Articolo estratto dal volume IV del 1962 pubblicato su Google Libri.
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Vorremmo riferire soltanto lodi della XXIII Mostra veneziana di arte cinematografica, anche per contribuire a commemorarne il trentesimo di vita con qualcosa di più culturalmente sostanzioso che non l’emissione di due francobolli1; ma non possiamo farlo. E non perché siano state poche le opere mostrateci: anzi! Hanno, infatti, toccato la ottantina; di cui: dodici nella Sezione film in concorso, trentatré in quella Informativa2, ed una quarantina, tra estratti e film interi, in quella Culturale. Bensì ci è sembrata scadente rispetto al criterio qualitativo che, unico, dovrebbe valere in una Mostra che si qualifica «d’arte».
Pur avvertendo la precarietà delle impressioni da noi esperite nel congestionato programma, riteniamo che, su dodici, appena quattro avessero titoli sufficienti per entrare in Concorso; vale a dire: Vivre sa vie, di J.L. Godard, Kojya koi nasuna koi, di T. Uchida, Thérèse Desqueyroux, di G. Franju, e Cronaca familiare, di V. Zurlini, ma che nessuno ne possedesse a sufficienza per meritarsi il Leone d’oro, né intero né smembrato; che appena cinque, su quattordici, possedessero qualità sufficienti per concorrere al premio «Opera prima», cioè: il francese Cybèle, ou les dimanches de Ville d’Avray, il giapponese Kashi to kodomo, l’italiano Un uomo da bruciare, il russo lvanovo Detstvo, e lo statunitense Lisa and David; e che, per quanto larghi possano stabilirsi i requisiti per entrare nell’Informativa, da questa potevano espungersi, non solo senza danno, ma con vantaggio, una decina buona di film scadentissimi.
Potremmo, a questo punto, unire la nostra voce al gran coro delle lamentazioni della stampa e della critica sull’innegabile declino dell’ex Regina della Laguna, e quindi infierire contro i suoi presunti responsabili. Ci limiteremo, invece, a proporre una cura corroborante, ritornando ad insistere su quella coerenza senza compromessi che già altrove consigliammo3. Ma siccome la coerenza, in tempi di accomodamenti tanto diffusi ed accettati, rischia di passare per pietosa follia, preferiamo vestirla con un po’ di fantasia; così, dopo aver ripiegato sull’apologo nel riferire di Cannes e di Berlino4, ripiegheremo su di una lettera dall’Isola di Utopia nel riferire su Venezia.
La lettera dice così
Secondo noi, la prima cosa che Venezia dovrebbe tentare affin di chiarire la situazione precaria in cui si trova, ed uscirne una buona volta, sarebbe quella di decidere che cosa precisamente vuol essere: se festival, se mostra, se comizio o se mercato; ogni scelta rispondendo a scopi e comportando criteri operativi differenti, non sempre armonizzabili.
Ci riferiscono, è vero, che nei paesi lontani dalla nostra Isola l’affarismo ed il politicantismo tendono a sfruttare l’ignoranza o la debolezza del pubblico usando allettamenti ambigui; ma riteniamo che siffatto discutibile sistema, in definitiva, dannifichi gli stessi sleali organizzatori, i quali, per attirare ed accontentare clienti troppo numerosi e dai troppo disparati interessi, finiranno con lo scontentare ed allontanare tutti.
Noi ameremmo che, nata Mostra, Venezia volesse restarlo di nome e di fatto, lasciando ad altre manifestazioni cinematografiche la denominazione e le caratteristiche di festival, di fiere, di comizi politici, di mercati ecc.
Ma – e questo, per noi, sarebbe il secondo punto da chiarire –: Mostra di che? Indubbiamente del cinema come arte, dato: 1) che come tale nacque; 2) che tuttora è parte integrante di una Biennale d’arte, e, 3) che soltanto restando fedele a questa sua prerogativa potrà non temere di venire scavalcata dalle iniziative concorrenti, sorte come funghi. Non è, infatti, contendendo con esse su piano turistico-mondano (Cannes), o mercantile (Milano), o politico (Berlino, Karlovy Vary...), che potrà conservare ed accrescere il suo prestigio, bensì differenziandosene radicalmente. Punti, dunque, risolutamente sui valori artistici, fiduciosa delle possibilità estetiche della critica e del pubblico.
Ma, poi, coerentemente con la scelta fatta, occorre rimuovere dalla Mostra tutto ciò che poco o nulla ha che fare con l’arte cinematografica. Ci riferiamo anche all’allestimento imbonitorio delle sue vetrine, che, su piano di arte e di cultura, si abbassano al livello di quelle dei salumai, ed a quella indecorosa parodia di culto pubblico reso ai «divi» ed alle «dive», che bene individuati interessi mercantilistici alimentano, sfruttando plaghe di pubblico culturalmente sottosviluppate; ma principalmente ci riferiamo a certe incongruenze rispetto allo stesso Regolamento della Mostra.
Per esempio: una volta stabilito che la Mostra si propone «di segnalare le migliori e più interessanti opere cinematografiche prodotte nella stagione cinematografica (annuale), le quali costituiscano una reale affermazione di valori artistici e tecnici e siano rappresentative di stili e tendenze esistenti nel campo della cinematografia» (art. 1, a), perché mai si esige che esse siano «inedite, almeno fuori del paese di origine» e che non siano «state presentate in concorso in altre manifestazioni cinematografiche a carattere internazionale» (art. 3, b)? Almeno noi, di quest’Isola di Utopia, abbiamo da rilevare: 1) che con questa condizione Venezia si mette automaticamente sul piano delle altre manifestazioni, vale a dire: festival, fiere, comizi...: dimostrando di supporre che i loro criteri di scelta collimino con i suoi. Sarebbe come se la Biennale di Venezia rifiutasse quadri già inviati a mostre internazionali... di cornici, di arredamento domestico, o di oggetti di culto; 2) che Venezia, venendo ultima nella serie annuale delle manifestazioni internazionali, e per giunta in una stagione che non interessa affatto i commercianti di film, questa condizione le sottrarrà proprio tutte, o quasi, «le migliori e più interessanti opere cinematografiche prodotte nell’anno» e così la ridurrà ad una sotto-mostra dei resti delle altre manifestazioni5; 3) che Leone d’oro, coppe, premi speciali e «Opere prime», che, si noti bene, la Giuria è obbligata ad attribuire («attribuirà»: dice l’art. 8), per forza di cose andranno non a film e ad attori migliori assoluti «nella stagione cinematografica dell’anno», ma ai migliori relativi, vale a dire – fermo restando quanto si è rilevato al 2) – presumibilmente ai meno peggiori degli ultimi mesi della stagione, realizzando un pietoso, ma inutile, beati monoculi in terra caecorum! Insomma: varrà più un commercialissimo Oscar, che un artistico Leone!; 4) che quasi necessariamente verrà a mancare ogni distinzione tra film in concorso e film dell’Informativa. Infatti, una presumibile cronica scarsezza di film di rilevante interesse artistico – aggravata dall’illogico criterio di tener conto dell’etichetta nazionale degli stessi6 – forzerà la Commissione di Selezione a riempire i vuoti con film interessanti per pregi di altra natura. Il che finirà col privare di ogni valore gli stessi diplomi di merito attribuiti ai soli film in concorso.
Si stabilisca, perciò, per regolamento, che possano essere inviate o invitate a Venezia tutte, senza eccezioni, «le migliori e più interessanti opere cinematografiche prodotte nell’anno», cioè prescindendo dalla loro, reale o fittizia, nazionalità e dalla loro avvenuta o meno programmazione altrove; così la Mostra diverrà come la sede di appello annuale sotto il profilo dell’arte, quale la circostanza di venire a fine stagione naturalmente la designa. Si distinguano bene le caratteristiche delle due sezioni: film in Concorso ed Informativa, alla seconda demandando la funzione di informare circa lo stato della produzione nel mondo, ed alla prima quella di segnalare le punte più alte raggiunte; perciò, tra tutte le opere inviate o invitate la Direzione liberamente prescelga le molte da assegnare all’Informativa, atte «a giovare ad una più vasta conoscenza della produzione cinematografica, favorendo così l’incontro e la conoscenza delle diverse culture e civiltà» (art. 9), e le pochissime da porre in concorso – tanto meglio se meno di quattordici, come quest’anno –: solo con siffatto rigore selettivo il relativo Diploma di merito assumerà pregio e prestigio. Infine, si accresca il prestigio anche dei premi col renderne non obbligatoria l’assegnazione: pure nelle gare di corsa i premi non prescindono da tempi minimi.
Un ultimo nostro voto porterà molti a sorridere più che mai sulla nostra forse troppo ingenua logica. Ma, poco male: noi di Utopia ci siamo abituati! Eccolo: si contribuisca validamente alla istruzione degli spettatori e si dimostri che l’anonimato, sotto il quale operano membri di commissioni e di giurie, non serve a coprire poco coraggiose fughe di responsabilità, stabilendo che ogni scelta venga motivata e firmata, e che tutte le motivazioni e firme vengano rese di pubblica ragione: quelle della Commissione di revisione appena pubblicato il programma della Mostra, e quelle della Giuria subito dopo la premiazione7. Con questo mezzo, almeno quest’anno, quanti sospetti, o almeno quanti pretesti a chiacchiere non sempre benevole, si sarebbero evitati! Infatti, non avrebbe portato i suoi vantaggi far conoscere i titoli dei ben ottanta film che, si asserisce, la Commissione di scelta avrebbe esaminato? Non sarebbe stato istruttivo conoscere per quali demeriti molti di essi siano stati scartati, come pure per quali reconditi meriti alcuni sono entrati in programma? E sarebbe stato opportuno soddisfare altre domande. Per esempio: dove quando e da chi siano stati esaminati i due film Eva, di J. Losey, e Il processo, di O. Welles, i quali, per essere posti in programma, dovevano essere visionati "non dopo il 20 luglio”, e giungere in dogana a Venezia "non dopo il 10 agosto” (art. 19), e che, invece, sono stati, sì, messi in programma, ma non proiettati: «perché ancora non pronti». Quale «interesse cinematografico» rilevante presentasse mai Lolita, da giustificarne la scelta, nonostante la programmazione avvenutane a Berlino (art. 3)? Se sia poi vero, o non vero, che i due film russi sarebbero stati non scelti dalla Mostra, bensì imposti. In ogni caso, non sarebbe istruttivo sapere i nomi dei giurati che al secondo di essi hanno aggiudicato mezzo Leon d’oro?
Forse a molti la lettera parrà risentire troppo dell’Isola da cui si suppone che provenga. A noi, tuttavia, che abbiamo fatto anche quest’anno l’esperienza di Venezia, non sembra poi tanto strana, né tutta da buttar via 8, anzi propendiamo a credere che, tutto sommato, se la Mostra tentasse la prova spericolata da essa suggerita, batterebbe l’unica strada che le è rimasta aperta per arrestare l’altrimenti inarrestabile declino. Ma, trattandosi di opinabili, non vi insistiamo oltre, e passiamo a toccare brevemente i due maggiori problemi della Mostra di quest’anno.
Libro e schermo
Questa XXIII edizione della Mostra ha riproposto, più insistente che mai, l’annosa questione dei rapporti tra cinema e letteratura, stante il rilevante numero di film che si richiamavano a testi letterari autonomi; alcuni notissimi, quali – oltre al Processo, di Kafka-Welles, non proiettato – Cronaca familiare, Thérèse Desqueyroux e Lolita, rispettivamente di Pratolini-Zurlini, Mauriac-Franju e Nabokov-Kubrick; altri meno noti (almeno a noi), quali Kojya koi nasuna koi, derivato da un antico dramma popolare giapponese della serie Joruri; Term of Trial, tratto dall’omonimo romanzo di J. Barlow, e Birdman of Alcatraz, sulla biografia dell’omicida ed ornitologo Robert Stroud, scritta da Th. E. Gaddis; e mettiamoci anche Homenaje a la hora de la siesta, dal mediocre dramma di B. Guido; Mamma Roma, di cui è stata pubblicata la prima sceneggiatura, molto letteraria, e caso estremo, Liudi i zveri, presentato come equivalente cinematografico del genere letterario «romanzo».
Le soluzioni sono state, volta a volta, differenti9. Per esempio, a cominciare da quest’ultimo, il parallelo istituito tra romanzo e film ha condotto l’anziano regista russo Gerasimov soltanto ad un altro dei suoi film-fiume, per quanto, questa volta, tutto suo, a differenza di Molodoia gvardia (La giovane guardia) e Tikhij Don (Il placido Don), da lui girati nel 1952 e nel 1958 dipendentemente dai noti testi di Fadaev e di Sciolokov. Inoltre l’ha condotto ad un racconto strascinato, senza ellissi e senza scatti, secondo i moduli di certa letteratura popolaresca. Tuttavia riteniamo che stasi e lungaggini non depongono affatto su una sua inconsapevolezza circa le radicali differenze tra espressione scritta ed espressione filmica, bensì soltanto sulla necessità in cui egli si è trovato di adeguarsi al mediocre livello culturale delle masse dei paesi d’oltre cortina, alle quali evidentemente il film è destinato quasi in esclusiva. Ciò, tra l’altro, è confermato dalla più grossolana propaganda politica che lo grava, dalla natura tutta interna degli interessi che vi si toccano e dalla grottesca visione di tutte le cose del mondo occidentale che vi traspare, senza neanche sospettarne il ridicolo.
Con Term of Trial e Birdman of Alcatraz si verifica il caso di film di dipendenza del tutto esterna rispetto ai relativi testi scritti, il prevalente interesse di questi consistendo non in valori di stile, o di cultura, bensì in fatti sufficientemente provvisti di quegli elementi drammatici e narrativi, non proprio quotidiani, che assicurano ai film lusinghieri successi di pubblico, specie se a dirigerli siano registi di buon mestiere – qui, rispettivamente, P. Glenville e J. Frankenheimer –, e se i protagonisti vengano incarnati da attori eccezionali – qui L. Olivier, nella parte del professore disgraziato perché troppo onesto in una società di disonesti, e B. Lancaster, in quella di un omicida autodidatta che trasforma il carcere in un laboratorio scientifico.
Problemi e considerazioni in parte comuni ai precedenti ed in parte propri solleva Lolita. È noto il successo mondiale che accolse il romanzo pubblicato dallo scrittore russo-tedesco-francoamericano nel 1955, spiegabile più con la morbosità del suo argomento, e col «lolitismo» che ne scaturì, che con i suoi modesti pregi letterari. Affamato com’è di sempre nuovi e più stuzzicanti soggetti, prima o dopo il cinema doveva pur impadronirsi di tanta manna, i best sellers di questa natura essendo i migliori foraggiatori dei suoi box offices. Ma la sua stessa morbosità ne rendeva economicamente rischiosa la trasposizione, data la sensibilità, perdurante in molta parte del pubblico, anche dopo che la concorrenza con la televisione ha portato il cinema a tutto osare sugli schermi pubblici, anche quello che la televisione non poteva su quelli domestici.
Orbene: la produzione americana se l’è cavata applicando ancora una volta le sue più spregiudicate formule commerciali, cioè dei «mezzi (tutti) al fine (l’affare)», chiamando lo stesso romanziere ad adattare, quanto era necessario, la sceneggiatura (cosi precorrendo ogni suscettibilità di lesa opera d’arte), assegnandone la regia ad un regista dalle carte commercialmente a posto come Kubrick, conservandone il titolo originale come insostituibile richiamo di pubblici grossi e facili, ma riducendo le cariche erotiche più spinte entro i limiti massimi consentiti dalle varie censure (e poi opportunamente antivenendone le resistenze residue mediante un edificante prefinale in lode della fedeltà coniugale), infine compensando gli spettatori, presumibilmente defraudati nella loro attesa morbosa, con novità figurative e narrative, ora apparentemente anodine, ed ora comiche o drammatiche.
Il risultato di siffatta archimagia mercantile ha risposto con tutta esattezza allo scopo inteso. Basti pensare al calcolato aumento dell’età di lei, ed all’abbassamento dell’età di lui, che riducono l’originaria aberrazione sessuale alle proporzioni borghesi di un comunissimo amore virile non corrisposto e geloso, e che, se tutto sommato, rendono il film meno «immorale» (ma più ipocrita) del libro, offrono al pubblico medio una più grande e redditizia latitudine di confessabile partecipazione personale.
Con i film argentino e giapponese, invece, si ricade nel tentato connubio tra espressione cinematografica e teatro, tanto frequente nella storia del cinema quanto, generalmente, infelice, a causa dell’incompatibilità di carattere del secondo, essenzialmente loquace, con la prima, essenzialmente immaginosa.
Faremo grazia ai nostri lettori di tutti gli accomodamenti che, in siffatti casi, la storia del cinema ha teorizzato o tentato, da quello estremo dei francesi M. Pagnol e S. Guitry (e del nostro A. Musco), che considerarono il film niente altro che teatro in scatola, all’altro estremo, di una più autonoma mediazione di regia cinematografica, di cui esempi illustri restano Hamlet e Henry V, dell’inglese Olivier. E ci limitiamo a rilevare che Homenaje a la hora de la siesta tende piuttosto alla seconda soluzione, senza tuttavia sapersi sufficientemente svincolare dalla prima; sicché, né i pretenziosi movimenti di macchina, né un certo esotismo scenografico riescono a conferire credibilità e «verità» cinematografica alla vicenda, teatralmente convenzionale, ed ai suoi personaggi, paradigmatici e verbosi10.
Tutt’altra strada, ci pare, ha battuto il vecchio regista Uchida. Diciamo «ci pare», perché il simbolismo del racconto da cui egli prende le mosse, ambientato nella Kyoto del secolo IX della nostra era, e tutto il complesso ed ermetico mondo culturale che lo sottende, ci sfuggono; sicché ci troviamo avanti allo schermo più o meno come si troverebbe un giapponese mediocremente istruito avanti alla rappresentazione, poniamo, di un nostro «mistero» medievale. E tuttavia avvertiamo la presenza di una minuziosa regia, di uno stile, che guida la dosatissima recitazione degli attori, gradua ed armonizza tutti i valori compositivi e cromatici: smaglianti nelle sete e nei fiori, ora campiti ed ora sfumati negli interni e negli esterni, qua teatrali e là di naturalistica prospettiva aerea; alterna voci e musiche veristiche a voci e musiche fortemente stilizzate, ed amalgama i più disparati elementi del racconto – uomini ed animali con rispettive metamorfosi, verità e fantasia, realtà e simboli, storia e mitologia... – in una composita ma consapevole progressione narrativo-rappresentativa, cominciando addirittura con la tecnica dei disegni animati, passando alla più normale ripresa e «dal vero», decisamente trascorrendo in teatro con tanto di cambiamenti di scene a vista, e terminando in piena evidenza su di un palcoscenico11.
Mamma Roma costituisce un caso tutto a sé. È noto come P.P. Pasolini sia entrato nella regia cinematografica un anno fa con Accattone. Andatagli bene la prima prova, soprattutto per merito della claque orchestrata e degli strascichi scandalistici che la seguirono, quest’anno l’ha ripetuta e, ci sembra, con ancora minore felice esito; giacché, se nella prima era dato sorprendere qualche nota personale, in questa seconda egli si ripete stancamente, e si disperde in un ibridismo di contrasti e di effetti con cui vanamente cerca di supplire alla mancanza di una ispirazione genuina; inoltre conferma un suo equivoco teorico e pratico circa il linguaggio cinematografico.
Si direbbe, infatti, che il Pasolini creda che basti unire alla consuetudine che egli ha con l’espressione letteraria, la «folgorazione figurativa» derivatagli dal Longhi e quella musicale comunicatagli non sappiamo da chi, per potersi esprimere con la cinepresa, quasi che il cinema fosse una specie di condensato di arti polarizzate sulla figura, e non un modo di espressione del tutto originale tramite immagini in movimento; oppure quasi che le immagini in movimento intese alla Ziga Vertov, accompagnate o meno da dialogo e musica, siano necessariamente cinema-espressione, o non piuttosto grezza realtà fenomenica registrata. Di qui, crediamo, tre difetti che vien fatto di rilevare specialmente in questo film, quali: la netta inferiorità espressiva di esso rispetto al testo letterario, per altro non eccelso, al quale, tuttavia, con la sua verbosità continuamente si richiama; lo squilibrio di resa tra quando il testo letterario viene mattatoriamente interpretato da un’attrice come la Magnani e quando resta mortificato dall’inesistente interpretazione degli altri «attori», non di mestiere; e soprattutto la staticità delle inquadrature12.
Perciò, nell’insieme, anche questa volta ci pare che quella di Pasolini sia stata un’esperienza del tutto mancata.
Su questo terreno, invece, le prove migliori quest’anno a Venezia le hanno fornite il francese G. Franju e l’italiano V. Zurlini; il primo alle prese col noto romanzo scritto da Fr. Mauriac nel 192713, l’altro con quel gioiello che nel 1945 rivelò scrittore ormai maturo il nostro Pratolini. E sì che, per ambedue, le difficoltà dell’impresa erano notevoli, giacché tutti e due i testi erano ricchi più di introspezione e di sentimenti che di avvenimenti e di azioni esteriori; in tutti e due, i fatti venivano rievocati nelle mutevoli prospettive di ricordi soggettivi, cui l’espressione letteraria costantemente si adeguava; e per tutti e due, i rispettivi scrittori esigevano una fedeltà assoluta. Eppure, tutti e due i registi hanno approdato a trasposizioni degnissime, se non proprio di Arte assoluta, almeno di buon gusto e di cultura, sia curando magistralmente le atmosfere provinciali stagnanti in un tempo immobile, e sia scavando nella psicologia di personaggi complessi: in ciò benissimo serviti da attori in gran forma, quali Emmanuelle Riva e Philippe Noiret in Thérèse, Marcello Mastroianni e Jacque Perrin in Cronaca.
Tuttavia, nei limiti di una stretta dipendenza dal testo letterario comuni ai due, diremmo che, tutto sommato, il Zurlini, sotto più di un aspetto, abbia avanzato il Franju, nonostante che questi partisse avvantaggiato da una maggior varietà di elementi narrativi e drammatici, e dalla collaborazione diretta prestatagli dallo stesso François Mauriac e da suo figlio, e critico di cinema, Claude14.
Invece, l’impresa di Zurlini, più che facilitata, era insidiata dal pathos elegiaco del testo pratoliniano, nonché dal suo monocorde ed ininterrotto soliloquio; eppure, alla resa dei conti, il film regge con onore il paragone con l’ottimo libro, nonostante la presenza in esso di alcune forzature drammatiche, forse introdotte proprio per neutralizzare qualche punta di sentimentalismo, e nonostante l’uso del colore, che, per quanto retto da un buongusto che confina col preziosismo, resta ancora da dimostrare se sia esigenza espressiva rispondente all’angosciato e nostalgico clima della Cronaca di Pratolini, oppure un lusso ornativo, in definitiva, superfluo.
Concludendo: ci pare che quest’anno Venezia abbia riproposto, sui rapporti tra schermo e libro, due questioni: prima, se l’odierna accentuata dipendenza del primo dal secondo denunci un’allarmante carenza di soggetti originali, quindi anche di fantasia creativa nei cineasti; seconda: se, ed in quale misura, possa restare cinema, ed Arte cinematografica, un film derivato dalla letteratura, e dall’Arte letteraria. Due questioni sulle quali si discuterà ancora per un bel pezzo.
Per un consuntivo morale
Il secondo grande problema posto da Venezia anche in questa sua XXIII edizione è quello che viene necessariamente suscitato da ogni rassegna cinematografica, in quanto i film, raggiungano o meno alti valori artistici o di altra natura, sono sempre tale prodotto e spettacolo specifico da testimoniare circa i paradigini di pensiero e di comportamento adottati in dati settori societari, e da costituire poi, a loro volta, modelli sollecitanti, proporzionalmente alla loro carica suggestiva, all’accettazione ed all’imitazione, altri e più vasti settori societari. Due aspetti che richiedono, dunque, un giudizio di moralità. Ed anche questo, purtroppo, non possiamo darlo laudatorio come vorremmo, pure se dobbiamo riconoscere che nel 1962 non si sono toccate le punte negative di altri anni, nonostante l’apporto deteriore in cui si è distinta certa produzione italiana, forse per dimostrare con i fatti il suo proclamato maturo autocontrollo.
Sul consuntivo, nella colonna dei passivi, tra i film in concorso dobbiamo elencare, per volgarità figurative e verbali, il francese Vivre sa vie, l’inglese-americano Lolita e l’italiano Mamma Roma (che segna un disonorevole primato in materia); e tra quelli dell’Informativa: l’argentino La bandida, gli italiani La commare secca, Un uomo da bruciare, Una storia milanese, Il mare (e Parigi, o cara), lo statunitense The time and the touch, il brasiliano Tres cabras de Lampiâo e lo spagnuolo Dulcinea. Sempre nella colonna del passivo, ma questa volta per confusioni morali tematiche, ancora Vivre sa vie, l’argentino Homenaje a la hora de la siesta ed ancora l’italiano Mamma Roma: il primo perché sragiona a proposito di libertà e di responsabilità personale, nonostante il suo pretenzioso citare di Platone e di Montaigne, di Leibniz, Kant, Hegel, Camus e Sartre, ed equipara il sordido «sacrificio» di una sgualdrina al martirio di Giovanna d’Arco, dopo di che impartisce al pubblico la più completa iniziazione teorica e pratica al meretricio, sia professionale sia avventoriale, che forse sia stata mai portata sullo schermo; il secondo perché intenta un processo demolitorio, non si sa bene se alla fede o alla superstizione, ipotizzando una fuga di missionari protestanti avanti al martirio, seguita dal più grottesco cibreo di mostruosità lussuriose, di truculente canagliate e di volterianismo con varianti pirandelliane; il terzo perché, denunciata, secondo l’ormai stantio mondo putrefatto pasoliniano, la condizione di vizio e di inciviltà di certo proletariato periferico romano, e rilevata la impossibilità di uscirne, rigetta la colpa non anche sui singoli – ignoranti, fannulloni, ladri e viziosi – ma marxisticamente sulla società borghese; ed intanto, in attesa di poter rifare le strutture, mostra un modello di madre, la quale non soltanto «fa la vita» e sfoggia un linguaggio adeguato a tanta professione, ma incarica una sua degna collega di iniziare e di prendersi come cliente suo figlio sedicenne!
In attivo, da elencare nella colonna dei film-ideale, purtroppo Venezia ’62 non ha offerto nulla, pure Term of Trial, premiato dall’O.C.I.C., come subito diremo, comunicando in modo tutt’altro che cristallino e totale il suo messaggio umano morale. Tuttavia, se ci vogliamo accontentare di messaggi parziali, quasi spiragli verso una visione della esistenza umana, che ne svelino l’esigenza intima ad un ordine morale, e ne indichino, sia pur timidamente, qualche valore positivo, allora, tra in concorso e dell’Informativa, una decina di titoli ci soccorrono a conforto, anche se i più tra essi sono più efficaci nel rilevare il vuoto che il disordine morale ha scavato nell’uomo contemporaneo, singolo e societàrio, che pronti a suggerire i valori con cui riempirlo.
Thérèse Desqueyrowc, per esempio, denuncia l’egoismo di certo ambiente di provincia, camuffato di rispettabilità sociale e di formalismo religioso, dove larve di «onesti», sordi all’amore, spingono poveri esseri umani al delitto senza neanche sospettarlo, e dove gli stessi poveri esseri, sballottati tra il Bene ed il Male, cedono, si direbbe definitivamente, a questo, anche perché, implorato inconsapevolmente un soccorso, se lo vedono negato. Con un simbolismo paradossale torna sullo stesso argomento Vaxdockan, dello svedese A. Mattsson, storia della degenerazione mentale di un uomo solo, che, nella vana ricerca di qualcuno da amare, finisce con offrire il suo affetto ad un manichino da vetrina, che, vaneggiando, s’immagina animato. Ma breve è la sua fittizia e tormentata felicità, perché gli stessi uomini che col loro egoismo l’hanno affettivamente isolato, con cinica curiosità irrompono nel segreto della sua stanza e vi distruggono, insieme col manichino, il suo solitario sogno di amore.
In Smog, di Fr. Rossi, la denuncia del malessere morale della società moderna si allarga, se ne tenta l’analisi e qualche approfondimento. Benessere economico, aderenze, carriera per l’uomo; bellezza e salute, indipendenza e ricchezza di relazioni compiacenti per la donna; per tutti: il vortice, insieme massificante e solitario, della città moderna, indaffarata ed anonima, rumorosa e vuota, attirante ed opaca di pseudo divi lanciati dal cinema, dal commercio, dalla politica, dal turismo, dalla pubblicità, dall’opinione pubblica... Di tre italiani che vengono a trovarsi insieme a Los Angeles, uno assiste a tutto ciò in una sosta forzata tra due aerei, il secondo cupidamente vi si agita per sistemarvisi, la terza ne usufruisce sistemata e sazia...; ma nessuno ne gode; perché tutti e tre non vi si sentono illuminati ed aerati, bensì offuscati e soffocati, come se, appunto, vivessero immersi in quella nebbia opaca e greve – lo smog – che ristagna sopra gli odierni grandi complessi urbani ed industriali, prodotto e simbolo di tanta inumana civiltà tecnica moderna.
Da siffatta costatazione anonima Term of Trial passa a processare gli stessi uomini, che con la loro bassezza morale rendono impossibile la virtù al singolo eccezionale che osasse andare contro corrente. Tutti fanno carriera, anche chi non ne avrebbe i numeri, purché non soffrano di scrupoli, ma un professore capace, volenteroso ed onesto resta indietro, frustrando così i sogni professionali e familiari suoi e della moglie; e se un’alunna scervellata gli si butta tra le braccia, ed insiste, ed egli paternamente la respinge, quella società che dalla mattina alla sera, con tutti i mezzi, persino nelle scuole e nelle famiglie, non fa che eccitare e confermare al vizio i giovani e gli adulti, di colpo ed ipocritamente fatta severa sui valori morali, non crederà alla sua affermata onestà, e lo respingerà ancora più al bando. Che se farà ricorso alla moglie, l’unica che non dubita della sua onestà eroica, il pover’uomo la troverà che già ha chiuse le valigie per andarsene di casa, perché egli è tanto onesto che non lo stima «un uomo». Allora, per impedirne la fuga, egli, mentendo, le confessa che invece, la verità è che egli, sì, ha approfittato della ragazza. E la moglie, finalmente orgogliosa del suo «uomo», resta!15.
Con A Taste of Honey, eccellente dal punto di vista tecnicopsicologico, Th. Richardson offre una non meno severa denuncia di certa società viziosa o malata; tuttavia un timido accenno ad affetti, a loro modo, non egoisti, offerti (e rifiutati) tra creature più deboli che cattive, più infelici che perverse, porta qualche elemento positivo a compensare le troppe (facili e sterili) denunce; mentre nelle due «opere prime», Lisa and David, dell’indipendente americano Fr. Perry, e Cybèle, ou les dimanches de Ville d’Avray, del francese S. Bourguignon, questo elemento positivo prende il nome ed il volto più pulito dell’amore disinteressato. Per quanto i due casi si svolgano sul terreno limite della clinica psichiatrica – nel primo si tratta dell’autoterapia di due adolescenti schizofrenici, tra i quali si delinea un timido e drammatico affetto, e nel secondo si descrive la doppia tragedia di un traumatizzato di guerra e di una orfanella, ai quali una mutua tenerezza tenta invano di dare ragioni di vita – le tesi umane sembrano puntare verso mete più aperte ed universali, quasi ad indicare quanto potrebbe l’amore genuino nel far rifiorire il sorriso e la speranza anche nelle plaghe del mondo odierno, dove la stessa ragione umana è offuscata nelle sue radici.
Infine, espliciti, per quanto parziali richiami a positivi valoriumani contengono anche Birdman of Alcatraz e Cronaca familiare: il primo documentando – anche se più con intenti spettacolari che con commozione umana – quanto possa la forza di volontà individuale nel costruire ex novo un uomo onesto e scienziato da un delinquente ed ignorante, anche contro ogni avversa circostanza di tutta una vita trascinata nell’isolamento cellulare; l’altro nel rilevare, con animo commosso, la doppia lezione impartita dal mistero della morte: prima indicando nella più affettuosa comprensione ed affezione fraterna, che superi tutte le differenze di educazione e di classe, uno dei valori meno labili dell’esistenza umana terrena; quindi individuando nel furto stesso di ogni persona amata perpetrato dalla morte l’irresistibile anelito dell’esistenza verso un’altra realtà più duratura, anelito che, nonostante alcune stonature discorsive, fa piacere sentire idenficato nell’unica realtà umano-divina del Cristo, e del suo Vangelo.
Il consuntivo morale è tutto qui, il resto dei film che abbiamo visto rientrando in quella massa culturalmente e moralmente grigia che, se non sollecita riprovazioni esplicite, neanche offre un contributo umano valutabile positivamente.
Si potrebbe conchiudere ottimisticamente rilevando che non tutto, poi, è andato male, o che le cose potevano pure andar peggio. Tuttavia, considerando che cosa potrebbe e dovrebbe rappresentare il cinema nel mondo odierno, preferiamo concludere, non pessimisticamente, bensì realisticamente, rilevando che il male ed il pericoloso morale, il mediocre e l’inutile artistico e culturale, in Venezia ’62 ha notevolmente superato il bene e il costruttivo morale, l’eccellente e l’utile artistico e culturale; e ciò non tanto a causa della sempre più aggressiva presenza degli «altri», quanto per la cronica assenza di quelli che, per vocazione e per missione, dovrebbero invece essere onnipresenti in questo settore culturale e sociale, come e forse molto più che in altri.
Lasciando Venezia, come dopo ogni festival, ripensiamo alle categoriche affermazioni-consegne date da Gesù a quanti portano il suo nome per il mondo: «Voi siete la luce del mondo, Voi il sale della terra, Voi il fermento della massa...». Affermazioni e consegne che, se nei loro esaltanti predicati potrebbero anche passare per onori e pregi dei destinatari, nei pronomi personali -«Voi, voi, voi... non altri» – si dimostrano come urgenti ed indeclinabili responsabilità.
Responsabilità che troppi cattolici, con la loro inesplicabile assenza, dimostrano non soltanto di non assolvere, ma, forse, di neanche conoscere.
1 Per l’occasione le Poste Italiane banno emesso due francobolli commemorativi, del valore di L. 30 e 70. La non coincidenza del trentennale col numero ordinale della Mostra (XXIII), si spiega ricordando che questa nacque biennale e non annuale, e che le edizioni degli anni di guerra non entrano nel computo perché non sono considerate come internazionali.
2 Ecco, in ordine alfabetico di nazioni, i film in concorso: quelli preceduti da un asterisco sono «opere prime» dell’Informativa:
ARGENTINA: Homenaje a la hora de la siesta (Omaggio all’ora della siesta), di L Torre-Nilsson; * Los inundados (Gli alluvionati), di F. Birri (Premio «Opera prima», ex aequo). – BRASILE: Tres «cabras» de Lampiâo (I tre meticci di Lampione), di A. Teixeira. – FRANCIA: * Les dimanches de Ville d’Avray (Le domeniche di Ville d’Avray), di S. Bourguignon (Menzione «Opera Prima»); Thérèse Desqueyroux, di G. Franju (Coppa Volpi a Emmanuele Riva); Vivre sa vie (Vivere la propria vita), di J.L. Godard (Premio speciale della Giuria). – GIAPPONE: * Kashi to kodomo (La trappola), di H. Tesbiphara; Kojya koi nasuna koi (La volpe folle), di T. Uchida. – GRECIA: * Elektra, di Th. Jarpas. – INGHILTERRA: Term of Trial (L’anno di prova), di P. Glenville (Premio O.C.I.C.). – ITALIA: * La commare secca, di B. Bertolucci; Cronaca familiare, di V. Zurlini (Leone d’oro ex aequo); Mamma Roma, di P. P. Pasolini; * Il mare, di G. Patroni Griffi; Smog, di Fr. Rossi; Una storia milanese, di Visconti (Menzione «Opera Prima»); * Un uomo da bruciare, di P. e V. Taviani e V. Orsini (Menzione «Opera Prima»). – POLONIA: * Noz w wodzi (Scie), di R. Polanski. – SPAGNA: * Cuando estalló la paz (Quando scoppiò la pace), di J. Diamante. – U.R.S.S.: lvanovo Detstvo (L’infanzia di Ivan), di A. Tarkowsky (Leone d’oro ex aequo); Liudi i zveri (L’uomo e la bestia), di S. Gerasimov. – U.S.A.: Birdman of Alcatraz (L’ornitologo di Alcatraz), di J. Frankenheimer (Coppa Volpi a Burt Lancaster); * Lisa and David (Lisa e David), di Fr. Perry (Premio «Opera Prima» ex aequo); Lolita, di St. Kubrick; * Third of a man (Un terzo di uomo), di R. Lewin.
3 Cfr La formula buona, Civ. Catt. 1956, I, 49 ss.
4 Cfr Da Cannes a Berlino, Civ. Catt. 1962, III, 232 ss.
5 Conferma questo nostro rilievo la severa ammissione della stessa Giuria, che quest’anno, nella motivazione dei premi, ha riconosciuto «la mancanza in concorso di film di particolare rilievo». Né vale sussumere che le altre manifestazioni, secondo la nostra supposizione, non si interesserebbero alle opere d’arte, perché, in realtà, almeno strumentalmente prendono tutto, anche le opere artistiche, purché non pregiudichino i loro interessi specifici.
6 Tanto più che la nazionalità ufficiale, in tanto fervore di co-produzioni reali o fittizie, intese a tutelare interessi politici ed economici non sempre confessabili, sovente finisce coll’essere non solo una fictio juris, ma un falso bello e buono; a parte, spesso, la difficoltà per determinarla. Valga l’esempio di Eva, che si presentava come italo-francese, ed era diretta dall’americano Losey, recitata da italiani, francesi e tedeschi; di Lolita, girata in Inghilterra, con regista ed attori americani; dell’italo-franco-tedesco Il processo, con O. Welles regista americano: italiani, francesi ed americani gli attori...
7 In tal modo rendendo pubbliche ed ufficiali certe «storie segrete» delle quali fu un modello da non imitare il volume Un leone d’oro, di F. DI GIAMMATIEO e G. B. CAVALLARO (cfr Civ. Catt. 1957, IV, 180).
8 Anzi, la completeremmo con altri voti; per esempio: che i pochi film in concorso vengano programmati tirandoli a sorte; che gli orari di proiezione delle singole sezioni si dispongano in modo da dare la possibilità fisica di vederli tutti a chi lo desideri (quest’anno gli inviati stampa hanno dovuto rinunciare a quasi tutta l’interessantissima Retrospettiva); che i giomalisti che si recano alle proiezioni mattutine dei film in concorso non siano defraudati dei rispettivi cortometraggi ...
9 Per una esposizione delle trame e per un’analisi meno sommaria dei valori artistici e morali di tutti i film in concorso, cfr quanto ne abbiamo scritto In Letture: La Mostra Veneziana del trentennio (ottobre 1962, p. 688 ss.).
10 Finendo cosi col dimostrare quanto sia infondata la fama di geniale regista, costruita da certa critica intorno al Torre Nilsson, mal servito dai caliginosi sonetti che la moglie Beatrix Guido gli va fornendo.
11 La memoria corre all’Henri V di Olivier, e, come circa quell’eccellente film, resta l’impressione di trovarsi almeno avanti ad un grosso fatto di cultura, e forse anche di arte compiuta, qualora tanto eccellenti valori espressivi sostengano qualcosa di idealmente valido, che purtroppo, come abbiamo detto, ci sfugge.
12 Magari compositivamente e scenograficamente curate fino a citare opere note, ed anche celebri (Rousseau, Mantegna, Leonardo, Masaccio...), ma che restano prive di tempo interno; vale a dire di ciò che dovrebbe renderle specificamente cinema; tempo interno senza il quale lo stesso montaggio, su cui Pasolini confida, si riduce ad un’operazione meccanica, e la confessata incapacità di pare inquadrature lunghe equivale a non saper esprimersi cinematograficamente.
13 Al Thérèse Desqueyroux, che solo è stato tradotto in film dal Franju, lo stesso Mauriac fece seguire nel 1933 (ma pubblicati nel 1938) i due racconti Thérèse chez le docteur e Thérèse à l’hôtel, e nel 1935 La fin de la nuit, col quale il prediletto suo personaggio muore.
14 Secondo noi ha nociuto al film Thérèse prima di tutto l’averne conservato l’ambiente, i fatti e i personaggi al periodo tra le due guerre ipotizzato nel romanzo, quasi che nel frattempo ambiente, fatti e personaggi non fossero radicalmente mutati: di qui un senso di convenzionalismo accademico che va a tutto scapito della partecipazione viva dello spettatore; secondariamente, l’aver fatto parlare la protagonista in prima persona, in tal maniera trasformandola da oggetto di osservazione da parte dello scrittore (e dello spettatore), in soggetto di un dramma consapevolmente vissuto. È chiaro che, una volta così soggettivizzata, la tragedia di quel «nodo di vipere», che è il cuore di Thérèse, da quel fascinoso dramma universale e cosmico che per Mauriac rappresenta il mistero dello scontro tra il Bene ed il Male nel cuore dell’Uomo, scade ad un comune dramma psicologico individuale.
15 Finale quanto mai ambiguo, giacché si può interpretare o come una ultima staffilata sarcastica contro una società, che fabbrica siffatte «mogli oneste», oppure come la prima, attesa, abdicazione di un onesto, che, per salvare l’unica cosa che gli resta al mondo, scartata la soluzione del suicidio, si piega alla «morale» del mondo, o almeno accetta di passare come se si piegasse.
La Giuria dell’O.C.I.C., composta da mons. Jean Bernard (Lussemburgo, presidente), e dai sigg. Renato Buzzonetti (Italia), Pascual Cebollada (Spagna), Frans Dupont (Belgio), Edward Fischer (U.S.A.) Mathilde Lehne (Austria) e Wiltrud Meinzinger (Germania), nonché dagli assistenti ecclesiastici Enrico Baragli S.I., e Georges Taymans S.I., gli ha attribuito (a maggioranza) il premio con la seguente giustificazione: «Ce film, à condition d’en bien situer la finale dans l’esprit général de l’oeuvre, dénonce avec une justesse et une sincérité que renforcent ses qualités artistiques, l’hypocrisie d’une certaine société où la vertu elle-même, pour s’affirmer, est tentée de se cacher sous l’apparence du vice. Face à une dure épreuve familiale, à une sollicitation adultère et à une machination calomniatrice, un modeste éducateur au caractère idéaliste donne un bel exemple de fidélité conjugale et de dévoûment professionnel. En outre sont mises en relief les responsabilités de la famille et de l’école sur le pian de l’éducation».