NOTE
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1 Ivi compreso il venerdì 13 – diciamo: venerdì 13 –, giorno in cui, in un ambiente nel quale passa per spregiudicato chi irride ad ogni credenza religiosa, non si è trovato uno spirito forte capace di programmare un suo film, sfidando la doppia iettatura segnata in calendario; ragion per cui il 13 maggio è stato dichiarato giorno di vacanza: relâche.

2 Eccoli in ordine alfabetico di nazioni. (I numeri in corsivo riguardano i cortometraggi; i titoli chiusi in parentesi quadre sono dei film presentati fuori concorso). ARGENTINA (1+1): La processión (La processione), di Fr. Lauric. – AUSTRALlA (1). – BELGIO (1+1): Si le vent te fait peur (Se il vento ti fa paura), di E. Degelin. – BRASILW (1): Cidade ameaçada (La città minacciata), di R. Faria. – BULGARIA (1+1): Parvi Urok (La prima lezione), di R. Valcianov. – CANADA (1). - CINA (1): Cien gnu iu hun (L’ombra incantatrice), di Li Han-hsiang. - CECOSLOVACCHIA (1+1): Kam cert nemuze (Quando il diavolo ci mette la coda), di Zd. Podskalsky. – DANIMARCA (1+1): Paw, boy of two worlds (Paw, ragazzo tra due mondi), di A. Henning-Jensen. – FRANCIA (3+4): L’ Amérique insolite (L’America insolita), di Fr. Reichenbach; Moderato cantabile, di P. Brook; Le trou (Il buco), di J. Becker. – GERMANIA Ovest (2). – GIAPPONE (1): Kagi (Una mania strana), di K. lchikawa. - GRECIA (1): Never on sunday (Mai la domenica), di J. Dassin. – INDIA (1+1): Sujata, di B. Roy. – INGHILTERRA (1+1): Sons and lovers (Figli ed amanti), di J. Cardiff. – ITALIA (3+2): L’avventura, di M. Antonioni; La dolce vita, di F. Fellini; Ombre bianche, di N. Ray e B. Bandini. – lUGOLIAVIA (1+1): Deveti Krug (Il cerchio nono), di Fr. Stiglic. – MESSICO (2+2): Macario, di R. Gavaldón; The young one (Una ragazza), di Buñuel. – NORVEGIA (1): Jakten (La caccia), di E. Lochen. – OLANDA (2). – POLONIA (1+1). Zezowate Szczescie (Un uomo fortunato), di A. MunK. – ROMANIA (1+1): Telegramele (Telegrammi), di G. Naghi ed A. Miheles. – SPAGNA (1+1): Los Golfos (I teppisti), di C. Saura. – SVEZIA (1): Jungfrukällan (La sorgente), di I. Bergman. • SVIZZERA (1). – TURCHIA (2). – UNESCO [1]. – UNGHERIA (1). – U.R.S.S. (2+1): Ballada o Soldatie (La ballata del soldato), di Gr. Ciukrai; Dama s Sobatchkoi (La signora col cagnolino), di J. Kheifits. – U.S.A. (2+2): [Ben Hur, di Wyler; Home from the hill (Di ritorno dalla collina), di V. Minnelli.

3 A parte che, come argomento e come vuoto morale, pare voglia essere quasi la continuazione della Dolce vita, anche l’Avventura, di Antonioni, ha sembrato rappresentare una rottura con le forme narrative consuete al cinema-spettacolo; quindi, anche per esso, le violente insofferenze del pubblico e dei critici festivalieri.

4 Siamo noi i primi a considerare provvisori questi nostri giudizi estetici su film visti soltanto una volta, con sottotitoli, nell’ubbriacatura di un festival.

5 Vergognosi, facciamo onorevole ammenda di questa nostra debolezza. La giuria, più saggia di noi e del pubblico, che ne ha accolto il verdetto con una salve di fischi, l’ha premiato «pour sa contribution remarquable à la recherche d’un nouveau language cinématographique».

6 Pio XII, in E. BARAGLI, Cinema Cattolico, Roma 1959, nn. 373, 169.

7 Eccone la motivazione: «La giuria dell’Office Catholique International du Cinéma, incaricata di premiare tra i film presentati al XIIIº Festival di Cannes quello che, con la sua ispirazione e la sua qualità, più contribuisce al progresso spirituale ed allo sviluppo dei valori umani, rende un doveroso omaggio alle opere che hanno affrontato il problema, oggi particolarmente sentito, della mutua comprensione tra le razze, i popoli e le classi; e tra esse assegna il premio al film danese Paw, ragazzo tra due mondi, di Astrid Henning-Jensen». La giuria del premio O.C.I.C. era composta di sei membri: Baragli Enrico (Italia), Butcher Maryvonne (Inghilterra), D’André Pierre, presidente (Francia), Debongnie Jean (Belgio), Ortega Frison Orencio (Spagna), Rasmussen Bjorn (Danimarca). Ne sono stati assistenti ecclesiastici: mons. Jean Bernard (Lussemburgo) e P. François Lepoutre (Francia).

8 Po XII, in E. BARAGLI, op. cit., n. 379.

9 Il primo l’autore del Si le vent te fait peur, il quale sbattendo la porta nel lasciare Cannes, cominciava la sua difesa cosi: «Il mio primo film in programma nel mio primo festival è stato attaccato violentemente, da alcuni accusato di trattare un argomento scandaloso, da altri giudicato cinematograficamente fallito. Nel partire da Cannes, mi preme rispondere soltanto circa l’argomento... L’incesto: argomento tabù. Perché poi? E non si tratta di un argomento eterno? A dar retta a certi virtuosi difensori della moralità pubblica (pubblica come una “passeggiatrice”?), si capisce subito come vanno le cose sullo schermo, a differenza del romanzo, dove certe finezze passano inosservate...». – Il secondo il nostro Antonioni, autore di un ciclostilato francese che noi retrovertiamo così: «C’è oggi nel mondo una gravissima frattura tra la scienza, tutta tesa verso l’avvenire ed ogni giorno pronta a rinnegare ciò che ammetteva in passato, pur d’impadronirsi di una frazione del suo avvenire, ed una morale rigida e rappresa, che continua a sostenersi malgrado l’uomo se ne renda conto. Pigrizia e vigliaccheria. Fin dalla sua nascita l’uomo si trova appesantito da un bagaglio di sentimenti, non dico vecchi e scaduti, ma del tutto inutili, che lo condizionano senza aiutarlo, l’ostacolano senza mai mostrargli vie di uscita. E tuttavia l’uomo non è ancor riuscito a sbarazzarsi da siffatta eredità. Egli lavora, ama, odia, soffre spinto da queste forze e da questi miti che risalgono ai tempi di Omero! Per quanto ciò possa sembrare assurdo in un’epoca che prepara ad andare sulla luna, tuttavia le cose stanno cosi! L’uomo, dunque, che è disposto a sbarazzarsi delle sue teorie tecniche o scientifiche quando le trova errate... per ciò che riguarda i suoi sentimenti è ancora legato ad un conformismo totale. In questi ultimi anni noi abbiamo esaminato e studiato i nostri sentimenti fino all’esaurimento: ma altro non siamo riusciti a fare. Non abbiamo trovato nulla di nuovo, né una via di soluzione a questo problema. lo non posso né voglio trovarla questa soluzione, ché non sono un moralista. Il mio film perciò non è né una denuncia né una predica: è un racconto in immagini nel quale spero che si riesca a trovare non la genesi di un sentimento ingannatore, ma il modo nel quale ci si può ingannare nei sentimenti. Ché, infatti, torno a ripetere, noi seguiamo una morale decrepita, di miti svotati e di convenzioni fasulle. E lo facciamo ad occhi aperti, senza tuttavia sapere perché mai rispettiamo siffatta morale. La conclusione alla quale approdano i miei personaggi non è quella dell’anarchia morale, bensì piuttosto ad una specie di reciproca compassione. Tutto qui? direte voi. Sì, perché cosa resterebbe, se anche questa venisse a mancare? Per esempio, come spiegate voi questa smania erotica che ha invasa la letteratura e lo spettacolo? È il sintomo più ovvio della malattia di cui soffrono i sentimenti. Noi non saremmo erotici, cioè malati di Eros, se l’Eros godesse buona salute, vale a dire se esso si trovasse proporzionato alla misura e condizione dell’uomo. Si tratta di uno stato morboso e, come in ogni malattia, l’uomo reagisce. Ma reagisce male, e fa il suo danno. Nell’Avventura la catastrofe è causata da un impulso erotico di questo genere: ovvio, inutile ed amaro. Ma non basta sapere che le cose stanno cosi, che cioè il protagonista del mio film sia consapevole della natura volgare della spinta erotica che lo domina e della sua inutilità. Ecco un altro mito che ne se va: l’illusione che basti conoscersi, e notomizzare tutte le pieghe più nascoste della nostra anima. Ogni giorno si vive l’Avventura, sia essa sentimentale, morale o ideologica. Ma se sappiamo che le nostre vecchie tavole della legge non ci offrono altro che parole vuote di valore, perché restiamo fedeli ad esse? Ecco un’ostinazione che mi sembra tristemente commovente. L’uomo, che non ha paura dell’ignoto nella scienza, ha paura dell’ignoto nella morale».

10 Duole che all’unanimità della giuria non abbia fatto eccezione almeno la voce dell’autorevole membro italiano di essa, noto come cattolico.

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Articolo estratto dal volume II del 1960 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Contro i ricorrenti semplicismi di quanti si ostinano a trattare e a dare giudizi intorno al cinema considerandolo soltanto sotto un aspetto, poniamo artistico o economico, ed ignorandone, se non negandone, i molteplici altri concomitanti – per esempio: tecnico, psicologico, sociologico, politico, morale... –, da tempo andiamo ripetendo e dimostrando che, invece, il cinema è realtà molto complessa e che, dunque, altrettanto complessi occorre che siano, se rispettosi della verità obiettiva, i giudizi circa i fatti cinematografici e filmici. Di ciò abbiamo avuta una ulteriore conferma partecipando al XIII festival cinematografico di Cannes, una relazione del quale, che non si limiti alla vacua curiosità dei rotocalchi, non può non tener conto dei principali aspetti, dai più ovvi ai più profondi, che lo qualificano.

L’aspetto mondano e turistico

Che mostre e festival cinematografici spuntino e prolifichino, almeno nei paesi occidentali, con scopi prevalentemente turistici e mondani, è risaputo; e Cannes segna non certo un’eccezione, anzi un primato. Però, da un cinque anni a questa parte il suo aspetto mondano si è ridotto di molto. Ormai, niente battaglie di fiori e niente notturni fuochi d’artificio; scarse le dive; piuttosto squallida l’assistenza dei fedeli che presenziano alle loro processioni dagli alberghi di lusso al Palais e viceversa, ridotti a poche ragazzine i grappoli di fans che una volta ne sollecitavano gli autografi; alquanto convenzionali e fredde le cerimonie ufficiali di apertura e di chiusura in sala grande; rari i pienoni agli spettacoli, avanti ad un pubblico eterogeneo, più curioso che interessato, spesso di gusto dubbio nelle sue toilettes e nelle sue reazioni... Sarà perché, anche sotto l’aspetto della mondanità, ormai tutto il mondo è paese, sarà noia di festaioli ristucchi di tutti i sapori e disincantati da tutte le stramberie, o forse anche, quest’anno, per colpa della tesa situazione internazionale, culminata nella beffa parigina del signor Krusciov, fatto sta che a Cannes-1960 la formula festivaliera è sembrata aver fatto il suo tempo, e quel tanto che ancora ne sopravvive riesce appena a nascondere il senso di stanchezza e di noia diffuso nell’aria, e perfino sui volti delle persone, per quanto bizzarramente travestite, o liberamente svestite, conforme ai villani gusti del giorno.

L’aspetto di mercato

Prosperino molto o poco gli affari turistici del luogo ospitante, mostre e festival dureranno finché vi troveranno il loro tornaconto anche le nazioni e le case produttrici che vi inviano i loro prodotti: prevalentemente di prestigio ideologico-politico quelle d’oltre cortina, economico le altre; le quali puntano o a qualche premio che valorizzi e lanci i nuovi film, o a collocarli trattando direttamente con distributori e gestori, o, male che vada, a farne parlare la stampa di tutto il mondo, contando, quando non nella competenza critica, almeno nella compiacenza e sulle allergie dei corrispondenti che vi accorrono a centinaia.

È probabile che l’iniziativa di una vera e propria mostra-mercato annuale dei film, felicemente tentata per la prima volta nell’ultima Fiera di Milano, inciderà anche su questo aspetto del festival di Cannes, offrendo ogni anno ai contrattanti internazionali, con qualche anticipo su di esso, prodotti cinematografici selezionati in funzione di spettacolo, ma evitando tutti i contorni di giurie, premi, pubblico mondano, chiasso, ricevimenti, divi e divette, che costano caro, assorbono tempo e giovano fino a un certo punto, anzi sono piuttosto di disturbo a chi si interessa soltanto alle qualità commerciali del prodotto finito.

Ma, soprassedendo su quanto potrà riserbarci il futuro, dobbiamo riconoscere che a Cannes-1960 questo aspetto mercantile è stato ancora efficiente, stando almeno alla quantità dei film esposti ed alla loro commerciabilità. Esso si riassume in queste cifre: giorni 171; film presentati ufficialmente – tra in concorso e fuori concorso – 62, di cui 29 lungometraggi e 33 cortometraggi, di 30 nazioni, tra le quali una buona mezza dozzina d’oltre cortina2; film presentati non ufficialmente: una ventina; ore di proiezione, in cifra tonda: 100.

Quanti di questi circa 50 lungometraggi sono stati, o saranno, oggetto di contrattazioni vantaggiose fuori dei loro mercati di origine? Difficile dirlo dopo la solenne smentita che il pubblico di tutto il mondo impartì alle previsioni di Cannes-1955 riservando l’accoglienza che ognuno sa a Marcelino pan y vino, il quale allora, al Palais, collezionò soltanto una discreta messe di commiserazione e di scherni... Tuttavia opiniamo che, esclusi il giapponese Kagi ed il belga Si le vent te fait peur, che, a causa della sporcizia dell’argomento trattato, verosimilmente verranno bloccati dalle censure, nonché il norvegese Jakten, il bulgaro Parvi Urok, il romeno Telegramele, il cecosìovacco Kam cert nemuze ed il cinese-nazionalista Cien gnu iu hun, piuttosto digiuni d’interessi e di valori spettacolari, dei 22 restanti: 4 già hanno cominciato il loro felice iter di mercato (l’americano Ben Hur, il francese Le trou, e gli italiani La dolce vita e Ombre bianche), 6 verosimilmente li seguiranno con buon richiamo di pubblico (il francese Amérique insolite; il greco Never on sunday, il messicano The young one, lo svedese Jungfrukällan e soprattutto il russo Ballada o Soldatie e l’americano Home from the hill), e, tra gli ultimi 11, non è escluso che l’uno o l’altro li segua a ruota, e magari li superi, se non in tutti i mercati almeno in alcuni di essi. Se poi a questi film se ne aggiungono circa altri dieci, quasi tutti tributari della cosiddetta nouvelle vague, proiettati nel festivalino di Rue d’Antibes, parallelamente – ed anche polemicamente, in quanto proposti e non accettati dal festival – a quelli del Palais, i quali quasi certamente riscoteranno eccellenti successi di pubblico, bisogna convenire che distributori e gestori recatisi al festival ne hanno ricavato largamente per i loro soldi, e che, dunque, Cannes-1960 per essi, come per le centinaia di critici convenutivi, ha ancora una volta bene assolto alla funzione di osservatorio della produzione mondiale.

L’aspetto artistico

Un bilancio artistico di Cannes-1960 non può non ripetere alcuni luoghi comuni circa la qualità della produzione cinematografica mondiale, confermando che essa, condizionata da perduranti e cristallizzate situazioni tecniche, economiche e politiche, segna il passo, senza, si può dire, variazioni di rilievo. Intanto si conferma che nell’uso materiale degli strumenti tecnici un po’ dappertutto si è raggiunto un livello eccellente, e spesso una padronanza ormai difficilmente superabile. Si tratti di colore o di schermo dilatato, di mobilità di macchina o di resa di luci, di scenografie o di modellatura di materiale umano, di atmosfere psicologiche e di ricostruzioni storiche...: i film di Wyler o di Minnelli, di Bergman, di Fellini o di Antonioni, di Buñuel, di Ciukrai o di lchikawa, rappresentano realizzazioni, per un verso o per l’altro, perfette o quasi. Ma anche registi, si può dire, principianti nel lungometraggio, come il Degelin, la Jensen, il Cardiff, il Lochen, il Reichenbach ..., hanno raggiunto risultati eccellenti, ed anche paesi che fino a ieri si mostravano piuttosto maldestri, come l’India ed alcuni tra quelli d’oltre cortina, hanno dato prova di ottimi progressi, dimostrando che ormai la perfezione tecnica delle immagini schermiche è soltanto questione di mezzi economici e di buona volontà. Tuttavia, nell’uso delle possibilità tecniche si nota maggior misura di quando esse, per la novità, stimolavano negli autori e nel pubblico esagerate attrattive: contro 8 film a colori, ne sono stati presentati 21 in normale bianco e nero, e contro 9 in schermo dilatato, 20 in schermo standard. Ma nella fiducia sulla resistenza del pubblico si è esagerato, con le due ore e mezza di durata di Le trou, Home from the hill, l’Avventura e Sujata, le tre ore della Dolce vita (e di Era notte a Roma), le quasi quattro di Ben Hur!

Altra situazione perdurante è quella dei generi, divisi tra il documentario (Amérique insolite) ed il racconto a soggetto (quasi tutti gli altri): o originario (Paw, Sujata), o derivato (i più: Ben Hur, Home from the hill, Dama s sobatchkoi, Le trou, Kagi, Sons and lovers); storico-realistico (Deveti Krug, Parvi Urok, Ballada o soldatie, The young one), o fantastico-leggendario (Iakten, Macario, Jungfrukällan, Cien gnu iu hun); commedia (Kam cert nemuze), o satira politica (Zezowate Szczescie), o poliziesco-sociale (Los golf-os, Cidade ameaçada). Fuori serie La Dolce vita: non documentario, non racconto ad episodi né di avvenimenti preordinati ad un esito, tra realistico e fantastico, tra satira di costume, tragedia e lirica...: qualche cosa di inedito e di nuovo, che non poteva non disorientare pubblico e critici in attesa di uno spettacolo solito e di un Fellini solito. Qualunque ne sia per essere il giudizio più maturo e definito della critica sotto l’aspetto artistico, e ferme restando le riserve per la sua pericolosità morale, certo è che, sotto quello del linguaggio e dello stile cinematografici, il film ha costituito l’avvenimento di Cannes-19603.

Se dall’uso degli strumenti tecnici e dei procedimenti narrativi passiamo ad un bilancio di resa artistica della produzione, Cannes-1960 ci porta ad un altro luogo comune, confermandoci che ancora rari sono i poeti che vogliano e possano fare opera compiuta: o per manco di grazia interiore, o perché incapaci di liberarsi dai vincoli o politico, o didascalici, o commerciali, o imposti dallo stesso mezzo tecnico-esprcssivo. Pesa4, per esempio, su tutti i film d’oltre cortina l’aria pesante delle produzioni di regime, stancamente ricalcanti i moduli di una resistenza e di un neorealismo di maniera (Parvi Urok, Deveti Krug), o evadenti verso la satira politicamente innocua (Zezowate Szczescie, Telegramele), o la commediola di equivoci (Kam cert nemuze). Ne risentono anche i due eccellenti film che meritamente hanno mosso la giuria ad assegnare all’U.R.S.S. il premio per la migliore selezione «pour leur haute valeur humaine et leur qualité exceptionnelle»: Ballada o soldatie, in cui il pur bravo Ciukrai indulge alquanto nel rifinire poco probabili soldatini, ragazze, madri e generali russi deamicisianamente teneri ed eroi incorruttibili, e Dama s sobatchkoi, del non meno eccellente J. Kheifits, che, sotto una dittatura, la quale da decenni sta perpetrando il più vasto, il più brutale ed il più sistematico scempio di libertà e di valori umani che la storia ricordi, evade in una preziosa trasposizione cinematografica di Cecov, del resto mirabile per eccellente resa dei due giovani attori, il tono di plumbee atmosfere incombenti sul chiuso dramma dei loro personaggi ed il ritmo lento del tempo sospeso sul loro adulterio, tanto fascinoso di attese quanto amaro di rimorsi.

In Cidade ameaçada e Los golfos, in La prócession e Sujala (e diremmo anche in Paw), immagini filmiche e racconto tendono a divenire pretesti per narrazioni a tesi, quando anche non si appesantiscono in lungaggini, prestiti, forzature e convenzionalismi barocchi. Ermetismi più o meno letterari e decadenti viziano i pretenziosi Si le vent te fait peur, Moderato cantabile e Jakten; squilibri tematici: Le trou e Sons and lovers; scompensi tra inserti documentaristici e racconto: Paw e Ombre bianche; piegano quasi unicamente le più o meno eccellenti qualità tecniche a valori spettacolari-commerciali: Cien gnu iu hun, Amérique insolite, Never on sunday e, naturalmente, Ben Hur e Home from the hill; sequenze stilisticamente felici si alternano con momenti meno ispirati in Macario, The young one e soprattutto nell’Avventura, che, almeno a prima visione, nonostante qualche passaggio superbo, ci ha sopraffatto con un carico di noia mortale5. Opere stilisticamente quasi perfette ci sono parse soltanto La Dolce vita, che meritamente si è aggiudicata la palma d’oro, e Jungfrukällan, che, non si sa con quale logica, la giuria non ha preso in considerazione per il premio perché l’ha giudicata oeuvre magistrale!

Sul film di Fellini non ci fermiamo, proponendoci di trattarne quanto prima; circa quello di I. Bergman ci limitiamo ad osservare che, tra le due decine di opere del grande e solitario regista non sembra che esso sia destinato ad inserirsi nel numero dei grandi capolavori. Riprendendo l’argomento di una ballata del secolo XIV, il regista vi racconta come una ragazza, ingenua ed intatta, avviatasi a cavallo verso un santuario della Madonna per offrirvi un annuale omaggio di candele votive, penetrata in una foresta, vi viene sorpresa, violentata, uccisa, e spogliata da tre rozzi caprai, e come il padre, scopertili autori del misfatto, ne prende vendetta, strangolando il primo, trafiggendo il secondo e scaraventando contro una parete il terzo; indi, recatosi presso il cadavere della figlia, e fatto voto di erigere su quel luogo una chiesa in espiazione del suo triplice omicidio, lo vede bene accolto da Dio, il quale miracolosamente vi fa zampillare una purificatrice «fontana della vergine». Il rigore del racconto, il ritmo serrato e senza soste, eppur solenne come di un mistero liturgico, la piena funzionalità della scenografia, del materiale plastico, dell’azione, delle luci e degli attori nel rendere icasticamente, nel quasi assoluto tacere di ogni voce e di ogni suono, il contrasto violento tra la furia brutale di un vecchio naturalismo istintivo e pagano ed il vittorioso germogliare di una primaverile grazia cristiana, ne fanno un film di alta classe, ma di respiro piuttosto limitato ed alquanto freddo, sicché lo spettatore, pur scosso dalla insolita asprezza delle immagini, non riesce a trapassare dalla più stupefatta ammirazione ad una più vitale e calda partecipazione artistica. Tirando, dunque, le somme diremmo: quattro film eccellenti, anche se, forse, non veri e propri capolavori; tre non scarsi di valori stilistici, sia pure discontinui e parziali; una decina di eccellente tecnica e di non troppo volgari valori figurativi e spettacolari, contro altri mediocri, ed alcuni deteriori: non ci sembra un bilancio troppo magro per una manifestazione che vuol essere festival e non mostra d’arte, rappresentare la produzione mondiale corrente, non selezionarne il meglio.

L’aspetto morale

Chi, come noi, partecipa ai festival con animo e missione sacerdotali, ne torna ogni volta più addolorato, scorgendovi ogni anno quale mirabile strumento di elevazione umana potrebbe essere il cinema se adoperato da capaci ed onesti, e quale efficace opera di smussamento, dispersione e sgretolamento dei massimi e più sacri valori umani e divini esso, invece, vada spietatamente sempre più perpetrando, abbandonato com’è nelle mani di affaristi senza scrupoli e senza cultura, quando non di sistematici propagandisti dell’irreligione e dell’immoralità.

Quest’anno, a Cannes, su 29 film, uno solo ha respirato una concezione fondamentalmente religiosa della vita: Jungfrukällan, del grande I. Bergman; solo in esso, infatti, esseri umani avvertono l’urto tra il male ed il bene in quanto offesa o dovere verso Dio, sia pure più facilmente cedendo al peso del primo e più faticosamente docili all’incanto del secondo; solo in esso gli uomini si sentono creature, e pregano Dio, e Dio risponde loro, in un misterioso e pur familiare colloquio di amorosi sensi. Per il resto, in dieci film affiora qualche elemento di religione: in uno solo in modo corretto, anche se non cristiano (Sujata); negli altri 9: o come argomento di spettacolo (Ben Hur), o in modo ambiguo e polemico (La processión, La dolce vita, L’avventura, Macario), o adoperando il sacerdote come valore figurativo vuoto e convenzionale (Si le vent te fait peur, Amérique insolite, Ombre bianche, The young one); nei 18 restanti (Cidade ameaçada, Cien gnu iu hun, Paw, Moderato cantabile, Le trou, Kagi, Never on sunday, Sons and Lovers, Jakten, Los golfos, Home from the hill e, naturalmente, nei sette d’oltre cortina) «non si fa alcun cenno a Dio e agli uomini che lo credono e lo venerano», «gli uomini vi vivono e muoiono come se non vi fosse né Dio, né redenzione, né la Chiesa»6. È l’ateismo più pieno, non proposto polemicamente, ma dato come ovvio e pacifico.

Le cose non sono andate meglio sotto il profilo morale, specialmente in fatto di pudore e di castità. Cambiano i tempi! A Venezia, nel 1958, la giuria dell’O.C.I.C. non credé «opportuno prendere in considerazione i film in competizione a causa dell’insolita immoralità di numerosi film presentati»: ma quelle erano rose e viole rispetto al lezzo che ci ha offerto Cannes-1960! Abbiamo avuto occasione di vedere, in saletta, il famoso Diable au corp, di Autant-Lara, che nel 1947 scandalizzò il pubblico di Venezia; ma, a dodici anni di distanza, – almeno sotto l’aspetto figurativo – quel film immorale è diventato quasi edificante rispetto al libertinaggio ed alle turpitudini che hanno ricevuto diritto di asilo quest’anno alla Croisette!

Per cominciare, vi abbiamo subito una inusitata razione di linguaggio scostumato e turpe (La dolce vita), indi una sufficiente imbandigione di immodestie più o meno innocenti o compiaciute (Amérique insolite, L’avventura, La dolce vita, Ombre bianche, Ben Hur, Home from the hill, ed una punta anche in Paw, premiato dall’O.C.I.C.7); per il resto, non c’è, si può dire, casistica di immoralità sessuale che non ci sia stata offerta e manipolata («si direbbe che in sede di narrazione e di rappresentazione, molti non saprebbero attingere altrove l’ispirazione artistica né l’interesse drammatico, se non nel regno del male!»8): dalle ormai ovvie concessioni prematrimoniali tra giovani (Cidade ameaçada, Parvi Urok, Sons and Lovers, L’avventura, Deveti krug, Zezowate Szczescie, Home from the hill), all’adulterio (Moderato cantabile, Sons and lovers, La Dolce vita, Jakten, Dama s sobatchkoi, Home from the hill), dal non meno ovvio, e spesso esaltato, meretricio (Never on sunday, L’avventura, La Dolce vita), allo stupro (The young one, Jungfrukällan), all’incesto (Si le vent te fait peur, Home from the hill), all’omosessualità (La dolce vita), ed a quello stomachevole intruglio di graveolenti sporcizie che si rimesta nel soggetto di Kagi.

E pazienza se siffatte miserie morali fossero state soltanto proposte e trattate! No: in più di un caso, dalla giustificazione implicita nell’ovvietà con la quale sono state proposte si è passati a teorizzare – come può farlo il cinema – sull’amoralità o immoralità sessuale, avallando l’irresistibilità dell’istinto (Si le vent te fait peur, The young one, Home from the hill), oppure difendendo il diritto prevalente della gioia di vivere (Never on sunday), della noia da evitare (Moderato cantabile), dell’arte (Sons and lovers), o addirittura dichiarando dissolte e svotate di ogni valore le norme della morale tradizionale (L’avventura). In due casi i registi, a rintuzzare le reazioni avverse del pubblico, l’hanno gratificato di un supplemento di difesa con scritti, nei quali non si sa se più commiserare la confusione morale o l’umiliante presunzione di incompetenti nel parlare di cose più grandi di loro; infine tra i film, quello più sudicio e più oltraggioso verso un pubblico civile, Kagi, non solo da parte della giuria non è stato oggetto di aperta riprovazione o, almeno, di un dignitoso e significativo silenzio, bensì si è visto assegnare à l’unanimité; un bel premio pour l’audace de son sujet et pour ses qualités plastiques!; il quale premio, come si meritava, e ad onore del pubblico e dei critici che assistevano al vergognoso suo conferimento, è stato accolto dal più fragoroso ed insistente concerto di fischi che mai abbia riempito la volta del Palais10.

Ma non vorremmo che questi nostri rilievi fossero interpretati come una condanna in toto di quanto ci ha offerto lo schermo della XIIIª edizione di Cannes, quando invece, per la verità, non vi sono mancati né accenni né aneliti verso valori meno ignobili. Così, mentre in Sujata, Paw (e, parzialmente, in The young one, Ben Hur e La processión) si è difesa la uguaglianza essenziale di tutti gli uomini e la necessità di una fraterna comprensione tra razze e classi diverse, in Macarìo ha vibrato una nobile aspirazione ad una maggior giustizia sociale, nel Le trou l’insopprimibile anelito alla libertà della persona umana, in Cidade ameaçada e Los golfos l’ansia e la responsabilità della gioventù bruciata, che prolifera pericolosamente nei sobborghi delle grandi capitali, e nella Dolce vita, almeno per chi l’ha saputo leggere (e perfino in Kagi, per chi parzialmente ha potuto accettarne la tesi), il disgusto di una vita viziosa, o vuota di veri valori Tuttavia, lo concediamo, l’impressione più generale e forte che abbiamo riportata da Cannes-1960 è quella di un mondo dissestato, che illudendosi di poter trovare nell’autonomia più sfrenata e sacrilega una ragione di vita, di fatto ha toccato ormai nell’apostasia da Dio e della morale naturale, nonché nella propria disperazione, bassezze ed abiezioni difficilmente superabili.

Abbiamo la persuasione che, in realtà, il mondo nel suo insieme non è cosi fradicio e corrotto come l’ultimo cinema lo descrive, ma siamo altrettanto persuasi che, se c’è un mezzo efficace per finire di ridurlo rapidissimamente in condizioni tanto disastrose, questo è permettere che si continui a produrre ed a smerciare film corruttori come quelli che hanno ignobilmente trionfato a Cannes. L’arte è un pretesto, che con questo luridume non ha niente che fare, anche se invocata, specie in Italia, da chi o nella vita morale ha fatto naufragio, e perciò dalla corruzione altrui non ha nulla da perdere, anzi tutto da guadagnare, o ragiona con gli argomenti del portafoglio, o è soggiogato, convinto o meno, al carro marxista. Specialmente a questi ultimi Cannes ha dato una lezione alla quale, se conservano un residuo di logica e di onestà, non sapranno come rispondere; ed è questa: di tutte le produzioni di oltre cortina non una, anche trattando soggetti che facilmente l’avrebbero consentita, si è permessa la centesima parte dell’impudicizia esibita in molti film occidentali, anzi l’U .R.S.S., trattando di un adulterio, lo ha fatto con una misura che non si poteva maggiore, e nella Ballada o soldatie ci ha fornito un film addirittura edificante, di sicuro successo, purtroppo, anche nelle nostre sale parrocchiali; eppure, l’uno e l’altro, se non capolavori, certamente sono pregevoli per non comuni valori artistici: segno chiaro che pulizia morale e, quando non ci fosse questa, censura ed arte possono andare benissimo d’accordo; mentre il mondo occidentale, in nome di una libertà-libertinaggio, ha abbondato in prodotti che oltre cortina o non andranno mai, o se, artistici o meno, vi saranno introdotti, lo saranno soltanto per dimostrare a quei greggi più o meno sottomessi, il rinfrollimento morale dei paesi capitalisti. Per gli onesti, per i cattolici e per gli italiani Cannes-1960 è, dunque, un appello ed un monito. Occorre decidersi, prima che sia troppo tardi, a far sentire nel cinema, arma principe dell’opinione e del costume pubblici, la nostra voce e la nostra presenza, perché esso mostri al mondo l’Italia quale veramente è, e non quale giova presentarla ad interessati mercanti o a disonesti politici, e sia per il pubblico italiano strumento di cultura e di moralità. 

1 Ivi compreso il venerdì 13 – diciamo: venerdì 13 –, giorno in cui, in un ambiente nel quale passa per spregiudicato chi irride ad ogni credenza religiosa, non si è trovato uno spirito forte capace di programmare un suo film, sfidando la doppia iettatura segnata in calendario; ragion per cui il 13 maggio è stato dichiarato giorno di vacanza: relâche.

2 Eccoli in ordine alfabetico di nazioni. (I numeri in corsivo riguardano i cortometraggi; i titoli chiusi in parentesi quadre sono dei film presentati fuori concorso). ARGENTINA (1+1): La processión (La processione), di Fr. Lauric. – AUSTRALlA (1). – BELGIO (1+1): Si le vent te fait peur (Se il vento ti fa paura), di E. Degelin. – BRASILW (1): Cidade ameaçada (La città minacciata), di R. Faria. – BULGARIA (1+1): Parvi Urok (La prima lezione), di R. Valcianov. – CANADA (1). - CINA (1): Cien gnu iu hun (L’ombra incantatrice), di Li Han-hsiang. - CECOSLOVACCHIA (1+1): Kam cert nemuze (Quando il diavolo ci mette la coda), di Zd. Podskalsky. – DANIMARCA (1+1): Paw, boy of two worlds (Paw, ragazzo tra due mondi), di A. Henning-Jensen. – FRANCIA (3+4): L’ Amérique insolite (L’America insolita), di Fr. Reichenbach; Moderato cantabile, di P. Brook; Le trou (Il buco), di J. Becker. – GERMANIA Ovest (2). – GIAPPONE (1): Kagi (Una mania strana), di K. lchikawa. - GRECIA (1): Never on sunday (Mai la domenica), di J. Dassin. – INDIA (1+1): Sujata, di B. Roy. – INGHILTERRA (1+1): Sons and lovers (Figli ed amanti), di J. Cardiff. – ITALIA (3+2): L’avventura, di M. Antonioni; La dolce vita, di F. Fellini; Ombre bianche, di N. Ray e B. Bandini. – lUGOLIAVIA (1+1): Deveti Krug (Il cerchio nono), di Fr. Stiglic. – MESSICO (2+2): Macario, di R. Gavaldón; The young one (Una ragazza), di Buñuel. – NORVEGIA (1): Jakten (La caccia), di E. Lochen. – OLANDA (2). – POLONIA (1+1). Zezowate Szczescie (Un uomo fortunato), di A. MunK. – ROMANIA (1+1): Telegramele (Telegrammi), di G. Naghi ed A. Miheles. – SPAGNA (1+1): Los Golfos (I teppisti), di C. Saura. – SVEZIA (1): Jungfrukällan (La sorgente), di I. Bergman. • SVIZZERA (1). – TURCHIA (2). – UNESCO [1]. – UNGHERIA (1). – U.R.S.S. (2+1): Ballada o Soldatie (La ballata del soldato), di Gr. Ciukrai; Dama s Sobatchkoi (La signora col cagnolino), di J. Kheifits. – U.S.A. (2+2): [Ben Hur, di Wyler; Home from the hill (Di ritorno dalla collina), di V. Minnelli.

3 A parte che, come argomento e come vuoto morale, pare voglia essere quasi la continuazione della Dolce vita, anche l’Avventura, di Antonioni, ha sembrato rappresentare una rottura con le forme narrative consuete al cinema-spettacolo; quindi, anche per esso, le violente insofferenze del pubblico e dei critici festivalieri.

4 Siamo noi i primi a considerare provvisori questi nostri giudizi estetici su film visti soltanto una volta, con sottotitoli, nell’ubbriacatura di un festival.

5 Vergognosi, facciamo onorevole ammenda di questa nostra debolezza. La giuria, più saggia di noi e del pubblico, che ne ha accolto il verdetto con una salve di fischi, l’ha premiato «pour sa contribution remarquable à la recherche d’un nouveau language cinématographique».

6 Pio XII, in E. BARAGLI, Cinema Cattolico, Roma 1959, nn. 373, 169.

7 Eccone la motivazione: «La giuria dell’Office Catholique International du Cinéma, incaricata di premiare tra i film presentati al XIIIº Festival di Cannes quello che, con la sua ispirazione e la sua qualità, più contribuisce al progresso spirituale ed allo sviluppo dei valori umani, rende un doveroso omaggio alle opere che hanno affrontato il problema, oggi particolarmente sentito, della mutua comprensione tra le razze, i popoli e le classi; e tra esse assegna il premio al film danese Paw, ragazzo tra due mondi, di Astrid Henning-Jensen». La giuria del premio O.C.I.C. era composta di sei membri: Baragli Enrico (Italia), Butcher Maryvonne (Inghilterra), D’André Pierre, presidente (Francia), Debongnie Jean (Belgio), Ortega Frison Orencio (Spagna), Rasmussen Bjorn (Danimarca). Ne sono stati assistenti ecclesiastici: mons. Jean Bernard (Lussemburgo) e P. François Lepoutre (Francia).

8 Po XII, in E. BARAGLI, op. cit., n. 379.

9 Il primo l’autore del Si le vent te fait peur, il quale sbattendo la porta nel lasciare Cannes, cominciava la sua difesa cosi: «Il mio primo film in programma nel mio primo festival è stato attaccato violentemente, da alcuni accusato di trattare un argomento scandaloso, da altri giudicato cinematograficamente fallito. Nel partire da Cannes, mi preme rispondere soltanto circa l’argomento... L’incesto: argomento tabù. Perché poi? E non si tratta di un argomento eterno? A dar retta a certi virtuosi difensori della moralità pubblica (pubblica come una “passeggiatrice”?), si capisce subito come vanno le cose sullo schermo, a differenza del romanzo, dove certe finezze passano inosservate...». – Il secondo il nostro Antonioni, autore di un ciclostilato francese che noi retrovertiamo così: «C’è oggi nel mondo una gravissima frattura tra la scienza, tutta tesa verso l’avvenire ed ogni giorno pronta a rinnegare ciò che ammetteva in passato, pur d’impadronirsi di una frazione del suo avvenire, ed una morale rigida e rappresa, che continua a sostenersi malgrado l’uomo se ne renda conto. Pigrizia e vigliaccheria. Fin dalla sua nascita l’uomo si trova appesantito da un bagaglio di sentimenti, non dico vecchi e scaduti, ma del tutto inutili, che lo condizionano senza aiutarlo, l’ostacolano senza mai mostrargli vie di uscita. E tuttavia l’uomo non è ancor riuscito a sbarazzarsi da siffatta eredità. Egli lavora, ama, odia, soffre spinto da queste forze e da questi miti che risalgono ai tempi di Omero! Per quanto ciò possa sembrare assurdo in un’epoca che prepara ad andare sulla luna, tuttavia le cose stanno cosi! L’uomo, dunque, che è disposto a sbarazzarsi delle sue teorie tecniche o scientifiche quando le trova errate... per ciò che riguarda i suoi sentimenti è ancora legato ad un conformismo totale. In questi ultimi anni noi abbiamo esaminato e studiato i nostri sentimenti fino all’esaurimento: ma altro non siamo riusciti a fare. Non abbiamo trovato nulla di nuovo, né una via di soluzione a questo problema. lo non posso né voglio trovarla questa soluzione, ché non sono un moralista. Il mio film perciò non è né una denuncia né una predica: è un racconto in immagini nel quale spero che si riesca a trovare non la genesi di un sentimento ingannatore, ma il modo nel quale ci si può ingannare nei sentimenti. Ché, infatti, torno a ripetere, noi seguiamo una morale decrepita, di miti svotati e di convenzioni fasulle. E lo facciamo ad occhi aperti, senza tuttavia sapere perché mai rispettiamo siffatta morale. La conclusione alla quale approdano i miei personaggi non è quella dell’anarchia morale, bensì piuttosto ad una specie di reciproca compassione. Tutto qui? direte voi. Sì, perché cosa resterebbe, se anche questa venisse a mancare? Per esempio, come spiegate voi questa smania erotica che ha invasa la letteratura e lo spettacolo? È il sintomo più ovvio della malattia di cui soffrono i sentimenti. Noi non saremmo erotici, cioè malati di Eros, se l’Eros godesse buona salute, vale a dire se esso si trovasse proporzionato alla misura e condizione dell’uomo. Si tratta di uno stato morboso e, come in ogni malattia, l’uomo reagisce. Ma reagisce male, e fa il suo danno. Nell’Avventura la catastrofe è causata da un impulso erotico di questo genere: ovvio, inutile ed amaro. Ma non basta sapere che le cose stanno cosi, che cioè il protagonista del mio film sia consapevole della natura volgare della spinta erotica che lo domina e della sua inutilità. Ecco un altro mito che ne se va: l’illusione che basti conoscersi, e notomizzare tutte le pieghe più nascoste della nostra anima. Ogni giorno si vive l’Avventura, sia essa sentimentale, morale o ideologica. Ma se sappiamo che le nostre vecchie tavole della legge non ci offrono altro che parole vuote di valore, perché restiamo fedeli ad esse? Ecco un’ostinazione che mi sembra tristemente commovente. L’uomo, che non ha paura dell’ignoto nella scienza, ha paura dell’ignoto nella morale».

10 Duole che all’unanimità della giuria non abbia fatto eccezione almeno la voce dell’autorevole membro italiano di essa, noto come cattolico.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151