Articolo estratto dal volume III del 1960 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Gli interessi prevalentemente dilettantistici e scarsamente culturali che spingono molto del nostro pubblico ad acquistare pubblicazioni che trattino di cinema non invogliano gran che l’editoria nostrana ad impegnarsi, su questo argomento, in lavori di seria cultura; ciò fa sì che, mentre, nella stampa periodica, contro ogni stentata rivista cinematografica redatta con un certo impegno culturale ce n’è almeno dieci, e floridissime, infarcite di scandali casalinghi e di esibizioni cutanee, libri e collane della stampa non periodica trattano preferibilmente di biografie di divi e di film di richiamo, dove il peso culturale, se ce n’è, venga riscattato da più appetibile, abbondante e, se possibile, piccante documentazione fotografica. Di conseguenza, il settore del sonoro, che, per iscritto, resta impervio anche ai dilettanti fischiettatori dell’ultima canzonetta di moda, fino ad oggi, in Italia, era uno dei più sprovveduti. Salvo sviste, l’unico volume italiano che si conosceva era La musica ed il film – curato da E. Masetti in occasione del VII Congresso Internazionale di musica, svoltosi a Firenze dal 13 al 19 maggio 19501 – che poi neanche trattava organicamente l’argomento, riducendosi a raccogliere insieme due dozzine di saggi di altrettanti o musicisti, o critici, o registi o tecnici cinematografici, in maggioranza italiani. Ma nel 1959 siffatta lacuna è stata colmata dalle due buone pubblicazioni: Musica e film, curata da S. G. Biamonte per i Quaderni della Mostra di Venezia2, e Tecnica della musica nel film, di R. Manvell e J. Huntley, della Collana di studi del Centro Sperimentale di Roma3.
Il primo continua, in certo modo, e completa la raccolta del Masetti, sia riportando in appendice alcune relazioni più rilevanti dello stesso Congresso fiorentino, nonché il discorso di chiusura pronunciatovi dal presidente Ildebrando Pizzetti, sia adottandone il criterio antologico. Esso si raccomanda per i nomi degli scrittori – tra gli altri: L. Emmer, A. Hopkins, R. Vlad, G. C. Castello, A. Cicognini, C. Gallone, B. Rondi, ecc., noti competenti di teorica e di pratica produttiva –, e per gli svariatissimi aspetti secondo i quali vi vengono via via presentati i molto complessi e discussi rapporti cinema-musica. Nessuna meraviglia se qua e là si manifestano differenze di approfondimento, ed anche divergenze, se non contraddizioni di opinioni, quando si tenga conto delle deformazioni professionali che portano alcuni saggisti a sostantivare il cinema e ad aggettivare la musica, ed altri ad aggettivare il primo e a sostantivare la seconda, vale a dire o a ipotizzare l’immagine uditiva come integrata nell’immagine filmica o, piuttosto, a difendere la musica come linguaggio autonomo accessorio alle immagini dinamico-visive. Né potrebbe essere altrimenti, scarsi come siamo ancora di sufficiente documentazione sperimentale e di esaurienti chiarificazioni concettuali circa molti elementi, riferentisi, oltre che alla evoluzione della cultura umana e delle sue forme di linguaggio, a sottilisisime questioni di filosofia e di estetica, di psicologia individuale e sociale. Perciò non resta che prendere il volume per quello che il compilatore ha inteso che fosse: un contributo alla conoscenza «di un problema che si è inserito ormai nei dibattiti più vitali della cultura moderna», che dà per definitivamente sistemato quel poco che è stato esaurientemente approfondito e conserva al testo un fluido carattere di impostazione problematica, di documentazione e di studio.
Ancora più ampie lodi si merita il secondo, impeccabilmente tradotto dall’inglese da G. Angiolillo Zannino. Vi hanno prestato il loro concorso molti noti musicisti inglesi ed americani – W. Alwyn, A. Bliss, N. Copland, W. Walton, M. Rozsa, M. Steiner... – sotto la guida di R. Manvell, direttore della British Film Academy, e di J. Huntley, l’uno e l’altro già noti autori di articoli e di volumi sul cinema. Mette conto di riportare la struttura di questo volume, che per la completezza degli aspetti in esso trattati e per la chiarezza didascalica delle sue pagine, reputiamo fondamentale in materia.
La struttura del nostro volume è molto semplice. Anzitutto, abbiamo spiegato come la musica per il film muto sia nata dalla musica “d’intermezzo” già in uso al teatro, e come le partiture di certi film muti abbiano cominciato a fissare alcuni principi compositivi che valgono ancor oggi per il cinema sonoro. Poi, nel capitolo secondo, abbiamo cercato di mostrare come i primi capisaldi della composizione filmico-musicale siano stati elaborati attraverso la collaborazione creativa di musicisti e di registi nei primi anni del film sonoro fin verso il 1935. Dimostrate e sancite che furono, in quegli anni, le possibilità della musica cinematografica funzionale, il nostro discorso cambia: alla esposizione storica sostituiamo l’esame analitico dei risultati ottenuti dai musicisti. Il capitolo terzo affronta il tema della registrazione sonora in rapporto alla musica, quello della funzione del direttore musicale e quello della tecnica dei diversi compositori che scrivono per il film. Il capitolo quarto analizza le varie forme drammatiche della musica ed esamina inquadratura per inquadratura, battuta per battuta, alcune sequenze di film che si ritengono particolarmente riuscite, in quanto la musica ha fornito un contributo pieno e fondamentale alla efficacia drammatica dei film in questione. Nel capitolo quinto gli stessi compositori illustrano le loro idee su questa nuova forma di composizione e offrono ai cineasti alcuni consigli sul modo con cui si può ottenere dal musicista il massimo della collaborazione.
Ma il volume è tutt’altro che un arido prontuario tecnico ad uso esclusivo dei professionisti del cinema, come il titolo lascerebbe supporre; al contrario, esso si apre ad inter i culturali più generali, dando un sostanzioso contributo di chiarificazione a varie questioni classiche di critica e di estetica cinematografica – quali quella della collaborazione creativa nell’opera d’arte, e quella dell’asincronismo -; le pagine 198-208, dell’originalissimo Norman McLaren, dànno il colpo di grazia alla sempre ricorrente teoria dell’“oggettività” della ripresa cinematografica, mentre offrono le più ardite anticipazioni sulle possibilità future del linguaggio musicale; le analisi musicali di film, che occupano gran parte del volume – tra le altre: di Henry V (Olivier), Louisiana Story (Flaherty), Odd Man Out (Reed), Julius Caesar (Mankievicz), ecc. – avviano non solo il pubblico colto ma anche i critici professionisti a riconoscere ai sonoro il posto che si merita nell’espressione filmica, togliendolo dalla condizione di cenerentola in cui di solito lo tengono confinato tanto il gusto del pubblico quanto la critica ufficiale. Non mancano nel volume posizioni opinabili, scompensi e lacune. Tra le prime mettiamo la distinzione di comodo tra musica realistica e musica funzionale, con relative sottodistinzioni; tra i secondi contiamo l’immoderato interesse concesso al film The best Years of our Life, di W. Wyler; tra le terze, ii silenzio quasi completo mantenuto su opere ed autori che non siano di lingua inglese4; ma questi rilievi non diminuiscono affatto il merito degli autori e dell’editore che ne ha facilitato la conoscenza ai lettori italiani.
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Tutti e tre questi volumi terminano con una Nota discografica: di appena una o due paginette quelle delle due antologie del Masetti (pp. 144-145) e del Biamonte (pp. 273-274), amplissima e disposta secondo l’ordine alfabetico di più che centotrenta autori di musiche filmistiche quella della Tecnica della musica nel film (pp. 271-321). Ciò rivela un aspetto documentaristico culturale, forse non a tutti noto, che nobilita l’industria discografica da quando mirabili perfezionamenti tecnici hanno reso il disco, appunto, strumento documentaristico e sussidio di studio di prim’ordine.
Se, ottant’anni fa, quando Edison costruì il primo fonografo (1876- 1877), il mondo sbalordì – come poi avrebbe fatto due decenni dopo col cinema (1895) – non fu davvero per l’alta fedeltà con cui quella diavoleria restituiva suoni e voci registrate; tant’è vero che, alla presentazione ufficiale seguitane l’anno dopo all’Accademia delle Scienze di Parigi, un talentone lo scambiò per un trucco di qualche faceto ventriloquo, dando così a vedere senza equivoci di ritenere portentoso il fatto di incidere e di riprodurre voci e suoni, ma anche che i gracidii provenienti da quella tromba spropositata si rassomigliavano più ai borborigmi di stomachi digiuni che a voci umane. Le cose, tuttavia, migliorarono quando si sostituì il diaframma di mica a quello di pergamena, si passò dai cilindri di stagnola a quelli di cera e, nel 1889, dal cilindro al disco, poi dalla tromba esterna a quella interna ad imbuto esponenziale (1910), quindi dall’incisione e riproduzione meccanica; pesantemente inerte nelle altre frequenze, a quella elettromagnetica; in questo dopoguerra, poi – in U.S.A. nel 1948, in Italia nel 1955 – il disco ha raggiunto una perfezione d’uso si direbbe ormai insuperabile, passando dal classico 78 giri di gommalacca, fragile, deperibile, carico di rumore di fondo e dalla durata inferiore ai cinque minuti per faccia, ai microsolchi di 45, o di 33 giri (quando non anche di 16), di resistente e duttilissima vinilite, quasi privi di fruscio e dalla durata di oltre mezz’ora per faccia! Ultimamente, poi, nei microscopici solchi hanno trovato posto due piste di registrazione, rendendo possibile -l’inserimento simultaneo di due amplificatori e diffusori, quindi l’ascolto di un quasi perfetto suono stereofonico. Raggiunta cosi una fedeltà di riproduzione di poco inferiore a quella del nastro magnetico, tuttavia restando più manegevole di questo, si comprende come il disco ormai costituisca parte della suppellettile dell’uomo di cultura moderno, sia come strumento di documentazione e fonte di notizie sussidiario al libro, alla rivista e, secondo recenti esperienze, anche al giornale, sia, soprattutto, come strumento di ripetute e tranquille esperienze musicali, un po’ come il liuto lo fu per gli uomini cólti del rinascimento e come il pianoforte per le buone famiglie del primo novecento.
In questo stato di cose, siano benvenuti i libri che ci aiutino, soprattutto noi che non ne abbondiamo, a spendere bene il danaro, orientandoci tra quanto di volgare, di mediocre, di buono e di eccellente il mercato, già pletorico, offre al discofilo, quindi fornendoci nozioni ed indirizzi utili a gustare e a ben conservare i dischi preferiti. Ne abbiamo per le mani due che fanno al caso: italiano l’uno: Il libro completo dell’amatore di dischi, curato da Riccardo Malipiero con la collaborazione di altri sei specialisti5, francese l’altro: Ouverture pour une discothèque, di Roland de Candé6.
Il primo, distribuendo la materia secondo i generi musicali, dedica capitoli distinti alla musica antica ed alla musica vocale sacra, quindi alla strumentale per orchestra ed alla strumentale da camera, all’opera in musica, al jazz, alla musica elettronica e concreta, alla musica folkloristica ed alle canzoni, ed infine ai dischi di dizioni. Restando aderente al suo scopo prevalentemente pratico, il volume esemplifica abbondantemente su correnti, stili ed artisti con titoli di dischi, tanto nel testo espositivo quanto a complemento di ogni capitolo, e si chiude fornendo notizie storiche sui dischi e pratiche per la conservazione di essi, e con alcuni schemi essenziali di discoteche, rispondenti a gusti diversi, ma tali che, partendo da essi, l’amatore possa procedere poi al completamento organico della propria raccolta. Il numero rilevante degli autori e dei dischi ricordati e consigliati, sia italiani sia stranieri, i sommari ma sufficienti inquadramenti storici e i quasi sempre equilibrati giudizi estetici e tecnici sono i suoi meriti maggiori.
Meno completo, in quanto prevalentemente interessato ad autori, artisti, fatti e correnti stilistiche della Francia, come pure ai dischi reperibili in quel mercato, ma più ricco di notazioni di cultura generale, corredato da ampia e scelta documentazione illustrata, e didatticamente più curato negli schemi sintetici, nelle non rare trascrizioni musicali e nei felici accorgimenti tipografici, è il secondo. I suoi otto capitoli – introdotti ognuno da uno schema comparativo di fatti musicali, artistico-letterari e storici, e seguiti dalla relativa discografia essenziale e ragionata – procedono secondo una divisione rigidamente storica, il primo trattando delle origini, il secondo andando dal sec. VI al XIII, il terzo percorrendo i secc. XIV e XV, il quarto la rinascenza, e gli ultimi quattro rispettivamente i secc. XVII, XVIII, XIX e XX. Anche questo volume, a complemento, fornisce un’introduzione elementare al linguaggio ed alla tecnica musicale ed orchestrale, un prospetto dell’evoluzione storico-tecnica del disco, preziose indicazioni sulla maniera di meglio conservarli e, finalmente, cosa che manca in quello italiano, un indice generale dei nomi di persona, che facilita la ricerca delle notizie sugli artisti e sui loro dischi. Il libro si legge con gusto, sia perché, meno subordinato alle indicazioni discografiche, è, più che altro, un’introduzione generale allo sviluppo ed alle caratteristiche del linguaggio musicale nell’evolversi storico della cultura umana, sia per l’esprit de finesse tutto francese che sprizza dallo scelto materiale illustrativo, nei personalissimi giudizi su uomini, cose ed avvenimenti, come pure dalla maliziosa ironia con la quale tratta gli incompetenti snob di musica.
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Una volta oculatamente scelti, i dischi vanno intelligentemente gustati. Per ottenere ciò non sempre il discofilo potrà disporre di qualche storia generale della musica o di specifiche monografie su generi, scuole, autori ed esecutori, e quand’anche ne disponesse, non sempre ne trarrebbe giovamento, dato il linguaggio tecnicamente specializzato che spesso vi si usa; in questo caso meglio a loro conviene un manuale divulgativo come quello compilato da Jean Chantavoine per L’amatore di musica sinfonica, già diffuso in tutta l’Europa e, da qualche anno, anche in Italia, nell’edizione curatane da G. Biamonti, segretario dell’Accademia di Santa Cecilia, e dallo stesso arricchito di tutta la parte del patrimonio musicale italiano ignorato dall’editore francese7. In esso più di seicento opere, o parti di esse, vengono sobriamente introdotte, ambientate e commentate, appartenenti a più di cento autori, dei più grandi dei quali vengono fornite sostanziali notizie biografiche e stilistiche. Ma, forse, la parte migliore del volumetto è l’Introduzione, di circa cinquanta pagine, una delle più accessibili e felici cose che ci sia stato dato di leggere, intese a formare il gusto musicale, ad introdurre i profani nella lettura di un brano di autore ed ad indirizzarli in una personale analisi critica. Ne consigliamo la lettura anche a quanti si interessano al linguaggio ed alla critica cinematografici, non tanto affin di approfondirvi la natura dei rapporti intercorrenti tra cinema e musica, oggetto dei volumi con i quali abbiamo iniziato questa rassegna, quanto per studiarvi la caratteristica “tempo”, essenzialmente strutturante l’uno e l’altro linguaggio, con i connessi fattori di ritmo, melodia, armonia, contrappunto ecc., condizionanti il gusto e la critica dell’uno e dell’altro.
E per il jazz? Vale a dire ,per la produzione discografica che oggi, come quantità, supera quella di tutti gli altri generi, eccezion fatta, forse, per la canzonetta? – La guida dello Chantavoine, fedele al suo titolo, naturalmente lo ignora; ed anche l’Ouverture del De Candé non ne fa parola, mentre il manuale del Malipiero consacra ad esso due dozzine di pagine, curate da A. Polillo (pp. 280-306): appena lo stretto necessario per chi voglia conoscere e giudicare de auditu la natura del jazz, vuoi «classico», vuoi «orchestrato», vuoi «moderno», vuoi «classicizzato», con i relativi capiscuola, seguaci ed epigoni. Chi, dunque, volesse saperne di più, dovrà ricorrere ad altre fonti; le quali non mancano, anzi piuttosto abbondano, sia dedicate specialmente alla discografia di certo jazz – basti ricordare i tre non recenti, ma ancora utili, volumi dell’Hot Discographie Encyclopédique, dei Dalaunay (1952) e lo Swing Discographie, di Schwaniger-Gurwitsch (1945) –, sia che affrontino il jazz nel suo complesso storico, sociologico, culturale, artistico e morale. Tra questi ultimi presentiamo i due apparsi più recentemente (1959) sul mercato italiano, vale a dire la traduzione del Manuale del jazz, di Barry Ulanov8, e l’originale Il mondo del jazz, di Livio Cerri9.
Il molto maneggevole libro dell’americano Ulanov ci sembra uno dei migliori che esista sull’argomento. Dopo una breve sintesi storica, che ricapitola quanto egli esaurientemente trattò nella sua opera maggiore A History of Jazz in America (1952), l’autore presenta gli strumenti del jazz e le sue scuole, quindi ne individua gli elementi caratteristici nell’improvvisazione, nel ritmo (beat), nel timbro, nell’entusiasmo e nell’ironia; passa poi a consigliare due discografie jazzistiche essenziali: l’una, minore, di 37 dischi, l’altra, maggiore, integrativa della prima, di 74 dischi, tutti brevemente commentati; dà consigli sul loro uso, spiega l’altrimenti ermetico gergo del jazz, descrive le professioni jazziste, la moralità ed il valore artistico e culturale del jazz, infine consacra il resto del volume ad un elenco di circa 500 jazzisti, corredandoli di dati biografici e di brevi giudizi. Tra le appendici, particolarmente utile una Cronologia comparata del jazz e delle altre arti nel secolo XX (pp. 275-291).
Quanto sintetico e distaccato è il manualetto dell’Ulanov, tanto diffuso e polemico è il grosso volume dell’italiano Livio Cerri, singolare figura di scrittore che alterna alla professione di medico chirurgo una molto impegnativa attività di critica jazzistica, regolarmente collaborando in riviste specializzate italiane e straniere, dopo aver segnato al suo attivo tre opere sullo stesso argomento, vale a dire Jazz, musica d’oggi (del 1948, poi ripreso e rifuso nella terza parte della terza opera), Antologia del jazz (del 1955, arrivata ormai alla terza edizione)10, ed il presente volume Il mondo del jazz.
La parte più ponderosa di questo è la terza, consacrata a Le grandi figure del jazz. Tuttavia, per quanto ampia – comprende ben 350 pagine, contro le 200 delle prime due parti – essa raccoglie un buon centinaio di nomi in meno rispetto all’elenco dell’Ulanov. Gli è che il Cerri, a differenza di quello, segue due criteri di scelta e di completezza: 1) dedicare l’attenzione alle figure fondamentali ed a quelle la cui influenza è stata di una certa importanza nell’evoluzione jazzistica; 2) corredare ogni nome di presentazioni biografiche piuttosto ampie, e di un giudizio critico, nonché di suggerimenti discografici piuttosto esaurienti. Un altro criterio suo particolare riguarda la disposizione dei nomi, divisi in undici gruppi, secondo la parte per cui più si distinguono nella produzione jazzistica: 1) trombettisti, 2) trombonisti, 3) clarinettisti, 4) saxofonisti, 5) pianisti, 6) chitarristi, 7) contrabassisti, 8) batteristi, 9) solisti di altri strumenti, 10) cantanti, 11) compositori, orchestratori e capi d’orchestra...: suddividendo ogni gruppo in Negri e Bianchi, e confinando in un dodicesimo ed ultimo gruppo tutti i jazzisti europei. Criterio indubbiamente pregevole per chiarezza sistematica, che tuttavia richiederebbe, per facilitare la ricerca dei nomi, il sussidio di un unico ordine alfabetico, purtroppo mancante.
Pensiamo che il lettore, se specialista in materia, potrà o meno condividere scelte e giudizi di questa terza parte, ma, se novellino, avrà ogni buona ragione per fidarsi di essi, trattandosi di scelte e giudizi avallati da una guida che da più di vent’anni è nel jazz, provenutavi da regolari studi e da esami di conservatorio, e fattevi le ossa, prima che la professione medica l’assorbisse, partecipando come esecutore a jam sessions ed a festivals jazzistici, in Italia ed all’estero. Segno non equivoco di questa sua consumata competenza sono le tavole fuori testo, comprendenti una sessantina fra a solo ed orchestrazioni jazz, trascritte dal Cerri direttamente dai dischi sul pentagramma, bravura piuttosto rara in questo genere di lavori.
Affermavamo che il volume è scritto con giovanile spirito polemico. Ciò si avverte soprattutto nella prima parte: Il jazz ed il mondo moderno, che è tutta un discorso entusiastico in esaltazione del (buon) jazz, e di serrata schermaglia contro quanti l’avversano. A rincalzo, nella seconda parte l’autore oppone pezzi antologici di «compositori dotti», favorevoli al jazz, ad altri pezzi scritti da altri «dotti», avversi allo stesso. Riteniamo che molti lettori giovani vi troveranno superflue conferme alla loro simpatia per il jazz, mentre molti di quelli che hanno doppiato la cinquantina resteranno piuttosto scettici avanti agli sforzi lodevolmente tentati dal Cerri per smantellare i baluardi logici e culturali dietro i quali essi difendono la loro avversione contro quella che sprezzantemente stimmatizzano come musica negra, barbara, esterofila, ritmica, leggera, improvvisata, quando non anche sensuale, da juke box, da gangster e da prostitute... Noi personalmente – dopo aver confessato che preferiamo la musica classica, con la stessa franchezza con la quale il Cerri si confessa non simpatizzante con la lirica – vi abbiamo rilevato più che altro un ennesimo ripetersi della eterna querelle des anciens et des modernes, a ritornello di quelle che, in altri settori della cultura, opposero già i romantici ai classici, Perrault a Boileau, Erodoto a Tucidide, o, per restare nel campo della musica, i non conformisti dell’ Ars nova, che nel secolo XIV fecero amicizia col diabolus in musica, anatematizzato dai compositori del secolo XIII. Riteniamo che, come forma di arte, il jazz agita più che altro questioni di gusti, vale a dire di qualità parte innate, parte condizionate dall’ambiente storico e sociale, parte perfezionate dall’esercizio, a difesa delle quali, le ragioni logiche e storiche che si apportano rivestono una forza di persuasione molto relativa alle condizioni di chi le propone. Come elemento di costume, invece, esso va giudicato non disgiunto da tutti gli altri elementi che caratterizzano il tempo nostro, insieme causa ed effetto di esso, per individuare i quali, nonché per giudicarne la portata culturale, sociale e morale, occorrerebbe un’indagine ben più vasta ed impegnata di quella che il Cerri ha inteso compiere in questo suo volume. Il quale, con qualche riserva sulle ripetizioni redazionali e sulle superflue minuzie polemiche, ci pare che sia uno dei più efficienti strumenti posti in mano dell’uomo di cultura moderno per individuare un fenomeno che, si accetti o meno, si approvi o si condanni, certamente non può essere ignorato. Ed esservi introdotti da un competente, colto e di buon gusto come il Cerri, è garanzia di oggettività.
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Chiudiamo questa rassegna con una reminiscenza manzoniana.
Al termine delle sue peripezie, «Renzo – scrive il Manzoni volle che (i suoi figlioli) imparassero tutti a leggere e a scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro». Le birberie di oggi si chiamano cinema, radio, televisione, dischi, musica jazz... Ignorarle, più che inutile, sarebbe dannoso, perché ci esporrebbe indifesi ad esse. È saggia politica conoscerle, ed imparare a «profittarne»: perciò questa nostra rassegna. Se, per le pubblicazioni non di alta metafisica che prende in considerazione, non è escluso che essa sia per dispiacere a qualche ancien, non è neanche escluso che possa giovare a molti modernes.
1 La musica nel film, compilato a cura di E. MASETTI. Roma, Bianco e Nero, 1950, in-8º, pp. 147. L. 950.
2 Musica e film, a cura di S. G. BIAMONTE. Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1959, in-8º, pp. x-274. L. 1.800.
3 ROGER MANVELL – JOHN HUNTLBY, Tecnica della musica nel film Roma, Bianco e Nero, 1959, in-8º, pp. 321. L. 3.000.
4 Un rilievo non dissimile occorre fare al volumetto di G. HACQUARD, La musique et le cinéma (Paris, Presses universitaires de France, 1959, in-8º, 113), aperto quasi esclusivamente a film e ad autori francesi. Curioso miscuglio di tono letterariamente solenne, di notizie tecniche originali e ricercate e di banalità divulgative, si dimostra particolarmente all’oscuro di cose nostre, attribuendo al D’Annunzio lo «scenario» di Cabiria (p. 13), e dando per morto Ildebrando Pizzetti nel 1944 (p. 93). Una vera perla giapponese vi è il Silicien attribuito al siculoamericano Frank Capra, a p. 98.
5 RICCARDO MALIPIERO, Il libro completo dell’amatore di dischi. (Come costituire la mia discoteca). Opera in collaborazione. Milano, Ugo Mursia & C., 1960, in-16º, pp. 413. L. 1.400.
6 ROLAND DE CANDÉ, Ouverture pour un discothèque. Paria, Édition du Seuil, 1959, in-16º, pp. 293.
7 JEAN CHANTAVOINE, Amatore di musica sinfonica. Roma, Faro, 1949, in-16º, pp. 695. L. 1.800.
8 BARRY ULANOV, Manuale del jazz. Milano, Feltrinelli, 1959, in-16º, pp. 295. L. 500.
9 LIVIO CERRI, Il mondo del jazz, Pisa, Nistri-Lischi, 1959, in-8º, pp. 543. L. 2.500. – Tra le altre più o meno recenti pubblicazioni in italiano sull’argomento si possono indicare: M. STEARNS, Storia del jazz (Edizioni Librarie Italiane, 1957), L. ARMSTRONG, La mia vita a New Orleans (Garzanti, 1956), A. HODEIR, Uomini e problemi del jazz (Longanesi, 1958), L. MALSON, I maestri del jazz (Garzanti, 1954), G. TESTONI – A. POLILLO, Enciclopedia del jazz (Messaggerie musicali, 1952-’54). Per la stampa periodica, i mensili Musica jazz e Jazz di ieri e di oggi. - Schermi (1958, n. 3, pp. 93 ss.) ha trattato del jazz nel cinema italiano. Interessanti saggi sul jazz pubblicano R. CAPASSO e N. GHELLI su Cronache del cinema, radio e televisione: 1957, n. 21, pp. 17 ss., 90 ss.; 1958, n. 24, pp. 86 ss. (con discografia essenziale a p. 93), n. 25, pp. 63 ss., 91 ss.; 1959, n. 29, pp. 151 ss.
10 LIVIO CERRI, Antologia del Jazz, 3ª ediz. Pisa, Nistri-Lischi, 1958, in-8º, 422. L. 1.500. – Nei primi due capitoli riassume l’estetica e la storia del jazz; nei quindici che seguono tenta l’analisi di tutte le incisioni jazz dalle origini ai nostri giorni, vale a dire in un periodo di un cinquantennio di dischi, suddivisi per scuole, orchestre e complessi; il penultimo capitolo è consacrato al jazz europeo, l’ultimo alla critica ed alla bibliografia del jazz. Segue un prezioso, minuto, indice generale dei nomi. Anche questo volume è corredato da alcune decine di trascrizioni sul pentagramma di improvvisazioni jazzistiche. Degna di nota la posizione del Cerri nel mantenersi equanime nella critica, evitando ogni passionale e ridicolo estremismo tra sostenitori della corrente arcaica e sostenitori di quella attualistica. Nell’insieme il volume trapassa di molto i limiti di una cultura generica e costituisce una guida aggiornatissima per il raccoglitore specializzato in dischi di jazz; tuttavia lo stile e la terminologia si sforzano di restare accessibili anche ai lettori profani.