Articolo estratto dal volume IV del 1956 pubblicato su Google Libri.
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La XVII Mostra internazionale di arte cinematografica, svoltasi a Venezia dal 28 agosto al 9 settembre, può ritenersi una battaglia onorificamente vinta; e noi lo rileviamo con una sodisfazione tanto più intensa quanto più amare furono le nostre delusioni e trepide le nostre speranze quando, reduci dalle ultime mostre veneziane e dai festival di Cannes, loro più temibili concorrenti, lamentavamo le sorti di un’istituzione di cultura compromesse dall’affarismo e dalla propaganda più deteriore. Insieme con altri critici invocammo allora una soluzione coraggiosa, che distinguesse nettamente la nostra mostra dagli altri festival commerciali e mondani, e l’indicammo in una selezione rigorosa dei film da proiettare a Venezia, condotta sul solo criterio del loro valore artistico, senza compromessi di sorta appunto verso artifici grossolanamente spettacolari o cedimenti avanti a volgari manovre di propaganda politica1. Grazie a Dio, la sensibilità degli organi governativi italiani, il coraggio e la capacità delle persone da quelli preposte alle attività della Mostra, hanno realizzato, con i nostri, i desideri di quanti s’interessano alle sorti del cinema come strumento di cultura.
I risultati
Le differenze tra la XVII Mostra veneziana e le precedenti edizioni conferiscono a quest’ultima le caratteristiche di una rivoluzione. I giorni di programmazione, da diciassette che furono nel 1954 e nel 1955, quest’anno sono stati ridotti a dodici (più un tredicesimo per la cerimonia della premiazione); i film programmati, che nel 1954 furono ventisei (più tredici fuori concorso), e nel 1955 salirono a trentuno (più dodici fuori concorso), quest’anno non hanno superato i quindici (tra essi compreso il Bus Stop [Fermata d’autobus], di J. Logan, fuori concorso, dato nella serata di chiusura), s’immagini con quale sollievo degli inviati stampa, impegnati per due soli giorni ad un doppio programma, e per i restanti dieci giorni nella visione di un solo film, contro i due, e i tre, e i quattro film giornalieri (senza contare i cortometraggi) con cui essi vennero massacrati nelle precedenti edizioni veneziane, e, superando ogni precedente, nell’ultima assurda corveé; di Cannes2.
Frutto di questa coraggiosa selezione è stata la buona qualità del programma. Finalmente c’è stato evitato il solito strazio dei compitini da principianti, delle stramberie di nevropatici, degli esibizionismi da varietà, delle atrocità da macellai e delle volgarità da baracconi paesani, che avvilirono gran parte delle ultime mostre, deprezzando il buono che pur presentavano; e se non abbiamo avuta la sorte d’incontrarci col capolavoro di gran classe, come nel 1955 che ci fruttò Ordet, tuttavia si può dire che l’insieme s’è mantenuto su un livello artistico buono, e più di una volta eccellente. Anche la drastica riduzione dei premi a soli tre: un leone d’oro per il migliore film, e due coppe Volpi per le migliori interpretazioni maschile e femminile, unici superstiti delle tombole paesane in cui si erano ridotte le mostre precedenti, coi loro leoni, leoncini, medaglie, coppe e coppette, ha influito a ridare alla mostra veneziana una sua dignità. Lo stesso effetto ci pare che abbia ottenuto il fatto che la giuria – internazionale e di competenti – non abbia assegnato neanche l’unico Leone in palio: benché opiniamo che, tuta conscientia, l’avrebbe potuto benissimo assegnare all’Arpa birmana, ci sembra che, in linea di massima, il rigore da essa mostrato dica inequivocabilmente come per uscire laureati dalla mostra occorrano molto più qualità che non ne siano necessarie per parteciparvi.
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Questi buoni risultati, quasi unanimemente riconosciuti dalla stampa nostrana e, sia pure a denti stretti, da larga parte della stampa straniera, tanto più sono apprezzabili quanto maggiori sono state le difficoltà da superare e le prevenzioni da dissipare. Si pensi che la macchina organizzativa, per le more imposte dalla ritardata nomina della nuova direzione, s’è potuta mettere al lavoro solo a fine febbraio, vale a dire con cinque mesi di ritardo rispetto agli altri anni; che la commissione di esame dei film ne ha dovuti esaminare ben settantanove di diciannove paesi, superando il boicottaggio di grandi produzioni, quali l’americana e l’inglese, sdegnate di non vedere i loro prodotti ammessi alla competizione senza previo esame; che a direttore della Mostra veniva posto un «uomo di Azione Cattolica», la presenza del quale «in posto così delicato» veniva paventata dalle correnti marxiste, le quali non solo lo ritenevano «sconosciuto nel mondo artistico del film», ma dubitavano dei suoi «valori individuali per dirigere una manifestazione d’arte»; il che, a loro parere, giustificava «pienamente tutte le preoccupazioni» di quanti vedevano in quella scelta il prevalere «di motivi di ordine politico e confessionale su quelli di competenza e di capacità», tanto più che nella commissione artistica erano stati bensì inclusi un cattolico, un socialdemocratico e un liberale, ma n’erano «stati con cura esclusi gli uomini appartenenti ai partiti di sinistra», e con essi «le persone più rappresentative nel campo dell’arte e della cultura cinematografica»3.
Orbene, i risultati della Mostra hanno dimostrato infondate quelle preoccupazioni. Il prestigio personale del direttore, le sue doti organizzative e la sua sollecitudine per i problemi d’arte e di cultura, sono entrati per gran parte nel suo buon successo ottenuto. La dislocazione più organica degli uffici e dei servizi destinati alla stampa e al cerimoniale, le innovazioni tecniche e i miglioramenti nel servizio di sala, lo sdoppiamento delle proiezioni in pomeridiane e serali a maggior comodo dei corrispondenti dei quotidiani, le attività culturali che vi si sono svolte, quali: il convegno delle scuole di cinema, il convegno dei direttori di festival, gli incontri tra uomini di cinema e di teatro e le due apprezzatissime retrospettive su Chaplin e su Dreyer, infine, il sano criterio di competenza specifica che ha guidato la direzione nella composizione della giuria4, sono altrettanti prove che l’essere militante cattolico in un direttore non comporta necessariamente faciloneria, incompetenza, passività o grettezza d’idee, anzi piuttosto suade il contrario. Sì: non tutto è stato eccellente e perfetto; ma è molto difficile giudicare se le carenze – e quale opera umana ne va esente? – siano da addossarsi alla direzione, e alla commissione e giuria da essa nominate, o ad altri fattori estranei. Cercheremo di contribuire per nostra parte alla soluzione del quesito dando uno sguardo ai quattordici film che hanno preso parte alla competizione, giacché appunto sul valore assoluto e rappresentativo di essi si sono appuntate le critiche.
I film
Il primo della classe, nettamente distanziato dagli altri, a nostro modesto parere, è stato l’Arpa birmana. Esso narra la storia di un soldato giapponese combattente in Birmania, il quale, terminato il conflitto, scosso dalla immane atrocità della guerra cui aveva preso parte attiva, concretizzata nei cumuli di cadaveri insepolti e preda agli avvoltoi, resistendo alle affettuose sollecitazioni dei suoi commilitoni, da lui più volte validamente sostenuti e consolati col suono dell’arpa durante le azioni di guerra, rasosi il capo e vestiti gli abiti di bonzo, rinuncia a tornare in patria, per consacrare il resto dei suoi giorni alla preghiera e alla pietosa ricerca delle salme insepolte. È un racconto dai toni larghi e solenni di leggenda epica; il tema profondamente umano della pietà per quei che furono vivi e cui l’atroce morte ha strappato a tutti gli affetti della famiglia e della dolce patria lontana, s’incarna in trepide trasparenze di incantate foreste, in distese di valli piene di alto mistero e di larghe fiumane cariche d’infinito; in motivi musicali diffusi in cori a riscontro, ora tra nemici accomunati nella nostalgia della patria, ora tra liberi e prigionieri separati da fili spinati, ora tra mortali resi tutti ugualmente pensosi avanti a una tomba recentemente chiusa; in struggenti polifonie, scandite dai patetici accordi dell’arpa, o quasi mormorate in sordina come a commento delle più segrete e profonde voci della natura. Romantico ma non melodrammatico, raccolto ma non chiuso, dolce ma non sentimentale, persuasivo senza voler nulla dimostrare o declamare, ci ha dato le ore più liriche e religiose della Mostra. Peccato che alcune lungaggini proprie del cinema giapponese, in particolare la finale, trascinata nella lettura di un’interminabile lettera, preziosa come testo letterario ma poco cinema, nonché un leggero manco di misura nell’insistere su alcune atrocità e l’uso di musiche classiche europee, che in un’opera fondamentalmente orientale insinuano il sospetto di un adattamento più prammatisticamente architettato che spontaneo, turbino un po’ la fruizione di un insieme di serena bellezza: nèi, questi, che forse hanno fatto ristare la giuria dall’attribuirgli la massima lode5.
Per quanto distanziato da quello giapponese, anche lo spagnolo Calle Mayor non scarseggia di eccellenti pregi. La farsa crudele giocata da un gruppo di fannulloni ai danni di una matura ragazza, da essi prima lusingata con l’offerta di un amore inesistente e poi abbandonata alla più desolata delusione, s’inserisce in una pertinentissima descrizione di ambiente provinciale, carico di chiusa noia, di vuoti pettegolezzi e d’immutabili convenzionalismi, ritmato dal monotono battere delle ore del campanile della cattedrale, dal periodico fluire e refluire della popolazione nella passeggiata del corso con un va e vieni da marea, e dai fiochi fischi di trenini sperduti nelle distese che isolano la piccola cittadina di provincia dalla vita ariosa della grande città. Il regista Bardem s’è calato tutto nel soggetto, l’ha vissuto, ed ha reso la desolazione della più vuota borghesia, macerata in un inutile girare a vuoto, e l’egoismo crudele dei suoi scherzi, con una voluta lentezza di ritmo, con lividi riverberi di fanali sui selciati deserti, col grigiore dei boschi, delle rovine e del fluire monotono di acque suadenti pensieri di suicidio, con accorati motivi musicali e il martellare di un pianoforte scordato in una sala deserta, e soprattutto col giuoco mimico del volto della protagonista, su cui lentamente si accendono aurore promettenti luminosi mattini, e poi di colpo il cielo si chiude, muto ed immobile, cupo di nembi... Ma anche quest’opera, degnissima, non va immune di difetti, tra i quali il più fastidioso è l’impressione di già visto che disorienta lo spettatore; egli vi ritrova echi, e qualche cosa più che echi, dei più noti film di Fellini e di Antonioni, di Duvivier e soprattutto di Delbert Mann, il regista di Marty, dove la Betsy Blair svolge, sia pure con meno felice creazione, una parallela parte di matura e trepida fidanzata. Non ci meraviglieremmo se ci confermassero che appunto la scarsa originalità di molti suoi spunti, per quanto magistralmente fusi e dominati dal Bardem, abbia sconsigliato la già dubbiosa giuria di premiare quest’ottimo lavoro.
Gervaise, che noi porremmo terzo in graduatoria per valori stilistici, potrebbe dirsi un capolavoro se per raggiungere i vertici dell’arte bastasse una regia raffinatissima e una tecnica sbalorditiva, e non vi abbisognasse, a renderlo vivo, anche un’anima. Nel vederlo, il pensiero corre subito a Jeux interdits (1952) dello stesso regista: v’è la stessa diabolica forza disgregativa del linguaggio di Clément, più efficace nello spogliare, smontare e distruggere le componenti personali del materiale umano da lui adoperato, degradandolo a materia bruta, abbandonata e profanata nelle mani del regista, che per incarnare in esso le ansie e i valori spirituali della commedia e della tragedia umana. Già la scelta del soggetto – uno degli episodi più veristi dell’Assommoir di Zola – non meno carico di macabro contenuto di quanto già non fosse Jeux interdits, dimostra quanto la dissacrazione dell’umano sia congeniale allo stile del Clément; più che la vicenda lo prende la rappresentazione dei particolari plastici della degradazione umana; quel che nel romanzo zoliano era inteso come mezzo per dimostrare la funzione di mattatoio esercitata dalla bettola rispetto alla società borghese dell’ottocento francese, qui è rappresentato quasi fine a se stesso; la zuffa donnesca nella lavanderia, ricostruita con una meticolosità superstiziosa, sconvolge col suo verismo brutale; il festino dei tredici assurge a rilievi di esaltazione bacchica, e l’oca che vi si scalca, a simbolo di pregnanza cultuale; il furore dell’alcoolizzato Coupeau, con la sua macabra corazza di bicchieri infranti e di sangue, si scatena con l’inesorabilità di un uragano: atterrisce insieme ed esalta; la degradazione di Gervaise lascia nell’animo la desolazione che esala da una distesa già fiorita e poi ridotta a palude dalla furia degli argini rotti, e la depravazione incipiente della piccola Nanà, già corrosa dall’alcool e ricercata dai ragazzi, dischiude la vista su prospettive ancora peggiori di vizio e di turpitudini... Luci ed ombre scavano inquadratura per inquadratura, un ritmo senza soste lega sequenza a sequenza, ma lo spettatore, guidato dallo spietato regista, ammira e non freme, è scosso ma non commosso, passivo astante, insieme con lui, di passioni che scoppiano con la meccanica necessità dei fenomeni atmosferici, che sbalordiscono ma non suscitano sentimenti di umana pietà. Neanche la magistrale interpretazione di Maria Schell, giustamente premiata con la coppa Volpi, riesce a redimere il suo sconsolato vuoto di umanità: l’anima che manca al regista pare che svuoti di essenza anche la sua arte. Applaudendolo, riconosciamo il perfetto mestiere, ma restiamo a disagio, come frustrati di un capolavoro, atteso e non ottenuto6.
L’americano Attack!, a nostro parere, ha chiuso la quadriglia dei migliori. È una pagina di guerra violentissima tanto per l’assunto quanto per il linguaggio, che per molti versi ricorda All’ovest niente di nuovo (1930). La vigliaccheria e l’omertà di alcuni ufficiali vi è descritta in toni impetuosi, e in toni altrettanto impetuosi vi vengono opposti lo stoico coraggio, la vendetta e l’autodenunzia dei “buoni”. Il ritmo vigoroso dell’azione non dà respiro, le passioni primigenie degli uomini sono rese da un’interpretazione nell’insieme superba, le reazioni vitali umane avanti all’incombere della morte vi sono variamente, ma sempre icasticamente indagate e descritte; tuttavia, anche in quest’opera – che in ogni caso supera di molte misure il livello mediocre della grande produzione U.S.A. –, il macabro è troppo insistito, il giuoco del suspense architettato e sfruttato, l’eccesso di forza qualche volta è gratuito, la polemica invadente. Anche qui, a visione conclusa, si ha il vago sospetto che la storia sia stata costruita, più che sentita, su di un caso limite congegnato solo per comporre una pagina spettacolare, e non per un’autentica e compiuta opera d’arte; altra prova questa di quanto sia malagevole dominare il linguaggio pericolosamente corposo del cinema, sì che un sovraccarico di emotività non superi la misura di un’adeguata espressione, nonché di quanto sia difficile liberarsi dalla struttura e dal linguaggio propri del teatro, quando, come qui avviene, si passa da un’opera drammatica allo schermo.
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Un secondo gruppo di sette film, stando alle nostre prime impressioni, che forse ulteriori visioni potrebbero modificare, s’è distinto per qualità formali e tematiche buone, ma parziali, tali da farli degni di una mostra d’arte, senza però dar ragionevoli speranze di candidatarli a premi, spettanti solo ad opere valide per una tal quale loro compiutezza.
Il tedesco Capitano di Köpenick è una piacevole commedia satirica sulla società militarista e burocratica della Germania guglielmina, ricamata sulla trama di un paradossale caso combinato nel 1906 da un calzolaio, il quale, disperato di non trovare lavoro perché privo di documenti, e di non poter provvedersi di documenti perché privo di lavoro (lo spunto funzionava già in Berliner Ballade (1946), di Staemmle), un bel giorno, indossata un’uniforme di capitano, arresta il sindaco di un sobborgo presso Berlino e ne confisca la cassa, provocando le inconsciamente sarcastiche risate di tutti i gallonati della Germania, tra essi compreso lo stesso imperatore. La satira, condotta sul motivo di uniformi sgargianti di colori e rutilanti di ori e sul ritmo di fanfare, di ballabili, di passi cadenzati e di risate fragorose, non scava in profondità; tanto si dilunga nell’introdursi quanto si affretta a concludere, si disperde in episodi pleonastici, e si concede con una certa indulgenza certi facili effetti teatrali; sicché il valore maggiore del film resta, a parte la buona musica e il buon colore, l’eccellente interpretazione di Heinz Rühmann, al quale, almeno per la fatica di maggiore impegno sostenuta, caratterista per caratterista, a nostro parere, poteva andare senza torti la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, aggiudicata invece al francese Bourvil, per altro eccellente controspalla del Gabin in La traversée de Paris.
Anche questo film, piacevole la sua parte, non riesce a diventare opera totale, malgrado la pregevole fotografia di esterni sommersi in ombre e riflessi notturni, la recitazione di gran classe del Gabin – un Grandgil mezzo tra bohémien e superuomo – e del ricordato Bourvil – onesto «intrallazzatore» –, e nonostante il dialogo tutto frizzi e scintille di Bost e Aurenche; la rifinita e sapiente regia di Autant-Lara, scava scava, risulta solo una splendida pagina di colore, e il trasporto clandestino di carne macellata da un capo all’altro di Parigi è pretesto per descrivere una notte di avventure tragicomiche – luci incappucciate, borsa nera, polizia, colpi sperduti e sirene – sotto l’occupazione tedesca: troppo poco, dato il nome del regista, notoriamente impegnato in una corrente sociale estremista, e soprattutto data la promessa fornita e non giustificata da alcuni elementi del racconto, che sembrano alludere a significati profondi. Anche il non giustificato viraggio della pellicola in blu e in seppia le dà un carattere di esercizio stilistico, un po’ d’avanguardia, più che di racconto ricco di vita propria.
Il messicano Torero! si rifà al tono stilistico e alla tematica di documentazione umana avviati, ormai, si può dire, in tutte le cinematografie del mondo, dal cosiddetto neorealismo italiano. La vita del torero Procuna, che nel film interpreta se stesso, ogni domenica alle prese con un pubblico più bestiale del toro e con la propria paura più temibile del pubblico, vi è descritta con accenti di calda umanità e con una schiettezza di linguaggio insolita alla produzione messicana, piuttosto magniloquente. Anche l’appropriato procedere ad incastro con pezzi di repertorio gli dà un’eccezionale validità di drammatico documento, e lo distingue nettamente dal resto dell’abbondante produzione filmistica di corride, da The brave bulls, di R. Rossen, al recentissimo Tarde de toros, di L. Vajda; e più ancora si distinguerebbe per valori formali se, pari a quello delle sequenze sulle corride, vi fosse la forza del racconto e dello scavare umano nelle sequenze che riguardano la vita privata del protagonista. Equivalente valore documentario, ma a sostegno di un problema di ben altra portata sociale, convalida La strada della vergogna, impegnato nell’indagare la complessità umana del problema delle case di tolleranza in Giappone. C’è chi l’ha dichiarato degno, niente di meno, dell’unico Leone in palio a Venezia; probabilmente si tratta di critici legati a una estetica contenutistica, o più attenti alla carica umano-sociale del problema in sé che ai valori artistici con cui esso sia stato intuito ed espresso. Innegabilmente quest’ultima opera del compianto Mizoguchi sconcerta; come documento di un paese, di un tempo e di una mentalità ha il suo peso, e più ne ha se quanto vi si denuncia si proietti sulle non meno tragiche e disonoranti condizioni in cui il meretricio si organizza un po’ da per tutto nel mondo; ma bisogna pur dire che le pagine di pura poesia non vi abbondano, mentre non vi mancano fratture e scorie. Vale anche qui in parte quanto osservammo a proposito di Gervaise: come il verismo di quello così il realismo di questo – anche in Giappone il neorealismo italiano ha fatto scuola – scuote ma non commuove, la dura polemica enumera ed esalta i problemi ma non partecipa ai drammi che sotto di quelli soggiacciono.
Del tutto diverso è Calabuig, sorridente nel suo ottimismo spigliato, sul filo di Bienvenido Mister Marshall, dello stesso regista Berlanga. La sua facile satira della civiltà meccanica moderna e della bomba atomica sua figlia ha come pregio maggiore la buona recitazione del caratterista inglese Edmund Gwenn. Per il resto lo diremmo polivalente, ad nutum degli interpreti e del loro stato d’animo, col suo non decidersi tra il bozzetto e la parabola, tra il patetico e l’ironico, tra l’idillio, la favola e la farsa, e il suo ondeggiare tra lo strapaese di Daudet e la macchietta alla Dickens, tra De Amicis e Zavattini, e col suo campionario umano non sai se di semplici o di semplicioni, mutuati dai film di Capra o da Miracolo a Milano7. Ciò non c’impedisce di associarsi ai molti applausi con cui l’ha accolto il pubblico, dirigendoli però alla produzione spagnuola in genere, che si va affermando con film di buona dignità.
Anche i due della selezione italiana appartengono alla categoria dei film validi per valori parziali. Il primo, L’impero del sole, lungo cinemascope a colori sul Perù e sui suoi indios, ripete la fortunata formula di Magia verde e di Continente perduto, a mezzo tra il documento vero e proprio e la ricostruzione poetica, ma per bellezza di immagini, per l’accorto avvicendarsi degli elementi scelti e legati in una salda parabola di racconto, per l’alternarsi di brani di puro interesse scientifico con altri di alto interesse umano e di afflato lirico, resta più vicino a questa che a quello. Lo splendore dei suoi colori, la meravigliosa varietà dei ritmi, la suggestività del suono stereofonico e l’inattesa multiforme novità delle notazioni etnografiche e folkloristiche, ricche dei più alti valori etici, hanno strappato al pubblico un continuo battimani; ma, finito lo spettacolo, ci si domanda se proprio valida sia questa sua formula, che accomuna, sì, alcuni pregi del racconto a soggetto ad altri del documento scientifico, ma accomuna anche gli inconvenienti dei due generi, specialmente a danno della validità scientifica, implicitamente data per indubitabile in siffatti film réportage; inoltre diremmo che non sempre tanta magnificenza di immagini, tanto squillare di colori e di suoni, e concitazione di ritmi, evitino lo strafare stilistico, per pagare un men che onesto tributo alla spettacolarità. L’altro, Suor Letizia, punta tutte le sue carte sulla protagonista, e in ciò trova i suoi pregi e i suoi limiti; difatti, quando la Magnani è di scena l’azione regge, quando essa manca l’azione scade; per giunta, impegnata a sostenere, si direbbe, da sola tutta la vicenda, l’artista non sempre resiste alla tentazione di forzare il personaggio; inoltre, per conto suo, se di fatto incarna un caso psicologico e religioso tutt’altro che improbabile tra donne consacrate a Dio, risulta fondamentalmente incompleto, non essendo inquadrato nella visione totale della rinuncia-scelta in che consiste la vita religiosa, e per giunta si muove tra un corteggio di altre monache che paiono un ibrido tra le “semplici” care a Fellini e le dinamiche lanciate dal cinema americano. Nonostante le soffiate di naso e il pianto delle platee, anzi proprio per questo, con le sue sproporzioni e discontinuità, il film, che del resto arieggia a situazioni già scontate in Marcelino pan y vino (1955), sta ai limiti tra quelli di media dignità e il fumetto, e perciò nella nostra approssimativa graduatoria segna il passaggio all’ultimo gruppo di tre che ci paiono non raggiungano la soglia di validità artistica indispensabile per partecipare alla Mostra. Essi sono: l’americano Dietro lo specchio, il russo La guarnigione immortale, e il greco L’orco di Atene.
La lacrimosa storia dei danni prodotti dall’abuso del cortisone, narrata dal primo, malgrado l’intelligente uso del cinemascope, l’eccellente mestiere del regista e la buona prestazione di J. Mason, non esce dalla categoria dei film spettacolari americani al mille per mille, in cui gli ingredienti della lacrima facile, del dato pseudoscientifico e del brivido gratuito, portati fino ai limiti del grottesco, e pur sempre a lieto fine, non riescono a mascherare l’improbabilità delle situazioni e l’artificiosità tutta commerciale della trama.
A salvare il secondo non vale la tecnica consumatissima del vecchio e glorioso Tissè, posta a rinforzo dalle doti non malvage dell’esordiente Agranenko, né la buona recitazione corale degli artisti e dei figuranti; il film resta irrimediabilmente viziato dalla più bolsa e fragorosa rettorica di propaganda. Altro che il disprezzato Assedio dell’Alcazar (1940)! Se su piano d’arte si salvano alcune sequenze eccellenti, più che altro esso vale come documento del mutato indirizzo di partito – ah, quel telefono da campo che non risponde, ed accusa l’imprevidenza delle alte gerarchie (leggi: Stalin) ed esalta l’apporto dato alla vittoria dai soldati ignoti! – già pacifista e ora fatto battagliero (per la difesa, s’intende!), e come una ennesima prova della scarsa fiducia che i sovietici persistono ad avere nelle facoltà critiche di noi italiani, senza perplessità ammannendoci i loro polpettoni propagandisti, non più intelligenti di quelli che dovemmo sorbirci nel deprecato ventennio. L’altr’anno gustammo i tutti-eroi di Verso l’altra sponda, balzati come un sol uomo a difendere la Russia “aggredita” dalla Lettonia; quest’anno abbiamo apprezzato il sublime ideale di combattenti che muoiono con la speranza di venire iscritti al partito almeno post mortem, rispetto al quale la coincidenza dei fascisti nostrani, che anelavano di scendere in camicia nera nella tomba, è puramente casuale. Possibile che i russi non avessero nulla di meglio da inviare a Venezia? O questa loro merce è stata il prezzo di un ricatto? Ma non tutti i mali vengono per nuocere: se la Mostra ci ha perduto in qualità, la propaganda russa, almeno presso gli intelligenti, non ci ha guadagnato certo!
Del film greco diremo solo che testimonia delle buone doti dell’esordiente Kunduros. Buona fotografia, buona narrazione, buoni attori; però poca misura e molte reminiscenze. Per l’argomento, ricalca il film Tutta la città ne parla; per lo stile echeggia il nostro neorealismo, il vecchio verismo francese, su su fino all’impressionismo tedesco. Mezzo giallo e mezzo satira, spesso scarsamente comprensibile (anche perché dato senza sottotitoli), francamente, Venezia non era il suo posto.
Conclusioni e proposte
Tre pezzi mediocri, sette buoni e quattro ottimi su quattordici; dieci giorni utilmente spesi su dodici: questo non può dirsi un bilancio fallimentare, ma nettamente in attivo per una Mostra apertasi, finalmente, sotto l’insegna della qualità.
Dunque la coraggiosa formula s’è dimostrata buona; dunque non va ripudiata, come già viene proposto da qualche timoroso8, bensì mantenuta, migliorandola, se necessario, sulla linea dell’intransigenza. Noi siamo convinti che bisogna aver fiducia nella qualità, riservando ed accentuando a Venezia, a differenza delle iniziative concorrenti, il carattere di mostra di opere belle in sé, e non degradandola a esposizione di pezzi rappresentativi di quanto, bene o male, l’industria, l’esperimento, la propaganda o il dilettantismo producono nel mondo; che non giova accettare ricatti o scendere a compromessi, e che non sia il caso di preoccuparsi troppo del numero dei pezzi in concorso: se Venezia continuerà sul serio a ben differenziare la sua fisonomia, le ostruzioni e le prevenzioni di produttori e di governi cederanno, e i pezzi offerti aumenteranno. Se ciò non avvenisse si proverà la malafede di chi camuffa i suoi affari e la sua propaganda col farsi, a parole, paladino dei superiori interessi dell’arte e, anche così, la Mostra renderà un non disprezzabile contributo di chiarificazione nel mondo del cinema. Se proprio poi il numero dei film in concorso andasse ritoccato, tendere piuttosto a ulteriormente ridurlo che ad aumentarlo; al più, l’ottima scelta di film in concorso integrarla con altrettanti film fuori concorso, e così venire incontro ai legittimi desideri dell’industria, purché anche questi siano scelti col criterio del buon livello artistico9. Lo stesso criterio di alta qualità applicarlo a tutte le altre attività di contorno10. Far poi tesoro delle esperienze di quest’anno per migliorare il funzionamento della commissione di scelta e della giuria, fino a comporre, se necessario, di selezionatori internazionali la prima e di soli italiani la seconda, magari escludendo dai premi, a tutela di una più ampia libertà di giudizio, i film italiani che partecipassero alla Mostra. Inoltre, insistere sulle iniziative culturali da svolgere durante la competizione, meglio preparandole ed opportunamente appoggiandole ad altre similari iniziative durante l’anno, utili per dare alla Mostra un suo più fondato prestigio nel campo della cultura cinematografica internazionale.
Se si insisterà su questa linea, automaticamente si ridurranno alcune residue manifestazioni di dubbio gusto, più addicentisi a fiere paesane e a spiagge di provincia che a una dignitosa mostra d’arte, specie se non pochi inviati stampa, particolarmente di sinistra, saranno più pronti ad informare i loro lettori sul valore, motivato, dei film proiettati e un po’ meno nel riferire scandalucci di divi e divette a corto di altri numeri.
Crediamo che l’impresa valga l’impegno e la spesa di uomini di valore e di buona volontà. Ad essi la sodisfazione di fare della Mostra di Venezia un organismo efficace nell’elevare il tono artistico e culturale della produzione cinematografica nel mondo, e, conseguentemente, nell’elevare l’educazione culturale, morale e civile dei dodici miliardi di spettatori, per la più parte sprovveduti di risorse critiche, i quali ogni anno ricorrono al cinema come a loro quasi unica fonte di svago, di cultura e di costume.
1 Cfr Valori artistici e morali alla XV Mostra cinematografica di Venezia (Civ. Catt. 1954, IV, 52); Equivoci e certezze alla XVI Mostra cinematografica di Venezia (Civ. Catt. 1955, IV, 148 ss.); Consuntivi e preventivi tra Cannes e Venezia (Civ. Catt. 1956, II, 624).
2 Come al solito, diamo, disposto in ordine alfabetico di nazioni, l’elenco dei film in concorso. Quelli in formato maggiore del normale sono segnati da un asterisco; quelli in colore dal segno #.
1) FRANCIA: Gervaise, di Clément; Traversée de Paris, di Cl. Autant-Lara. – 2) GERMANIA: Der Hauptmann von Köpenick (Il capitano di Köpenick) #, di H. Käutner. – 3) GIAPPONE: Akasen chitai (La strada della vergogna), di K. Mizoguchi; Biruma no Tategoto (Arpa birmana), di Kon lchikawa. – 4) GRECIA: Dracos (L’orco di Atene), di N. Konduros. – 5) ITALIA: L’impero del sole * #, di Craveri ed E. Gras; Suor Letizia, di M. Camerini. – 6) MESSICO: Torero!, di Velo. – 7) SPAGNA: Calabuig, di L. Berlanga; Calle Mayor (Il corso), di J. A. Bardem. – 8) U.R.S.S.: Bessmertnii garnison (La guarnigione immortale), di Z. Agranenko. – 9) U.S.A.: Attack! (Prima linea), di R. Aldrich; Bigger than Life (Più forte della vita) * #, di N. Ray.
3 Portavoce di queste preoccupazioni si fece L. Chiarini in una Lettera all’on. Brusasca, pubblicata in Cinema nuovo (10 marzo 1956, n. 78, p. 134); il quale poi nella stessa sede tornava a deplorare che «nella commissione non c’era nessun uomo di cinema di sinistra (iscritto regolarmente a uno dei due partiti), e neppure nessuno di coloro che passano per sinistri...», e di nuovo esprimeva i suoi «ragionevoli dubbi sull’organizzazione della Mostra e sull’atteggiamento dell’on. Brusasca, che non aveva voluto o potuto superare un’eredità di scelbiana memoria» (ivi, n. 82, 10 maggio 1956, p. 257). La stessa rivista, particolarmente apprensiva per le sorti della Mostra, «senza esagerazione» denunciava le «minacce estremamente gravi che pesavano su Calle Mayor», e si chiedeva se sarebbe riuscito a raggiungere Venezia (n. 87, 25 luglio 1956, p. 38); apprensioni dimostratesi infondate, perché grazie alla «ben nota censura e polizia spagnola» e italiana, il film non solo ha concorso a Venezia, ma poco c’è mancato che non ne riportasse a casa il Leone d’oro!
4 La giuria era cosi composta: Presidente: John Grierson, scrittore e regista (Inghilterra). – Membri: André Bazin, critico cinematografico (Francia), G. B. Cavallaro, critico cinematografico (Italia), Fridrik Marcovic Ermler, regista (U.R.S.S.), James Quinn, direttore del British Institute (Inghilterra), Kiyokiko Ushihara, regista (Giappone), Luchino Visconti, regista (Italia). – La commissione di scelta era composta dai critici Fernaldo di Giammatteo, Piero Gadda Conti ed Ettore M. Margadonna.
5 Al film stato assegnato il Premio San Giorgio della Fondazione Cini, con la seguente motivazione: «L’Arpa birmana ha in comune con altri film il tema della guerra: ma i valori distruttivi e costruttivi della guerra ne emergono con una trasparenza senza confronto maggiore. L’impressione di orrore sempre più viva nel protagonista di fronte all’individuo distrutto, l’inesausta sollecitudine dei suoi compagni per lui che non ritorna, la rinuncia di lui al sospirato ritorno per rimanere accanto a coloro che non possono ritornare, impongono alla mente dello spettatore, anche meno provveduto, la grandezza di quel fatto sociale, in cui si consuma, come in un olocausto, la tremenda bestialità dell’uomo. Su di essa, fin da principio, si stende la melodia dell’arpa birmana come, al di là dei nembi dell’uragano, un cielo sereno, e dà al film una virtù musicale, che costituisce il segreto della sua dignità artistica e della sua potenza emotiva. La giuria si augura che imprenditori intelligenti e generosi rendano accessibile questo nobile spettacolo al pubblico di tutto il mondo».
6 Volenterosi, come al solito, alcuni critici marxisti. A. Scagnetti (l’Unità, 9 settembre 1936) trova che «Clément ha mostrato di guardare alle vicende con l’acutezza e la conoscenza di un uomo moderno, offrendo una visione storica assai più precisa di quel che Zola riuscisse a fare nel suo romanzo, e nell’individuazione del personaggio Gouyet, il quale ha compreso come per uscire dalla miseria occorra che il proletariato si unisca. Gli albori del socialismo sono visti da Clément con accenti commossi e nuovi per il cinema». Osservazioni dello stesso stampo fa G. Smith (Il Paese, 9 settembre 1956), la quale poi fa rimprovero a Clément di non aver rispettato lo spirito sociale del romanzo, come se il film volesse essere una riduzione di esso e non, come espressamente affermato da Clément e dagli sceneggiatori Bost e Aurenche, una descrizione della sventurata degradazione di Gervaise (cfr C. Terzi, in Avanti!, 9 settembre 1956).
7 Al film è stato assegnato il premio dell’O.C.I.C. (Office Catholique International du Cinéma). Ci consta che benevoli critici d’oltralpe vi hanno visto profondi significati e reconditi come, appunto, già in Miracolo a Milano.
8 Così, per esempio, V. Marinucci propone criteri che equivalgono ad un ritorno alla pletora del passato: «A Venezia non si deve avere un “raduno di buoni film”, ma una rassegna di quanto meglio si sia realizzato nei paesi cinematograficamente importanti, dai maggiori ai minori. Tale rassegna dev’essere completa e basandosi su di un minimo di due film per le nazioni principali e di uno per le altre (senza, tuttavia, porre tassativamente diritti né limitazioni) si dovrebbe arrivare ad un numero di 25-30 film, da proiettare nella durata di 15 giorni» (Bollettino dello spettacolo, 1955, a. XII, n. 303).
9 Contrariamente a quanto è avvenuto quest’anno, in cui, ai margini della Mostra, in un cinema del Lido s’è proiettato, per esempio, Mio figlio Nerone, campionario difficifmente superabile di volgarità e di cattivo gusto, nonché del modo con cui il cinema nostrano, se ci si mette, sa sperperare, col danaro, il talento di attori di un certo pregio.
10 Per esempio, alle due mostre che precedono la grande: del film documentario e del film per ragazzi, che quest’anno sono risultate caotiche nei criteri d’impostazione e di realizzazione. E che non venga in mente ad estrosi organizzatori di pensare ad una corrida, fortunatamente mandata a monte quest’anno per il pronto interesse dell’Ente nazionale per la protezioni animali, mentre, ahimè, nessun Ente nazionale per la protezione uomini ha pensato di porre il veto a uno spettacolo pirotecnico, per fragore poco inferiore alla battaglia di Dunkerke, dato alle due di notte dai piazzisti di Calabuig, i quali forse non sanno che al Lido di Venezia i fannulloni, che si possono permettere il lusso di perdere una notte di sonno, sono una minoranza rispetto ai lavoratori e ai malati.