Articolo estratto dal volume III del 1964 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Quando, nel novembre 1960, fu certo della vittoria su Richard Nixon, John Kennedy ammise, avanti alla stampa, che, più di ogni altro mezzo, era stata la televisione a rovesciare le sorti a suo favore. Poi pubblicisti e pubblicitari, psicologi e sociologi si chiesero quale «pregio» particolare dell’eletto i teleschermi avessero reso fattore determinante della vittoria: la giovane età, oppure la fotogenia? La foga oratoria, la prontezza nel ribattere all’avversario, oppure la bontà intrinseca del suo programma politico?
La questione interessava, ed interessa ancora, molto, dato che quell’elezione presidenziale doveva produrre risonanze storiche nell’ambito non solo americano, bensì anche mondiale; ma, tuttavia, si rifaceva a quei meccanismi delle opinioni umane che regolano – sotto la spinta globale della stampa e del cinema, della radio e della televisione, degli slogan e dei simboli della propaganda e pubblicitari – la massima parte delle scelte e degli atti che intessono la nostra vita quotidiana: dal partito politico per il quale votiamo (o non votiamo) al vestito che indossiamo, dal tipo di famiglia che ci costruiamo (o non ci costruiamo) all’automobile, al dentifricio e al detersivo che preferiamo; dalla camera per la quale ci decidiamo, all’acconciatura dei capelli, alla canzonetta, che, magari detestandola, ci sorprendiamo a cantare...
Proprio il loro moltiplicarsi ed estendersi a tutti i settori nella nostra vita privata e pubblica, individuale e collettiva, spinge, sempre più numerosi, gli specialisti e i cercatori, studiosi e curiosi, a scoperchiare, per dir così, questi meccanismi, a smontarli ed a descriverli, in pubblicazioni che vanno ogni giorno più infoltendo l’editoria odierna, specialmente di divulgazione. Alcuni si soffermano prevalentemente all’aspetto oggettivo degli strumenti tecnici che vengono messi in opera; altri, più numerosi, sui moventi che guidano i promotori all’uso di essi e, quindi, sulle condizioni della loro efficacia; altri, infine, prevalentemente sul condizionamento prodotto dagli strumenti nei recettori, con conseguenti giudizi di valore e, all’occorrenza, con indicazioni profilattiche: tutti in tal modo affrontando globalmente nella sua complessità il fenomeno della «comunicazione».
Mette conto, quindi, presentare alcuni titoli più recenti di questa editoria. Anche non salvando il criterio della completezza, dall’insieme scaturiranno indicazioni utili tanto ai promotori quanto ai recettori di quella onnipresente, ormai, e, si direbbe, onnipotente realtà che il recente Decreto conciliare Inter mirifica ha chiamato per antonomasia «comunicazione sociale».
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Abbiamo detto «specialmente di divulgazione», perché, in verità, sono rari i libri di esposizione sistematica dell’argomento. Un ottimo esempio n’è la Introduzione alla tecnica sociale dell’informazione, di F. Fattorello1, giunta già alla terza edizione: un classico in materia, su di una teoria esposta dall’A. per la prima volta nel 1947-’48 (al Corso propedeutico alle professioni pubblicistiche presso la facoltà di scienze statistiche dell’Università di Roma), e poi diventata la base metodologica di quella scuola, nonché uno degli argomenti del programma didattico del Centre international d’enseignement supérieur du journalisme di Strasburgo.
Ne venissero, dunque, di altri volumi di questo livello! Ma, in mancanza di essi, ci accontenteremmo anche di seri «contributi ad una sistematica», come appunto si presenta il volumetto di E. Vallini: Pubblicità e comunicazione di massa2; purtroppo, però, lascia delusi e sorpresi. Infatti, il contributo appare subito molto modesto, disuguale e disperso; e la sistematica risulta non tanto quella di una pubblicistica come disciplina, o come tecnica, se non proprio come scienza, quanto di una psicologia materialistica e di una sociologia marxista3. Inoltre l’A., cui non difettano tuttavia dati ed esperienze rilevanti sul piano della pratica pubblicitaria, teorizza su materiale imparaticcio e sulla fede di autori scarsamente assimilati4.
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Di tutt’altra levatura è il laborioso saggio sulla «cultura di massa»: L’industria culturale, del noto antropologo e sociologo francese E. Morin5. Esso studia e presenta la cultura, che è passata dal primato creatore dell’uomo come persona a quello dei potentissimi strumenti tecnici oggi disponibili – stampa, cinema, radio e televisione –, e, quindi, delle relative industrie; anzi studia specificamente quella «cultura di massa» la quale è assorbita in dosi sempre più massicce dal nuovo salariato, che nato tra le due guerre negli Stati Uniti d’America, ormai va irresistibilmente dilagando in tutti i paesi ad elevato sviluppo tecnologico.
Contrariamente a certi resistenti auto-elettisi cenacoli «culturali», il Morin questa cultura non la condanna in blocco, almeno espressamente; si limita a descriverne il carattere sincretizzante, omogeneizzante, insomma livellante (e non certo ad alti livelli, ma neanche a zero!), tanto rispetto ai contenuti di comunicazione quanto rispetto ai recettori; rileva, inoltre, i vari obbligati processi di volgarizzazione (semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione e modernizzazione), gli elementi stereotipati cui fa ricorso (simpatia e lieto fine, divismo, «la pistola» come simbolo della violenza e come alternativa e complemento dell’eros quotidiano, la felicità, l’amore, la giovinezza...): e ciò, oltre che nel corpo del volume, specialmente nel capitolo conclusivo: Lo spirito del tempo (che traduce il titolo dell’opera originale francese: L’esprit du temps).
Tuttavia, non è difficile prevedere quale sarà per essere il giudizio del lettore sul problema di fondo, vale a dire: «il problema del corso assunto dalla vita nell’area tecno-industriale dei consumi più avanzata del globo, e che assumerà necessariamente in ogni società di consumi, qualunque ne sia l’ideologia ufficiale» (p. 168); giudizio, del resto, implicito anche negli altri saggi del Morin, ai quali questo più volte rimanda, dato dalla somma algebrica tra i valori che questa «cultura di massa» tende a disintegrare, e quelli che la stessa tende ad integrare. Giustamente egli osserva che «la critica alla cultura di massa non può ridursi alla critica del capitalismo, poiché, anche se nata dallo sviluppo capitalista, essa risponde ad una realtà più complessa e profonda» (ivi); ma rileva pure la contraddizione di una cultura che «alimenta e sviluppa processi religiosi in quanto vi è di più profano..., ed, inversamente,... processi profani nell’idea madre delle religioni moderne: la salvezza individuale..., la religione della salvezza terrena... fondata sul mercato, i consumi, la libido» (p. 169); ed individua nel capitalismo «il grande agente della “libidinizzazione” moderna, poiché porta in primo piano il profitto, poi i consumi, e subito dopo il danaro, sempre meno sottratto e meno investito, sempre più consumato» (p. 176).
Ma, forse, l’utile maggiore di questo saggio cólto6, intelligente e, in ogni modo, stimolante, non risiederà tanto in un giudizio da parte del lettore quanto nella sua sensibilizzazione all’aspetto peculiarmente sociologico della «cultura di massa», data, sì, dal Morin, come una dialettica prodotto-consumo, ma «nell’ambito di una dialettica globale, che è quella della società nella sua totalità» (p. 41); sicché esso sarà portato, sì, a chiedersi ragione della natura dell’influsso sui recettori da parte degli strumenti della comunicazione sociale, ma anche del condizionamento che gli stessi recettori sono in grado di operare, facendo essi parte del connettivo societario non meno che gli «agenti» o promotori. Il che implica problemi di responsabilità su piano di cultura umana ed apostolica tutt’altro che secondari. E di ciò occorre onestamente prendere atto, a compenso anche dei limiti e degli opinabili che non mancano nel saggio del Morin: quali certa esclusività d’interessi rispetto alla cultura francese, una discutibile accezione dell’estetica, e soprattutto le note false di cui queste pagine risuonano ogni qual volta accennino alla religione7.
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Minore cultura filosofica ed umanistica, ma più diretta e diuturna esperienza in materia si avverte in La strategia del desiderio, un volume che per le sue rivelazioni brutali ormai fa il paio col notissimo e citatissimo I persuasori occulti, di Vance Packard. Ne è autore l’oriundo austriaco e naturalizzato americano Ernest Dichter8. Laureato in filosofia all’università di Vienna, ed in lettere alla Sorbona, fondatore (dal 1946) e direttore dell’Institute for Motivational Research – che fornisce a produttori i dati circa i beni di consumo di tutto il mondo e conduce inchieste sui problemi più svariati riguardanti la dinamica delle opinioni pubbliche –, inoltre editore del mensile Motivations, a servizio delle aziende commerciali e di pubblicità, egli passa per «il competente» per antonomasia nell’applicazione delle tecniche psicologiche al commercio.
Come indurre il pubblico ad acquistare un prodotto o un servizio, a preferire un candidato e, in genere, a comportarsi in una maniera piuttosto che in un’altra? si chiede l’A.; e risponde: la maggior parte delle azioni umane sono conseguenze di differenziali tra tensioni contrastanti (o «motivi»); vale a dire, di complessi di fattori che sfociano in un’azione specifica tendente a modificare una situazione esistente per crearne una nuova. Occorre, perciò, prima di tutto, procedere a «ricerche motivazionali» per stabilire perché in concreto la gente si comporta come si comporta. Dopo di che si passa a cercare il modo più adatto per determinare e sodisfare questi motivi, o «desideri» della gente, sfruttandoli se già esistenti, ed anche creandoli se assenti: nel che consiste appunto la strategia della persuasione. «Strategia» – precisa il Dichter – e non conflitto, affinché gli utenti, i clienti, gli acquirenti, quando si decidano all’acquisto e alla scelta, non si sentano soccombenti di una lotta, bensì liberati da un bisogno, sodisfatti in un loro diritto, mentre intanto si incrementano le vendite dei prodotti, e le aziende prosperano, e tutta la società umana si avvii, o si solidifichi, nel benessere più ampio e sicuro.
Lasciamo ai pubblicisti ed ai commercianti decidere se il volume, frutto di tante esperienze, del Dichter, meriti di venir adottato come massimario della loro prosperità professionale; e lasciamo ai sociologi ed agli psicologi giudicare della minore o maggiore attendibilità sia dei suoi dati e rilievi statistici, sia dei metodi d’inchiesta messi in opera per rilevarli, e sia delle giustificazioni teoriche, più o meno deterministiche e freudiane, nelle quali gli stessi dati e metodi vengono inquadrati; e limitiamoci a rilevare alcuni aspetti che interessano anche il lettore comune, non specialista.
Per stile e contenuto il volume è discontinuo. Intuizioni acute vi si alternano con le banalità; il rigore metodico delle ricerche si accompagna ad un modo semplicistico di ragionare per induzione, su misura di una civiltà infantilista e di una cultura prammatistica. Inoltre – a differenza del saggio del Morin – vi circola, quasi espressione di una deformazione professionale un po’ troppo devota a Mammona, un’aura di disistima per la cultura umanistica e di noncuranza verso la religione, assimilata – sembrerebbe – ad un molto vago panteismo, quando non confusa con la superstizione. Né meglio onorata è la morale, travista attraverso grossolani pregiudizi.
A parte ciò, il contenuto più specifico del volume qualche volta diverte; più spesso sembra fatto apposta per indispettire e deprimere. Sia lecito sperare che non passino inosservati i brani ed i rilievi – che pur ci sono – atti ad illuminare il lettore sulla odierna realtà sociale, in cui egli vive e di cui è espressione, ed a stimolarlo ad assumere in essa, consapevolmente, le sue responsabilità reattive ed operative. Infatti, man mano che si addentra in queste pagine, il lettore si sente trattato, palpato, saggiato, sezionato e catalogato come una cavia in funzione di rendimento – altri direbbe di sfruttamento – economico. Il Dichter parte dall’uomo non come dovrebbe essere, ma come è; e siccome statisticamente gli risulta che la gente «pensa come gli piace» e non come sarebbe giusto e logico, e che agisce di conseguenza, ha buon giuoco nel predisporre molle e scatti pubblicitari che, a nostra insaputa, ci faranno agire e rendere in funzione di servizio economico (o ideologico); e non nel senso di un’economia a servizio dell’uomo, ma della persona umana a servizio di un progresso impersonale, se non anche anti-personale.
Però, per quanto allergico alle obiezioni dei «moralisti», il Dichter onestamente avverte il pericolo che potrebbe derivare alla democrazia da una e strategia del «desiderio» messa in opera da un oligopolio di potenti senza coscienza o senza discernimento, su masse, non solo di acquirenti, bensì anche di elettori, neutre e succube. Di qui i frequenti suoi rilievi giudiziosi, fortemente persuasivi in bocca sua, che intramezzano il volume9. Perciò vale proprio la pena di leggerlo e meditarlo. L’umiliazione che proviamo di scoprirci trattati come cavie dai commercianti ci sarà salutare se ne trarremo il proposito di maturarci in critici avvertiti rispetto ai persuasori occulti che si contendono il nostro assenso, vale a dire di formarci recettori liberi nelle nostre scelte.
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Come caso particolare e casalingo italiano delle teorie del Dichter, meriterebbe una presentazione particolareggiata il volume in collaborazione Le canzoni della cattiva coscienza, sulla musica leggera in Italia10, che si apre con questa premessa: «Se l’uomo di una civiltà industriale di massa è quale ce lo hanno mostrato i sociologi, un individuo eterodiretto (per il quale pensano e desiderano i grandi apparati della persuasione occulta e i centri di controllo del gusto, dei sentimenti e delle idee; e che pensa e desidera in conformità ai deliberata dei centri di direzione psicologica), la canzone di consumo appare come uno degli strumenti più efficaci per la coercizione ideologica del cittadino in una società di massa» (p. 7). Ma ci basti di averlo menzionato.
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Parallelamente all’editoria che tratta globalmente degli strumenti della comunicazione sociale si sviluppa quella che prende per argomento l’uno o l’altro di essi. Dato però che in questa sede abbiamo già presentato molte pubblicazioni riguardanti il cinema, la radio e la televisione, qui ci limitiamo a presentare le due più recenti e di rilievo riguardanti la stampa.
È stato notato che la stampa, su tutto informa meno che su se stessa. Anche la scuola la ignora; e sì che non una delle scienze sociali oggi può ignorarla, e non c’è uomo, oggi, che possa ritenersi sottratto al suo influsso. Quindi un manuale di iniziazione sulla stampa fa al caso non solo dei futuri giornalisti e pubblicisti, degli educatori e dei militanti politici e sociali, bensì anche di tutto il pubblico generico. Ora, quello del Voyenne11, sotto molti aspetti ci sembra esemplare. Intanto, particolarmente nella prima parte, e poi in tutto il resto dell’intessitura, resta, per ora, esempio più unico che raro di armonia quasi perfetta con i concetti ed i termini di «comunicazione» e «sociale» usati nel Decreto Inter mirifica del Vaticano II. Inoltre, la trattazione è ordinata ed essenzialmente completa, e la maniera con cui è condotta è pratica e funzionale. Infatti, pur evitando ogni amplificazione letteraria, non cade nel sommario e troppo tecnico, e, d’altra parte, a chi chiedesse un supplemento di documentazione ed un indirizzo per approfondire quanto di essenziale vi viene esposto, si provvede con testi giustificativi ed esplicativi, documenti ed indicazioni bibliografiche – raro modello del genere! – poste in fondo ai singoli capitoli, ed anche a tutto il volume.
Forse, anche in questo trattato-manuale – del resto secondo le caratteristiche della «Collezione U», alla quale appartiene – un rilievo eccessivo è concesso alle cose di Francia; inoltre qualche particolare si direbbe meno felice; per esempio: la recisa posizione circa il controverso concetto di opinione pubblica, e circa le sue relazioni con la stampa (p. 194), come pure l’accezione troppo generica di presse, che poi obbliga l’A. a distinguerla in presse écrite, presse parlée, presse filmée, presse télévisée12; ma, nell’insieme – torniamo a ripetere – il volume resta una guida sicura. Pregi suoi precipui sono l’illuminata rettitudine morale armonizzata con la più sicura conoscenza della materia trattata; obiettività di giudizio ed equilibrio nell’accordare tendenze dottrinali o esigenze psicologico-morali opposte, come tra libertà personale (fortemente rivendicata) e responsabilità personali e sociali (chiaramente rilevate), tra le aspirazioni ingenue di un liberalismo astratto e gli arbitri di regimi assolutisti. Tra l’altro, si veda come, contro certo pessimismo corrente, l’A. rileva che gli uomini in tutte le epoche si sono trovati condizionati da qualcosa o da qualcuno, e, forse, in passato peggio di oggi (p. 260), e che, dunque, invece di lamentarci, mette conto di applicarsi a difendersi secondo le nuove situazioni dei tempi nuovi. Si rilevi ancora la chiarezza con cui egli delinea i concetti di socialità, collettività e bene comune, con le relative implicanze deontologiche, e la modestia con cui, una volta bene impostati i problemi, egli si rassegna a non imporre soluzioni precise quando manchi di argomenti assoluti, per esempio, a proposito di un codice di morale professionale liberamente concordato, con o senza sanzioni...
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Sulla monumentale pubblicazione collettiva La Stampa13, che raccoglie le quarantaquattro relazioni della Primera Semana Internacional de Prensa (Barcellona-Sitges 1963), ci impossibile fornire un esame ed un giudizio adeguato, data la quantità e la disparità di argomenti che vi si toccano. Ci limitiamo perciò ad esporre alcune considerazioni affiorateci nella mente nel navigare in questo mare magnum, le quali crediamo possano valere anche come conclusioni di questa nostra rassegna panoramica.
1) Indiscutibilmente tutti, oggi, individui e gruppi, sono assaliti dall’azione sempre più invadente di «persuasori», i quali, dunque, non devono e non possono rimanere «occulti», pena la degradazione degli individui e dell’intera società, da liberi padroni delle proprie scelte a cavie di pochi furbi sperimentatori o sfruttatori, ai fini di risultati poco conta se economici o ideologici; 2) Occorre quindi formare sia i «promotori» o «agenti» delle comunicazioni sociali, e sia i recettori, al consapevole possesso ed esercizio delle rispettive libertà e responsabilità; 3) In attesa che a siffatta formazione si provveda, da chi di dovere o da chi meritamente se ne assuma la missione, mediante un’opera sistematica di istruzione ed educazione, si sia riconoscenti a quanti indagano sui problemi, vasti e difficili, posti in essere dalle nuove realtà sociali, e ne diffondono, con gli scritti, i risultati raggiunti, e, per quanto possibile, se ne approfitti; 4) Nello spirito del Decreto conciliare Inter mirifica, i cattolici e gli onesti – siano essi promotori o recettori – precorrano gli altri anche in questo settore, a vantaggio culturale e spirituale proprio e «di tutta l’umanità, il cui avvenire dipende ogni giorno più dal retto uso di questi strumenti».
1 FRANCESCO FATTORELLO, Introduzione alla tecnica sociale dell’informazione, 3ª ediz. Roma, Istituto Italiano di Pubblicismo, 1964, in-8º, pp. 100. Rispetto alle due edizioni precedenti comprende due capitoli in più, con i quali l’A. ritiene di aver completato la sua esposizione. Tra l’altro vi riteniamo di particolare rilievo la distinzione tra informazioni contingenti (pubblicistica) e non contingenti (per esempio, l’insegnamento) e le rispettive relazioni con la cultura, lo Stato ed il bene comune; una giusta diffidenza verso i termini «massa» ed «opinione pubblica» nelle accezioni usuali; la formula ideografica sulle interrelazioni tra i termini del processo di informazione ecc. Si rilevi, tuttavia, l’accezione estensiva che il chiaro A. dà al termine «informazione» (analoga a quella dello Stoetzel), al quale, in armonia con la concettualizzazione scolastica, noi preferiamo quello di «comunicazione» Di conseguenza, lo stesso A., in Notizie e commenti (1964, n. 2, pp. S ss.), a proposito del relativo Decreto Conciliare, muove riserve circa il termine «comunicazione» mentre è uno dei pochi a rilevare la felice scelta del termine «strumenti».
2 EDIO VALLINI, Pubblicità e comunicazione di massa, Milano, Silva, 1963, in-16º, pp. 199. L. 1.500. Si introduce con una sintesi circa le teorie evoluzionistiche e la nascita del linguaggio; quindi tratta (Parte I) delle moderne teorie della persuasione di massa e (Parte II) delle caratteristiche di alcuni veicoli rispetto alle possibilità di comunicazione (televisione, cinema, radio, stampa, conversazione), per terminare con un’appendice sulla vita e la comunicazione di una grande città moderna.
3 Per lui la discendenza dell’uomo dalla scimmia «si può dire ormai universalmente accettata” (p. 14); dietro la scorta del Cervello vivente, di G. WALTER, Dal pesce al filosofo, di H. W. SMITH, e La dialettica della natura, di ENGELS (suoi autori ispirati ed infallibili), «l’evoluzione dei mammiferi si spiega tutta con la termostasi e l’omeoostasi,. (p. 15); «la possibilità di ragionare... si ricollega col bisogno elementare della fame e si sviluppa al suo più alto grado di perfezione attraverso il lavoro, (p. 18); per coscienza «s’intende la possibilità unicamente umana di pensare astraendosi dalla realtà” (p. 37) e l’etica e è sempre l’espressione di precise realtà storico-economiche, mentre «l’uomo è il prodotto della propria struttura nervosa e dell’ambiente sociale nel quale è vissuto» (p. 131).
4 Per di più la grafia è aberrante; i riferimenti alla religione approssimativi e fuori di posto, come quelli che riguardano il cinema ed Eisenstein. Tipica del metodo marxista è l’aggettivazione (tutto il bene si ricapitola in «moderno ed evoluto», tutto il male in «antiquato e reazionario»), le idiosincrasie (per esempio, opponendosi al Miotto a proposito di educazione-propaganda), e l’attacco aperto e ripetuto a fatti «fascisti», nell’ignoranza più ingenua di altrettanti fatti russi, passati ed odierni, rispetto ai quali quelli fascisti sono bazzecole (p. 143). Di qualche interesse è la negazione dell’efficacia della pubblicità sublimale (pp. 73 ss.) e la sua opposizione ad alcuni elementi diseducativi della pubblicità (p. 114); ma, per finire ridendo, osserviamo che, per lui «nell’Unione Sovietica», ci sarebbe «la più ampia possibilità d’informazione della stampa!» (p. 123).
5 EDGAR MORIN, L’industria culturale, Bologna, Il Mulino, 1963, in-8º, pp. 207. 1.800. Dello stesso A. la nostra rivista ha recensito l’Autocritica: Una domanda sul comunismo (1963, III, 157).
6 A riprova della cultura e della serietà d’impegno del Morin, si veda la Bibliografia in fondo al volume, come al solito, esemplare.
7 A questo proposito, come nei suoi scritti, l’A. non mostra né malanimo né aggressività; ma pregiudizi ed ignoranza, sì, e sfoggiati con tanta asseveranza che il lettore portato a dubitare anche del resto; dove, in verità, spesso non netto il limite tra l’ermetismo e la profondità di pensiero, tra l’espressione paradossale e l’intuizione geniale, tra la deduzione rigorosa e l’estrapolazione, biasimevole anche in discipline sociologiche.
8 ERNEST DICHTER, La strategia del desiderio, Milano, Garzanti, 1963, in-8º, pp. 226. L. 2.000.
9 Ecco un brano che serve ad umiliare tanta gente che passa per logica: «In una serie di trasmissioni messe in onda dalla stazione radio WNEW di New York feci il seguente esperimento: fu chiesto al pubblico di votare per uno di tre candidati. Di uno furono descritti tutti i requisiti di uomo politico, la sua preparazione, la sua mentalità ecc. Del secondo furono illustrati il passato politico e le decisioni che aveva preso. Del terzo fu tracciato semplicemente un quadro umano: le sue emozioni, il suo amore per i bambini, il fatto che fumava la pipa, che possedeva un cane e faceva lunghe passeggiate. Al pubblico venne quindi chiesto di votare per quello dei tre candidati che avrebbe meglio servito la causa pubblica. Sebbene nella descrizione del terzo candidato non ci fosse un solo elemento atto a indicare come si sarebbe comportato come deputato o senatore, fu proprio lui che riportò la vittoria. La decisione era scaturita più da fattori emotivi che da fattori logici» (p. 254).
Ed ecco alcuni esempi di rilievi giudiziosi: «Dovremmo venire addestrati, non ad accettare spiegazioni stereotipe della condotta umana, ma a considerare la multiforme natura di ogni individuo... Può sembrare esagerato, ma è questo uno dei problemi cruciali della democrazia. I romanzi a puntate, le favole della televisione e i romanzi a fumetti esercitano una forte attrazione sulle masse e minacciano di rendere permanenti la pigrizia mentale, le reazioni stereotipe e le soluzioni grossolane. In un’epoca di crisi come la nostra, questo è il disservizio ai danni della democrazia. Infatti l’accettazione delle lezioni morali offerte dalle tecniche di diffusione di massa assomiglia alla cieca accettazione dell’ideologia fascista o comunista» (p. 200). «Troppo spesso pensiamo soltanto alla difesa fisica quando ci vien ricordato che dobbiamo lottare per la nostra libertà e difenderla. Per noi è più importante venir addestrati alla libertà psicologica. Dobbiamo imparare a vagliare l’opportunità di eseguire gli ordini che ci vengono impartiti. L’educazione fondata sul ragionamento, sull’approfondimento dei problemi, può cominciare soltanto nelle nostre case. La vera libertà è quella che ci libera dai nostri nemici, dai nostri timori, dalla nostra tendenza a sfuggire le responsabilità e della confusione mentale» (pp. 263-264). «L’empatia è una corrispondenza spontanea verso gli altri esseri umani, la facoltà di comprendere e condividere le esperienze altrui. Quando siamo immersi nei nostri problemi, quando cl lasciamo ossessionare dalla nostra professione e dalle nostre difficoltà, perdiamo questa capacità. È vero che questa visione unilaterale ci permette di adempiere i nostri compiti, ma è anche vero che la stessa attività professionale diventa in tal caso priva di significato. Poiché con l’andar del tempo è stata abbandonata la fonte più ricca di ispirazione e di soddisfazione: il sentimento vibrante di umanità verso i nostri simili» (pp. 281-282).
10 Milano, Bompiani, 1964, in-16º, pp. 306. L. 1.500. Michele L. Straniero vi esamina passo per passo la storia della canzonetta in Italia dal tramonto della società umbertina, attraverso il costume del ventennio fascista, sino ai fenomeni odierni. Sergio Liberovici, studiando la nascita e lo sviluppo di un tipico modello ritmico, il terzinato, denuncia una desolante selva di schemi prefissati, plagi a catena, atti di pigrizia inventiva, in cui un generico malcostume si concreta in un modo di fare musica. Emilio Jona offre un’analisi delle parole delle canzoni, scavando nell’inconscio del produttore e dei consumatori, facendo emergere dai versi, apparentemente meccanici e banali, una serie di artifici pedagogici precisi, di archetipi negativi, mai casuali, coerentemente organizzati. Infine Giorgio De Maria inquadra il fenomeno dello scialacquamento di suoni in una prospettiva storica, che va dalla musica tardoromana ai nostri giorni, mostrando come fenomeni analoghi si siano verificati in analoghi contesti culturali, e mettendo quindi in luce le condizioni profonde di una crisi che è insieme del gusto e del senso morale. Seguono tre appendici: una sulla situazione dei diritti d’autore, la seconda sull’analisi di una canzone «tipo», la terza sulla fenomenologia dell’urlatore.
11 BERNARD VOYENNE, La presse dans la société contemporaine, Paris, Armand Colin, 1962, in-8º, pp. 328. Nella prima parte, Les entreprises de presse, descrive la funzione sociale specifica della stampa, assicurata da imprese e quadri specializzati e dalle industrie collaterali, mediante l’analisi dei processi, delle strutture e degli organi; nella seconda, Le public de la presse, vengono studiati composizione, comportamento e reazioni del pubblico; infine nella terza si affrontano i problemi detta Liberté et responsabilité de la presse rispetto alle altre realtà sociali, si rilevano lacune ed inconvenienti, si propongono rimedi.
12 È noto che quest’accezione è comune in Francia, e che, alla prova dei fatti, non regge. Basti rilevare quante volte lo stesso Voyenne è costretto ad opporre eccezioni e limitazioni ad enunciati generali sulla presse così intesa, sia su piano psicologico, sia su quello sociologico e giuridico. Bene nota a questo proposito il Fattorello: «Se lo strumento non è il giornale, non si può parlare di attività giornalistica. Anche questo è un luogo abbastanza comune derivato dal voler trasferire il significato di un’attività d’informazione pubblicistica, praticata per mezzo di un determinato strumento, il giornale, all’attività tutta dell’informazione dell’attualità praticata anche con altri strumenti. Ora, quando il giornale era pressoché il solo strumento per l’informazione dell’attualità, ciò poteva anche essere capito, ma non più oggi che gli strumenti sono vari...» (op. cit., p. 55).
Rileviamo anche due particolari inesatti in argomento di religione. Probabilmente l’espressione tradisce il pensiero dell’A. quando afferma che l’enciclica Quanta Cura «condamnait comme absolument contraire à; la fai chrétienne la proposition» riguardante la libertà di coscienza, di culto e di opinione (DENZ. 1690, a p. 223 del Voyenne), e fuori luogo è la relazione asserita tra Mussolini l’Indice ed il Sillabo (p. 226).
13 La stampa, Instituto de Ciencias sociales. Diputación provincial de Barcelona, 1963, in-8º, pp. 549. – Ne indichiamo i titoli delle Parti, con i temi che più si confanno all’argomento della nostra Rassegna: Parte I: Prensa cultura e historia (G. SALVETI, Ribellione delle masse, informazione e civiltà dell’immagine). Parte II: Sociologia de la prensa. Parte III: Prensa y opinión publica (A. GIULIANI, Stampa, comunicazione umana ed opinione pubblica: ottimo, ma troppo segnato da una mentalità legalistica; R. PUCHEU, Du Journal, des mythes et de l’homme). Parle IV: Prensa y orientación politica (S. LENER S.I., Libertà di stampa e bene comune; D. DI GREGORIO, Stampa e pubblici poteri). Parte V: Prensa y fuerzas politicas (il magistrale La presse et les groupes de pression, di A. MATHIOT). Parte VI: Prensa y politica internacional. Parte VII: Prensa y administración (J. RIVERO, De la «liberté de la presse» au «droit à l’information»: police et service public dans le régime administratif de la presse).