavoro del fascistissimo L. Freddi: «Al Duce davano fastidio le scene troppo intime, i baci troppi lunghi. Certe scene – diceva – si possono appena tollerare quando sono scritte, e scritte bene. Viste, diventano insopportabili. Poi si affrettava a spiegare che il suo concetto non traeva origine da una ristretta mentalità moralistica, ma da motivi di buon gusto»(p. 169).

9 G. P. BRUNETTA, Cinema italiano tra le due guerre, Milano, Mursia, 1975, 8º. L. 3.500. — Dello stesso A. abbiamo presentato altre pubblicazioni sul cinema in Civ. Catt. 1971 IV 512; 1972 III 545; 1975 IV 205; ed anche, più vicino al volumetto che stiamo presentando, Intellettuali cinema e propaganda: Civ. Catt. 1973 III 434. Sempre dello stesso A., cfr in Cinema 60, 1975, n. 101, 4-13, Il fascismo nel cinema italiano del ventennio: un tentativo di presentare il fascismo culturalmente più furbo di quanto, in realtà, non sia stato.

10 In argomento, il Carabba procede giudica e manda ad orecchio. Scrive, per esempio: «Amaramente indicativo è in questo senso l’atteggiamento dei maggiori padri [?!] della Chiesa e del pontefice Pio XI, il quale si era interessato delle cose del cinema fin dall’inizio (1922) del suo regno terreno [?!]. Fu quello il primo atto ufficiale di una feroce crociata combattuta in nome del pudore. Instancabile coordinatore di tutte le iniziative sorte nell’ambito della cristianità – dall’OCIC al CUCE [?!] – Pio XI si trovò quasi sempre al fianco destro della cultura fascista» (p. 27); «Pio XI bandì nel giugno 1936 una crociata che forse non è ancora finita» (p. 111). Né a livello propriamente universitario si direbbe, in materia, l’informazione del prof. Brunetta. Pio XI avrebbe e pronunciato, la Divini illius magistri (p. 8), e – il 21 [?!] dicembre 1929 (p. 61) – anche la Vigilanti cura (p. 10); la censura cattolica si sarebbe affiancata alla censura fascista inasprendo il suo carattere prescrittivo e limitativo (p. 30), e questo sarebbe stato il compito del Centro Cattolico Cinematografico (p. 63). Non basta: «Nelle strutture di vertice della Chiesa» si sarebbe «rifiutato lo spettacolo come luogo di vizio e di immoralità», riportandosi «a posizioni pretridentine con vaghe reminiscenze patristiche (il De spectaculis)» tant’è vero che – ma dove l’ha trovato? – «nel 1913 la Congregazione concistoriale aveva emanato un decreto che proibiva le rappresentazioni cinematografiche nelle scuole: ed istituti religiosi» (p. 60); al Congresso dell’Aja del 1928 avrebbe parlato un certo Muchermann (p. 61), ed anche «l’esimio prelato» [sic!] don Canziani (p. 62). Per finire: da parte della «censura» cattolica ci sarebbe stata e un’accettazione totale della politica nazi-fascista» (p. 65).

11 A. GALANTE GARRONE, L’aedo senza fili, in Il Ponte, 10 ott. 1952, 1403-1429.

12 F. MONTELEONE, La radio italiana nel periodo fascista. Studio e documenti: 1922-1945, Venezia, Marsilio, 1976, 8º gr., 394. L. 6.500. — Già operante nell’editoria del cinema, l’A. dal 1969 è responsabile di un settore di programmi educativi nella RAI-TV. — Dopo questo studio, usciva, di A. BELLOTTO, Per una storia dell’EIAR: Problemi e tendenze, in Annali Scuola Superiore Com. Sociali, Milano 1976, nn. 1-2, 81 ss.

13 Scrive tra l’altro: «Non si può consentire all’atteggiamento moralistico che purtroppo è il vizio di origine di un certo antifascismo, diciamo così, di carattere borghese, dove l’interpretazione politica cede volentieri il passo allo sdegno di parte. Non si procede nella direzione della conoscenza storica dei fenomeni laddove ci si limita a adoperare un metro di valutazione, nell’analisi delle dinamiche sociali sottese ai fatti di costume e alla rappresentazione della vita così come era effettivamente realizzata nell’esperienza fascista, che sia esclusivamente volto a stigmatizzare gli aspetti ridicoli, mediocri, pagliacceschi, che oggi, con sensibilità mutata, e in una situazione politicamente assai diversa, riconosciamo come tali, ma che ai contemporanei, soprattutto alla grande massa del ceto medio, per il quale il fascismo non era più neanche un regime politicamente definito, ma addirittura un modo di essere, una “immagine” fortemente caratterizzata della nazione italiana, suonavano del tutto familiari, perché uniformi a un codice omogeneo di riferimenti, e perché corrispondenti comunque a una tecnica della propaganda perfettamente funzionale, per scelta ideologica e per volontà politica, a quel materiale umano che erano le masse italiane, almeno nel pieno degli anni trenta. L’informazione radiofonica era, di questa tecnica, un aspetto di prim’ordine, proprio per l’accurato e sapiente dosaggio delle notizie, cui si faceva ricorso per il controllo dell’opinione pubblica, diramate con la prassi ben nota a ogni Stato totalitario, e a ogni regime politico che tragga alimento da una logica di potere, nel tacere ogni informazione che possa risultare pericolosa e nel distorcere a proprio vantaggio ogni informazione che, pur essendo sgradita, non possa in alcun modo venire omessa» (p. 122).

14 Concorda C. MANNUCCI, ridimensionando l’uso della radio da parte del fascismo in Lo spettatore senza libertà, Bari 1962 (Civ. Catt. 1964 II 64), 89 ss., ed anche in La società di massa, Milano 1967, 25.

15 Allo storico inglese Mack Smith, che lo criticava per non aver scritto una storia antifascista del fascismo, il De Felice replicava: «I fatti parlano molto più chiaro e molto più antifascisticamente che non le parate di principio» (Il Tempo, 29 apr. 1976). E dello storico americano Michael A. Leeden sono le precisazioni: «Il fascismo è stato odioso, però era meno violento, meno crudele del nazismo. Ed è proprio questo che lo storico deve far distinguere [...]. Noi vogliamo essere antifascisti: ma che significa essere antifascisti? In primo luogo vuol dire conoscere cos’era veramente il fascismo. Ma se noi continuiamo a ridurre il fascismo alla borghesia, alla reazione, all’anticomunismo, perdiamo di vista tutte le sfumature, tutta la complessità del fenomeno. L’importanza dell’opera del De Felice sta nel fatto che vi si parla finalmente del fascismo come movimento di massa, del fascismo che si è creato intorno un consenso nazionale: dunque, un movimento veramente pericoloso, in questo secolo. Per lottare contro movimenti di questo genere bisogna comprendere in che cosa veramente consistano. Senza capire questo siamo perduti, non sapremo mai come difenderci [...]. Mussolini è stato un dittatore all’italiana. Certo non era un Hitler, uno Stalin [...]. Il giudizio che De Felice dà sul fascismo è un giudizio pienamente acquisito in Germania, negli Stati Uniti, nella Francia; e da diversi anni. Soltanto in Italia sembrano novità sconcertanti. È chiaro: tutta la politica italiana è basata sulle concezioni del fascismo e dell’antifascismo, che sono in gran parte metodologiche. Ma bisogna smitizzare questi concetti. Sinora era troppo difficile, per esempio, dire che il fascismo era un movimento di massa, perché dal ’45 ad oggi si è parlato di movimento di massa sempre come un fatto positivo, e si è parlato del fascismo sempre come un fatto negativo. Mettere insieme questi due elementi era quindi quasi impossibile» (Intervista con Michael Leeden, ivi, 19 maggio 1976); cfr anche, curato dallo stesso, Intervista sul fascismo, Bari, Laterza, 1975.

16 Cfr l’acuta e leale critica in R. RENZI, op. cit., 131 ss.

17 «Il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il maggior filosofo italiano del tempo [...]; in illusioni, rispetto al fascismo, caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la loro storia». (A. DEL NOCE, Appunti per una definizione storica del fascismo, in L’Epoca della secolarizzazione, Milano, Giuffrè, 1970, 132 e 135). In argomento, cfr anche L. MANGONI, L’interventismo..., cit.; E. GARIN, Intellettuali italiani del secolo XX, Roma, Editori Riuniti, 1974; G. AMENDOLA, Intellettuali e fascismo, in Fascismo e movimento operaio, ivi, 1975; C. L. RAGGHIANTI, L’antifascismo non fu soltanto rosso, in Il Giornale, 22 giu. 1976; E. STERPA, Ceti medi in camicia nera, ivi, 15 luglio 1976.

18 Notava DEL NOCE (op. cit., 134): «Nella pubblicistica corrente, ad alto e basso livello [...], nel linguaggio del nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato come fascista più o meno consapevole [...], e “fascismo” è fatto sinonimo di “repressività”»; e U. ECO, in L’uomo senza speranza (in Il costume di casa, cit., 153), negando che il regime dei colonnelli greci si potesse dire fascista, precisa: «L’uso indiscriminato che talora si fa di termini storicamente precisi per insultare l’avversario [...], impedisce di vedere con chiarezza chi l’avversario sia. Col termine “fascista”, per esempio, s’attaccano oggi tante e tante posizioni che ne scapita la chiarezza, e con essa la coscienza dei mezzi adatti a combatterle veramente».

19 U. SILVA, Ideologia ed arte nel fascismo, Milano, Marzotta, 1975, 8º, 163, con 248 ill. f.t. L. 3.500. — A complemento della nota precedente: a p. 158 egli scrive: «Ci sono tre modi in cui viene usato il termine “fascismo” quale disprezzativo assoluto: a) per indicare la dittatura in Italia del ventennio; b) per indicare regimi e partiti reazionari, quali il franchismo, il MSI, la DC, gli USA, i golpisti cileni, i colonnelli greci, i generali brasiliani, ecc.; c) per condannare un singolo atto che può provenire anche da persone o gruppi della sinistra sicuramente non reazionari nel loro complesso: ad esempio, l’accusa che le compagne femministe lanciano spesso verso compagni scopertamente maschisti. Insomma, come ha scritto G. LISCHIO: «Oggi è di moda dare del fascista / A chi non si professa comunista: / In questa Italia che va a scatafascio / Al solito si fa d’ogni erba un “fascio”».

20 Egli scrive tra l’altro: «In un primo momento i miti fascisti si presentano in prevalenza come negativi, tali da incutere terrore: rossi assassini [...], di pronto uso cd effetto, rivolti in genere solo alla piccola borghesia. In un secondo momento, impossessatosi il regime del monopolio ideologico, i miti vengono stabilizzati in un insieme organico [...], in una metodologia nella quale prevalgono i motivi positivi, tesi a forzare le masse a trascendere i propri limiti, ad imitare gli dei e i semidei consacrati, ad adeguarsi a realtà eroiche» (p. 61); «Al pseudo attivismo fascista occorreva un carisma di tipo personalistico, che consiste nell’investire un determinato individuo di particolari prerogative magico-soprannaturali [...]. L’univocità decisionale è il carattere più tipico del carisma personalistico, per cui la massa dei singoli individui rinuncia a suo favore alle proprie capacità volitive» (pp. 67-68); «Nella manipolazione emozionale che il fascismo fece delle muse il rituale assume un’importanza fondamentale, informando di tutte le programmazioni dei cittadini italiani, in ogni settore e momento» (p. 84); «I canoni della nuova estetica: ispirazione ristretta alla vita fascista, tema obbligato, acceso antintlelettualismo, populismo...» (p. 120).

21 A p. 77, citando tre numeri della Civiltà Cattolica – del 22 IX 1889, del 12 V 1928 e del 26 X 1934 – l’A. sfrontatamente «documenta» un antisemitismo di tipo nazista della Rivista e della Chiesa cattolica; quando nel primo numero citato non c’è traccia di un discorso in argomento, mentre negli altri due l’antisemitismo, nazista o meno, è apertamente condannato. Con pari onestà a p. 141 l’A. documenta il filonazismo di Pio XI.

22 Bontà sua, per l’A., «se la religione cattolica è oppio, l’ideologia fascista è eroina» (p. 19). In compenso l’A. ci fornisce affermazioni utili nella odierna confusione, scrivendo: «Non si può parlare, a rigore di logica, di marxismo non materialista» (p. 131), e «Il comunismo è l’abolizione di ogni morale» (p. 160).

23 La scelta, in verità anche troppo facile, segue il criterio sarcastico delle raccolte già citate di C. CARABBA e di G. VITTORI. In argomento si consulta con utilità il più equilibrato E. G. LAURA, Immagine del fascismo: I vol., Milano, Lonaane1i, 1973 (Civ. Catt. 1974 IV 99).

24 W. REICH, Psicologia di massa del fascismo, Milano, Mondadori, 1974, 8º. L. 1.000. — È noto come il poveretto, denunciato per l suoi licenziosi esperimenti, venne rinchiuso nel penitenziario di Lewisburg (USA), dove morì il 3 novembre 1957.

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Articolo estratto dal volume IV del 1977 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Chi ha detto che le guerre mandano in rovina gli uomini? A giudicare dalle centinaia di libri pullulati, per esempio, da noi sulla seconda guerra mondiale, si direbbe che, almeno per scrittori ed editori, esse fruttano come miniere d’oro. E lo stesso sembra che valga per quella calamità che fu il ventennio fascista, se a trent’anni, ormai, dal suo disastroso sfacelo, esso continua ad alimentare una già più che esuberante editoria.

Un posto privilegiato vi occupano autori e scritti che indagano – ovviamente, per vituperarli – sui rapporti intercorsi tra fascismo e mass media: vale a dire la stampa, il cinema e la radio (la televisione non c’era). A complemento di quelli che a suo tempo abbiamo avuto modo di segnalare, ne presentiamo ora una buona dozzina di usciti recentemente, accompagnandoli con qualche nota di commento.

La fabbrica del consenso

È risaputo che nei moderni regimi ideologici – rossi o neri, non fa differenza – l’arma prima alla quale ricorrono i «liberatori» per manipolare il consenso delle masse o, almeno, per soffocarne od occultarne i dissensi, è sempre il monopolio dei mass media: arma più efficace che non i confini e gli ospedali psichiatrici, le prigioni e i campi di concentramento, le esecuzioni capitali e i massacri. Perciò l’uso dei mass media da parte degli stessi è necessariamente parte integrante della loro storia: vale a dire della loro prassi per impadronirsi del potere e per mantenercisi, a tal fine creando tutti – ma è una mania! – nuove (definitive!) «culture» e «civiltà» nonché nuove (imperiture!) forme artistiche1.

Tuttavia in questa nostra modesta rassegna lasciamo ad altri, più qualificati, l’interessarsi alla storia in genere del fascismo, della sua «cultura», e della sua «arte», per limitarci a scritti che trattano più direttamente dei mass media, cominciando dal volume del Cannizzaro2 – non per niente introdotto da quell’autorità in materia che è il De Felice – sull’uso fatto dal fascismo dei mass media nel loro insieme.

Documentatissimo – si vedano le ben 969 note finali, e i Documenti riportati in Appendice –, il giovane (è nato nel 1942) oriundo italiano, discepolo dei noti storici J. Reither ed E.R. Tannenbaum, oggi docente di storia all’Università di Stato della Florida (USA), ha il raro pregio di trattare la materia sine ira et studio, lasciando ai fatti di mostrare tutta l’oppressoria, ed insieme grottesca e ridicola, prassi del Regime. Premesso un capitolo sull’organizzazione della cultura da parte dello stesso (1922-1932), ne dedica due alle istituzioni che ne costituirono le tappe principali: l’Ufficio Stampa, quale organo della propaganda di massa (1926-1933), e, sull’esempio della parallela istituzione nazista, il Ministero della Cultura Popolare, quale organo di una politica totalitaria, tanto nei compiti quanto nei mezzi (1933-1943). In questo quadro egli sviluppa poi i tre capitoli sulla stampa, sulla radio e sul cinema. Infine, a mo’ di epilogo, un ultimo capitolo sulla tragico-farsesca Repubblica di Salò. Tra le cose che opportunamente viene fatto di rilevare: l’uso tempestivo della stampa, fatto dal Regime, per tramite delle strutture già esistenti, e familiari al Duce, vecchio giornalista; e quello, invece, goffo e tardivo, del cinema della radio – due media che, allora, erano «tutti da farsi» –, e che, in effetti, vennero portati a buoni livelli tecnici, ma senza che il fascismo riuscisse a fame mai l’uso «intelligente» e massiccio fattone, invece, dal comunismo-URSS e dal nazismo tedesco: modelli con i quali il fascismo cercò invano di competere. Altre verità che risultano dall’oggettività di queste pagine – ostiche, forse, a molti odierni antifascisti ritardatari – sono che non tutti gli antifascisti di poi e di oggi lo furono allora3, e che non tutti i fascisti di allora erano necessariamente cretini o mostri.

Fascismo e cinema

Forse perché, in proposito, era già stato detto tutto il dicibile4, non abbiamo da segnalare volumi recenti sull’oppressione fascista della libertà d’opinione e d’informazione e sull’asservimento di tutti, si può dire, i giornali, e della stampa in genere, ai Diktat del Capo onnisciente ed onnipotente, e dei suoi burocrati zelantissimi5. Viceversa, nel settore cinema continua a piovere sul bagnato, almeno tre autori essendosi accompagnati recentemente ai molti che ne avevano trattato6. Presentiamo per primo quello tra essi che, per obiettività d’informazione e di critica, stimiamo il migliore: il recentemente scomparso Francesco Savio7.

Il corpus di Ma l’amore no, maiuscolo volume in 4º, è costituito dall’elenco alfabetico di ben 720 film prodotti in Italia nei tredici anni che vanno dal 1930, anno della diffusione del sonoro, al 1943, anno della caduta del Regime: di tutti i film fornendo, con esattezza puntigliosa, titoli di testa, anno di edizione, cast e credit, argomento ed osservazioni particolari, slogan pubblicitari, giudizi critici del tempo e bibliografia. Come per altre opere del genere, considerando la caducità della materia e il suo modesto peso culturale ci si chiede se non sia sprecato tanto lusso filologico, roba – si direbbe – più da collezionisti maniaci che da specialisti coscienziosi. Ma è onesto riconoscere che questa, rispetto al periodo considerato, va apprezzata come «la» filmografia critica, in confronto ad altre meno puntigliose, e che perciò è lecito rammaricarsi che non comprenda anche gli anni, almeno, del cinema muto-fascista: 1922-1930.

Il pregio maggiore dell’opera è nelle diciotto grandi e fitte pagine – oltretutto, di piacevolissima lettura –, con le quali l’Autore introduce la filmografia critica, di cui s’è detto; panoramicando – come enunciato nel sottotitolo del volume –, ma anche riducendone acritici luoghi comuni, sul realismo, il formalismo, la propaganda e i telefoni bianchi, che caratterizzarono il cinema italiano sotto il Regime. Non faziose ingiurie e facili condanne in blocco: titoli e trame, direttive e interventi, allineamenti (innumerevoli) e resistenze (rare e dubbie) forniscono da sé materia di scontato sarcasmo e vergogna. Notevole, tra l’altro, l’autonomia di giudizio con cui l’Autore riabilita quanto di buono, o da non buttar via, in autori e in film il ventennio permise o tollerò. Insomma, poche pagine che, se non esauriscono l’argomento, almeno trattano i lettori da intelligenti, e non da ideologicamente imbrancati, o imbrancabili.

Non diremmo che pari encomio meritino gli altri due, tutto sommato, superflui, volumetti: del giornalista e critico cinematografico C. Carabba8, e del docente di storia e critica del cinema all’Università di Padova G. P. Brunetta9.

Simile nei due è la struttura: ad una prima parte espositiva, ne segue una seconda antologico-documentaria; in più, nel volumetto del Carabba, una raccolta di illustrazioni fuori testo e due Appendici; alfabetico-biografica dei registi, e cronologico-filmografica. Ma quasi identico è nei due il procedimento ideologico: precostituita una viscerale tesi di parte, i materiali critici vengono scelti ed interpretati rispetto ad essa. Quindi, senza mezze ombre, seguono i giudizi: piuttosto giornalistico-sarcastici nel primo, con qualche sussiego accademico nel secondo. Comune ai due, allineati ideologicamente, l’allergia antiecclesiastica10.

Fascismo e radio

Salvo sviste, su l’uso della radio da parte del Regime disponevamo soltanto di un saggio di un certo peso – una trentina di pagine – pubblicato da A. Galante Garrone nel lontano 195211. Oggi, oltre che da] ricordato studio del Cannizzaro, il vuoto viene colmato dal più ampio e documentato studio del pubblicista napoletano F. Monteleone12.

Dato che la diffusione del nuovo medium di fatto coincise con l’avvento del fascismo al potere, il volume finisce col fare la storia tout court della radio in Italia: dalla sua nascita (1922) al suo boom degli anni ’30. Ovviamente, documentandone la progressiva totale fascistizzazione; dalla lotta per le concessioni alla ricerca di un pubblico, alla massiccia manipolazione dei «messaggi»; sia ad uso interno (politica rurale, cultura popolare, informazione polarizzata e propaganda spudorata), sia verso l’estero sino alla mobilitazione completa durante la guerra, ed ai folli sussulti della radio repubblichina; con una buona trattazione anche sull’ascolto clandestino delle trasmittenti antifasciste; italiane ed estere. Tre quinti del volume sono riservati alla parte espositiva; in appoggio di questa, gli altri due quinti riportano 81 documenti originali di carattere organizzativo-amministrativo, e 29 testi originali di trasmissioni radio: fasciste e antifasciste.

Nell’insieme, l’Autore si mostra sufficientemente obiettivo, e non manca di riconoscere al Regime, sia pure a denti stretti, qualche merito e qualche successo positivo in questo settore13. Tra l’altro, contro certe forzature di altri antifascisti, egli nota il relativo ritardo con cui Mussolini si rese conto – come per il cinema – delle possibilità imbonitorie della radio, ed il moderato uso personale che ne fece14, certo non paragonabile a quello di Goebels-Hitler, forse anche perché era consapevole che la sua oratoria istrionica gli rendeva molto di più nel contatto faccia a faccia con le folle. Altro merito dell’Autore: con la sua documentazione di prima mano contribuisce a far comprendere l’importanza della «guerra delle onde» in tutti gli scontri ideologici odierni, e non soltanto durante i conflitti armati.

Il silenzio sugli altri Regimi

Iniziando questa rassegna della più recente editoria denunciatoria della manomissione dei mass media praticata dal fascismo, venuta a far massa con quella che l’aveva preceduta, ne abbiamo rilevata la sovrabbondanza. A lamentarcene, certamente non saremo quanti, reduci dal ventennio nero, ricordiamo quel mattino del luglio ’43, quando, dichiarata finita, nella notte, la dittatura, ci riversammo nelle strade e, tra i falò dei fasci littòri, e dei ritratti del Capo che volavano dalle finestre, ci sentimmo finalmente invitati a gettare la maschera e a riprendere ciascuno il suo volto.

Tuttavia ci vien fatto di chiederci come mai tanta, diciamola pure, inflazione di denunce – oltre tutto, oggi, poco eroiche – contro il defunto Regime nero; e, invece, il silenzio su altri regimi, più longevi di quello fascista, quando, tra l’altro, è notorio – per esempio – che quello comunista dell’URSS – il più vessatorio dei monopoli ideologici sui mass media – servi da modello primo e inuguagliato a tutti gli altri, quello fascista compreso? Che cosa aspettano, certi nostrani paladini delle libertà di opinione, di espressione e d’informazione, a documentarsi su come sono sempre andate le cose della stampa del cinema della radio e della televisione, e come vanno ancora oggi, dopo la Convenzione Internazionale dell’ONU (1948/’66) e la Conferenza di Helsinki (1973/’75), in tutti senza eccezione i regimi comunisti, che le hanno firmate: da quelli dell’Est europeo a quelli dell’Asia e dell’Estremo Oriente, dell’Africa e di Cuba?

Anche certi approcci critici, di un antifascismo di maniera, ci garbano poco. Ben vengano le serie analisi storico-sociologiche, per esempio, del De Felice15 e del Tannenbaum, del Cannizzaro, del Savio e del Monteleone, che lasciano ai lettori intelligenti, bene documentandoli, giudizi e riprovazioni oggettive; diffidiamo, invece, dei procedimenti devianti di troppi altri autori antifascisti. Tale quello – caro a molto cinema italiano, tipo il felliniano Amarcord16, e a recenti programmi TV: parodie del ventennio e dei suoi gerarchi, condotte a livello di varietà e di barzellette –, di stroncare il fascismo soltanto sbeffeggiandone la retorica e il rituale; procedimento due volte deviante: sia perché retorica e rituale non furono, né sono, esclusivi del fascismo, sia perché finisce col far ignorare le cause che portarono al potere, e che, almeno in certi anni, lo fecero accettare, se non applaudire, dalla quasi totalità degli italiani, intellighentsia compresa17. E tale è l’altro procedimento – corrente nell’odierna oratoria comiziesca e nella pubblicistica politica18 – di dilatare l’accezione del termine «fascista», ad ogni ideologia o prassi di sopraffazione e di violenza, esclusa quella marxista; procedimento semplificatorio, non meno di quello cui ricorsero i fascisti e i nazisti individuando soltanto nella barbarie comunista, o nelle plutocrazie demo-giudeomassoniche «i diavoli» da esorcizzare e da annientare.

Segue piuttosto il primo procedimento il recente pamphlet di U. Silva sulla ideologia e l’arte nel fascismo19. L’Autore è diligentissimo nel denunciare tutte le prevaricazioni: dall’imperialismo-colonialismo al (tardivo) antisemitismo; dal dirigismo dell’informazione della cultura e dell’arte alla reiterazione di riti e di miti, e soprattutto alla martellante apologia del Capo infallibile, in funzione di manipolazione-euforizzazione delle masse verso un’escatologia palingenesica: dallo Stato etico, fuori del quale l’individuo non è niente, alla Nazione concepita come «un unico manicomio, dove tutti gli individui sono pazienti da ricostruire psichicamente» (p. 49). Mai, tuttavia, che gli sorga il sospetto della reversibilità di siffatte accuse, contro altri regimi20. In uno spreco di dubbia documentazione21 e di citazioni di fonti marxiste, più che i cristiani non facciano con la Bibbia, egli imposta la sua requisitoria appunto sul credo manicheo-maoista: che il diavolo è tutto e solo il capitale (borghese-fascista), mentre soggetto di ogni valore e diritto è tutto e solo il proletariato. Oggi – egli scrive – l’«ora è serotina, con pochi poli di buio pesto (fascismo) e di luce viva (Ottobre rosso, Cina)» (p. 158). L’autentica palingenesi escatologica è solo nella lotta di classe e nel trionfo del proletariato sul capitale; e – dato che nazismo, fascismo e cattolicesimo22, sono «mitologie» che solo il marxismo è «pensiero» – per il nostro Autore «non c’è vera arte che non sia [come voleva il Duce!] rivoluzionaria, e non c’è moderna rivoluzione che non sia marxista» (p. 110). Tra le poche cose apprezzabili: l’abbondante documentazione illustrativa della cultura-arte-propaganda fascista23 e, checché ne abbia teorizzato Giovanni Gentile, la tesi, cara anche al De Felice, che il fascismo non riuscì mai ad avere un’ideologia unitaria.

Non meno deviante il saggio sulla psicologia di massa del fascismo, dello psicanalista austriaco Wilhelm Reich, pubblicato in tedesco nel lontano 1933, in inglese, e poi in italiano dal Sugar, nel 1971 e, non si sa perché, riesumato di recente dal Mondadori24. Lo scopritore e profeta dell’Orgone Cosmico, e fondatore dell’Orgone Institute, applica la sua paranoica pan-sessuologia al fascismo, dopo aver etichettato «fascista» una prassi e teoria che il fascismo del Ventennio, a lui poco o nulla noto, praticò – se lo praticò – in modo risibile rispetto alla, invece, teutonica metodica del nazismo, a lui ben noto. E siccome suo dogma che ogni misticismo organizzato si fonda su desideri orgastici insoddisfatti delle masse, fascismo e religione, per lui, se non sono la stessa cosa, poco ci manca. Di qui il suo avventarsi anche contro ogni forma di religione, la cattolica in particolare. Dato che anche ai paranoici qualche verità non sfugge, lasciamo ai lettori giudicare quanti e quali dei suoi rilievi siano applicabili, oltre che al fascismo e al nazismo, anche al comunismo, sia a quello che il Reich condanna come degenerazione staliniana, sia a quello originario marx-leninista, che egli difende ed invoca.

1 Capitali, in questo ambito, sono i tre volumi di R. E FELICE, Mussolini il fascista: I - La conquista del potere; II - L’organizzazione dello Stato fascista; III - Mussolini il duce: gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1966, 1968, 1974. Di rilevante valore anche E. NOLTE, De, Faschismus in seiner Epoche, Monaco, Piper, 1963 (ed. it.: I tre volti del fascismo, Milano, Sugar, 1966); E. TANNENBAUM, La experiencia fascista. Sociedad y cultura in Italia (1922-1945), Madrid, Alianza Editorial, 1975 (ed. it. L’esperienza fascista, Milano 1974); M. SCHUTTE, Politische Werbung, und Totalitäre Propaganda, Düsseldorf 1968; A. LYTTELTON, La conquista del potere, Bari, Laterza, 1974. Inoltre: AA.VV., Fascismo e antifascismo, Milano, Feltrinelli, 1962; G. FINK – G. BERNAGOZZI, Propaganda di regime e giudizio della storia, Firenze 1973; P. UGOLINI, Fascismo antifascismo libertà, Firenze, Politica, 1976; R. ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Milano, Feltrinelli, 1963.
In particolare sul fascismo e la cultura: N. BOBBIO, La cultura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973; H. BRENNER, La politica culturale del fascismo, Bari, Laterza, 1965; L. MANGONI, L’interventismo nella cultura, Ivi, 1974; C. L. RAGGHIANTI, Il fascismo e la cultura, in AA.VV., Storia dell’antifascismo italiano, Roma 1964; F. TEMPESTI, Arte dell’Italia fascista, Milano, Feltrinelli, 1976. Infine, circa il teatro, ricordiamo: A. C. ALBERTI, Il teatro nel fascismo italiano, Roma 1974; P. GRASSI, Il teatro e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e antifascismo: lezioni e testimonianze, Milano 1963; L. ZURLO, Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Roma 1972.

2 Ph. V. CANNIZZARO, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Bari, Laterza, 1975, 16°, 497. L. 3.700. Dello stesso A., sull’evoluzione della struttura burocratica statale da cui nacque il fascista Ministero della Cultura Popolare (il famigerato Minculpop): Burocrazia e politica culturale; ed anche il lungo saggio Il cinema italiano sotto il fascismo, in Storia contemporanea, 1972, n. 3, 413-464, che anticipava quanto l’A., in argomento, ha poi inserito nel volume La fabbrica del consenso.
Precedente al volume del Cannizzaro, nel 1974, nell’Enciclopedia Feltrinelli-Fischer: Comunicazioni di massa, curata da P. BALDELLI (Civ. Catt. 1976 I 619), era uscita la bene informata rancorosa e torrentizia requisitoria di A. PANICALI, Fascismo e comunicazioni di massa.

3 A conferma, si legge ancora con utilità il volume autobiografico di A. SIGNORETTI, La Stampa in camicia nera (Roma, Volpe, 1968, L. 2.000). Il quotidiano torinese La Stampa, compiendo i cento anni dalla fondazione (9 febbr. 1967), come vuole la consuetudine pubblicò alcune pagine commemorative, nelle quali osservò un silenzio quasi assoluto sul Ventennio 1925-1945, durante il quale il giornale, come gli altri, si allineò alle direttive di Roma. L’A., che – «diciannovista» e «Marcia su Roma», per quasi undici anni (1932-1943) ne fu il direttore –, colma la lacuna, non nascondendo il suo fascismo, ma rivelando molti retroscena su alcuni personaggi, grossi e meno grossi, che da fascisti pagarono con la propria vita; ma anche i retroscena di altri personaggi che, da lui nominati o meno, oggi passano per vecchi antifascisti. La lettura giova anche per conoscere dal di dentro, e sul filo dei ricordi di uno del Partito, le condizioni della stampa del tempo: senz’altro tristi ed umilianti, ma molto meno repressive di quelle di altri regimi, rossi o neri, passati o presenti.

4 Cfr, tra gli altri AA., F. FLORA, Stampa dell’era fascista: le note di servizio, Roma, Mondadori, 1945, e Ritratto di un ventennio: la stampa dell’era fascista, Bologna, Alfa, 1965; C. MATTEINI, Ordini alla stampa, Roma, Polilibraria, 1945. Inoltre: F. SACCHI, La stampa e il cinema nel ventennio, in AA.VV., Fascismo e antifascismo: lezioni e testimonianze, cit., Milano 1963; V. CASTRONOVO, La stampa italiana dall’unità al fascismo, Bari, Laterza, 1970 (Civ. Catt. 1971 II 93); V. CAPECCHI – M. LIVOLSI, La stampa quotidiana in Italia, Milano, Bompiani, 1971 (Cap. III: Nascita e fine di un’illusione, pp. 67 ss.); O. DEL BUONO (a cura di), Eia, Eia, Alalà: la stampa italiana sotto il fascismo: 1919-1943, Milano, Feltrinelli, 1971; M. SABA, Gioventù italiana del Littorio: la stampa dei giovani nella guerra fascista, ivi, 1973.

5 Ci sono, invece, da segnalare alcuni scritti, di anni recenti, sull’uso che di certa stampa minore – i fumetti e le cartoline – ha fatto il Regime, e sull’immagine bolso-eroica che di se stesso e del Duce esso ha imposto anche alla stampa minore che riuscì a conservarsi, in qualche misura, autonoma. Per i fumetti ricordiamo: AA.VV. Le grandi firme del fumetto italiano, Milano 1971; L. BECCIU, Il fumetto in Italia, Firenze, Sansoni, 1971; G. GENOVESI, Il fumetto, in La stampa periodica per ragazzi, Parma, Guanda, 1977, 199 ss., con ampia bibliografia (cfr Civ. Catt. 1975 III 324); U. ECO, Fascio e fumetto, in Costume di casa, Milano, Bompiani, 1973; e specialmente C. CARABBA, Il fascismo a fumetti (Rimini, Guaraldi, 1973, 8º, 279. L. 3.000): panoramica acido-sarcastica su storie, autori ed eroi dei fumetti del Ventennio (e post). Tra l’altro ricorda le «consegne» del Minculpop, e il tardivo ostracismo (1938) decretato contro le «strisce» USA, goffamente rimpiazzate da quelle autarchiche. In Appendice: tre integrali «storie esemplari» fascio-imperial-italiche dei periodici Nerbini degli anni 1938-’39. Per le cartoline segnaliamo – unico nel suo genere –: C’era una volta il Duce: Il Regime in cartolina, a cura di G. VITTORI, Roma, Savelli, 1975, 4º, s.p. L. 3.900: avvilente galleria-campionario di 149 pezzi di retorica melenso-epica e maschio-italica del fascismo. A coglierne appieno il senso giova molto l’acuto saggio introduttivo di C. A. QUINTAVALLE, La morte di Sigfrido, mentre un po’ meno giova la nota partigiana Il credo fascista di L. M. LOMBARDI SATRIANI.

6 Oltre alle trattazioni più generali – quali, ad esempio, quelle di M. GROMO, Cinema italiano 1903-1953, Verona, Mondadori, 1954 (Civ. Catt. 1955 II 531); di LIZZANI, Storia del cinema italiano, Firenze, Parenti, 1961 (Civ. Catt. 1962 IV .53); di L. L. GHIRARDINI, Il cinema e la guerra, Parma, Maccari, 1965 –, ricordiamo, di L. FREDDI, i due volumi fondamentali Il cinema, Roma, L’Arnia, 1949; di R. RENZI, il diario critico di un ex-balilla Da Starace a Antoniani, Padova, Marsilio, 1964 (Civ. Catt. 1965 II 71), e il più recente Il fascismo involontario e altri scritti, Bologna, Cappelli, 1975. Inoltre ricordiamo G. GEROSA, Da Giarabub a Salò: il cinema italiano durante la guerra, Milano, Cinema Nuovo, 1963 (Civ. Catt. 1964 III 507); il volume curato da G. TINAZZI, Il cinema italiano dal fascismo all’antifascismo, Padova, Marsilio, 1966; AA.VV., Fascisme et résistence dans le cinéma italien, a cura di J. A. GILI, in Etudes cinématographiques, Paris 1970, nn. 82-83; G. OLDRINI, Teoria cinematografica in Italia durante il fascismo, in Problemi di teoria e storia del cinema, Napoli, Guida, 1976, 25; E. G. LAURA, Il linguaggio della propaganda in un decennio di cinegiornali LUCE, Grado 1972; la raccolta curata da G. BERNAGOZZI, Come si documenta il crimine: Il fascismo nel cinema italiano, Bologna, Pàtron, 1975 (Civ. Catt. 1976 II 414).

7 F. SAVIO, Ma l’amore no: Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943), Milano, Sonzogno, 1975, 4º, 411. L. 5.000. — Dello stesso A. abbiamo presentato Visione privata: Il film occidentale da Lumière a Godard, in Civ. Catt. 1973 III 433.

8 C. CARABBA, Il cinema nel ventennio nero, Firenze, Vallecchi, 1974, 8º, 356. L. 1.600. — Da segnalare a G. Grazzini, e agli altri critici di cinema tutori di un’etica del buon gusto, questo passo che l’A. riporta dal noto lavoro del fascistissimo L. Freddi: «Al Duce davano fastidio le scene troppo intime, i baci troppi lunghi. Certe scene – diceva – si possono appena tollerare quando sono scritte, e scritte bene. Viste, diventano insopportabili. Poi si affrettava a spiegare che il suo concetto non traeva origine da una ristretta mentalità moralistica, ma da motivi di buon gusto»(p. 169).

9 G. P. BRUNETTA, Cinema italiano tra le due guerre, Milano, Mursia, 1975, 8º. L. 3.500. — Dello stesso A. abbiamo presentato altre pubblicazioni sul cinema in Civ. Catt. 1971 IV 512; 1972 III 545; 1975 IV 205; ed anche, più vicino al volumetto che stiamo presentando, Intellettuali cinema e propaganda: Civ. Catt. 1973 III 434. Sempre dello stesso A., cfr in Cinema 60, 1975, n. 101, 4-13, Il fascismo nel cinema italiano del ventennio: un tentativo di presentare il fascismo culturalmente più furbo di quanto, in realtà, non sia stato.

10 In argomento, il Carabba procede giudica e manda ad orecchio. Scrive, per esempio: «Amaramente indicativo è in questo senso l’atteggiamento dei maggiori padri [?!] della Chiesa e del pontefice Pio XI, il quale si era interessato delle cose del cinema fin dall’inizio (1922) del suo regno terreno [?!]. Fu quello il primo atto ufficiale di una feroce crociata combattuta in nome del pudore. Instancabile coordinatore di tutte le iniziative sorte nell’ambito della cristianità – dall’OCIC al CUCE [?!] – Pio XI si trovò quasi sempre al fianco destro della cultura fascista» (p. 27); «Pio XI bandì nel giugno 1936 una crociata che forse non è ancora finita» (p. 111). Né a livello propriamente universitario si direbbe, in materia, l’informazione del prof. Brunetta. Pio XI avrebbe e pronunciato, la Divini illius magistri (p. 8), e – il 21 [?!] dicembre 1929 (p. 61) – anche la Vigilanti cura (p. 10); la censura cattolica si sarebbe affiancata alla censura fascista inasprendo il suo carattere prescrittivo e limitativo (p. 30), e questo sarebbe stato il compito del Centro Cattolico Cinematografico (p. 63). Non basta: «Nelle strutture di vertice della Chiesa» si sarebbe «rifiutato lo spettacolo come luogo di vizio e di immoralità», riportandosi «a posizioni pretridentine con vaghe reminiscenze patristiche (il De spectaculis)» tant’è vero che – ma dove l’ha trovato? – «nel 1913 la Congregazione concistoriale aveva emanato un decreto che proibiva le rappresentazioni cinematografiche nelle scuole: ed istituti religiosi» (p. 60); al Congresso dell’Aja del 1928 avrebbe parlato un certo Muchermann (p. 61), ed anche «l’esimio prelato» [sic!] don Canziani (p. 62). Per finire: da parte della «censura» cattolica ci sarebbe stata e un’accettazione totale della politica nazi-fascista» (p. 65).

11 A. GALANTE GARRONE, L’aedo senza fili, in Il Ponte, 10 ott. 1952, 1403-1429.

12 F. MONTELEONE, La radio italiana nel periodo fascista. Studio e documenti: 1922-1945, Venezia, Marsilio, 1976, 8º gr., 394. L. 6.500. — Già operante nell’editoria del cinema, l’A. dal 1969 è responsabile di un settore di programmi educativi nella RAI-TV. — Dopo questo studio, usciva, di A. BELLOTTO, Per una storia dell’EIAR: Problemi e tendenze, in Annali Scuola Superiore Com. Sociali, Milano 1976, nn. 1-2, 81 ss.

13 Scrive tra l’altro: «Non si può consentire all’atteggiamento moralistico che purtroppo è il vizio di origine di un certo antifascismo, diciamo così, di carattere borghese, dove l’interpretazione politica cede volentieri il passo allo sdegno di parte. Non si procede nella direzione della conoscenza storica dei fenomeni laddove ci si limita a adoperare un metro di valutazione, nell’analisi delle dinamiche sociali sottese ai fatti di costume e alla rappresentazione della vita così come era effettivamente realizzata nell’esperienza fascista, che sia esclusivamente volto a stigmatizzare gli aspetti ridicoli, mediocri, pagliacceschi, che oggi, con sensibilità mutata, e in una situazione politicamente assai diversa, riconosciamo come tali, ma che ai contemporanei, soprattutto alla grande massa del ceto medio, per il quale il fascismo non era più neanche un regime politicamente definito, ma addirittura un modo di essere, una “immagine” fortemente caratterizzata della nazione italiana, suonavano del tutto familiari, perché uniformi a un codice omogeneo di riferimenti, e perché corrispondenti comunque a una tecnica della propaganda perfettamente funzionale, per scelta ideologica e per volontà politica, a quel materiale umano che erano le masse italiane, almeno nel pieno degli anni trenta. L’informazione radiofonica era, di questa tecnica, un aspetto di prim’ordine, proprio per l’accurato e sapiente dosaggio delle notizie, cui si faceva ricorso per il controllo dell’opinione pubblica, diramate con la prassi ben nota a ogni Stato totalitario, e a ogni regime politico che tragga alimento da una logica di potere, nel tacere ogni informazione che possa risultare pericolosa e nel distorcere a proprio vantaggio ogni informazione che, pur essendo sgradita, non possa in alcun modo venire omessa» (p. 122).

14 Concorda C. MANNUCCI, ridimensionando l’uso della radio da parte del fascismo in Lo spettatore senza libertà, Bari 1962 (Civ. Catt. 1964 II 64), 89 ss., ed anche in La società di massa, Milano 1967, 25.

15 Allo storico inglese Mack Smith, che lo criticava per non aver scritto una storia antifascista del fascismo, il De Felice replicava: «I fatti parlano molto più chiaro e molto più antifascisticamente che non le parate di principio» (Il Tempo, 29 apr. 1976). E dello storico americano Michael A. Leeden sono le precisazioni: «Il fascismo è stato odioso, però era meno violento, meno crudele del nazismo. Ed è proprio questo che lo storico deve far distinguere [...]. Noi vogliamo essere antifascisti: ma che significa essere antifascisti? In primo luogo vuol dire conoscere cos’era veramente il fascismo. Ma se noi continuiamo a ridurre il fascismo alla borghesia, alla reazione, all’anticomunismo, perdiamo di vista tutte le sfumature, tutta la complessità del fenomeno. L’importanza dell’opera del De Felice sta nel fatto che vi si parla finalmente del fascismo come movimento di massa, del fascismo che si è creato intorno un consenso nazionale: dunque, un movimento veramente pericoloso, in questo secolo. Per lottare contro movimenti di questo genere bisogna comprendere in che cosa veramente consistano. Senza capire questo siamo perduti, non sapremo mai come difenderci [...]. Mussolini è stato un dittatore all’italiana. Certo non era un Hitler, uno Stalin [...]. Il giudizio che De Felice dà sul fascismo è un giudizio pienamente acquisito in Germania, negli Stati Uniti, nella Francia; e da diversi anni. Soltanto in Italia sembrano novità sconcertanti. È chiaro: tutta la politica italiana è basata sulle concezioni del fascismo e dell’antifascismo, che sono in gran parte metodologiche. Ma bisogna smitizzare questi concetti. Sinora era troppo difficile, per esempio, dire che il fascismo era un movimento di massa, perché dal ’45 ad oggi si è parlato di movimento di massa sempre come un fatto positivo, e si è parlato del fascismo sempre come un fatto negativo. Mettere insieme questi due elementi era quindi quasi impossibile» (Intervista con Michael Leeden, ivi, 19 maggio 1976); cfr anche, curato dallo stesso, Intervista sul fascismo, Bari, Laterza, 1975.

16 Cfr l’acuta e leale critica in R. RENZI, op. cit., 131 ss.

17 «Il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il maggior filosofo italiano del tempo [...]; in illusioni, rispetto al fascismo, caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la loro storia». (A. DEL NOCE, Appunti per una definizione storica del fascismo, in L’Epoca della secolarizzazione, Milano, Giuffrè, 1970, 132 e 135). In argomento, cfr anche L. MANGONI, L’interventismo..., cit.; E. GARIN, Intellettuali italiani del secolo XX, Roma, Editori Riuniti, 1974; G. AMENDOLA, Intellettuali e fascismo, in Fascismo e movimento operaio, ivi, 1975; C. L. RAGGHIANTI, L’antifascismo non fu soltanto rosso, in Il Giornale, 22 giu. 1976; E. STERPA, Ceti medi in camicia nera, ivi, 15 luglio 1976.

18 Notava DEL NOCE (op. cit., 134): «Nella pubblicistica corrente, ad alto e basso livello [...], nel linguaggio del nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato come fascista più o meno consapevole [...], e “fascismo” è fatto sinonimo di “repressività”»; e U. ECO, in L’uomo senza speranza (in Il costume di casa, cit., 153), negando che il regime dei colonnelli greci si potesse dire fascista, precisa: «L’uso indiscriminato che talora si fa di termini storicamente precisi per insultare l’avversario [...], impedisce di vedere con chiarezza chi l’avversario sia. Col termine “fascista”, per esempio, s’attaccano oggi tante e tante posizioni che ne scapita la chiarezza, e con essa la coscienza dei mezzi adatti a combatterle veramente».

19 U. SILVA, Ideologia ed arte nel fascismo, Milano, Marzotta, 1975, 8º, 163, con 248 ill. f.t. L. 3.500. — A complemento della nota precedente: a p. 158 egli scrive: «Ci sono tre modi in cui viene usato il termine “fascismo” quale disprezzativo assoluto: a) per indicare la dittatura in Italia del ventennio; b) per indicare regimi e partiti reazionari, quali il franchismo, il MSI, la DC, gli USA, i golpisti cileni, i colonnelli greci, i generali brasiliani, ecc.; c) per condannare un singolo atto che può provenire anche da persone o gruppi della sinistra sicuramente non reazionari nel loro complesso: ad esempio, l’accusa che le compagne femministe lanciano spesso verso compagni scopertamente maschisti. Insomma, come ha scritto G. LISCHIO: «Oggi è di moda dare del fascista / A chi non si professa comunista: / In questa Italia che va a scatafascio / Al solito si fa d’ogni erba un “fascio”».

20 Egli scrive tra l’altro: «In un primo momento i miti fascisti si presentano in prevalenza come negativi, tali da incutere terrore: rossi assassini [...], di pronto uso cd effetto, rivolti in genere solo alla piccola borghesia. In un secondo momento, impossessatosi il regime del monopolio ideologico, i miti vengono stabilizzati in un insieme organico [...], in una metodologia nella quale prevalgono i motivi positivi, tesi a forzare le masse a trascendere i propri limiti, ad imitare gli dei e i semidei consacrati, ad adeguarsi a realtà eroiche» (p. 61); «Al pseudo attivismo fascista occorreva un carisma di tipo personalistico, che consiste nell’investire un determinato individuo di particolari prerogative magico-soprannaturali [...]. L’univocità decisionale è il carattere più tipico del carisma personalistico, per cui la massa dei singoli individui rinuncia a suo favore alle proprie capacità volitive» (pp. 67-68); «Nella manipolazione emozionale che il fascismo fece delle muse il rituale assume un’importanza fondamentale, informando di tutte le programmazioni dei cittadini italiani, in ogni settore e momento» (p. 84); «I canoni della nuova estetica: ispirazione ristretta alla vita fascista, tema obbligato, acceso antintlelettualismo, populismo...» (p. 120).

21 A p. 77, citando tre numeri della Civiltà Cattolica – del 22 IX 1889, del 12 V 1928 e del 26 X 1934 – l’A. sfrontatamente «documenta» un antisemitismo di tipo nazista della Rivista e della Chiesa cattolica; quando nel primo numero citato non c’è traccia di un discorso in argomento, mentre negli altri due l’antisemitismo, nazista o meno, è apertamente condannato. Con pari onestà a p. 141 l’A. documenta il filonazismo di Pio XI.

22 Bontà sua, per l’A., «se la religione cattolica è oppio, l’ideologia fascista è eroina» (p. 19). In compenso l’A. ci fornisce affermazioni utili nella odierna confusione, scrivendo: «Non si può parlare, a rigore di logica, di marxismo non materialista» (p. 131), e «Il comunismo è l’abolizione di ogni morale» (p. 160).

23 La scelta, in verità anche troppo facile, segue il criterio sarcastico delle raccolte già citate di C. CARABBA e di G. VITTORI. In argomento si consulta con utilità il più equilibrato E. G. LAURA, Immagine del fascismo: I vol., Milano, Lonaane1i, 1973 (Civ. Catt. 1974 IV 99).

24 W. REICH, Psicologia di massa del fascismo, Milano, Mondadori, 1974, 8º. L. 1.000. — È noto come il poveretto, denunciato per l suoi licenziosi esperimenti, venne rinchiuso nel penitenziario di Lewisburg (USA), dove morì il 3 novembre 1957.

In argomento

Massmedia

n. 3405, vol. II (1992), pp. 260-268
n. 3351, vol. I (1990), pp. 260- 269
n. 3310, vol. II (1988), pp. 351-363
n. 3218, vol. III (1984), pp. 144-151
n. 3200, vol. IV (1983), pp. 158-164
n. 3202, vol. IV (1983), pp. 362-368
n. 3195-3196, vol. III (1983), pp. 209-222
n. 3188, vol. II (1983), pp. 154-161
n. 3191, vol. II (1983), pp. 463-467
n. 3179, vol. IV (1982), pp. 464-467
n. 3141, vol. II (1981), pp. 222-237
n. 3088, vol. I (1979), pp. 351-359
n. 3075-3076, vol. III (1978), pp. 223-238
n. 3072, vol. II (1978), pp. 566-573
n. 3062, vol. I (1978), pp. 151-159
n. 3058, vol. IV (1977), pp. 349-362
n. 3045, vol. II (1977), pp. 260-272
n. 3034, vol. IV (1976), pp. 336-351
n. 3036, vol. IV (1976), pp. 580-587
n. 3022, vol. II (1976), pp. 323-336
n. 3013, vol. I (1976), pp. 20-36
n. 2990, vol. I (1975), pp. 144-157
n. 2983, vol. IV (1974), pp. 36-48
n. 2973, vol. II (1974), pp. 250-256
n. 2967, vol. I (1974), pp. 258-263
n. 2961, vol. IV (1973), pp. 258-263
n. 2942, vol. I (1973), pp. 144-150
n. 2927, vol. II (1972), pp. 451-456
n. 2911, vol. IV (1971), pp. 39-48
n. 2913, vol. IV (1971), pp. 235-253
n. 2882, vol. III (1970), pp. 154-160
n. 2870, vol. I (1970), pp. 155-160
n. 2859-2860, vol. III (1969), pp. 219-230
n. 2739, vol. III (1964), pp. 246-254
n. 2729, vol. I (1964), pp. 422-435
n. 2702-2704, vol. I (1963), pp. 105-118, 313-325
n. 2636, vol. II (1960), pp. 124-39
n. 2612, vol. II (1959), pp. 113-124
n. 2548, vol. III (1956), pp. 400-408