NOTE
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1 Diamo, per ordine di nazione, l’elenco dei film proiettati alla Mostra, coi rispettivi registi. (I film preceduti da asterisco sono quelli fuori concorso. Nel testo i film vengono ricordati sempre col loro titolo originario): ARGENTINA: El guacho (Il bastardo), di L. Demare; * La Quintrala, di H. del Carril. AUSTRIA: Punktchen und Anton (Antonio e Virgoletta), di T. Engel; * Der unsterblicher Mozart (Mozart immortale), di H. Wanick. BRASILE: * Saci (Il diavoletto), di Nanni. BULGARIA: * Poème sur l’homme (Poema sull’uomo), di B. Charaliev. FRANCIA: Air de Paris (Aria di Parigi), di M. Carné: L’or de Pharaons (L’oro dei Faraoni), di M. de Gastyne; Touchez pas au grisbi (Il danaro non si tocca) di J. Becker. GERMANIA: Königliche Hoheit (Altezza reale), di H. Braun. GIAPPONE: Konjiki Yasha (Il demone dell’oro), di Koji Shima: Shichinin no samurai (I sette samurai), di Kurosawa Akira; Sansho Dayu (L’intendente Sansho), di Kenji Mizoguchi; Osaka no Yado (Albergo a Osaka), di Hainosuke Gosho. GRAN BRETAGNA: Father Brown (Il padre Brown), di R. Hamer; Giulietta e Romeo, di Castellani. INDIA: Surang (Esplosione), di V. Shantaram. lSRAELE: * The Golden key (La chiave d’oro), di Sascha Alexander. ITALIA: * Prima di sera, di P. Tellini; La romana, di L. Zampa; Senso, di L. Visconti; Sesto continente, di F. Quilici; La strada, di F. Fellini. IUGOSLAVIA: * Sinji Galeb (Il gabbiano azzurro). MESSICO: * Raices (Radici); La rebelión de los colgados (La ribellione degli impiccati), di A. Crevenna; El rio y la muerte (Il fiume della morte), di L. Buñuel; Robinson Crusoe, di Buñuel. SPAGNA: El beso de Judas (Il bacio di Giuda), di R. Gil: * Camelia, di R. Gavaldon; * Sierra maldita (La montagna maledetta), di A. del Amo. SVEZIA: Som i drömmar (Come nei sogni), di C. Gyllenberg. U.S.A.: The Caine mutiny (L’ammutinamento del Caine), di E. Dmytryk; Executive suite (La sete del potere), di R. Wise; On the waterfront (Fronte del porto), di E. Kazan; Rear window (La finestra sul cortile), di A. Hitchcock; Three coins in the fountain (Tre monete nella fontana), di J. Negulesco.
Inoltre, a un pubblico ristretto e invitato personalmente fu proiettato Martin Luther (U.S.A.: reg. Irving Pichel). Questo film di pregevole fattura ma storicamente e religiosamente tendenzioso, contenendo l’apologia dell’eresiarca e l’accusa contro Roma quale causa della separazione protestantica. Non ci consta che la stampa abbia rilevato l’ingiuria che questa proiezione, fatta in casa nostra, portava al cattolicismo e all’Italia sede del suo capo supremo.
I film della Rassegna retrospettiva del cinema muto tedesco furono (in ordine di data): De student von Prag (1913), di Stellan Rye, Carmen (1918); Die Puppe (1919) di E. Lubitsch; De müde Tod (1921), di Fritz Lang; De letze Man (1924), di F. W. Murnau; Orlacs Hände (1925), di R. Wiene; Berlin Sinfonie einer Grossladt (1927), di W. Ruttmann; Menschen om Sonntag (1930), di R. Siodmak e E. G. Ulmer.

2 La giuria ha assegnato: Il gran premio Leone d’oro di San Marco a Giulietta e Romeo «per l’eccellenza di una regia che ha saputo risolvere molteplici problemi di trasposizione particolarmente ardui, dominando un imponente complesso di elementi artistici e tecnici, in un perfetto esempio di collaborazione internazionale».
Quattro Leoni di San Marco a: On the waterfront «per la profonda indagine di una coscienza che si sveglia in un ambiente di brutali violenze, con istanti di eccezionale purezza drammatica, stupendamente interpretati da Marlon Brando e da Eva Maric Saint»; a Shichinin no samurai «per la maestria con la quale sono stati rievocati l’antico Giappone e le sue tradizioni in un ampio affresco animato da un gruppo di efficacissimi attori, fra i quali spicca Toshiro Mifune nel personaggio del falso samurai, e da una musica che diventa elemento costitutivo di tutta un’atmosfera»; a Sansho Dayu «per la nobiltà di un alto messaggio morale espresso con animo d’artista attraverso un dramma di generazioni in foschi tempi di ferocia e di schiavismo, con una particolare menzione per la fotografia»; a La strada «per l’interessante tentativo di un giovane regista, che è stato anche l’ideatore del suo film, con il quale ha confermato le sue doti di sensibilità e di indipendenza».
Coppa conte Volpi di Misurata per un’interpretazione maschile: a Jean Gabin «per le interpretazioni di Touchez pas au grisbi e per l’Air de Paris»; Coppa conte Volpi di Misurata per un’interpretazione femminile: non assegnata.
La giuria ha infine assegnato uno dei due premi a sua disposizione al complesso d’interpreti di Executive suite.

3 La giuria della XV Mostra Internazionale d’Arte cinematografica era composta dai signori: Almquist B. Idestan (Svezia), Chauvet Louis (Francia), Cuenca Carlo Fernàndez (Spagna), Gromo Mario (Italia), Manvell Roger (Gran Bretagna), Ojetti Pasquale, Regnoli Piero, Sacchi Filippo e Silone Ignazio (tutti e quattro dell’Italia). Anche Cannes vanta una giuria internazionale, ma solo di nome, perché l’ultima contava dodici francesi e non un solo membro straniero.

4 Fin dal secondo giorno i giornalisti presenti tentarono il computo dei fatti di sangue (squartamenti, omicidi, suicidi, affogamenti ecc.), delle bare e dei funerali riportati sullo schermo, e le cifre raggiunsero presto grandezze preoccupanti. Fortunatamente, dopo La rebelión de los colgados, a mezza Mostra il ritmo rallentò alquanto e alla fine potemmo respirare più spirabil aura. Ciò non ostante uno dei bollettini quotidiani d’informazione della Mostra doveva chiudere l’ultimo suo numero con questo trafiletto: «Ci hanno scritto alcuni colleghi lamentandosi che... non abbiamo aggiornato la statistica dei “fatti fuori” dai registi e soggettisti dei film in concorso nella XV Mostra. Eccoli accontentati: La rebelión de los colgados: morti 16 (la moglie del protagonista, il figlioletto, un guardiano, un fuggitivo, il padrone accecato, il fuggitivo suicida, il battelliere, i due “padroni”, la bella amica dei padroni, almeno sei – e siamo ottimisti – sorveglianti durante la rivolta); La romana: 4 (Astarita, Sonzogno, il gioielliere ucciso da Sonzogno, Mino); El guacho: 2 (il figlio malaticcio e la protagonista suicida); Sansho Dayu: 4 (Anju, la vecchia malata, il padre dei due giovani, la serva); Senso: 1 (il tenente Mahler, senza tener conto dei morti durante la battaglia); On the waterfront: 3 (Joey, Dugan, Charlie). Il che fa un totale di 30 unità. Sommando questa cifra alla precedente accertata si ottiene il risultato di 112 esseri umani eliminati, con fredda premeditazione, più un cane e un porcellino».

5 Questo film ha ottenuto anche il premio dell’O.C.I.C. con questa motivazione: «Le jury du prix OCIC (Office Catholique International du Cinéma) destiné au film qui par son inspiration et ses qualités contribue le plus au progès spirituel et au développement des valeurs humaines», a été attribué au film américain On the waterfront de Elia Kazan «qui souligne le rôle du christianisme dans le réveil d’une ame et la prise de conscience collective des devoin de justice et de charité». Le jury de l’OCIC signale également le film italien La strada de Federico Fellini e susceptible de faire découvrir au spectatcur attentif le sens chrétien de la destinée humaine».

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Articolo estratto dal volume IV del 1954 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Mostra o festival?

Per la quindicesima volta dal 1932, anno della sua prima edizione, la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dal 22 agosto al 7 settembre di quest’anno, ha convogliato da tutte le parti del mondo verso la Laguna migliaia di turisti, di studiosi e di celebrità e da tutte le parti del mondo vi ha fatto convergere la curiosità di milioni di persone; ed anche quest’anno, ai fortunati presenti, e più ancora ai sospirosi assenti, essa, più che una mostra d’arte, è apparsa uno spasso per nababbi, una manifestazione di lusso e di mondanità, uno sperpero di bellezze proiettate sullo schermo ed esposte in carne ed ossa nell’immensa e luminosissima platea, un’esposizione di quanto di più raffinato ed insolito può pagarsi il mondo dell’arte e del portafoglio.

Infatti, molti che in quei giorni sono stati a Venezia, e specialmente al Lido, hanno potuto assistere, sì, ai film programmati, e, se ne avevano modo e voglia, hanno potuto anche farne oggetto di studio, ma più che dalle ore passate avanti ai diversi schermi del Palazzo del Cinema, sono stati occupati dalle distrazioni che rendono quella di Venezia non molto dissimile dalle manifestazioni cinematografiche di Cannes, Locarno, Berlino e sorelle, le quali più borghesemente si chiamano e sono festivals, cioè periodi di divertimenti quasi carnevaleschi; dal canto loro: stampa, radio e televisione, servi devoti del pubblico medio e mediocre, hanno puntato penne, microfoni ed obiettivi sugli aspetti più festaioli e mondani della Mostra: il dondolare romantico delle gondole e lo sfrecciare dei motoscafi sulle acque morte dei canali e nel mare aperto, a servizio di cineasti e di turisti dai nomi esotici, gli eccentrici costumi di uomini e di donne in cappelloni di paglia, in casacca, in canottiera e in shorts a spasso in Piazza San Marco o in libertà sulle sdraie del Lido; grazie mature di dive al crepuscolo, pettegolezzi di attori e di registi di seconda serie, toilettes arditissime di signore e di stars messe in mostra nei vari cocktails, nella festa in costume e, specialmente, ogni sera prima dello spettacolo, in un incedere solenne di dame e di cavalieri, a piedi o su macchine mastodontiche, verso il Palazzo del cinema, tra due ali di spettatori sbalorditi e, qualche volta, al passaggio delle divissime, frenetici ed assalitori; giostra di ori e di gioielli, di braccia e di spalle, di smoking e di giacche bianche dei critici, di pellicce e di merletti spumati, di dalmatiche veneziane e di kimono giapponesi, sotto i fasci violenti dei proiettori della televisione e nella luce diffusa della sala grande; frotte di ragazzini lanciati all’assalto di autografi nelle halls degli alberghi, tra i casotti della spiaggia e nelle scalee del cinema, concertini e jazz strimpellanti sotto i chioschi dei caffè e nei giardini dei grandi alberghi, punteggiati di lampadine multicolori, fino alle quattro o alle cinque del mattino, accaparratori di biglietti che li offrivano ai ritardatari al modico prezzo di venticinque o di quarantamila lire per assistere alle serate di gran gala, ed infine: cartelloni pubblicitari, casotti di materiale propagandistico e il carosello di una casa cinematografica italiana con la loro aria di chiassosa fiera campionaria.

Ma proprio gli scrittori di cinema, che, forse senza volerlo, più influiscono a diffondere nel mondo questa sua variante fisionomica, sono i meno disposti ad ammettere che la Mostra veneziana sia un festival, loro che, se la seguono coscienziosa mente come la professione l’esige, vi devono sopportare una molto rude fatica. Quest’anno infatti si son dovuti sorbire, non conteggiando i sette documentari, tra pezzi in concorso e fuori concorso, ben trentotto film; quelli poi che, per un supplemento di cultura, non si sono lasciati sfuggire gli otto cimeli della Rassegna retrospettiva del cinema muto tedesco, ne hanno totalizzati quarantasei, alla media di tre al giorno per cinque ore quotidiane. Questo programma di lavoro, integrato dall’altro occorrente per buttare giù il servizio da inviare per telescrivente al quotidiano, per raccogliere la necessaria documentazione, per assistere alle quasi quotidiane conferenze stampa con o senza aperitivi, ed infine per stringere o rinnovare contatti personali e scambiare idee coi colleghi della critica e della stampa, con gli attori, i registi e i produttori cinematografici, ha finito per ridurre l’assistenza alla Mostra a un tour de force bello e buono.

Ora, a cose passate, non è escluso che qualcuno di loro si vanti di esservi stato accreditato, ma soltanto incompetenti ingenui possono credere che la loro sia stata un’esperienza ricca solo di buoni sapori, come capita ai bambini, i quali con l’acquolina in bocca pensano alle fabbriche di confetti o di cioccolata, non immaginando mai che gli adulti che vi lavorano, proprio per l’abbondanza di tante cose buone, provano fastidio e nausea. Bisognerebbe averli visti certi critici alla fine di alcuni spettacoli serali, iniziati verso le nove e mezzo e terminati verso le due di notte, quando la stanchezza fisica, acuita dallo sforzo di passare per ore intere con lo sguardo dalle immagini alle didascalie, sì da supplire in qualche modo all’intelligenza del dialogato svolto in lingue inaccessibili (giapponese, indiano, arabo ecc.), toccava i limiti della loro resistenza combattere con la noia e col sonno, e durarvi, per dovere di mestiere, anche quando, col favore delle tenebre, discretamente i due terzi del pubblico aveva tagliata la corda, e così perdere il conto dei samurai e delle geishe, nonché il filo delle concioni degli interminabili e disperanti film giapponesi e indiani...

Dati per un bilancio

Un pregio conservato dalla Mostra veneziana è il suo spiccato carattere internazionale. Tredici nazioni vi hanno inviato i campioni della loro produzione: Argentina, Austria, Bulgaria, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Italia, Messico, Spagna, Svezia, Stati Uniti d’America; inoltre, con film fuori concorso, erano presenti anche il Brasile, la Iugoslavia e Israele1. Di norma il numero dei film in concorso è stato proporzionale al volume della produzione internazionale annuale dei paesi di origine, sicché il maggior numero l’hanno segnato gli Stati Uniti d’America con cinque film (più un sesto fuori concorso), seguiti dall’Italia con quattro (più uno in coproduzione con la Gran Bretagna e uno fuori concorso), indi dal Giappone con tre (più uno fuori concorso); gli altri paesi ne hanno presentati uno o due, compresa tra essi l’India, che, come è noto, col Giappone segue a ruota gli Stati Uniti nella produzione annuale.

Notata l’assenza della Russia e dei suoi satelliti: notata e commentata; prima favorevolmente, perché ci ha evitato l’ingestione di polpettoni marxisti e di lirismi sui kolchozy e sui trattori, come pregusto della quale ci è bastato il truce e comiziesco Poème sur l’homme ammannitoci dalla Bulgaria; e poi sfavorevolmente per il modo con cui l’astensione è stata perfezionata. Infatti Ungheria, Cecosìovacchia e socie di sventura, in un primo tempo avevano accettato di parteciparvi, anzi avevano notificato i film e ne avevano inviata la pubblicità relativa, nonché i nomi delle delegazioni che li avrebbero accompagnati; ecco invece che, pochi giorni prima dell’apertura, tutte insieme annunciano il gran rifiuto pretestando ragioni tecniche, e la Russia attaccandosi all’articolo quarto del regolamento della Mostra, il quale, a suo parere, non le permetteva d’inviare tanti film quanti l’importanza quantitativa e qualitativa della sua produzione meritava; e non s’è ricordata, la smemorata, che lo stesso articolo quarto non le aveva impedito di prender parte all’ultimo festival di Cannes e che, d’altronde, era in potere della direzione della Mostra «di accettare in via eccezionale opere cinematografiche in soprannumero, che eccellano per particolari requisiti tecnici artistici». No: la terra promessa del proletariato non può permettersi cattive figure in concorrenza con gli odiati paesi capitalisti; preferisce ritirarsi, beninteso in omaggio alla democrazia da lei predicata e a quell’intesa tra i popoli che è sempre sulla bocca dei suoi tristi o stipendiati o soggiogati.

Ma in mancanza della Russia, a Venezia non sono stati del tutto assenti i russi nella persona dei comunisti nostrani, i quali, non potendo spalleggiare la produzione della loro scontrosa padrona, si sono dati, nella maniera discreta che il pubblico anodino permetteva loro, a valorizzare quel poco che hanno trovato di proprio, sia minimizzando i valori formali e contenutistici dei film che non erano in linea con l’estetica marxista, sia orchestrando la claque che doveva dimostrare un successo di pubblico al film bulgaro, il quale alla stessa estetica era devotamente ossequioso, sia partigianamente sostenendo Senso di Luchino Visconti e La romana di Luigi Zampa, da loro candidati al massimo premio della Mostra, ed infine, quando, contro tutte le loro speranze, detti film risultarono privati di ogni premio, subissando di fischi il premiato La strada di Fellini, il quale, secondo i loro canoni, sarebbe stato degno piuttosto di condanna, risolvendo con l’amore e non con l’odio il problema della miseria materiale e morale. E cosi hanno dato una prova di più di quanto umiliante cosa sia la politica più faziosa ed inumana eretta a canone per giudicare i valori morali ed artistici delle attività dell’uomo, da essa inteso solo come mezzo e strumento del prepotere dello Stato.

L’equivoco dell’arte

A vero dire però i fischi orchestrati al La strada non sono stati i soli che hanno accompagnato il verdetto della commissione giudicatrice, neutralizzati del resto da contrastanti battimani2. Faziosità politica? In parte sì. Campanilismi nazionalistici? Anche. Critica alle preferenze dovute alla composizione della giuria? Non si direbbe, perché tra le novità di questa decimaquinta edizione c’era una giuria di nome e di fatto internazionale, contando essa tra i componenti, oltre i cinque italiani, quattro tra i migliori tecnici cinematografici francesi, inglesi, spagnuoli e svedesi3. Tentativo di contentare in qualche maniera tutte le nazioni concorrenti? Anche questo non si esclude da chi ricorda le suscettibilità nazionalistiche urtate in altre mostre, che portarono alla secessione di Cannes, e da chi ha ancora nelle orecchie i clamori del pubblico parteggiante per Marlon Brando, ottimo interprete in On the waterfront, contro Jean Gabin, cui è toccato il premio come a migliore interprete per le sue prestazioni nei due film Touchez pas au grisbi e Air de Paris, nei quali, per la verità, l’ottimo attore non ha mostrato più di un decoroso mestiere; ma come si faceva a rimandare a mani vuote una nazione spavaldamente presentatasi con due firme come quelle di Jacques Beker e Marcel Camé, i quali poi alla prova hanno dato sì chiari segni di scadimento?

A nostro parere, fischi e battimani, a parte le prevedibili od ineliminabili divergenze di opinioni tra i critici e nel pubblico, specialmente quando nei primi e nel secondo i giudizi vengono turbati da elementi irrazionali, si spiegano con una contaminazione tra concetti artistici e commerciali avvenuta per forza di cose fin dalle origini della caratteristica manifestazione veneziana. Sorta prevalentemente come attività sul piano di pura arte a fianco della già preesistente Biennale, già nei primi anni di vita, sorpresa dal successo insperato dei primi tentativi, per assicurarsi maggiore affluenza di espositori e di pubblico, allargò i criteri di scelta e moltiplicò i premi; quando poi, col dopoguerra, cominciarono a fungare qua e là altri festivals mondiali, anch’essi per ovvie ragioni piuttosto sensibili ad interessi commerciali e generosi in premi, Venezia si trovò nell’occasione di far fronte alla loro concorrenza con le stesse armi pur di non farsi dei nemici, che sarebbero andati ad impinguare i quadri di concorrenti meno idealisti e più pratici. In questo stato di cose, qualora lo scarso livello artistico dell’insieme dei film presentati lo richiedesse, com’è possibile rimandare a mani vuote tutte o quasi le case di produzione concorrenti? Case, si noti, che corrono il rischio e le spese della Mostra veneziana non certo per i begli occhi del suo pubblico, quanto per i bei soldi di rientro che un premio veneziano rappresenta in termini pubblicitari. per un loro film; case infine che la prudenza commerciale non consiglia di scontentare, in fondo essendo esse quelle che, tagliando i rifornimenti ad una mostra e rifornendone altre, possono determinare a loro agio fallimenti e successi.

Queste considerazioni sono valide oltre che per un giudizio conclusivo della Mostra, anche e più per il funzionamento di una commissione nell’accettazione dei film in concorso. Quest’anno detta commissione, non sapremmo dire con quanta opportunità, è stata abolita, e il giudizio di accettazione è stato assunto ad personam dal direttore della Mostra. Ha egli avuto modo di esaminare effettivamente tutta la migliore produzione mondiale? Se sì: ha avuto sufficiente libertà di movimento tra gli scogli delle esigenze nazionalistiche o produttivistiche, o s’è dovuto accontentare di quanto gli è stato offerto, se non proprio imposto? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che la più parte dei film, a giudizio dei critici, non meritava un premio (sempre che ai premi della Mostra veneziana si voglia conservare un significato di eminenti valori artistici), e che una larga parte di essi non raggiungeva neanche il quota minimum per essere proiettati a tal pubblico e in tal sede.

Lasciando stare il già ricordato Poème sur l’homme, che, a parte alcune buone sequenze, non va oltre i valori di una concione comiziesca, ma l’austriaco Punktchen und Anton lo vogliamo proprio chiamare spettacolo d’arte? o non piuttosto un decente raccontino domenicale (con la sua brava morale: non si nega) offerto a un pubblico che lo accompagni sorbendo gelati e sgranocchiando salatini? E la commediola melodrammatica tedesca, degna senza dubbio come spettacolo, ma priva di profondi significati universali, che risponde al titolo di Königliche Hoheit, la vogliamo chiamare arte? E mettiamo sotto i segni del vero e del bello artistico l’ingenuo Surang, presentato dall’India, e quel pretenzioso Beso de Judas presentato dalla Spagna, in cui, oltre alle piissime intenzioni e al soggetto divino, nulla si salva, e che perciò, su piano d’arte, un pubblico coltivato, penosamente accetterebbe, per il divario enorme che si avverte tra tanta altezza di argomento e tanto inefficiente espressione? E lo svedese Som i Drömmar? La stampa si è divertita un mondo alle spalle dell’opera, e il pubblico lidense, che ha potuto vedere la faccia allucinata del giovane regista, ha compreso tante cose e ne ha riso di gusto: ma l’una e l’altro, sconcertatissimi, si sono chiesti quali titoli abbiano fatto varcare le soglie di una mostra d’arte ad uno spettacolo, se spettacolo è, fatto da alienati mentali per frenastenici lucidi. Nella produzione giapponese, poi, per altro di solito degna, e spesso valida per alti valori umani ed espressivi, non chiameremo d’arte il film Osaka no yado, curioso esempio di post-impressionismo decadente made in Japan, consistente in una diabolica interminabile serie di porte che si aprono e si chiudono, e di più; o meno pulite ragazze e tenutarie, che popolano un cosiddetto albergo di Osaka. E l’atteso La romana, che non ostante l’impegno del bravo Zampa e un certo suo poetico colore ambientale, e non ostante la presenza in sala della Gina Lollobrigida e la sua onnipresenza sullo schermo, s’è concluso con una delusione della critica e del pubblico? Ed a ragione, perché buoni pregi di ambientazione non riescono ad eliminare la grave mora di pesantezza di racconto, di situazioni pleonastiche e di un’indagine psicologica dei personaggi spesso solo approssimativa. E Senso? ricco senza dubbio di una cornice pittorica degna del migliore ottocento italiano, e di scene di guerra mirabili (non per nulla la regia è di Luchino Visconti); ma, ahimè, quanta insincerità di storia e di personaggi, e quale macchinosità di trama! E finalmente quel mirabolante Three coins in the fountain? Ce n’è voluta di audacia per presentarlo a chiusura di una mostra d’arte! Senza dubbio i produttori americani hanno scambiato il Lido di Venezia per un villaggio a tucul del Lualaba, critici e spettatori del Palazzo del cinema per un campionario di primitivi selezionati in aree depresse. Con un triplice intreccio di coppie avviate a un happy end a sorpresa, quei signori hanno congegnato un racconto in technicolor e cinemascope, supplendo alla vacuità della vicenda con un organetto di cartoline illustrate di Roma e di Venezia, falsate con un colore villano, senza un’ombra di pudore trasportando le Dolomiti alle porte di Roma e attribuendo al patriziato romano movenze ed ingenuità da arricchiti e, per soprannumero, alternando le suddette cartoline con interni girati in U.S.A., in cui le case patrizie della vecchia Roma appaiono piene zeppe di cianfrusaglie da rigattiere, in un ibrido di stili e di gusti immaginabili solo da un ubriaco, il tutto affogato in una luce piatta e livida. C’è da scommettere che le risate con cui il pubblico ha accolto quell’orrore, gli ingenui produttori le prenderanno per approvazioni, e si animeranno a bene sperare dell’esito commerciale della loro fatica; e non è detto che i fatti non saranno per dare loro ragione, a prova del basso livello di sensibilità artistica che una certa deteriore produzione cinematografica americana suppone e propaga nel pubblico di tutto il mondo mediante filmoni di cattivo gusto, sull’esempio del La tunica, a nostra umiliazione, uno dei più travolgenti successi commerciali del cinemascope.

Un discorso a parte va tenuto per la produzione messicana, presente con due film fuori concorso: Robinson Crusoe e Raices, non privi di vena poetica e di fluidità di racconto, ed anche con due film in concorso: El rio y la muerte e La rebelión de los colgados, i quali hanno battuto il primato mondiale del cattivo gusto. Tutti e due imperniati su trame da romanzo d’appendice, si salvano appena dal fallimento totale per qualche sequenza pregevole di documentazione folkloristica e per la sempre magica fotografia del Figueroa; ma per il resto... Il primo vuol dimostrare che bisogna affrontare la morte solo per cause degne, e che per un medico, migliore della vendetta uccidendo è la missione di prolungare la vita degli uomini; ma la tesi, del resto scoperta e troppo “predicata”, è dimostrata con un’inverosimile abbondanza di revolverate, di cadaveri, di casse da morto e di funerali; il secondo, che, come vedremo, è a sfondo storico sociale, passa dal funereo al sadico; l’orrenda vicenda è tanto ripiena d’indios flagellati, violentati, seviziati, impiccati, affogati ed uccisi da imbestiati imprenditori, che quando uno di essi, imbestiato. a sua volta, con un ramo spinoso si vendica trafiggendo gli occhi al suo tormentatore, una parte del pubblico – gentil sangue latino! – ha battuto a lungo le mani; ma lo stesso pubblico non ha resistito, e s’è messo a gridare indignato: Basta! basta! – quando, passando ogni limite di efferatezza, il regista ha mostrato un padrone tagliare le orecchie ad un bambino!4.

A Venezia però abbiamo visto anche opere non prive di pregi artigiani. Tali, per esempio, l’italiano Sesto continente e il francese l’Or des Pharaons, per il loro interesse documentario: il primo sulla fauna sottomarina e il secondo sulle scoperte archeologiche dell’Egitto, l’uno e l’altro impreziositi da prestigiosi colori; l’austriaco Der unsterblicher Mozart, felice antologia in musica e colore di tre melodrammi mozartiani; gli argentini El guacho e La Quintrala e lo spagnuolo Sierra maldita: tre drammoni, che per la loro drammaticità violenta e per un certo rilievo dei personaggi non mancheranno di trovare consensi in locali popolari, e finalmente i due americani a colori Rear window e The Caine mutiny, pregevoli per sicurezza di mestiere, perfezione tecnica e pertinenza d’interpreti propri del buon cinema americano. Ma tutti questi, ed altri pochi che ricorderemo quando il discorso cadrà su problemi contenutistici, non sollevano la decimaquinta mostra veneziana dall’infra mediocre livello artistico che l’ha contraddistinta, non sufficientemente compensato dai film premiati, nessuno dei quali forse raggiunge le soglie della grande Arte.

Questa nostra prima conclusione, se pone problemi sulla produzione mondiale e sull’organizzazione della Mostra, offre il destro a una precisazione su piano morale. Infatti, ogni volta che la critica o la censura intervengono a frenare o a punire gli scarti immorali del cinema, produttori e scrittori interessati non lasciano di ricorrere alla libertà appannaggio dell’arte, e non si accorgono, o non ne fanno mostra, di scoprire così o la loro malafede o la loro confusione di idee. Prescindendo infatti dalla questione di merito, chi, che sia un po’ addentro alla produzione cinematografica, non sa che dei duemila film annuali della produzione mondiale raramente avviene che i film artistici superino i dieci o i venti? e che i millenovecentonovanta restanti sono porcherie, orrori, miseriole, documento, divagazioni, spettacolo, aborti o tentativi d’arte, ma non Arte? La recente Mostra di Venezia conferma questa verità. Vi abbiamo avuto una prova palmare che il cinema può anche essere opera d’arte, ma che dal poterlo all’esserlo c’è di mezzo l’oceano; e che perciò soggettisti e sceneggiatori, fotografi e montatori, interpreti e registi, prima siano veramente artisti e poi invochino, se del caso, i diritti dell’arte; che se invece dimostrano coi fatti di essere non altro che industriali e commercianti, tecnici e mestieranti, siano assoggettati senza privilegi alle leggi con cui una società bene organizzata può regolare, per il bene comune, le loro attività professionali; che se poi mostreranno di essere volgari e maleducati corruttori, rispondano delle loro malefatte, e paghino come la comune dei mortali, e non credano che basti, per andare esenti dalle leggi di natura e civili, inforcare gli occhiali del critico, imbracciare il megafono di regista o traguardare il mondo dal mirino di una cinepresa.

Valori umani e sociali

Ma, grazie a Dio, non sono mancate a Venezia le belle giornate. Una è stata quella in cui ci potemmo godere il Giulietta e Romeo, di R. Castellani, Leon d’oro dell’anno. Che veramente l’abbia meritato in valore assoluto si può dubitare; ma il fatto è che il pubblico l’ha applaudito ripetutamente a scena aperta e lungamente alla fine, preso senza dubbio dall’umanità tutta particolare del dramma scespiriano, vissuta e resa non solo dalla partecipazione degli interpreti, vibranti di purissima ed intima amorosa passione, ma anche da tutto l’ambiente ricreato dalla finissima ed avvertita sensibilità artistica del regista. Le mura, le chiese, i vetusti palazzi della Verona quattrocentesca, armonia di colori e di vicende, composizioni pittoriche arieggianti Piero della Francesca o il Carpaccio, che fioriscono più per esigenza di verità poetica che per lusso di erudizione, architetture spoglie d’ogni cosa che non sia il dramma sofferto dei due sposi e delle loro famiglie in guerra, sereni squarci di pace e di silenzio e tenui armonie gregoriane, che accompagnano prima l’idillio e poi la morte dei protagonisti, trasvolano su ogni schema artefatto di teatro o di cinema, raggiungendo visioni di pura bellezza e di lirico afflato. Il pensiero è corso più volte all’Enrico V, di Olivier: ed opportunamente, perché comune ai due film è l’aderenza al soggetto scespiriano, reso in felice linguaggio filmico e con un uso significativo del colore.

Anche Father Brown ci procurò una buona serata. Finalmente: niente morti, niente bare, e niente funerali; ma l’humour sottile e benefico del Chesterton, portato sullo schermo dalla mimica tutta luci interne di Alee Guinness, sotto le vesti del celebre prete che è sempre alle prese con la polizia, e un po’ anche coi suoi superiori, per le sue dolci manie di detective dilettante, ma che, contrariamente agli intenti dei poliziotti, non cerca la refurtiva bensì l’anima dei ladri, scoperta dai suoi occhietti da miope come la margherita di cui parla Gesù, e solo sodisfatto quando, riportando alla vita divina un ladro internazionale ed aristocratico, può concludere in stile novecento una commoventissima parabola del figliuol prodigo.

Valori umani ed universali, uniti a eccellenti pregi d’interpretazione e di ripresa, ci hanno offerto i due Leoni d’argento giapponesi: Shichinin no samurai e Sansho Dayu. Peccato che la loro lunghezza eccessiva e il ritmo lentissimo della più parte delle sequenze, connaturali all’arte di quel popolo ma del tutto superiori alle forze di resistenza dello spettatore europeo, ne abbiano limitato di molto la fruizione. Qualche traccia degli stessi difetti e un certo qual ermetismo hanno inficiato un po’ anche La strada, di Fellini, terzo Leone d’argento della Mostra; ma la storia truce e patetica, inumana ed umanissima del bestiale Zampanò (Antony Quinn) resterà tra quelle che più hanno impressionato il pubblico, dopo aver immesso nel suo animo distratto, avvenimento, ahimè, piuttosto raro nella Mostra di Venezia, un seme di bontà. Lunga è la via in cui il giocoliere girovago trascina la sua esistenza monotona e brutale, esibendosi in esercizi di forza e in battute clownesche nelle fiere, nelle sagre, nelle aie e nei cortili, e tristissima è la vita della sua mite compagna Gelsomina, fino al giorno in cui «il matto» (Richard Basehart) le spiega, a suo modo, che in questo mondo tutto serve a qualche cosa: il più inutile sassolino come il firmamento stellato, anche se il servizio è noto solamente a Dio. Dopo, la vita di Gelsomina diventa una missione e Zampanò una conquista; la morte della donna, a compimento della sua vita travagliata, compie il miracolo. Domani Zampanò, non più bruto ma uomo, non più peccato ma figlio di Dio, piangerà; i suoi occhi lavati dalle lacrime si apriranno come quelli di un bambino sul mondo di bellezza, di grazia e di bontà già pervio agli occhi di Gelsomina; anch’egli saprà perché i grilli cantano e perché i fiori ingemmano la terra, anch’egli intenderà perché il vento soffi e perché le onde del mare si rincorrano, anch’egli godrà perché rilucono le stelle sulla volta del cielo e perché l’anima rabbrividisce sulle soglie del mistero. Messaggio di bontà e di umanità, che per due ore ha trasformato spettatori svagati in commossi contemplatori e li ha richiamati a ritrovare in se stessi quel mysterium absconditum che ha strappato i singhiozzi al girovago Zampanò.

Istanze sociali

Il giro panoramico che stiamo compiendo sulla recente Mostra veneziana resterebbe fortemente lacunoso se non richiamassimo l’attenzione del lettore sulle istanze sociali che insistentemente vi sono affiorate. Infatti, un buon terzo dei film proiettativi girano appunto sul problema del lavoro umano, della miseria e delle sue conseguenze. Ecco in Shichinin no samurai i medievali piantatori di riso giapponesi vessati dai briganti, e in Sansho Dayu gli schiavi, sempre giapponesi, venduti come cose e seviziati da padroni inumani; ecco, in tempi meno remoti, gli indios del Messico, trattati, se possibile, ancor peggio in La rebelión de los colgados. Nella storia recentissima si collocano gli operai bulgari del Poème sur l’homme, sfruttati nel lavoro e nella libertà dai «capitalisti»; e addirittura nei nostri giorni passano le miserie dei minatori indiani di Surang, in lotta con imprenditori più duri delle pietre che essi spezzano, e gli scaricatori del porto di New York, in On the waterfront, alle prese con una gang di sfruttatori e di assassini; infine, casistica più marginale, in Executive suite si pone il problema dei rapporti tra l’interesse del capitale e il miglioramento umano dell’azienda, e nei due giapponesi Osaka no yado e Konjiki Yasha quello più generale dei rapporti tra vizio e miseria, danaro e felicità.

Non nascondiamo che abbiamo provato un certo disagio nel vedere un ritorno tanto frequente di siffatti argomenti. Quale parte vi avevano un interesse umano e cristiano alle sofferenze di simili e di fratelli, e quanto era solo letteratura, compiacimento e ricerca di successo? E non si avvertiva anche una sottile ipocrisia in quel trattare la miseria su quegli schermi, avanti a quegli spettatori, in quella cornice di grandi alberghi e del Lido, da quei registi, attori e soggettisti pagati come sono pagati, e da quei produttori che maneggiano somme che una volta non avevano i principi e di cui oggi non dispongono i capi di Stato? Comunque fosse, abbiamo preferito una società che si poneva i grossi problemi dell’esistenza a quella che indugia, insensibile, avanti ad un mondo che trema dalle fondamenta, nella commediola sul gusto di Prima sera, o nella contemplazione compiaciuta delle volgari gesta di una civiltà in sfacelo, come avviene nel nostrano La romana, col suo mondo di prostitute, e, per la malavita parigina, nel desolato Touchez pas au grisbi, nonché nel crepuscolare Air de Paris, l’uno e l’altro, su piano di valori umani, appena sfiorati dalla presenza di tenui fili di amicizia, e neanche di buona lega. Ed abbiamo goduto quando, dalle soluzioni negative degli stessi problemi, abbiamo visto moltiplicarsi gli sforzi verso soluzioni umane e cristiane. Infatti, dopo il film bulgaro, che non si distacca dagli schemi marxisti di lotta di classe e di rivolta, e di due messicano e indiano, che, per quanto semplicisticamente, simpatizzano con quelli, si passa ad altri che si limitano a descrivere la miseria come terreno e causa di brutture morali (Osaka no yado), e finalmente ad altri che cercano soluzioni positive: il danaro non fa felici ma infelici (Konjiki Yasha); le classi umane non hanno interessi contrastanti ma complementari: il soldato difenda il contadino e il contadino sostenti il soldato: l’uno e l’altro lottino contro l’assalitore, ma sappiano che superiori alle opere della violenza sono le opere della pace (Shichinin no samurai); fine dell’azienda non è il dividendo degli azionisti ma il miglioramento umano della stessa, che tuteli insieme chi vi mette il capitale e chi vi spende il lavoro (Executive suite); l’impresa più gloriosa per un uomo non è la propria gloria, ma dare una dignità umana ai propri simili, ed onorato sia chi vi riesce col sacrificio di se stesso (Sansho Dayu). Siamo, come si vede, su di un piano di valori altissimi, ma esclusivamente naturali. Toccava a On the waterfront di portarli su livello cristiano, senza per questo scadere dal piano dell’arte a quello della predica, anzi tanto sollevandovisi da meritarsi il primo dei Leoni d’argento. Fanno da cupo sfondo alla vicenda i docks del porto di New York, dove migliaia di lavoratori sono angariati da pochi mascalzoni, che ne succhiano il sangue e li «fanno fuori» quando qualcuno si azzardi a ribellarsi alle loro imposizioni o tenti infrangere l’omertà con cui i gangsters si difendono. Su questo sfondo campeggia un sacerdote, una volta tanto nel cinema americano non boxeur né cantante, ma semplicemente e solo sacerdote, il quale sta molto in chiesa ma ne estende le mura fino a comprendervi i docks malfamati, che s’interessa alle anime prima di tutto, ma anche ai problemi della giustizia terrena. Egli scende in lizza coi perseguitati e dice loro: — Difendetevi! Ma quando il perseguitato, trasportato dall’ira vendicativa, vuole a sua volta diventare ingiusto persecutore, gli toglie di mano l’arma omicida, che nulla risolve, e gliene consegna una molto più efficace: quella della giustizia nella legge; un sacerdote che non fa il comiziante; che vede nei suoi parrocchiani non “compagni”, ma membra di Gesù Cristo, e li difende nelle loro angustie, e piange sulla loro morte vedendo, parlando e difendendo Gesù. Quando Dugan, l’operaio che su suo consiglio aveva tentato di denunciare le ingiustizie comuni, muore schiacciato da un carico rovesciatogli addosso, dal fondo della stiva dove il cadavere giace, agli scaricatori e ai loro aguzzini, il padre Berry parla come solo deve parlare un sacerdote di Cristo: «Voi credete che Gesù sia stato crocifisso solo sul Calvario? Disingannatevi! Uccidere Joey per non farlo parlare è una crocifissione! Far cadere un carico su Dugan perché domani avrebbe vuotato il sacco è una crocifissione! E ogni volta che i prepotenti fanno del male a chi vuole aiutare i suoi fratelli è una crocifissione! E quelli che stanno a guardare, e non parlano quando sono interrogati, sono colpevoli come il soldato che piantò la lancia nel costato di Gesù per vedere se era morto!».

Ad un gangster che gli intima di tornarsene in chiesa il padre Barry ribatte: «Questa ora è la mia chiesa. Se credete che qui non sia presente Gesù Cristo vi sbagliate! Ogni mattina, quando il capogruppo fa l’appello, Gesù è lì in mezzo a voi, e vede perché alcuni sono presi e altri scartati. Vede chi è disperato perché gli scade l’affitto o perché non può dare da mangiare ai figli, e vede chi si deve vendere l’anima per un giorno di paga. E credete che non veda quelli che incassano i soldi senza aver mai lavorato? E credete che lui non veda quelli che hanno vestiti da cento dollari, e anelli alle dita, fatti coi soldi che ogni giorno rubano a voi? E credete che proprio lui, che non ebbe paura d’affrontare il Calvario, possa giustificarvi?». Un mascalzone gli interrompe la predica ferendolo alla fronte con una scatola, e il padre Barry continua imperterrito: «E sapete perché succede questo? Per lo sporco dollaro! Perché in molti l’amore del denaro è più forte che l’amore per il prossimo! Perché molti dimenticano che siamo fratelli in Cristo! Ma Cristo, ricordatelo, è sempre con voi! Cristo è all’appello, nella stiva, nella sezione, ed ora è qui accanto a Dugan ed è vicino a voi tutti! Perciò quello che hanno fatto a Joey e a Dugan (indicando ad uno ad uno gli scaricatori) è fatto a te, a te, a te... a tutti voi. E solo voi, con l’aiuto di Dio, potrete confonderli una volta per sempre!».

Vicino a questo prete, Terry Malloy (Marlon Brando), il protagonista, sente prima svegliarsi una coscienza umana e poi una coscienza cristiana; sotto i suoi occhi fiorisce l’amore di due fidanzati e la loro fiducia nella vita; solo la sua parola spinge lo scaricatore, già deluso, a tentare l’estremo rischio e, sfinito e sanguinante, gli dà la forza di riprendere il suo cammino per guidare al lavoro nella giustizia i suoi fratelli riscattati dal suo sacrificio. Ma intanto, torniamo a ripetere, il film non è solo un racconto edificante, ma anche una degna opera d’arte cinematografica. La concretezza umana: e psicologica dei suoi personaggi, il realismo in cui sono ambientati, felice sintesi di oggettività documentaria e di sofferta vena poetica, la mancanza di qualunque rettorica anche quanto la vicenda la rendeva quasi inevitabile, pagine di alto lirismo, quali, per esempio, l’incontro di Terry e di Edie al caffè e quella della grue che solleva il prete, solo col cadavere dell’ucciso, sotto gli sguardi dei gangsters e degli operai, e il ritmo narrativo stringatissimo ne fanno, è stato detto, uno degli esempi più riusciti di neorealismo americano. È vero: se i migliori film del neorealismo italiano, poetica dell’uomo reale, fratello coi fratelli e figlio di Dio, hanno portato per il mondo un messaggio di bontà, il quale non solo non disconosce Cristo, ma si rifà necessariamente a lui ed in lui trova la sua validità totale, questo film americano s’inserisce degnamente nella loro scia di arte e di missione spirituale)5.

Conclusioni

Un esame dei film premiati, rapportandone il contenuto all’accoglienza riservata loro dal pubblico veneziano, sia quello stilé; della grande sala, sia quello normale del cinema all’aperto, sia quello operaio di Mestre, riserva per noi cattolici ed in genere per gli artisti più onesti una fondamentale sodisfazione. Infatti abbiamo avuto modo di controllare che il pubblico abbocca, se proprio ve l’attirano, il volgare e l’immorale, ma che riserva i suoi applausi più sinceri agli artisti che sanno contare sui suoi sentimenti di umanità e di moralità cristiana; che, deviato dalla pubblicità, può far ressa avanti a programmi di cattivo gusto, ma ne torna deluso, mentre ancora gusta sodisfatto lo spettacolo di arte; ed abbiamo visto che arte e morale, arte e religione non si escludono: anzi si richiamano a vicenda. I migliori film premiati sono quelli che più eccellono per doti di fattura ed insieme che più rilievo dànno ai massimi valori umani e cristiani: l’amore, la fraternità, la coscienza, il sacrificio, il sacerdozio, Dio. Perciò, non ostante il grigiore dell’insieme, mentre le luci si spengono sui suoi schermi, lasciamo la Mostra veneziana con una grande speranza nel cuore: che diminuiscano nel mondo del cinema gli affaristi e gli arrivisti senza arte e senza coscienza e vi crescano gli uomini docili discepoli dell’Arte e di Dio, sicché, più umanizzata e più divinizzata la produzione mondiale, l’annuale competizione veneziana torni ad essere una festa del buon gusto, e dia alla società umana quell’apporto di grazia che il cinema può dare per l’avvento di un mondo migliore.

1 Diamo, per ordine di nazione, l’elenco dei film proiettati alla Mostra, coi rispettivi registi. (I film preceduti da asterisco sono quelli fuori concorso. Nel testo i film vengono ricordati sempre col loro titolo originario): ARGENTINA: El guacho (Il bastardo), di L. Demare; * La Quintrala, di H. del Carril. AUSTRIA: Punktchen und Anton (Antonio e Virgoletta), di T. Engel; * Der unsterblicher Mozart (Mozart immortale), di H. Wanick. BRASILE: * Saci (Il diavoletto), di Nanni. BULGARIA: * Poème sur l’homme (Poema sull’uomo), di B. Charaliev. FRANCIA: Air de Paris (Aria di Parigi), di M. Carné: L’or de Pharaons (L’oro dei Faraoni), di M. de Gastyne; Touchez pas au grisbi (Il danaro non si tocca) di J. Becker. GERMANIA: Königliche Hoheit (Altezza reale), di H. Braun. GIAPPONE: Konjiki Yasha (Il demone dell’oro), di Koji Shima: Shichinin no samurai (I sette samurai), di Kurosawa Akira; Sansho Dayu (L’intendente Sansho), di Kenji Mizoguchi; Osaka no Yado (Albergo a Osaka), di Hainosuke Gosho. GRAN BRETAGNA: Father Brown (Il padre Brown), di R. Hamer; Giulietta e Romeo, di Castellani. INDIA: Surang (Esplosione), di V. Shantaram. lSRAELE: * The Golden key (La chiave d’oro), di Sascha Alexander. ITALIA: * Prima di sera, di P. Tellini; La romana, di L. Zampa; Senso, di L. Visconti; Sesto continente, di F. Quilici; La strada, di F. Fellini. IUGOSLAVIA: * Sinji Galeb (Il gabbiano azzurro). MESSICO: * Raices (Radici); La rebelión de los colgados (La ribellione degli impiccati), di A. Crevenna; El rio y la muerte (Il fiume della morte), di L. Buñuel; Robinson Crusoe, di Buñuel. SPAGNA: El beso de Judas (Il bacio di Giuda), di R. Gil: * Camelia, di R. Gavaldon; * Sierra maldita (La montagna maledetta), di A. del Amo. SVEZIA: Som i drömmar (Come nei sogni), di C. Gyllenberg. U.S.A.: The Caine mutiny (L’ammutinamento del Caine), di E. Dmytryk; Executive suite (La sete del potere), di R. Wise; On the waterfront (Fronte del porto), di E. Kazan; Rear window (La finestra sul cortile), di A. Hitchcock; Three coins in the fountain (Tre monete nella fontana), di J. Negulesco.
Inoltre, a un pubblico ristretto e invitato personalmente fu proiettato Martin Luther (U.S.A.: reg. Irving Pichel). Questo film di pregevole fattura ma storicamente e religiosamente tendenzioso, contenendo l’apologia dell’eresiarca e l’accusa contro Roma quale causa della separazione protestantica. Non ci consta che la stampa abbia rilevato l’ingiuria che questa proiezione, fatta in casa nostra, portava al cattolicismo e all’Italia sede del suo capo supremo.
I film della Rassegna retrospettiva del cinema muto tedesco furono (in ordine di data): De student von Prag (1913), di Stellan Rye, Carmen (1918); Die Puppe (1919) di E. Lubitsch; De müde Tod (1921), di Fritz Lang; De letze Man (1924), di F. W. Murnau; Orlacs Hände (1925), di R. Wiene; Berlin Sinfonie einer Grossladt (1927), di W. Ruttmann; Menschen om Sonntag (1930), di R. Siodmak e E. G. Ulmer.

2 La giuria ha assegnato: Il gran premio Leone d’oro di San Marco a Giulietta e Romeo «per l’eccellenza di una regia che ha saputo risolvere molteplici problemi di trasposizione particolarmente ardui, dominando un imponente complesso di elementi artistici e tecnici, in un perfetto esempio di collaborazione internazionale».
Quattro Leoni di San Marco a: On the waterfront «per la profonda indagine di una coscienza che si sveglia in un ambiente di brutali violenze, con istanti di eccezionale purezza drammatica, stupendamente interpretati da Marlon Brando e da Eva Maric Saint»; a Shichinin no samurai «per la maestria con la quale sono stati rievocati l’antico Giappone e le sue tradizioni in un ampio affresco animato da un gruppo di efficacissimi attori, fra i quali spicca Toshiro Mifune nel personaggio del falso samurai, e da una musica che diventa elemento costitutivo di tutta un’atmosfera»; a Sansho Dayu «per la nobiltà di un alto messaggio morale espresso con animo d’artista attraverso un dramma di generazioni in foschi tempi di ferocia e di schiavismo, con una particolare menzione per la fotografia»; a La strada «per l’interessante tentativo di un giovane regista, che è stato anche l’ideatore del suo film, con il quale ha confermato le sue doti di sensibilità e di indipendenza».
Coppa conte Volpi di Misurata per un’interpretazione maschile: a Jean Gabin «per le interpretazioni di Touchez pas au grisbi e per l’Air de Paris»; Coppa conte Volpi di Misurata per un’interpretazione femminile: non assegnata.
La giuria ha infine assegnato uno dei due premi a sua disposizione al complesso d’interpreti di Executive suite.

3 La giuria della XV Mostra Internazionale d’Arte cinematografica era composta dai signori: Almquist B. Idestan (Svezia), Chauvet Louis (Francia), Cuenca Carlo Fernàndez (Spagna), Gromo Mario (Italia), Manvell Roger (Gran Bretagna), Ojetti Pasquale, Regnoli Piero, Sacchi Filippo e Silone Ignazio (tutti e quattro dell’Italia). Anche Cannes vanta una giuria internazionale, ma solo di nome, perché l’ultima contava dodici francesi e non un solo membro straniero.

4 Fin dal secondo giorno i giornalisti presenti tentarono il computo dei fatti di sangue (squartamenti, omicidi, suicidi, affogamenti ecc.), delle bare e dei funerali riportati sullo schermo, e le cifre raggiunsero presto grandezze preoccupanti. Fortunatamente, dopo La rebelión de los colgados, a mezza Mostra il ritmo rallentò alquanto e alla fine potemmo respirare più spirabil aura. Ciò non ostante uno dei bollettini quotidiani d’informazione della Mostra doveva chiudere l’ultimo suo numero con questo trafiletto: «Ci hanno scritto alcuni colleghi lamentandosi che... non abbiamo aggiornato la statistica dei “fatti fuori” dai registi e soggettisti dei film in concorso nella XV Mostra. Eccoli accontentati: La rebelión de los colgados: morti 16 (la moglie del protagonista, il figlioletto, un guardiano, un fuggitivo, il padrone accecato, il fuggitivo suicida, il battelliere, i due “padroni”, la bella amica dei padroni, almeno sei – e siamo ottimisti – sorveglianti durante la rivolta); La romana: 4 (Astarita, Sonzogno, il gioielliere ucciso da Sonzogno, Mino); El guacho: 2 (il figlio malaticcio e la protagonista suicida); Sansho Dayu: 4 (Anju, la vecchia malata, il padre dei due giovani, la serva); Senso: 1 (il tenente Mahler, senza tener conto dei morti durante la battaglia); On the waterfront: 3 (Joey, Dugan, Charlie). Il che fa un totale di 30 unità. Sommando questa cifra alla precedente accertata si ottiene il risultato di 112 esseri umani eliminati, con fredda premeditazione, più un cane e un porcellino».

5 Questo film ha ottenuto anche il premio dell’O.C.I.C. con questa motivazione: «Le jury du prix OCIC (Office Catholique International du Cinéma) destiné au film qui par son inspiration et ses qualités contribue le plus au progès spirituel et au développement des valeurs humaines», a été attribué au film américain On the waterfront de Elia Kazan «qui souligne le rôle du christianisme dans le réveil d’une ame et la prise de conscience collective des devoin de justice et de charité». Le jury de l’OCIC signale également le film italien La strada de Federico Fellini e susceptible de faire découvrir au spectatcur attentif le sens chrétien de la destinée humaine».

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2528, vol. IV (1955), pp. 148-162
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151