NOTE
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1 Come al solito diamo, per ordine alfabetico di nazione, l’elenco dei film in concono. Quelli in formati maggiori del normale (cinemascope, panoramici ecc.) sono seguiti da un asterisco; quelli in colore dal segno #. 1) ARGENTINA: La Tierra del Fuego se apaga, di E. Fernández. – 2) BRASILE: Maos sangrentas, di S. H. Christensen. – 3) BULGARIA: Un uomo decide, di D. Dakowsky. – 4) CECOSLOVACCHIA: Z meho Zivota # (Nella mia vita), di V. Kriska. - 5) DANIMARCA: Ordtet (La parola), di C. Th. Dreyer. – 6) FRANCIA: Chiens perdus sans collier, di J. Delannoy; Les héros sont fatigués, di Y. Ciampi; Mauvaises rencontres, di A. Astruc. – 7) GERMANIA: Der Teufels Generai (Il generale del diavolo), di H. Käutner. – 8) GIAPPONE: Shuzenji Monogatari # (La maschera e il destino), di N. Nakamura; Yang-Kwei-Fei #, di K. Mizoguchi. - 9) GRECIA: La falsa sterlina, di G. Tzavellas. – 10) INDIA: Dance of Shiwa # (La danza di Shiwa), di V. Shantaram. – 11) INGHILTERRA: Doctor at Sea * # (Un dottore in alto mare), di R. Thomas; John and Julie #, di W. Fairchild; The deep blue Sea * # (Il profondo mare azzurro), di A. Litvak. – 12) ITALIA: Le amiche, di M. Antonioni; Amici per la pelle, di Fr. Rossi; Il bidone, di F. Fellini; Gli sbandati, di Fr. Maselli. – 13) lUGOSLAVIA: Trenutki adlocitve (Attimi di decisione), di Fr. Cap. – 14) MESSICO: Después de la tormenta (L’isola dei lupa), di R. Gavaldón. - 15) OLANDA: Ciske de rat (Faccia di topo), di W. Staudte. – 16) POLONIA: Les hommes de la Croix bleu, di A. Munk. – 17) U.R.S.S.: Boris Godunov #, di V. Stroeva; Verso la nuova sponda #, di L. Lucov; Poprigunia (La cicala), di S. Samsonov. - 18) U.S.A.: The big Knife (Il grande coltello), di R. Aldridge; To Catch a Thief * # (Caccia al ladro), di A. Hitchcook; Interrupted Melody * # (Melodia interrotta), di Bernhardt; The Kentuckian * # (L’uomo del Kentucky), di B. Lancaster.

Secondo l’uso sono stati proiettati anche molti documentari e, in sedute pubbliche o private, alcuni film fuori concorso. Diamo l’elenco di questi ultimi in ordine alfabetico di nazione: 1) FRANCIA: Huisclos. - 2) GERMANIA: Hotel Adlon, di von Baky. – 3) ITALIA: Frou Frou * #, di A. Genina; Il padrone sono me, di Fr. Brusati. – IUGOSLAVIA: La fanciulla e la quercia. - 5) SPAGNA: Crimen imposible, di C. Ardavin; Marcelino, pan y vino, di L. Vajda. – 6) U.S.A.: Lovers and Lollipops (Amore e caramelle), di M. Engel – R. Orkin; The naked Dawn # (Alba nuda), di C. G. Ulmer. Inoltre il Giappone, in una mostra personale di tre registi, ha presentato: Nijushi No Hitomi (Ventiquattro occhi), di K. Kinoshita; Gan (L’anitra selvatica), di Mori; Takekurabe (Adolescenza), di H. Gosho; e gli Stati Uniti hanno presentato, in sedici tra corti e lungo metraggi, distribuiti in sei programmi, una retrospettiva del cinema americano, dalle primi origini all’anno 1921.

2 La sera del 10 settembre, il dott. Ottavio Croze, delegato generale, ha letto il seguente comunicato: «La giuria della 16ª Mostra internazionale d’arte cinematografica, composta dai signori Antonin M. Brousil (Cecosìovacchia), Jacques Doniol-Valcroze (Francia), Arthur Knight (U.S.A.), Roeer Manwell (Inghilterra), Piero Gadda Conti, Mario Gromo (presidente), Emilio Lonero, Domenico Meccoli, Carlo Ludovico Ragghianti (tutti italiani), ha deciso di assegnare i premi come segue: Gran Premio Leone di San Marco in oro: all’opera e alla vita d’artista di Cart Theodor Dreyer e per Ordet (Danimarca); Premio Leone di San Marco in argento a La cicala, di Samsonov (U.R.S.S.); secondo Leone di San Marco in argento a The Big Knife (“Il grande coltello”), di Robert Aldridge (U.S.A.); terzo Leone di San Marco in argento a Le amiche, di Michelangelo Antonioni (Italia); quarto Leone di San Marco in argento a Ciske de Rat, di Wolfang Staudte (Olanda). Coppa conte Volpi di Misurata per la migliore interpretazione maschile: ex aequo a Kennet More per Il profondo mare azzurro, e Kurt Jurgens per Gli eroi sono stanchi (Francia) e Il generale del diavolo (Germania). Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile: non assegnata. Il Premio “Pasinetti” dei giornalisti è stato assegnato a La cicala».

3 Con infinita pena abbiamo notato quest’assurdo inconveniente, oltre che durante la grande Mostra, frequentissimamente durante le due mostre minori: del film documentario e del film per ragazzi. Queste si tenevano negli stessi giorni e, almeno nella prima parte, in orari non differenziati, sicché chi si recava al Palazzo del Cinema non sapeva se avrebbe trovato un film della prima categoria o della seconda. Abbiamo visto intere colonie e collegi di bambini e di bambine, nonché di adolescenti, assistere a documentari astratti o di alto interesse scientifico e in lingua straniera, con quanta loro noia si immagini; od altri parzialmente sconvenienti, come l’americano Goya e il francese Zola, o del tutto ignobili, come l’americano Mambo Madness, sconveniente anche per adulti, in ogni caso molto più volgarmente suggestivo che non fosse l’austriaco Omaru, opportunamente proiettato, questo, a soli adulti. Evidentemente la Direzione della Mostra non ha pensato che concedere biglietti di favore a colonie e a collegi può essere una cortesia, ma anche un pericolo, se chi li dà non tiene conto quali siano e che cosa contengano i film che si proiettano...: e questo proprio durante un festival del cinema per ragazzi!

4 Ci riferiamo alle esagerazioni della moda femminile che, specialmente negli spettacoli pomeridiani, supera il già troppo che osa la sera sotto l’etichetta dell’obbligatorio abito da sera: attricette in cerca di scritture, ragazze e adulte italiane e straniere, più o meno esistenzialiste, circolare ed esibirsi, per le vie, in atrio e in sala, in poco più che costume da bagno...

5 Né vale osservare che il fatto narrato nel film non è inventato, ricostruendo esso quanto di fatto avvenne nel 1952 nel penitenziario, ora chiuso, dell’Isola Anchieta, in Brasile, dove una sanguinosa evasione in massa dei detenuti dette origine ad una caccia all’uomo, che si concluse con l’uccisione di una cinquantina di prigionieri. A Venezia, “documentari” di questa fatta vanno proiettati in saletta riservata, come giustamente è stato fatto per alcuni documentari chirurgici, molto meno volgarmente suggestivi di questo.

6 Il soggetto del film preso dal romanzo di Vilis LACIS: K novomu beregu (Verso una nuova riva). Per le falsità contenute in questo «premio Stalin 1952» cfr Realismo socialista in un romanzo sovietico sulla Lettonia, in Civ. Catt. 1953, II, 636-649.

7 Cfr Panoramica su Cannes nel sessantesimo del cinema, in Civ. Catt. 1955, III, 62.

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Articolo estratto dal volume IV del 1955 pubblicato su Google Libri.

Il testo è stato corretto dai refusi di stampa e formattato in modo uniforme con gli altri documenti dell’archivio.

I riferimenti ai documenti del magistero pontificio sono stati resi interattivi e portano al sito del progetto “Chiesa e Comunicazione”, la biblioteca digitale online che prosegue l’attività iniziata da p. Baragli con le opere Cinema cattolico: documenti della Santa Sede sul cinema e Comunicazione Comunione e Chiesa.

ARTICOLO SU

Due equivoci

Siamo fermamente persuasi che l’annuale Mostra d’arte cinematografica di Venezia possa e debba contribuire molto più di quanto non faccia ad innalzare il livello artistico, culturale e morale della produzione cinematografica mondiale; perciò, prima di riferire sull’andamento della sua decimasesta edizione, svoltasi dal 25 agosto al 10 settembre di quest’anno 1955, non ci lasciamo sfuggire l’occasione di dirne il male che dobbiamo, rilevando due equivoci che ne viziano l’organizzazione e ne compromettono il rendimento; e sono: primo, che non appare chiaro se a Venezia s’intenda fare una mostra di opere d’arte o non piuttosto un’esposizione-campionario di quanto nel mondo del cinema si produce, ottimo, mediocre o volgare che sia; secondo: se i direttamente interessati ed invitati ad esaminare le opere esposte siano i competenti di cinema o anche e solo il pubblico qualunque. Questi due equivoci, quest’anno, forse più che mai in passato, sono stati avvertiti dalla critica per gli insopportabili inconvenienti cui hanno dato luogo, ponendo urgente ed impreteribile la necessità di una chiarificazione.

Per cominciare dal primo, è evidente che se il criterio per ammettere i film non è netto e preciso, paradossale sarà l’impresa affidata agli esperti incaricati di accettarli o di sceglierli in concorso, e assurda quella della giuria incaricata di giudicarli e premiarli; sarebbe come allineare utilitarie automobili con non economiche tele di artisti, per il fatto che le une e le altre sono verniciate, e dividere premi e medaglie tra il prezioso Elliot, il popolaresco Ponson du Terrai! e l’infantile versivendolo del Corriere dei piccoli, perché tutti e tre espositori di carta stampata. Si percorrano i titoli in programma di questa decimasesta Mostra1 e quelli che tra di essi sono usciti premiati2 e poi si giudichi se la nostra esemplificazione sia fuori posto.

Una norma, a dire il vero, c’è: l’articolo secondo del regolamento dispone che «le opere che ciascuna nazione potrà notificare dovranno raggiungere un elevato livello artistico, spettacolare e tecnico tale da contribuire al progresso della cinematografia». Ma come si osserva? Quali mai pregi gli esperti hanno trovano nei notificati, e purtroppo accettati, La Tierra del Fuego se apaga, Maos sangrentas, Un uomo decide, Doctor at Sea, Attimi di decisione, Después de la tormenta e Les hommes de la Croix bleu, nonché nell’invitato, e purtroppo ottenuto, Mauvaises rencontres? Quali contributi al progresso tecnico della cinematografia davano speranza di fornire i, peraltro pretenziosi, due coloratissimi film giapponesi Shuzenji Monogatari e Yang-Kwei-Fei, e i due pacchiani To Catch a Thief e The Kentuckian della selezione americana? Quale significato onorifico resta al leone d’oro assegnato all’eccellente Ordet, quando un mediocre Ciske de Rat riesce a portarsi a casa un leone d’argento?

Su queste premesse non è da meravigliarsi se con l’eterogeneità della merce vada di pari passo l’eterogeneità del pubblico. Di solito altra è la gente che frequenta le mostre d’arte o le manifestazioni culturali e altra corre a chiedere facili emozioni alle lacrime della Sepolta viva o ai corposi argomenti della donna cannone; ma a Venezia le cose si semplificano: colti e analfabeti, critici e profani, gentildonne e cameriere, affaristi incalliti e adolescenti febbricosi, magistrati e turbolenti ragazzini, tutti senza distinzione, purché provvisti di biglietto, hanno diritto di assistere agli stessi programmi, col risultato di annoiarsi e divertirsi a turno, dato che, se non sei profeta, fino a spettacolo molto avanzato non sai se ti verrà in sorte un film di contemplazione estetica o di divertimento popolare. Risultato: il tutto da ridere o tutto da piangere, qualche volta, prescindendo da quanto avviene sullo schermo, te lo dà il pubblico. Quest’anno, per esempio, abbiamo visto elegantissime gentildonne scambiare Ordet per una farsa, commentarlo a risatelle, e poi, trovando ingiuriosa per la loro eterna beltà la rappresentazione, sia pure artistica, di morti e di funerali, lasciare per protesta la sala nel bel mezzo della proiezione; placidi pensionati durante i film “psicologici” scambiarsi ad alta voce i rispettivi punti di vista sul bilancio domestico, si pensi con quale sollievo dell’ingenuo novellino inviato speciale, preoccupato di non farsi sfuggire i punti nevralgici della trama; soldati e cameriere in libertà, durante film musicali come Boris Godunov e Nella mia vita, passare il tempo sgranocchiando caramelle e appallottolando cellophane, e alla fine darsi per vinti abbandonando in massa la sala, con troppo a lungo atteso sollievo di spettatori viciniori, che la musica la gustavano; negli spettacoli pomeridiani ragazzini rincorrersi tra le file di poltrone, quando non acclamavano ironicamente con ritmici battimani le complicazioni psicanalitiche che interessavano i grandi; infine, un bel giorno, anche questa volta nel pomeriggio, tutto un pubblico, prima divertito, poi annoiato, infine spazientito, protestare in coro e gridare, ahimè invano, che s’interrompesse la proiezione durata un’ora, di un documentario d’avanguardia (per la storia: 8 X 8: La partita a scacchi, di Hans Richter), buono forse per dieci snob del cinema, certo per un manicomio, ma supplizio per un pubblico di bagnanti passato dalla spiaggia in sala, desideroso di divertirsi e, possibilmente, di capire qualche cosa; infine, durante tutto il festival, ragazzi e ragazze onesti, bambini ingenui, ammessi senza difesa a spettacoli qualche volta inadatti agli stessi adulti, assistere a scene e a sequenze fatte apposta per creare in loro traumi psichici e morali forse irreparabili...3.

Regolamento e censura

L’inconveniente più grave di questi due equivoci si è avvertito quest’anno nelle impreviste disastrose conseguenze del secondo comma dello stesso regolamentare articolo due, il quale dispone che «i film non dovranno offendere un sentimento nazionale di altro paese partecipante». Conseguenze: un film inglese, benché non scarso di pregi, non è stato accolto, perché in esso si narrano i casi atroci sofferti dal cardinale Mindszenty.

(Nota bene: la barbara vicenda s’è svolta in Ungheria, nazione che non ha partecipato alla mostra; ma alla mostra partecipava l’U.R.S.S.: ergo...). Il film U.S.A. Blackboard Jungle, di Richard Brooks, già invitato e puntualmente consegnato, è stato sostituito dal mediocre Interrupted Melody, perché giudicato lesivo del buon nome del mondo scolastico statunitense. (Nota ancora: giudizio e provvedimento non risalgono ai competenti organi della Mostra, ma a non chiari, e tuttavia perentori, poteri della rappresentanza diplomatica U.S.A. in Italia). Lo spagnuolo Il canto del gallo, di Rafael Gil, anch’esso debitamente esaminato, arrivato e programmato, è stato interdetto perché la sua vicenda, situata in un paese oltre cortina non meglio specificato, non è risultata di gusto della sempre suscettibile U.R.S.S. (Nota meglio: la direzione della Mostra, impacciatissima, ha cercato di cavarsela con mezzucci, falsamente motivando il ritiro con la mancata tempestiva sottotitolatura italiana del film, col risultato che la delegazione spagnuola, giustamente offesa della cosa e del modo, ha ritirato la propria rappresentanza ufficiale dalla Mostra, non proiettando neanche l’altro film da essa programmato, Orgullo, di Manuel Mur Oti). Ultimo nella serie dei film incriminati è stato Jan Hus, di Otakar Vavra, regolarmente programmato per conto della Cecosìovacchia e soppresso all’ultimo momento perché giudicato falso storico e offensivo per i cattolici, rimpiazzato perciò col mediocrissimo Nella mia vita, proiettato, per colmo di noia e di coerenza, senza sottotitoli.

Evidentemente, continuando di questo passo, a Venezia non faremo più una mostra d’arte cinematografica ma il giuoco delle belle statuine; lo schermo del Palazzo del cinema servirà non gli interessi artistici, culturali, tecnici ed economici del cinema, ma la propaganda politica ed ideologica delle nazioni concorrenti... E chissà che, un bel giorno, una nazione non faccia sua la legge della giungla, sostenendo leciti e doverosi la bestemmia, il furto, l’assassinio, la prostituzione e la schiavitù; poi, col semplice partecipare alla Mostra, o personalmente, o tramite i pavidi servizi di altra nazione da essa soggiogata, metta il veto su ogni altro film concorrente, trovato reo di offendere i suoi sentimenti nazionali perché non attacca la religione, la proprietà, il diritto alla vita, all’onestà e alle libertà civili...: allora vedremo un’Italia, già culla di un diritto universale e centro di una Società perfetta, tuttora unica maestra infallibile di morale al mondo, farsi timorosa, se non vergognosa, di questi suoi privilegi, e questuare i criteri di una morale avventizia a miopi nazionalismi e a barbare ideologie.

* * *

Per ovviare a tanti inconvenienti non c’è che un mezzo: uscire dagli equivoci dando alla Mostra una sua netta fisonomia artistica, come del resto la sua originaria ed attuale dipendenza dalla Biennale d’arte dovrebbe esigere. Criterio per invitare ed accettare i film sia solo quello del loro intrinseco merito artistico e del contributo che possono dare alla storia dell’arte cinematografica; lo stesso criterio sia l’unico valido nel premiare i concorrenti, e non anche l’accontentamento di ambizioncelle di nazioni e di produttori, cui si deve la troppo larga proliferazione di leoni e leoncini, coppe e menzioni, degna più di un’esposizione di beneficenza che di un’alta manifestazione artistica. Coraggiosamente si abolisca qualunque censura e qualunque veto che non sia imposto dalla più elementare onestà naturale, e si proiettino tutti i film programmati a un pubblico di critici o, comunque, di competenti, i quali hanno il diritto e il dovere di conoscere e di far conoscere che cosa si produca su piano di arte in tutte le nazioni del mondo, siano esse cattoliche o meno, comuniste o anticomuniste; se poi, per motivi turistici e mondani, proprio non si vuole distinguere la Mostra di Venezia dal Festival di Cannes, finora suo doppione e concorrente, si accolgano pure a Venezia film spettacolari e commerciali, purché raggiungano un minimo di buon gusto e di civiltà, e vi si faccia assistere, però in sedute distinte da quelle dei film d’arte, un pubblico indifferenziato; ma in questo caso ci sia un minimo di censura, non necessariamente governativa, per i film per adulti e, molto più, per quelli cui si ammettessero i minori, perché non c’è nessun motivo, neanche quello dell’arte invocata a sproposito, per aprire a Venezia, per due settimane l’anno, un porto franco a merci incendiarie o infettive.

Crediamo che applicando siffatti criteri, il pubblico della massima mostra cinematografica mondiale prenderà automaticamente una sua fisonomia di maggior distinzione e buon gusto che non abbia ora specialmente quello dei primi pomeriggi, composto in gran parte di sfaccendati e di bagnanti in cerca di facili esperienze; si ridurranno anche gli sperperi e gli ormai troppo spudorati esibizionismi, che, prima di costituire oltraggi scandalosi alla giustizia sociale e alla sanità morale della nazione, sono villane mancanze di buon gusto e di civiltà4, e cosi si ridurrà di molto l’aura festaiola, avventuriera, spregiudicata e di sperperio, che, anche per colpa dei festival, aureola il mondo del cinema presso il popolo.

È stato osservato, non sappiamo con quanto giustificato pessimismo, che «la prossima mostra sarà la diciassettesima. Attenzione al diciassette! La mostra può vivere ma può anche morire». Per noi tutti i numeri sono eguali, e il diciassette non è fausto o nefasto più o meno degli altri; ci pare innegabile però che qualche cosa va fatto quando si è ancora in tempo, prima che altri finisca di sfruttare, meglio che non facciamo noialtri italiani, la bella iniziativa che abbiamo avuto il merito di aver trovato per primi.

Diciotto nazioni, trentun film

Passando ora a fare il consuntivo sui film programmati, ci limiteremo a rilevare poche caratteristiche per nazioni e per soggetti.

Niente di nuovo ci hanno detto i due film giapponesi Shuzenji Monogatari e Yang-Kwei-Fei, come al solito indugianti su remote vicende medievali, per giunta derivate da lavori teatrali. L’uno e l’altro puntano a sbalordire con un lusso insolito di scenografie e di costumi e con uno sbaldore di colori non sempre equilibrati, specialmente negli innaturali passaggi tra gli interni convenzionali propri del teatro e gli esterni gratuitamente veristi, inoltre scarsamente adoperati in funzione espressiva. Maggiore chiasso, se possibile, di colori e baldoria di scenografia ha tentato l’India in Dance of Shiwa, imbottito di danze e coronato da un finale, che vuole essere l’omne tulit punctum in fatto di coreografia, inquinato, ahimè, da plateali toni fumettistici, nonché da pizzichi farseschi.

Romanzoni d’appendice della peggiore specie, nonostante la buona fotografia e i non malvagi attori, ci hanno ammannito l’Argentina, col convenzionale La Tierra del Fuego se apaga, il Messico con l’assurdo polpettone psicologico Después de la tormenta, e il Brasile con l’orripilante Maos sangrentas. A quest’ultimo dobbiamo se la sedicesima mostra veneziana non ha riscattato le ecatombi che orrificarono la decimaquinta; infatti, in quanto ad atrocità, quest’anno ce la saremmo cavata con appena tre sequenze: dell’inutile operazione chirurgica di Ordet, del feroce combattimento finale di Les héros sont fatigués e della barbara lotta a frustate con la quale invano cerca di spezzare la sua monotonia l’americano The Kentuckian; ecco invece che col film brasiliano da solo abbiamo sorpassato tutti gli orrori del 1954 messi insieme, tante e tanto mostruose sono le stragi di questo monumento di barbarie e di sadismo5.

Di eroismi convenzionali e sempre ideologicamente tendenziosi si sono presentati rinzeppati quasi tutti i film d’oltre cortina: dal bulgaro Un uomo decide, in cui l’eroina è (oh monotonia del comunismo!) la tecnica moderna, la quale sfida vittoriosamente la religione, non solo, ma cuce, rompe e ricuce l’amore di due stagionatissimi colombi secondo che i suddetti bipedi convengono o meno sulle tesi del partito; allo iugoslavo Attimi di decisione, ingenua e scadente avventura di partigiani, tra i quali emerge l’eroe sempre bravo, buono e magnanimo, che il regista ha avuto la geniale idea di personificare in un sosia di Tito; al polacco Les hommes de la Croix bleu, niente più che interessante documentario, e al cecosìovacco Nella mia vita, che docilmente fa servire alle direttive del partito l’ottima musica di Smetana. L’U.R.S.S. per conto suo s’è presentata con Boris Godunov, sfarzoso e pedante adattamento del notissimo dramma-opera di Puskin-Mussorgski; con La cicala, felice rievocazione della decadente e vacua società borghese russa di fine secolo, il quale alla Mostra ha avuto meritato successo, e maggiore l’avrebbe avuto se il regista, oltre al loro dramma esterno, fosse riuscito a ricreare quello più intimo ed inespresso dei personaggi della novella cechoviana; e finalmente con Verso l’altra sponda, non privo di pregi narrativi e coloristici, ma farraginoso e macchinoso. Esso merita una speciale menzione per l’inimmaginabile spudoratezza di falso che lo distingue, dando per «liberazione» il brigantesco e proditorio colpo di mano perpetrato dalla Russia contro la Lettonia e obbligando i suoi disgraziati abitanti a ringraziarla per essere stati privati di ogni religione, proprietà e libertà; e siffatta vigliaccata proiettando a Venezia l’U.R.S.S. non ha minimamente sospettato di offendere qualche sentimento di altri paesi partecipanti alla competizione, così mostrando quale stima essa faccia o dell’intelligenza o del coraggio dei suoi ospiti; e gli ospiti, dal canto loro, l’hanno confermata nel suo modo di stimarli reclutandole un discreto gruppo di non meno vile servitorame incaricato di applaudirla!6. Vorremmo a questo punto poter contrapporre all’aggressiva falsa costruttività d’oltre cortina un’Europa altrettanto aggressiva in potenza di idee e in bellezza di opere, ma purtroppo non ci è possibile. Intanto ci fa ostacolo la decadente letteratura che aduggia la selezione francese: i segreti della tecnica più perfetta e le buone prestazioni di una rosa di attori come Kurt Jürgens, Jean Servais, Jean Gabin, Jean-Claude Pascal e Anouk Aimée, non riescono a salvare i suoi tre film, i quali, sia che si ripieghino sulle cerebrali rievocazioni intimiste della solita inesperta ragazza di provincia perdutasi nella capitale (Mauvaises rencontres), o narrino le brutali avventure di scampoli di eroi fuggiti da un’Europa maledetta e caduti in un’Africa più male detta (Les héros sont f atigués), o descrivano i casi di un’infanzia traviata senza speranza (Chiens perdus sans collier), non raggiungono le soglie dell’arte e intanto lasciano nelle anime degli spettatori tutto il vuoto di una civiltà in putrefazione.

Alla francese avrebbe fatto da correttivo la selezione inglese, di buon mestiere e di dignitosa correttezza, se l’ottimismo che l’accompagna non avesse troppo l’aria di facile evasione; infatti in Doctor at Sea, trasposizione deteriore e piuttosto squilibrata del noto romanzo burlesco di Richard Gordon, non c’è molto più che un umorismo fine a se stesso; in John and Julie, la graziosa avventura di bambini non priva di notazioni psicologiche e satiriche decade in pretesto per magnificare le massime istituzioni inglesi e per esitare il molto materiale documentario, del resto magnifico, girato nelle feste dell’incoronazione della regina; e in The deep blue Sea, a parte il suo non felice uso del cinemascope e di una musica fragorosa, che squarciano senza riserbo un dramma originariamente intimo e chiuso, non riesce a convincere sui valori che dovrebbero legittimare la fiducia nella vita, che vi è diffusa. Meglio invece sono andate le cose col tedesco Der Teufels General, che insieme col coraggio con cui analizza uno dei periodi più fondi della recente storia della Germania, vanta una buona regia e la superba e fatalisticamente rassegnata interpretazione del protagonista Kurt Jürgens; e meglio ancora sono andate le cose con l’olandese Ciske de Rat, che pone il problema dell’infanzia difficile e ne tenta una soluzione meno anodina del film di Delannoy; esso però alle ottime intenzioni morali e pedagogiche non unisce singolari pregi formali, anzi decade qua e là in un certo tenerume popolaresco, oltre che nella fosca ombra di un inutile matricidio.

* * *

A proposito di film che hanno per oggetto bambini o ragazzi, notiamo che quest’anno a Venezia essi hanno abbondato, con manifesta sodisfazione del pubblico, ed anche della critica. In lizza con la Francia, con l’Inghilterra e con l’Olanda è entrata anche l’Italia, col discreto Amici per la pelle, primo lungometraggio di Franco Rossi, originale nell’impostazione, brioso nel racconto, abbastanza felice di notazioni psicologiche sugli adolescenti e nella scelta dei due bravi attori, quasi sempre serrato ed efficace nella regia; gli nuoce un certo insistere su battutine, del resto gustose, ma poco funzionali, e un mancato approfondimento poetico della vicenda, che si tradisce specialmente nei due finali, uno lieto e uno triste, a scelta, nessuno dei quali lascia persuasi.

Questo, della non malvagia selezione italiana, è stato l’unico film arioso e piacevole: poco per bilanciare la squallida problematica degli altri tre. Con Gli sbandati, infatti, Francesco Maselli, altro nostro esordiente nei lungometraggi, ci riporta con un ritorno di fiamma del cinema italiano, alle origini della lotta partigiana, a dir vero con scarsa persuasività, con un faticosissimo rodaggio, ma anche con esemplare maestria tecnica e con fine sensibilità, specialmente in alcune pagine descrittive e nell’inatteso finale, sobrio ed esemplare, ma tristissimo. Le amiche, di Antonioni, ha segnato. uno dei massimi pienoni della Mostra; ma nell’insieme il gran pubblico, il quale chissà che cosa si riprometteva di vedere, è rimasto piuttosto deluso. Il regista non ha smentito il fine intuito e l’ormai maturo stile verso cui le sue opere precedenti segnano una sicura ascesa, eppure ci ha lasciato in uno stato di disagio, come avanti ad un’opera non messa a punto. L’abbiamo trovata ora limpida e ora confusa e incoerente, ora valida per il sobrio rigore di alcune analisi psicologiche ed ora, specialmente nei dialoghi, forzata e letteraria, a volta lacunosa e a volte pleonastica, non lineare nei temi, sempre però più desolata che il mondo di cattiverie individuali e collettive attinto da una novella del desolato Pavese. La criticata, è chiaro, è l’alta borghesia. Non saremo certo noi a dire male scelto il bersaglio: basta passare qualche giorno, o meglio, qualche serata al Lido di Venezia durante la Mostra, per accorgersi che da dirne male ce n’è in abbondanza. Eppure in quella critica c’è parso di avvertire qualche cosa di falso, non solo perché certo cinema non può non sonare falso quando, proprio lui, si atteggia a moralista, ma perché la posizione ideale del regista ci è parsa arbitrariamente lacunosa, interessata com’è a rilevare carenze, le quali, se manchi la possibilità di un ordine essenziale del mondo nella verità e nella bontà, non sono più carenze morali, e resta inutile la denuncia che se ne fa.

Delusioni maggiori ci ha causato l’attesissimo Bidone, del Fellini. Forse ha nociuto al giovane regista proprio la diffusissima attesa che il molto meritato successo mondiale della Strada aveva preparato a quest’altro suo lavoro. Restano innegabili in lui, anche dopo questa prova squilibrata, sensibilità poetica, impegno, forza e finezza descrittiva, specialmente di certi ambienti mondani, e nell’impostare ed avviare intenti polemici profondamente umani: ma evidenti in questo film risultano, con i pregi, i difetti, quali un insistere su momenti, spesso felici, delle sue opere precedenti: il mondo dei girovaghi, dei giocolieri e dei bohémiens, le solitarie notti illuminate da livide lampadine, ultimi resti di feste paesane; fontanelle, ragazzi infelici e più o meno redimibili prostitute; ubriachi, ancora notturni, che si confessano ad alta voce in mezzo a strade deserte; la cattiveria di certe classi di persone, le quali, più che malvage, sono sole e timide nella loro ingombrante solitudine, e tanto più sole e timide quanto più la loro corposa presenza fisica le dimostrerebbe sodisfatte della loro esistenza; ed accanto a loro fragili creature, tra semplicette e chiaroveggenti, che hanno, senza saperlo, proprio quella scintilla di anima che manca ai giganti martoriati...: insomma tutti gli elementi del mondo del Fellini, poetico, ma piccolo e ormai sfruttato. Su questo suo mondo il Fellini ha avuto la cattiva idea di far muovere un terzetto di individui occupati in un’attività di tanto conclamata e ripugnante bassezza morale che la condanna ne è scontata in partenza, e il ravvedimento, se nella vicenda di ravvedimento si può parlare, giunge sempre troppo tardi, e in ogni caso insufficiente per una catarsi sia del personaggio sia del pubblico. Ogni “bidonata” ci mette in stato di sofferenza, e più le tre dei distributori di benzina e dell’alloggio offerto agli sbaraccati, di una immediatezza di racconto, ma anche di una crudeltà di linguaggio superlative. E come se il fondo stesso della vicenda non fosse di per se stesso sufficientemente ripugnante, il regista s’è dato a caricare le tinte in sequenze inutili, o almeno inutilmente lunghe, come quelle dell’orgia di fine d’anno e della sordida avventura notturna; il finale, poi, nonostante che sia affidato alla buona interpretazione di Broderick Crawford, lascia esteticamente annoiati per la sua spasmodica lunghezza, per l’inutile insistere su macabri particolari di dubbia verità psicologica, e moralmente insodisfatti, perché non si sa bene se l’eterno arrancare verso l’alto del “bidonista” moribondo, che ricorda lo sguardo verso l’alto con cui, con ben altro animo, si redimeva il parallelo gigante atterrato della Strada, sia anelito verso una vita meno vile, o fuga disperata da una vita che, già alle porte della vecchiaia, si vede senza scampo fallita; nell’un caso e nell’altro quel suo arrancare non suscita nello spettatore un solo moto di pietà, ma solo un superfluo rincaro della pronta condanna con cui egli bolla, fin dalle prime inquadrature, i protagonisti di un mondo tanto abietto.

Ad esaminarlo bene, il Bidone vorrebbe segnare un passo ulteriore nel mondo interiore già indagato nella Strada; là il torpore brutale di un’anima, chiusa nella materia più opaca, s’illumina in una prealba di coscienza umana; qui la stessa coscienza, oltre che consapevolezza di se stessa e del mondo nei suoi limiti ontologici, vorrebbe diventare esigenza di un ordine morale, rimorso di una vita egoisticamente vissuta. Ma ripetiamo «vorrebbe», perché ci pare che qui le buone intenzioni per gran parte sono rimaste tali...

La Grecia, che all’ultimo momento ha inviato La falsa lira sterlina, non ha sollevato le sorti della Mostra, anzi le ha rese più pesanti, data la lunghezza spropositata del film, stracarico di “storie” almeno per tre, la banalità del suo vano raccontare casi, ora satirici, ora romantici e ora drammatici, per dimostrare, pare, ma con mezzi non sempre leali, la falsità che vizierebbe tutta la vita umana. Peccato! Perché alcuni spunti felici e una certa briosità descrittiva meritavano un uso migliore!

Precisando che del danese Ordet, data la sua validità relativa ed assoluta e l’importanza dei problemi che pone, diremo a parte, concludiamo questa nostra rassegna con poche battute sulla selezione americana, composta di quattro lavori, di cui uno solo in bianco e nero e su schermo normale (The big Knife), gli altri tre a colori e su schermo panoramico. Orbene, solamente il primo s’è portato via un premio: gli altri sono passati inosservati o, non ostante l’aspettativa che li aveva preceduti, severamente notati dal pubblico e dalla critica.

The big Knife è la ennesima spietata critica dell’ambiente inumano di Hollywood, e la ennesima più mille opera teatrale trasportata sana sana nel cinema; se un pregio ha, è quello della netta caratterizzazione dei personaggi, resa con aderenza al testo dagli interpreti perfettamente calatisi nella parte e perfettamente affiatati. Degli altri tre tutto si può dire meno che brillino per arte o almeno per buon gusto. To Catch a Thief, di A. Hitchcook, è a mezzo tra il giallo e il turistico; tanto più insiste in panoramiche tecnicamente perfette, in sfarzo di costumi, in dolciastri romanticismi, in brividi e in gratuiti esibizionismi, quanto più ogni valore umano si disperde nel prevalere del meccanismo tutto esteriore e materiale della vicenda, sostenuta solo dalla tecnica più smaliziata. In Interrupted Melody, di C. Bemhard, gli ingredienti non cambiano molto, né per scelta né per dose, a parte un predominio del sentimentale sul brivido: alla Costa Azzurra subentrano le praterie dell’Australia, alle corse delle automobili le cavalcate, ai balli in costume del Casino di Montecarlo le scenografie e coreografie dei palcoscenici attrezzati per La Bohème, Il crepuscolo degli dei, Tristano e Isotta, o per una delle tante altre opere musicali, nelle quali la protagonista, interpretata da Eleanor Parker, si esibisce in, per la verità, troppi canti (beh, le piste sonore magnetiche plurime che le abbiamo inventate a fare?), e al Suspense di chi sarà il ladro notturno subentra l’altro di come se la caverà la celebre cantante, che ha la carriera troncata dalla poliomielite, sciolto con un buon miracolo, che ti leva tutti i complessi come il fatidico «Arrivano i nostri!» in fondo a un Western. C’è in più la trovata di far cantare l’artista per le forze armate, trasportata dunque in jeep, per nave, in gru, in aereo, in elicottero Uno spettacolo, insomma, riposante, da sportivi dopo la partita, che rimette i nervi a posto, fatto per ammirare, fuori di ogni complicazione di tesi e di arte, l’eccezionale bravura della Parker, il suo sbalorditivo trasformismo, e, più di tutto, la disinvoltura senza ombra di complessi del regista... L’ultimo, The Kentuckian, è un Western fiaccamente interpretato e più fiaccamente diretto da Burt Lancaster: una storia senza capo né coda, raccontata a singhiozzi, mantenendosi sul livello psicologico primitivo e popolare dei racconti dei nostri vecchi cantastorie, ma senza la loro arte ingenua, con qua e là, oltre quella già ricordata delle frustate, qualche scena drammatica, come quella di un battello che entra sano sano in sala o di un letto lungo dodici e passa metri, quanti ne conta lo schermo panoramico, nonché di un importantissimo corno, che nell’epopea americana di cui si tratta terrebbe il posto che in quel di Roncisvalle aveva quello del nostrano paladino Orlando...

Giorgione e i giorgioneschi

Punteggiavamo, in questa stessa sede, una mostra “panoramica”7, auspicando la pronta infusione di un supplemento d’anima, per rendere meno inumana la ipertrofica corposità della odierna civiltà tecnica...: orbene, questo scompenso tra grandiosità ed onninvadenza dei mezzi tecnici ed esiguità di valori estetici ed umani, avvertito, più che nelle altre selezioni, in questa americana, ci fa rinnovare con più ansia ed urgenza l’augurio. E nel rinnovarlo, questa volta ci rifacciamo ad un’altra mostra d’arte, che quest’anno si è tenuta a Venezia contemporaneamente a quella cinematografica: la mostra del Giorgione e giorgioneschi. Centrotrentotto tavole e qualche decina tra stampe e disegni, che ci riportano alla Venezia di quattro secoli e mezzo fa, quando il misterioso artista di Castelfranco, guardando con gli occhi nuovi dei tempi nuovi il gran mondo della natura, trovava nel creato e nell’Increato, distinti ma non disgiunti, l’oggetto di un’unica emozione lirica, e questa esprimeva con le sue prodigiose variazioni luminose e fascinose tonalità cromatiche, suggeritegli dalle già ardite esperienze del Bellini e del Carpaccio, suoi conlagunari, e da lui trasmesse, sempre sulla luminosissima Laguna, al più grande Tiziano.

Sono, per lo più, i suoi piccoli quadri, con pochi elementi, senza drammi esterni: anzi, come nei Tre filosofi, e ancor più nella Tempesta, quasi senza soggetto. Un uomo, una donna col suo bambino, due quinte di alberi, un ponte su di un ruscello, un guizzare di folgore tra nubi incombenti su una fila di caseggiati, in un pezzo di tela di poco più che mezzo metro quadrato: e l’occhio gode, e voci e note passano nell’anima come se tutto il creato si animasse, e cantasse... Gli è che la luce tutto vi avvolge, e i colori digradano misteriosamente, e la natura vive della nostra vita, e nel suo mistero intuiamo il nostro stesso mistero: l’anelito del tempestoso e del fugace verso la contemplazione di un Termine fisso. Il Giorgione aveva un’anima e quella esprimeva in immagini trepide di sentimento...

Quando questo avveniva, nella Venezia del 1500, l’Europa scopriva l’America. È troppo augurarsi che oggi, dopo quattro secoli e mezzo, i cineasti americani, carichi della loro tecnica e delle loro macchine, scoprano finalmente l’Europa, e nell’Europa la grande anima umana e religiosa che ne fece grandissima la civiltà? Allora, come oggi, su questa laguna meravigliosa, una luce sempre cangiante accarezzava e fasciava le architetture rilevando infinite nuove armonie, e allora i pittori veneziani, vibrandone essi prima all’unisono, trovavano il segreto di far vibrare sulle loro tele, più di ogni altra scuola nel mondo, i colori nel più acceso loro splendore; è troppo augurarsi che gli stessi cineasti, chiamati ogni anno a Venezia, ne subiscano anch’essi il fascino tutto umano e spirituale, e nell’arte novissima del cinema, fatta appunto di luce e di colore, essi, che finora troppo spesso l’hanno fatta solo industria, esagerando superlativamente i valori della tecnica e del mestiere, immettano quel tanto di sentimento e di anima sufficiente a fame un’arte?

Se questo non avverrà, le cose resteranno, purtroppo, come sono, e cento schermi giganti non varranno, in valori di arte, un quadretto del ragazzotto di Castelfranco; ma se avvenisse il miracolo, la nostra Mostra diverrebbe veramente una mostra d’arte, e chi vi assisterà ne uscirà umanamente rinfrancato, rinnovato nell’anima, come quest’anno i visitatori uscivano dalle sale dedicate al Giorgione e ai suoi imitatori nel Palazzo Ducale.

1 Come al solito diamo, per ordine alfabetico di nazione, l’elenco dei film in concono. Quelli in formati maggiori del normale (cinemascope, panoramici ecc.) sono seguiti da un asterisco; quelli in colore dal segno #. 1) ARGENTINA: La Tierra del Fuego se apaga, di E. Fernández. – 2) BRASILE: Maos sangrentas, di S. H. Christensen. – 3) BULGARIA: Un uomo decide, di D. Dakowsky. – 4) CECOSLOVACCHIA: Z meho Zivota # (Nella mia vita), di V. Kriska. - 5) DANIMARCA: Ordtet (La parola), di C. Th. Dreyer. – 6) FRANCIA: Chiens perdus sans collier, di J. Delannoy; Les héros sont fatigués, di Y. Ciampi; Mauvaises rencontres, di A. Astruc. – 7) GERMANIA: Der Teufels Generai (Il generale del diavolo), di H. Käutner. – 8) GIAPPONE: Shuzenji Monogatari # (La maschera e il destino), di N. Nakamura; Yang-Kwei-Fei #, di K. Mizoguchi. - 9) GRECIA: La falsa sterlina, di G. Tzavellas. – 10) INDIA: Dance of Shiwa # (La danza di Shiwa), di V. Shantaram. – 11) INGHILTERRA: Doctor at Sea * # (Un dottore in alto mare), di R. Thomas; John and Julie #, di W. Fairchild; The deep blue Sea * # (Il profondo mare azzurro), di A. Litvak. – 12) ITALIA: Le amiche, di M. Antonioni; Amici per la pelle, di Fr. Rossi; Il bidone, di F. Fellini; Gli sbandati, di Fr. Maselli. – 13) lUGOSLAVIA: Trenutki adlocitve (Attimi di decisione), di Fr. Cap. – 14) MESSICO: Después de la tormenta (L’isola dei lupa), di R. Gavaldón. - 15) OLANDA: Ciske de rat (Faccia di topo), di W. Staudte. – 16) POLONIA: Les hommes de la Croix bleu, di A. Munk. – 17) U.R.S.S.: Boris Godunov #, di V. Stroeva; Verso la nuova sponda #, di L. Lucov; Poprigunia (La cicala), di S. Samsonov. - 18) U.S.A.: The big Knife (Il grande coltello), di R. Aldridge; To Catch a Thief * # (Caccia al ladro), di A. Hitchcook; Interrupted Melody * # (Melodia interrotta), di Bernhardt; The Kentuckian * # (L’uomo del Kentucky), di B. Lancaster.

Secondo l’uso sono stati proiettati anche molti documentari e, in sedute pubbliche o private, alcuni film fuori concorso. Diamo l’elenco di questi ultimi in ordine alfabetico di nazione: 1) FRANCIA: Huisclos. - 2) GERMANIA: Hotel Adlon, di von Baky. – 3) ITALIA: Frou Frou * #, di A. Genina; Il padrone sono me, di Fr. Brusati. – IUGOSLAVIA: La fanciulla e la quercia. - 5) SPAGNA: Crimen imposible, di C. Ardavin; Marcelino, pan y vino, di L. Vajda. – 6) U.S.A.: Lovers and Lollipops (Amore e caramelle), di M. Engel – R. Orkin; The naked Dawn # (Alba nuda), di C. G. Ulmer. Inoltre il Giappone, in una mostra personale di tre registi, ha presentato: Nijushi No Hitomi (Ventiquattro occhi), di K. Kinoshita; Gan (L’anitra selvatica), di Mori; Takekurabe (Adolescenza), di H. Gosho; e gli Stati Uniti hanno presentato, in sedici tra corti e lungo metraggi, distribuiti in sei programmi, una retrospettiva del cinema americano, dalle primi origini all’anno 1921.

2 La sera del 10 settembre, il dott. Ottavio Croze, delegato generale, ha letto il seguente comunicato: «La giuria della 16ª Mostra internazionale d’arte cinematografica, composta dai signori Antonin M. Brousil (Cecosìovacchia), Jacques Doniol-Valcroze (Francia), Arthur Knight (U.S.A.), Roeer Manwell (Inghilterra), Piero Gadda Conti, Mario Gromo (presidente), Emilio Lonero, Domenico Meccoli, Carlo Ludovico Ragghianti (tutti italiani), ha deciso di assegnare i premi come segue: Gran Premio Leone di San Marco in oro: all’opera e alla vita d’artista di Cart Theodor Dreyer e per Ordet (Danimarca); Premio Leone di San Marco in argento a La cicala, di Samsonov (U.R.S.S.); secondo Leone di San Marco in argento a The Big Knife (“Il grande coltello”), di Robert Aldridge (U.S.A.); terzo Leone di San Marco in argento a Le amiche, di Michelangelo Antonioni (Italia); quarto Leone di San Marco in argento a Ciske de Rat, di Wolfang Staudte (Olanda). Coppa conte Volpi di Misurata per la migliore interpretazione maschile: ex aequo a Kennet More per Il profondo mare azzurro, e Kurt Jurgens per Gli eroi sono stanchi (Francia) e Il generale del diavolo (Germania). Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile: non assegnata. Il Premio “Pasinetti” dei giornalisti è stato assegnato a La cicala».

3 Con infinita pena abbiamo notato quest’assurdo inconveniente, oltre che durante la grande Mostra, frequentissimamente durante le due mostre minori: del film documentario e del film per ragazzi. Queste si tenevano negli stessi giorni e, almeno nella prima parte, in orari non differenziati, sicché chi si recava al Palazzo del Cinema non sapeva se avrebbe trovato un film della prima categoria o della seconda. Abbiamo visto intere colonie e collegi di bambini e di bambine, nonché di adolescenti, assistere a documentari astratti o di alto interesse scientifico e in lingua straniera, con quanta loro noia si immagini; od altri parzialmente sconvenienti, come l’americano Goya e il francese Zola, o del tutto ignobili, come l’americano Mambo Madness, sconveniente anche per adulti, in ogni caso molto più volgarmente suggestivo che non fosse l’austriaco Omaru, opportunamente proiettato, questo, a soli adulti. Evidentemente la Direzione della Mostra non ha pensato che concedere biglietti di favore a colonie e a collegi può essere una cortesia, ma anche un pericolo, se chi li dà non tiene conto quali siano e che cosa contengano i film che si proiettano...: e questo proprio durante un festival del cinema per ragazzi!

4 Ci riferiamo alle esagerazioni della moda femminile che, specialmente negli spettacoli pomeridiani, supera il già troppo che osa la sera sotto l’etichetta dell’obbligatorio abito da sera: attricette in cerca di scritture, ragazze e adulte italiane e straniere, più o meno esistenzialiste, circolare ed esibirsi, per le vie, in atrio e in sala, in poco più che costume da bagno...

5 Né vale osservare che il fatto narrato nel film non è inventato, ricostruendo esso quanto di fatto avvenne nel 1952 nel penitenziario, ora chiuso, dell’Isola Anchieta, in Brasile, dove una sanguinosa evasione in massa dei detenuti dette origine ad una caccia all’uomo, che si concluse con l’uccisione di una cinquantina di prigionieri. A Venezia, “documentari” di questa fatta vanno proiettati in saletta riservata, come giustamente è stato fatto per alcuni documentari chirurgici, molto meno volgarmente suggestivi di questo.

6 Il soggetto del film preso dal romanzo di Vilis LACIS: K novomu beregu (Verso una nuova riva). Per le falsità contenute in questo «premio Stalin 1952» cfr Realismo socialista in un romanzo sovietico sulla Lettonia, in Civ. Catt. 1953, II, 636-649.

7 Cfr Panoramica su Cannes nel sessantesimo del cinema, in Civ. Catt. 1955, III, 62.

In argomento

Mostre

n. 2830, vol. II (1968), pp. 358-364
n. 2815, vol. IV (1967), pp. 55-58
n. 2793, vol. IV (1966), pp. 263-268
vol. IV (1964), pp. 213-226
vol. III (1964), pp. 551-562
n. 2721, vol. IV (1963), pp. 234-247
n. 2691, vol. III (1962), pp. 232-245
n. 2576, vol. IV (1957), pp. 152-166
n. 2570, vol. III (1957), pp. 166-180
n. 2551, vol. IV (1956), pp. 49-62
n. 2432, vol. IV (1951), pp. 141-151