Articolo estratto dal volume IV del 1957 pubblicato su Google Libri.
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I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.
Dopo un mese di proiezioni, alle quali abbiamo assistito, dall’8 agosto all’8 settembre, torniamo dalla Laguna ubbriacati di cinema. Ed ora non saremo certo noi che consiglieremo Venezia ad integrare l’asciutta e severa Mostra d’arte con altre iniziative «atte a fornire interessi specifici a tutte ie categorie del mondo cinematografico» e non solo a quella dei critici d’arte, perché questa volta diremmo che la dinamica direzione, nella quantità, ha piuttosto strafatto che difettato. Infatti, essa ha programmato in trenta giorni: trentadue film nella Iª Mostra retrospettiva del film d’arte (8-11 agosto), cinque nella Retrospettiva del regista giapponese Kenji Mizoguci (27-31 agosto), diciannove, tra estratti e film interi, nella Retrospettiva del film inglese (2-7 settembre), ed otto in quella dei quattro registi D. Kirsanov, A. Dovgenko, E. A. Dupont e M. Ophüls, morti nel 1956 (1-8 settembre), un centinaio nella VIII Mostra internazionale del documentario e del cortometraggio (12-21 agosto), trentacinque nella IXª Mostra internazionale del film per ragazzi (12-21 agosto), una ventina nella Sezione Informativa1, un’altra ventina nella Sezione Commerciale (riservata alle categorie professionali della produzione e dell’esercizio), e quindici nella Mostra d’arte vera e propria...: mettendo nel conto anche i cinegiornali e i telegiornali d’attualità e i documentari medico chirurgici, ma non contando i film ripetuti nella II Giornata del film europeo, abbiamo totalizzato la bellezza di circa trecento film. Imbandigione veramente splendida, se si tiene conto del suo carattere internazionale – ben trentasei bandiere di partecipanti hanno garrito sul Palazzo del Cinema! –, dei suoi pregi formali, generalmente buoni e qualche volta ottimi, nonché delle attività culturali che l’hanno contornata, quali, per ricordarne solo due di maggior rilievo, la IIIª Mostra internazionale del libro e del periodico cinematografico e il II° Convegno internazionale «Cinema e teatro».
Riferire su tutto quanto abbiamo visto supera evidentemente le nostre possibilità; quindi ci limitiamo a riferire soltanto sulla Mostra d’arte vera e propria, nell’intento di meglio conformarci agli interessi dei nostri lettori e all’indole della rivista. E lo faremo, prima indugiando sulla formula della Mostra d’arte, e poi accennando ad alcuni problemi di cultura e di costume rilevati dai film in concorso2.
La formula
Terminando, l’anno scorso, la nostra relazione della Mostra, esultavamo nel poter provare buona, con le cifre alla mano, la formula Ammannati, coraggiosamente rivoluzionaria, e ci auguravamo che essa non venisse ripudiata, bensì mantenuta, anzi migliorata sulla linea dell’intransigenza, non giovando a nessuno accettare ricatti o scendere a compromessi3; ma non esultiamo oggi nel dare la relazione della sua XVIIIª edizione, perché i ricatti ci sono stati e, con questi, i compromessi, tali da vulnerare gravemente la bontà della formula.
A dir fa verità, non è mancato chi, prima di costatarne il dannoso rendimento, scoprisse nella formula riveduta un «segno di equità»4, e lo stesso presidente Ammannati, da parte sua, in più di un’occasione, evidentemente facendo buon viso a cattiva fortuna, ha parlato di «semplici ritocchi», di «temperamenti», che «salvano la sostanza dell’impostazione della Mostra», e, dunque, «non frutto di compromesso», ma di «ragionevole incontro»; sennonché, a rendimento costatato, già durante la Mostra, la stampa italiana all’unisono, e le più autorevoli voci di quella straniera sono insorte contro di essa, denunciandone il fallimento; ma, poi, la stessa Giuria5, non sappiamo quanto opportunamente, ma certo coraggiosamente, a premessa dell’assegnazione dei premi ha dichiarato:
L’articolo 1° del Regolamento dice che «la Mostra internazionale d’arte cinematografica ha lo scopo di segnalare le opere il cui valore sia tale da testimoniare un reale progresso della cinematografia quale mezzo di espressione artistica». La Giuria ha costatato che alcuni dei film selezionati non corrispondevano a tale definizione ed esprime, pertanto, il suo rammarico di non aver potuto trovare in quelle opere segni di «un reale progresso della cinematografia». La Giuria si augura che per l’avvenire la Commissione selezionatrice possa scegliere i film tenendo presente il solo valore artistico ed escludendo ogni considerazione di carattere nazionale e commerciale.
Non occorreva molto acume per individuare il bersaglio preso di mira dalla dichiarazione, e pienamente centrato. La F.I.A.P.F., infatti, il 9 settembre, «riteneva necessario» dichiarare a sua volta che «le regole legittimamente adottate da essa per la difesa degli interessi generali della produzione cinematografica non erano tali da ostacolare lo svolgimento di un festival...», evidentemente equivocando, giacché, in casu, non si trattava di un festival, ma di quello di Venezia, che festival non vuol essere, bensì mostra d’arte. Bene fece, quindi, il direttore della Mostra a confermare, sì, ai dirigenti della F.I.A.P.F. «la volontà di perseverare nella loro stretta collaborazione», ma a sollecitare in pari tempo dalla stessa giuria autorevoli suggerimenti per l’avvenire; ed ottimamente fece questa, con tanto di firma di R. Clair, a tornare con maggior forza nella sua dichiarazione, suggerendo la «soppressione della differenziazione tra film scelti e film invitati», e commentando:
La commissione artistica dovrebbe avere il diritto di scegliere un massimo di quattordici film, qualunque sia la loro origine, ed anche se più di uno di questi film provenisse da un solo Paese. La qualità artistica dei film scelti e non la loro nazionalità dovrebbe essere la sola a contare... La giuria, infine, non incoraggerà mai abbastanza la direzione della Mostra a dar prova di fermezza nei suoi rapporti con i Paesi, e soprattutto con le Associazioni nazionali qualificate, in merito alla selezione dei film. Non bisogna esitare a ricordare in ogni occasione che la Mostra non è una fiera commerciale. La missione della Mostra è di incoraggiare i progressi della cinematografia come mezzo di espressione artistica. Appunto questo le ha valso, dalla sua fondazione in poi, il prestigio mondiale che essa deve conservare.
Quanto a proposito siano cadute queste raccomandazioni si vedrà analizzando gli insopportabili vincoli imposti dal compromesso di quest’anno e i danni da esso causati.
* * *
La buona formula rivoluzionaria del 1956 poggiava, come si ricorda, su tre punti: 1) ridurre ad una dozzina i film in concorso; 2) ridurre a tre i premi; 3) adottare come unico criterio di scelta la qualità artistica. Di essi, il più importante era il terzo, in funzione del quale i primi due valevano. Orbene: mentre questi, più o meno, nella formula «ritoccata» hanno tenuto - abbiamo avuto quattordici film in competizione e quattro premi, contro i quattordici e i tre del 19566 – il terzo è stato praticamente svotato dall’ukase emesso, l’11 maggio 1957, dalla F.I.A.P.F. (Fédération Internationale des Associations des Producteurs de Films), armato di queste due norme capestro: 1) su di un massimo di quattordici film in competizione, almeno dieci la Commissione artistica dovrà sceglierli tra le selezioni che le verranno proposte dai Paesi o dalle Associazioni nazionali qualificate, in ragione di un solo film per paese, e rispettando l’ordine di precedenza fissato dalle selezioni stesse; 2) la commissione artistica potrà invitarne altri quattro, scegliendoli, o nelle produzioni dei Paesi ai quali appartengono le dieci selezioni di cui sopra, o entro le altre selezioni.
Non è chi non veda che, in tal maniera, dieci film su quattordici vengono praticamente imposti di forza; infatti, stando alla prima norma, rifiutare il capolista di una selezione nazionale equivarrebbe per la Mostra interdirsi la scelta di qualumque altro film del Paese cui la selezione appartiene, e con ciò radiare dalla Mostra una nazione e i rispettivi delegati, vale a dire avviare con le proprie mani quel boicottaggio, magari delle nazioni più forti produttrici di film, che minacciò di soffocare fa manifestazione veneziana al suo primo rischioso esperimento della formula nuova7; stando poi alla seconda norma, anche sui quattro film di «libera» scelta resta il gravame o di far parte di una selezione imposta, o di passare solamente se legati al carro di un capolista che, forse, non vale nulla.
Rebus sic stantibus, per la Mostra, le probabilità di poter avere il meglio tra quanto la produzione mondiale offra di artistico dipenderebbe dal verificarsi di due eventi: 1) che almeno dieci tra i migliori film appartenessero tutti a dieci nazioni differenti; 2) che i produttori fossero unicamente guidati dal gusto e dall’interesse artistico, e scegliessero proprio quei dieci, e li mettessero tutti a capolista delle loro selezioni nazionali... Ma quanto il primo sia improbabile si desume dall’estro del genio, che, come lo Spirito di Dio, ubi vult spirat; e quanto improbabile sia il secondo si desume dagli interessi prevalentemente economico-commerciali, che i produttori di film – non diversamente da quelli di automobili, di scarpe e di casalinghi – sono disposti a difendere, contro gli interessi dell’arte e della cultura in genere, dei quali, quando qualche cosa ne capiscono, non cale loro un bel niente.
Prova di ciò siano: la resistenza da loro opposta ad una formula che, in se stessa, si ispirava solo appunto all’arte e alla cultura e il loro tentativo di riportare Venezia al livello fieristico degli altri festival, nonché la mirifica prova da loro fornita nelle selezioni inviate quest’anno alla Laguna. Il peggiore dei film che abbiamo visto, un orrore, bastante da solo a squalificare un festival, nonché una mostra d’arte, è stato senza alcun dubbio Los salvajes, designato dalla selezione messicana; altro obbrobrio è stato il The story of Esther Costello, caparbiamente imposto dai produttori inglesi; lo scadente Samo ljudi è stato designato dai produttori iugoslavi; Francia e Stati Uniti hanno proiettato, oltre ai loro capolista Oeil pour oeil e Something of value, due film invitati: Amère victoire e A hatfull of rain, e, vedi caso, gli invitati sono risultati notevolmente più ricchi di pregi che non i capolista... Anche il giapponese Kumonosu djo e l’italiano Le notti bianche, invitati, sono risultati pregevoli. Per finire: cinque nazioni, pur fornendo le loro selezioni, l’hanno fatto a titolo puramente indicativo, lasciando alla Mostra piena libertà di scelta; ed eccone i risultati: due film: Un angel voló sobre Brooklyn, della Spagna, e Malva, dell’U.R.S.S., sono risultati di perfetto mestiere ma artisticamente mediocri; ma due altri: Ubaguruma, del Giappone, e I sogni nel cassetto, dell’Italia, sono stati giudicati piuttosto buoni e degni della Mostra; uno, Aparajito, dell’India, si è aggiudicato il Leone d’oro.
Che cosa provano questi dati inoppugnabili se non che ha avuto ragione la commissione artistica nel ringraziare gli organismi che le hanno permesso una scelta autonoma, e nel ritenere che «tale formula di selezione rappresenti la migliore garanzia non solo ai fini del livello artistico dei film in concorso, ma anche nell’interesse dei singoli Paesi e dei singoli produttori»?
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Se lamentiamo i danni causati dalle transazioni imposte e subite, non disperiamo per l’avvenire. Ci pare, infatti, che anche quest’anno la Mostra si sia svolta con criteri e in condizioni di esperimento, e che la prova fatta sconsiglierà per il futuro la via dei compromessi.
Vero è che la rivoluzionaria formula del 1956, se sostanzialmente ottenne quasi unanimi consensi da parte della stampa e del pubblico, suscitò anche non pochi dubbi che potesse durare in tutto il suo pieno vigore nelle mostre avvenire. Le si obiettava, tra l’altro, quanto si prospettasse difficile reperire, ogni anno, a fine stagione, quando già tutti i (troppo) numerosi festival hanno rastrellato il meglio della produzione, una dozzina di film di alto valore artistico; poi il diminuito interesse di produttori, distributori, esercenti e grande pubblico, più richiamati dai pletorici festival-mercato che da una seria mostra d’arte; inoltre la ridotta internazionalità della Mostra in proporzione al più che dimezzato numero dei film in concorso, specie se due o tre di essi appartenessero alla stessa nazione; infine, ci si domandava come avrebbero reagito i grandi produttori e se, nel caso di una loro temuta serrata, Venezia non avrebbe, in tutto od in parte, dovuto capitolare; tanto più che quei signori onnipotenti, già urtati per fo scarso credito che Venezia sembrava concedere alla loro stimativa circa i fatti artistici, meno gradivano la falcidia dei premi, la quale raddoppiava, sì, il prestigio dei pochi vincitori, ma ingrossando il numero dei delusi: e il compromesso pattuito tra direzione e produttori, l’11 maggio, a Cannes, ha dimostrato che dubbi e timori, purtroppo erano fondati. Quindi l’esperimento di quest’anno. Noi, contro chi ha cercato di spiegare l’inspiegabile grottesco di alcune selezioni congetturando nei loro responsabili un poco simulato proposito di boicottare Venezia, siamo sicuri che la transazione è stata suggerita dalla migliore buona fede, sia da parte dei produttori, sia da parte della Mostra; ma vogliamo sperare che, con la stessa lealtà e buona fede, una volta assodato che le transazioni sulla sostanza della formula vulnerano gli interessi artistici di Venezia senza giovare a quelli commerciali dei produttori, cessato l’esperimento, la Mostra torni, puramente e semplicemente, sulla via dell’intransigenza8.
Se, perciò, vuole restare mostra d’arte e «conservare il prestigio mondiale» che, grazie a Dio, ancora detiene «dalla sua fondazione», sia normata, non principalmente, ma esclusivamente dal criterio della qualità, ed a questo subordini tutti i particolari dell’organizzazione e del regolamento. Prima di tutto si riservi, dunque, il diritto esclusivo di scegliere ed invitare essa stessa tutti i film in concorso, sottraendosi ad ogni imposizione di nazioni o di produttori. Presentino quelle e questi le foro selezioni, se vogliono: anzi vengano sollecitati a farlo, per facilitare il compito della Commissione artistica; ma esse siano semplicemente indicative e niente affatto vincolanti. In particolare si dia alla nazionalità dei film il minor rilievo possibile, sia per lasciare l’arte sul piano dei valori superiori ed universali che ad essa compete, sia per ridurre spurie sollecitazioni politiche nelle scelte della Commissione artistica e nel verdetto della giuria, sia, infine, per scoraggiare certe manipolazioni di nazionalità, passabili in squadre di calcio ma grottesche a proposito di presunte opere d’arte9.
Sempre in armonia con l’unico criterio della qualità, come suggerisce anche la giuria di quest’anno, si modifichino, poi, i commi b) e c) dell’Art. 4 del regolamento 10: se la Mostra veneziana intende segnalare il meglio della produzione annuale mondiale non vediamo perché debba escludere dai film in concorso una vera opera d’arte, unicamente perché già proiettata fuori del paese di origine, o perché proveniente da un’altra manifestazione cinematografica internazionale. Proprio perché Venezia ogni anno ne chiude la serie, e ne resta la più autorevole, crediamo che si addica ad essa la funzione di appello e di loro conferma, piuttosto che quella di loro concorrente. Ancora: alla Commissione artistica si dia la massima libertà possibile di documentarsi e di scegliere; ma, poi, le si riconosca anche tutta la responsabilità delle scelte. Precisi, quindi, essa le ragioni che le hanno motivate, e le pubblichi, almeno in chiusura di Mostra, e non, come si è visto nel 1956, con indiscrezioni di stampa11, le quali, se non altro, non si sa quanto quadrino col segreto, di cui all’Art. 8 del Regolamento.
Una non meno salda intransigenza pensiamo the dovrebbe regolare il meccanismo dei premi. Quest’anno, l’unico Leone d’oro del ’56 ha avuto un fratellino d’argento: non pretendiamo che la Mostra sopprima l’inatteso neonato; ci auguriamo, tuttavia, che essa non prolifichi ulteriormente. Opiniamo che due leoni e due coppe bastino ed avanzino per quattordici film e, anche in ciò d’accordo con i «suggerimenti» della Giuria, restiamo d’opinione che il loro conferimento non dovrebbe essere reso obbligatorio, come quest’anno l’art. 14° del Regolamento ha imposto. Una mostra d’arte, infatti, non è una gara sportiva, né una tombola paesana, dove, per aggiudicarsi il premio in palio, non si richiede che il vincitore raggiunga l’optimum realizzabile, e forse già realizzato in altre gare, ma è necessario e sufficiente che fornisca la migliore (quindi anche la meno mediocre) prestazione relativamente agli altri concorrenti. Una mostra d’arte vuol essere solo un’esposizione di opere selezionate col criterio dell’arte; di opere, dunque, ricche di pregi artistici, tra le quali può trovarsi, come anche può non trovarsi, l’opera d’arte tout court: l’opera viva, sentita, calda di fantasia creatrice, unitaria, compiutamente, armoniosamente e luminosamente espressa. Solo la presenza di un film-opera d’arte in questo senso dovrebbe far ruggire il Leone d’oro; per tutti gli altri film, il solo essere invitati alla Mostra dovrebbe costituire un ambitissimo riconoscimento di valore e una validissima raccomandazione. Riguardo, poi, al Leone d’argento, ci sembra alquanto inonorifico per chi lo dà e per chi lo riceve attribuirgli la funzione di secondo premio, alias: di premio di consolazione. Se, lo volesse il Cielo!, un anno, non uno ma due film riuscissero ad imporsi per le eccellenti e compiute qualità artistiche di cui sopra, preferiremmo che l’unico leone aureo ruggisse ex aequo per tutti e due, mentre quello d’argento lo vorremmo attribuito «non al film secondo classificato, ma a quello che presentasse delle qualità di originalità e di novità s^ nel soggetto come nella realizzazione»12.
Per finire, accedendo una volta di più, ma ampliandoli, ai suggerimenti della Giuria, che rilevano come la «missione della Mostra sia di incoraggiare i progressi della produzione come mezzo di espressione artistica», ci auguriamo che essa continui a ridurre, fino ad eliminarli del tutto, anche alcuni elementi di contorno poco o per nulla consoni con questa sua missione. Sappiamo che quest’anno essa è intervenuta nei cinegiornali contro le attualità della Mostra, fabbricate a bella posta, e con dubbio gusto, per il Palazzo del cinema...: si continui per la stessa strada!13 Né si tema che siffatta coerenza all’unico principio animatore sia per nuocere al successo commerciale-turistico di Venezia. Intanto, non è detto che arte e cultura debbano necessariamente vestire gramaglie e nutrirsi di acciughe quadragesimali; inoltre, come lodevolissimamente si è fatto quest’anno, nessuno vieta che si integri la vera Mostra con altre nutrite serie di film, pregevoli per qualità formali, spettacolistiche, documentarie o sperimentali, ed interessanti cerchie molto vaste di professionisti e di pubblico. Ma, poi, non ha da farsi illusioni: se si mette a competere con le altre manifestazioni internazionali a suon di attrazioni extra-artistiche, Venezia ha poche probabilità di batterle. Cannes, ad esempio, che si svolge a inizio d’anno, in clima primaverile, in una città che non dista dal Palazzo del cinema un chilometro di mare, ma si allarga a ventaglio intorno ad , attrezzatissima di alberghi e di distrazioni mondane, con le incomparabili bellezze naturali della Croisette e dei suoi dintorni, ed il genere di pubblico che suole affluirvi, prenderà facilmente, se già non l’ha preso, il sopravvento nel genere festival-mondano e kermesse-mercato. A Venezia non resta che puntare sull’arte e sulla cultura, cui la preparano le sue tradizioni secolari, di cui sono prestigiosi testimoni i suoi tesori artistici. I più che seicento tra giornalisti e fotoreporter di agenzie e di T.V., che quest’anno vi sono accorsi, cifra, crediamo, non mai raggiunta dai maggiori festival né dalle passate edizioni della Mostra, eloquentemente indicano l’interesse suscitato in tutto il mondo da quell’atto di fiducia nell’arte e nella cultura che fu la buona formula del ’56. Non resta perciò che restarle fedeli.
I quattordici film
Se ci si chiedesse, come è stato fatto ad altri inviati, una graduatoria di merito artistico tra i film in concorso, ne classificheremmo due come pessimi (Los salvajes e The story of Esther Costello), quattro come mediocri (Malva, Oeil pour oeil, Samo ljudi e Un angel voló...), sette come degni, sia pure a titoli differenti, di partecipare a una mostra d’arte (Something of value, Amère victoire, Ubaguruma, I sogni nel cassetto, A hatfull of rain, Kumonosu djo e Le notti bianche) e uno fuori graduatoria, perché di caratteristiche troppo disparate rispetto agli altri (Aparajito); daremmo, perciò, un bilancio che, se considerato in termini assoluti, potrebbe sembrare deludente, in termini relativi non lo sarebbe. Infatti faremmo osservare che quest’anno Venezia ha totalizzato otto degni film su quattordici, quando, per esempio, l’ultimo Cannes ne contò appena cinque su trenta in concorso (però Venezia ’56 ne contò undici su quattordici!...).
Per quanto poi una dozzina di film non basti a rappresentare lo stato del cinema nel mondo su piano di arte e di cultura, tuttavia ci sembra che possa fornire interessanti indicazioni. Intanto osserviamo che, di essi, solo due sono stati a colori (Oeil pour oeil e Malva), e due soli su schermo superiore al normale (Oeil pour oeil e Amère victoire); e siccome i migliori si sono trovati proprio tra quelli in bianco e nero e su schermo normale, possiamo concludere che lo spettacolare certamente si avvantaggia con i più vistosi ritrovati della tecnica, ma non sempre se ne avvantaggia l’arte: anzi!; inoltre, che, anche affine di assicurare i successi di cassetta, non sempre è conveniente sperperare i miliardi ingoiati da certi filmoni recenti.
Ma i rilievi più interessanti la selezione di quest’anno li offre a proposito delle mutue prestazioni, attuate e possibili, tra il cinema ed altre forme di arte o di spettacolo. È stato, per esempio, osservato che solo tre film sfruttano soggetti originali (Un angeló volo..., Samo ljudi e I sogni nel cassetto), contro undici che traspongono sullo schermo o soggetti teatrali (Kumonosu djo, dal Macbeth di Shakespeare, e A hatfull of rain, dal dramma omonimo di M. V. Gazzo), o racconti del romanticismo russo (Le notti bianche, da Dostoevskij, e Malva, da Gorkij), o dalla più o meno pregevole narrativa moderna (gli altri sette). Ci è stato chi ha visto in questi prestiti un sintomo di esaurimento di fantasia nel cinema, e forse non ha torto; tuttavia, specialmente nel caso di trasposizioni da lavori teatrali, abbiamo assistito ad esperienze quanto mai indicative. Così, A hatfull of rain ha dimostrato come, pur conservando l’orditura e il dialogato di un mediocre testo letterario, si possa fare dell’ottimo cinema quando si disponga di un regista dal perfetto e scaltrissimo mestiere e di un quartetto di attori eccezionali ed affiatatissimi. Quest’esperimento perciò va ad integrare il problema dei rapporti tra linguaggi teatrale e cinematografico, posto e variamente risolto, tra gli altri, dal Martoglio in Perduti nel buio (1915), dal Mamoulian in Becky Sharp (1935), dal Kazan in A street-car named Desire (1951), dal Benedek in Death of salesman (1952), dall’Hoellering in Murder in the cathedral (1952) e dall’Asquith in The importance of begoin Earnest (1952).
Tuttavia vi si tratta di una trasposizione, diciamo cosi, di primo grado; con Kumonosu djo, invece, ne sperimentiamo una di sesto grado, traducendo esso in cinema giapponese nientedimeno che Shakespeare. Non ci si domandi un giudizio di resa artistica di una tale impresa, anche perché non saremmo in grado di darlo dopo aver visto il film una volta sola, e per giunta non doppiato; si pensi però ai problemi di linguaggio ed espressivi affrontati da un regista come Kurosawa, che ha come precipua nota stilistica l’azione più sfrenata, nel rendere le espressioni verbali del terribile inglese, e nel tradurre figurativamente in gesta e in scenografie da samurai e da no giapponesi il per lui impervio medioevo scozzese. Anche quest’esperienza ne integra altre notissime, quali quella dell’Olivier in Henry V (1944) e in Hamlet (1948), di cui Kurosawa tradisce reminiscenze ed echi, nonché quella di O. Welles nel Macbeth (1947).
Un non meno abbondante mazzo di problemi d’interpretazione letterari, psicologici e di linguaggio l’offre Le notti bianche del nostro Visconti, che traspone il racconto di Dostoevskij dalla romantica Pietroburgo dell’800 ad una fantastica Venezia-Livorno dei nostri giorni, per giunta trasferendo sullo schermo schemi e scenografie teatrali. Su piano di cultura e di arte si potrà discutere se l’innovazione sia funzionale o meno, se splenda cioè il film solo per un suo tal quale preziosismo intellettualistico o esprima anche un mondo artisticamente intuìto; ma prevediamo che su piano polemico il film farà parlare di sé per un bel pezzo. Del resto, già subito dopo la sua proiezione a Venezia avvertimmo scontri di opinioni: «Visconti ha ripudiato il neo realismo!» «No, si tratta solo di una pausa evasiva!» «Macché: Visconti non è stato mai un neorealista!» «Il neorealismo è finito!» «La colpa è della censura!»14.
L’interesse cede alla delusione quando portiamo l’attenzione dai valori culturali a quelli religioso-morali dei film. In nove di essi, infatti, è assente qualunque riferimento religioso; mentre elementi religiosi hanno una presenza in funzione meramente coloristica nel film spagnolo e in quello inglese; piuttosto di polemica, a vantaggio dei valori di una cultura e civiltà tecniche, in quello indiano; di caricatura nel film del nostro Castellani, e di goffa ed iperbolica superstizione in quello messicano. Nell’insieme, dunque, abbiamo dovuto ancora una volta notare che «anche film moralmente ineccepibili... offrono allo spettatore un mondo, in cui non si fa alcun accenno a Dio e agli uomini che credono in Lui e Lo venerano, un mondo in cui le persone vivono e muoiono come se Dio non esistesse»15.
Ma sono poi tutti moralmente ineccepibili i quattordici film? Purtroppo no. Quasi nessuno, intanto, si rifà ad una visione integralmente morale dell’avventura terrestre dell’uomo e dell’umanità. Alcuni di essi respirano l’amoralità più desolata; tali il francese Oeil pour oeil, che parte da un equivoco problema di coscienza umanitaria e sfocia nella compiaciuta descrizione della più sadica delle vendette, e il sovietico Malva, tardiva riesumazione dell’anarchismo morale di un Gorkij prima maniera (e tuttavia dobbiamo riconoscergli il merito di aver seguito il «corso» post-Chruscev, col dare la precedenza alle vicende umane degli uomini, su quelle dei loro trattori, cooperative e centrali elettriche, che per un decennio hanno estasiato i fedeli, ma non onesti, critici marxisti). Può fare degna compagnia a questi due il film di Baledón, che, dopo aver collezionato una serie inverosimile di trucibaldi ceffi e di ignominiosi orrori, sbocca in una sua morale sgangherata, quale appunto possono configurarla dei salvajes, che si mettano a condonare di filosofia e di diritto, vuoi umano vuoi divino.
Altri film, con un impianto tematico sostanzialmente valido per valori umani e morali, non evitano elementi contrastanti con l’ordine morale. Cosi Amère victoire, che condanna ogni viltà camuffata di eroismo regolamentare ed esalta la lealtà virile di chi affronta, senza ostensioni, i rischi del dovere, ma che poi ha il torto di prospettare i valori assoluti della vita umana, nelle fattispecie dell’omicidio, del suicidio e della guerra, come disancorati da qualunque diritto e dovere naturali e divini; lo stesso errore morale nel quale incappa, come se non gli bastassero quelli d’intelligenza e di buon gusto, la lacrimogena storia di Esther Costello, che termina in una combinazione di omicidio-suicidio, fortunatamente più ridicola che suasiva. Anche il Brooks, in Something of value, enuncia una tesi quanto mai moralmente valida, qual è quella della fraterna convivenza tra bianchi e neri nel Kenia dei Mau Mau e, per estensione esplicita, tra diverse razze in tutto il mondo; e bisogna dire che, nell’insieme, la sostiene validamente; sennonché, trasportato dalla sua foga, a un certo punto, volendo dimostrare che, prima di strappare individui e popoli primitivi dalle loro credenze, dai loro usi e modi di vita, bisogna essere certi di poter dare loro «qualche cosa che vale», sembra mettere tra gli usi e costumi così condizionati anche la uccisione dei bambini «nati per i piedi», o, almeno, non fornisce gli elementi per precisare che, oltre i costumi connessi con fasi di civiltà più o meno transeunti, ci sono diritti e doveri inalienabili ed inestinguibili nell’uomo, perché scritti da Dio nella sua natura razionale e spirituale. In Ubaguruma, infine, un messaggio di comprensione tra giovani ed anziani, di esaltazione dell’unità familiare e dell’educazione cui hanno diritto i figli, insidiate dal concubinaggio, non va esente da un’accettazione di irregolarità matrimoniali, che non possiamo non giudicare eccessiva.
In quattro film, invece, troviamo valori umani positivi, senza pecche di rilievo; e sono: Un angel voló..., col suo messaggio di carità cristiana tra «prossimi» di diversa condizione sociale, cui però nuoce il suo restare a mezz’aria tra favola e realtà; Samo ljudi e Aparajito, che esaltano la forza di volontà dell’uomo: il primo contro la sventura, in un atto di fiducia nella vita, e il secondo contro la sporcizia, la miseria e la superstizione, da debellarsi col progresso civile e culturale; infine I sogni nel cassetto, che riporta sullo schermo l’amore pulito, chiaro e fresco di due giovani, ai quali, per altro, nuoce l’essere scervellati non poco, e la catastrofe a cui Castellani li danna.
Concludendo: se non prendiamo in considerazione i due film Kumonosu djo e Le notti bianche, privi quasi di docenza morale esaurendosi del tutto in esercitazioni stilistiche, resta l’americano A hatfull of rain, che, mentre non presenta mende rilevanti, per forza d’interpretazione, più che per vigore di tesi, esalta la bellezza della muta comprensione e del sacrificio per mantenere salda nei suoi affetti una famiglia, ed apre ad una luce di speranza i tormenti di quanti, con o senza colpa propria, si trovano irretiti in vizi, distruttori di ogni valore umano e civile; per questo, in mancanza di meglio, l’O.C.I.C. gli ha attribuito il premio, come «all’opera che meglio contribuisce allo sviluppo dei valori morali e spirituali».
Questo messaggio di bontà tra gli uomini, che, malgrado il peso di interessi materiali che grava sul cinema, è riuscito a diffondersi ripetutamente dagli schermi del Lido, ci ha ricordato una volta di più quale missione di civiltà può compiere il cinema, e, dunque, anche la Mostra veneziana, che vuole esserne la manifestazione internazionale più nobile.
1 Rassegna dei film che o, non trovandosi nelle condizioni volute del regolamento, non potevano essere messi in concorso, o sono stati invitati dalla Mostra perché molto indicativi della produzione mondiale.
2 Ecco, in ordine alfabetico di nazioni, l’elenco dei lungometraggi in concorso, nel quale distinguiamo con un asterisco quelli in formato maggiore del normale, e col segno # quelli in colore. I numeri in parentesi indicano quanti film ha presentato ogni nazione; tra parentesi è indicato anche il film fuori concorso.
1) FRANCIA (3): Amère victoire * di Ray; Oeil pour oeil *#, di A. Cayatte; (Porte de lilas, di R. Clair). – 2) GIAPPONE (2): Kumonosu djo, di A. Kurosawa; Ubaguruma, di T. Tasaka. – 3) INDIA (1): Aparajito, di S. Ray. – 4) INGHILTERRA (1): The story of Esther Costello, di D. Miller. – 5) ITALIA (2): Le notti bianche, di L. Visconti; I sogni nel cassetto, di R. Castellani. – 6) lUGOLAVIA (1): Samo ljudi, di B. Bauer. • 7) MESSICO (1): Los saluajes, di R. Baledón. - 8) SPAGNA (1): Un angel voló sobre Brooklyn, di L. Vajda. – 9) STATI UNITI (2): A hatfull of rain, di F. Zinnemann; Something of value, di R. Brooke. – 10) U.R.S.S. (1): Malva #, di V. Braun.
3 Cfr La formula buona, Civ. Catt. 1956, IV, 49-62.
4 G. L. RONDI, nell’Agenzia giornalistica Italia, Notiziario dello sspttacolo, 15 aprile 1957, n. 1. – V. MARINUCCI, dopo un diplomatico ottimismo (Una formula equilibrata per la XVIII Mostra veneziana, in Giornale dello spettacolo), onestamente riconosce che «il compromesso raggiunto a Cannes ha ampliamente limitato la libera selezione da parte della Commissione artistica» (Venezia Anno XVIII, ivi, n. 30).
5 La Giuria era composta da: René Clair, presidente (Francia); Penelope Huston, critico cinematografico (Inghilterra); Arthur Knight, critico cinematografico (U.S.A.); Miguel Pérez Ferrero, critico cinematografico (Spagna); Ivan Pyriev, regista (U.R.S.S.); Vittorio Bonicelli, critico cinematografico (Italia); Ettore Giannini, regista (Italia). Essa ha attribuito il Leone d’oro al film indiano Aparajito, il Leone d’argento all’italiano Le notti bianche; le Coppe Volpi: per la migliore interpretazione maschile ad Anthony Franciosa, nel film À; hatfull of rain, per quella femminile a Zidra Ritenbergs, nel film Malva.
La Commissione artistica, Ia stessa che nel 1956, iera composta da: Luigi Floris Ammannati, presidente; Ettore Margadonna, Piero Gadda Conti e Fernaldo Di Giammatteo, membri; Mario Verdone, segretario.
6 E contro i trentotto e i quaranta di Berlino e di Karlovy Vary nel 1957...
7 Perciò ci sembra discretamente sfasata la proposta del produttore W. Perlberg, delegato ufficiale U.S.A., di riconoscere alla Mostra il diritto di rifiutare qualsiasi film presentato dai diversi paesi nelle rispettive selezioni, ma non quello di invitarne uno fuori di esse; tanto più che lo stesso produttore confermava candidamente di aver «trovato piuttosto singolari alcune critiche dei giornali italiani», perché e essi accostano il soggetto unicamente dal punto di vista dell’arte»; dopo di che, pretesa per pretesa, il bravo americano osserva che «in questo caso diventano piuttosto pretenziosi», e, scambiando l’arte col mestiere, conclude: «Vorrei ricordare loro che l’arte dovrebbe essere giudicata sulla base di tre criteri: abilità, esperienza e originalità, non necessariamente in quest’ordine d’importanza».
8 Sarebbe poi l’opinione dichiarata all’Ansa dallo stesso direttore Ammannati: «In ogni caso l’esperienza di questo anno ritengo sia utile non solo per la Direzione della Mostra, ma anche per i produttori ai fini di una selezione che sia finalmente rispondente agli interessi dell’arte cinematografica e del cinema».
9 A convalida di quanto andiamo affermando, ecco alcuni rilievi. Circa le interferenze tra arte e nazionalità: la critica italiana si affrettò a stroncare, sotto ii profilo artistico, Samo ljudi e 0eil pour oeil?: subito irose voci si sono levate dalle stampe delle due espositrici ad accusare gli italiani che ce l’avevan contro di esse! Circa gli influssi politici, è opinione diffusa tra i critici che la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, caduta addosso alla abbondante ma niente affatto eccellente Zidra Ritenbergs, sia stata attribuita per un “complesso” della giuria verso l’U.R.S.S., di cui la stessa delegazione russa deve essere stata la prima ridere. Circa le manipolazioni di nazionalità, ecco i più riusciti esemplari di alta pasticceria che ci sono stati forniti: Un angel voló sobre Brooklyn: soggettista e regista: ungheresi; coproduzione italospagnuola; primo attore: un cane... di Grottaferrata; secondo attore: anglo-russo; terzo attore: spagnuolo: nazionalità: spagnuola. Amère victoire: dei due attori principali: il primo è inglese e il secondo tedesco; gli altri sono italiani, berberi, arabi, israeliani; regista e attrice: americani, parlato in inglese, didascalie in italiano; nazionalità: francese.
10 Art. 4. – «I film partecipanti, salvo particolari deroghe... dovranno: ... b) non essere stati proiettati in Europa, al di fuori del Paese di origine; c) non aver parteripato ad alcuna manifestazione cinematografica o carattere internazionale».
11 Cfr F. DI GIAMMATTEO - G. B. CAVALLARO: Un Leone d’oro, recensito a pag. 180 di questo quaderno.
12 Con un’impostazione di questo genere avremmo insignito Aparajito, al più al più, col Leone d’argento, perché, stando almeno alle impressioni di una prima visione, ci sembra che «la semplicità di espressione e la sincerità dell’ispirazione» riconosciute ad esso dalla Giuria, si accompagnino a tali carenze tecniche, rudimentalità di racconto e di mezzi espressivi da rendere illogico il suo confronto con opere del tutto diverse per complessità di costruzione e maturità di linguaggio. Sarebbe come mettere a confronto il Novellino con i Sepolcri, o, per restare in cinema, un disegno animato di Emile Cohl con quelli di W. Disney... ; e, con buona pace di Visconti, che l’anno passato non lo applicò a chi forse lo meritava, e che quest’anno se l’aspettava, il Leone d’oro non l’avremmo assegnato a nessuno.
13 Ci riferiamo, tanto per fare qualche esempio, alla propaganda di materiale filatelico nella hall del Palazzo, alle ancora eccentriche libertà balneari da parte del pubblico, specialmente pomeridiano, e soprattutto ad alcune rubriche, di scarsissimo buon gusto civile e di dubbia finezza morale, apparse su Cinemundus, «Bollettino quotidiano ufficiale della Mostra». Ci pare, infatti, che il sistematico insistere su faccende di corna e su rilievi anatomici, non indegno del Marc’Aurelio o del Travaso, non abbia nulla in comune con l’arte o la cultura, di cui, viceversa, raro è trovare un accenno in quel «Bollettino ufficiale».
14 Nello scompiglio ha influito direttamente io stesso Viaconti, dichiarando alla stampa: «Il film è nato da un’esigenza di romperla col neorealismo ed uscire una volta per tutte dai limiti e dalle strettezze che esso comportava. Mi sono voluto avviare per una strada diversa da quella battuta fin qui ed aprire una porta nuova nel muro del neorealismo, ormai esaurito da tempo»; «...Il realismo è morto con la Terra trema». Perciò si è e auspicato l’inizio di una nuova corrente cinematografica, che non sia più la realtà eccessivamente documentata, ma una realtà alla quale il regista, con la sua interpretazione, conferisca un significato poetico e una ricreazione del suo mondo morale».
Invece l’amena battuta sulla censura è merito di due tra gli inviati dei vari giornali marxisti, i quali, tutti intenti a scrutare le malefatte dell’arcigna matrona, si sono sentiti in diritto di fornirne altre non meno oggettive e spiritose di quella. Così, per esempio, per quello dell’Avanti! gli scorpioni sarebbero «insetti» (29 agosto 1957), il film di Miller si inizierebbe «in un villaggio inglese», e non irlandese, Brazzi vi perderebbe «un polsino» e non un gemello da polsino (30 agosto 1957); per quello dell’Unità, che però dimentica di dire ai suoi lettori che la santa (e non “beata”) venne assalita, sì, dal bruto, ma riuscì a sfuggirgli, pagando con la morte la sua resistenza. «...un giorno, come accadde alla beata Maria Goretti... Esther viene assalita e presa dal bruto» (30 agosto 1957); con questa obiettività di cultura l’onest’uomo può anche credere che nei cammelli la bile si trovi nella vescica e magari l’ammoniaca nel fegato (29 agosto 1957); per quello del Paese Sera, Honolulu si troverebbe e nelle Haiti (isole che sarà un po’ difficile trovare in un atlante geografico), onde per cui la povera Esther può pure subire «uno choch» (30 agosto 1957).
15 Pio XII, Discorsi sul film ideale, II, n. 75. Una nota gravemente offensiva alla religione l’ha fornita il cortometraggio cecosìovacco La creazione del mondo. Evidentemente agli atei d’oltrecortina ha fatto buon giuoco la poca vigilanza o la scarsa sensibilità religiosa delle commissioni di scelta.