Articolo estratto dal volume IV del 1964 pubblicato su Google Libri.
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Contrariamente al solito, riferiremo sulla XXV edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia (27 agosto - 10 settembre 1964), prima eseguendo una panoramica sulle edizioni che hanno preceduto queste sue «nozze d’argento»1, quindi sintetizzando i problemi che, anche nelle precedenti edizioni posti e mai del tutto risolti, quest’anno più che mai hanno alimentato le polemiche sulla Mostra.
Le mostre d’anteguerra
Nata – a differenza di tutti gli altri «festival» – come Mostra d’arte, quella di Venezia? – Sì; però non esageriamo. Il fatto è che, forse, oggi essa non farebbe parlare di sé, se a mezzo il 1932 lo scultore Antonio Maraini, segretario della veneziana «Biennale d’arte», non si fosse recato ad una partita di calcio ad obliarvi le sue sale, troppo spesso semivuote, nonostante che egli avesse aggiunto alle scarse attrattive della pittura e della scultura quelle della poesia, della musica e della danza. La folla dello stadio gli richiamò quella dei cinematografi, e disse: «Eureka! Ci vogliono ii film!»2. Cosi fu che, men che tre mesi dopo, si apriva la «Prima esposizione internazionale di arte cinematografica alla XVIII Biennale di Venezia».
Ed il successo rispose alle speranze del Maraini. Nei 16 giorni (6-21 ag.) che l’esposizione durò, 25.000 spettatori affluirono nella Terrazza a Mare dell’Excelsior, al Lido, a vedere «le film» – come qualche ritardatario si ostinava a chiamarle –. Tra i film a soggetto e documentari, ammontarono ad una quarantina, inviati da nove nazioni; cioè: Cecosìovacchia, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda, Polonia, U.R.S.S. e U.S.A.
Il grosso pubblico fu allettato, oltre che dal numero dei film offerti in prima visione, dal particolare che essi erano quasi tutti stranieri, e venivano passati in una specie di porto franco rispetto alla censura fascista, senza tagli, né doppiati. Inoltre, gli studiosi di cinema vi trovarono un terreno ideale per confrontare tecniche, stili e scuole quando produzione, pubblico e teorici non si erano ancora riassettati dall’ubriacatura del sonoro, introdotto pochi anni prima; gli invitati dei grandi giornali, poi, vi videro, più che altro, un’occasione di «servizi» appetitosi nella stagione secca.
Non ci furono né premi né giurie, bensì soltanto targhe e diplomi di partecipazione; ma, a conti fatti, anche l’Arte con la maiuscola non ne uscì defraudata, per merito soprattutto di À nous la liberté (A me la libertà), di R. Clair, Putevca v zizn (Il cammino verso la vita), di N. Ekk, Zemlia (La terra), di A. Dovcenko, Regen (Pioggia) di J. Ivens, nonché di un’altra mezza dozzina di film non scarsi di genuini valori umani e culturali. Ai pochi, poi, che si davano pensiero del cinema quale fatto economico e strumento di opinioni, balzò agli occhi l’oligopolio messo in atto degli U.S.A., che esponevano ben 12 film a soggetto sui 29 in programma, quasi tutti perfetti in tecnica e sicuro mestiere, ed indicativi per l’uso intensivo che vi si faceva dello star system. Gli italiani salvarono la faccia col cameriniano Gli uomini, che mascalzoni!, il quale, più tardi, per lo stile e per il protagonista (De Sica), doveva essere ricordato dai discettanti intorno al cosiddetto neorealismo, ma allora semplicemente divertì gli spettatori, ad eccezione di qualche duro, che lo giudicò indegno del clima eroico instaurato dal regime3.
Divenuta, a voce di popolo e di stampa, istituzione stabile, nel 1934 – nonostante le nubi accumulate dall’Anschluss e dall’assassinio di Dolfuss – si ebbe quella che, gemellata con la XIX Biennale d’arte, fu detta «II biennale cinematografica»; la quale strafece. Duplicato il numero dei film – 40 a soggetto e 41 cortometraggi, di 17 paesi –, duplicato il numero degli spettatori (41.500), questa volta scesi dalla Terrazza al Giardino delle Fontane luminose presso lo stesso Excelsior –, duplicati i giorni della durata, 29 (1°-29 ag.), batté un primato mai poi superato. Inoltre segnò il primo accorrere di dive, ed assunse carattere competitivo; quindi richiese la presenza di una giuria (internazionale), che assegnò – referendum del pubblico aiutando – ben 7 coppe e 15 medaglie d’oro4.
Tra i film da ricordare: l’inglese Man of Aran (L’uomo di Aran), capolavoro di R. Flaherty, che si aggiudicò il primo premio (Coppa Mussolini); i mediocri Extase, di G. Machaty, e Amok, di F. Ozep, applauditissimi, specialmente il primo, dal pubblico, delirante, si disse, per l’arte finissima, ma, in realtà, per l’impudicizia della protagonista, allora, almeno sugli schermi, del tutto insolita; il dignitoso, ma fischiatissimo, Dood Water (Acqua morta), di G. Rutten, ed un manipolo della solita, tecnicamente eccellente, produzione americana5. A parte La signora di tutti, elaborata regia di Max Ophuls e prima grande uscita di Isa Miranda, i quattro pezzi presentati dal cinema italiano gli fecero ripetere la figura dell’ospite sbricio: l’ultima, in ogni modo, della nostra produzione libera, perché, dieci giorni dopo la chiusura della Mostra, veniva istituito un Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda, e dopo altri dieci giorni, presso lo stesso, iniziava la sua attività una Direzione generale per la Cinematografia6; vale a dire che, dietro l’esempio dell’U.R.S.S. e della Germania, anche in Italia si addiveniva ad una «produzione di regime».
Nel 1935, per accordi intervenuti tra la Biennale e la suddetta Direzione Generale, la Mostra, da biennale, diventa annuale, affidatane la direzione al veneziano Ottavio Croze, che la terrà fino al 1943. L’inaugura Galeazzo Ciano, titolare del Sottosegretariato della Stampa e Propaganda, ormai diventato ministero. Dura 22 giorni (10 ag. – 1° sett.); proietta 84 film di 13 nazioni, di cui 55 lungometraggi. Discreta la parte dell’Italia, specie con Passaporto rosso, di G. Brignone, Scarpe al sole, di M. Elter, e Darò un milione, di M. Camerini; ma fu piuttosto la Mostra di Marie Chapdeleine, del francese J. Duvivier, di Triumph des Willens, di L. Riefensthal (test delle subconsce mire piratesche del nazismo), di The devii is a woman (Capriccio spagnuolo), del tandem Stemberg-Dietrich, di The informer (Il traditore), del grande J. Ford, e soprattutto di Becky Sharp, di R. Mamoulian, prima clamorosa invasione dello schermo da parte del «technicolor», usato con inattesa padronanza tecnica ed espressiva, e finalmente, di Anna Karenina, capolavoro di umana interpretazione di Greta Garbo. Insomma: una bella annata!
Avvenimento degno di nota: fa brillante iniziativa veneziana cominciò a suscitare competitori: il Belgio organizzò un festival cinematografico a Bruxelles...
Puntuale, la IV Mostra si ebbe nel 1936. Durò 24 giorni (10 ag. – 2 sett.), proiettò 47 lungometraggi di 12 nazioni e 43 cortometraggi; per fa prima volta tutti inviati direttamente dai governi partecipanti, che perciò vi nominarono i loro delegati ufficiali. Tra i presenti: i ministri Paolo Giuseppe Goebbels e Dino Alfieri; quindi fu detta, con malumore, trionfo della Germania, che si aggiudicò il primo premio col mediocre Der Kaiser von Kalifornien, di L. Trenker, e dell’Italia, che si portò via il secondo con Squadrone bianco, di A. Genina. Premi di consolazione, o nessun premio, a film che poi avrebbero fatto parlare di sé su piano di arte, di tecnica o di cultura7. Neanche una medagliuccia a Ballerine, di G. Machaty, nonostante il delirio della crassa platea, memore delle nudità di Extase.
Grandi novità nella V edizione, del 1937, durata 23 giorni (10 ag. – 1° sett.). Innanzitutto l’inaugurazione del Palazzo del Cinema; poi il più accentuato carattere di partecipazione ufficiale delle varie nazioni concorrenti8; quindi l’apogeo delle manifestazioni divistiche e mondane; infine il trionfo della produzione francese, con i due classici: La grande illusion, di J. Renoir, e Carnet de bai, di J. Duvivier. Il premio maggiore spettava di diritto al primo; sennonché, in tempi di tanto eroico spirito guerresco, il capolavoro di Renoir, dopo aver a stento superato il veto tedesco, non sfuggì alla condanna di due critici fascisti, che lo bollarono di pacifismo comunistoide, e gli preferirono il film di Duvivier9. Il secondo premio l’ebbe l’italiano Scipione l’Africano, di C. Gallone, che con Condottieri, di L. Trenker, e Sentinelle di bronzo, di R. Marcellini, osannavano al ritorno delle aquile imperiali sul Campidoglio10. Tra le 17 nazioni presenti (103 furono i film, di cui 43 lungometraggi) figuravano per la prima volta il Giappone, l’Unione Sud Africana e l’Australia.
Quanto mediocre ed allietata da feste e pagliacciate, tanto polemica e politica fu la VI Mostra, durata 24 giorni (8-31 ag. 1938). Dal grigiore dei 46 lungometraggi si salvarono Quai des brumes (Il porto delle nebbie), di M. Carné, Jezebel, di W. Wyler, eccezionale interpretazione di Bette Davis, l’inglese Pygmalion, di A. Asquith, Snow White and the seven dwarfs (Biancaneve e i sette nani), primo lungometraggio di W. Disney, per il quale la Mostra escogitò un non previsto gran trofeo. Per la storia: oltre ai 99 documentari ci fu una retrospettiva francese11 e, dall’8 al 14, i Littoriali della cinematografia. Presenti per la prima volta due paesi dell’America Latina: l’Argentina ed il Messico. Spettatori 70.000, giornalisti 170, di cui 75 esteri: segno che ormai la Mostra godeva di un suo prestigio. Mare grosso però durante e dopo la premiazione, per quanto assolta da una commissione internazionale; la quale, per accontentare un po’ tutti, distribuì la bellezza di 44 tra trofei, coppe e coppette, targhe, medaglie e medagliette. Francesi, inglesi ed americani criticarono come «politica», vale a dire settaria, l’assegnazione del primo premio ex aequo al tedesco-nazista Olympia, lunghissimo documentario sui giochi olimpici di Berlino 1936, e all’italiano-fascista Luciano Serra pilota. Conclusione: America e Inghilterra uscirono sbattendo la porta, e la Francia partì gridando: «Ci rivedremo a Cannes!», forse ignorando che proprio il suo delegato era il responsabile dell’assegnazione del premio al film tedesco12.
E venne la VII, del 1939, identica alla precedente nella data e nella durata, ma mostra di un’Europa dissestata ed ormai alla vigilia della guerra. Tra le 16 nazioni, presenti, all’ultimo momento, anche la Francia e l’Inghilterra, rabbonite; e presente, al posto della Cecosìovacchia, la Boemia; assenti per la prima e l’ultima volta gli Stati Uniti, che giudicavano i mercati europei ormai compromessi dall’uragano in vista. Sui 43 film in concorso, l’Italia e 1a Germania («l’Asse») ne presentarono 7 ciascuna, passabilmente mediocri nell’insieme13.
Il 1° settembre i tedeschi invadevano la Polonia: la Mostra aveva chiuso i battenti su un fuggi fuggi generale di pubblico e di divi, senza neanche poter procedere alla premiazione, la quale fu rabberciata alla meglio nel dicembre successivo.
Le «manifestazioni cinematografiche»
Poi fu il finimondo. Per tre anni, dal ’40 al ’42, ci si illuse di poter continuare con film dell’Asse (42 su un totale di 81) e dei più o meno rassegnati amici di esso, in «manifestazioni cinematografiche italo-tedesche»: di una settimana nel ’40 (1° – 8 sett.), di due nel ’41 (30 ag.-14 sett.), non sappiamo di quanti giorni nel ’42. Tuttavia qualche film di rilievo, gli spettatori, per la maggior parte militari, lo videro. Si ricordano, tra gli altri, L’assedio dell’Alcazar, di A. Genina, Una romantica avventura, di M. Camerini, Komödianten, di W. Pabst, Wiener Blut (Sangue viennese), di W. Forst... E, per tre anni, fu il silenzio della morte. Nel 1946, sotto la direzione di Elio Zorzi, si tentò di ridare vita all’istituzione, e quasi ci si riuscì. La quarta «manifestazione cinematografica» rivestì note e caratteristiche di ambienti e di contenuti tutti speciali. Requisiti dagli occupanti inglesi gli stabili del Lido, le proiezioni si svolsero nella regale cornice del Palazzo dei Dogi, ove si ritrovarono, dopo il conflitto armato, 200 giornalisti di tutto il mondo ed un pubblico impaziente di conoscere la produzione degli ex nemici.
Tra le 5 nazioni presenti, neanche a dirlo!, si rifece le parti del leone l’America: 15 film su 35!, tra i quali The southerner (L’uomo del Sud), di J. Renoir, che riportò il primo premio. Massiccia anche la presenza dell’U.R.S.S. (vi mancava dal 1935!), con 7 film, tra i quali il Ciapaiev, di S. e G. Vassiliev, e Kljatva (Il giuramento), di M. Ciaureli, cui doveva toccare il compito di dimostrare il servilismo della critica marxista italiana (e non italiana) all’«estetica» staliniana. Presenti anche fa Francia e l’Inghilterra, ciascuna con 4 film, tra i quali il noto Les enfants du paradis (Amanti perduti), di M. Carné, ed il notissimo Henry V, primo felice incontro cinematografico da parte del regista ed attore L. Olivier col mondo di Shakespeare e del colore. Presente anche l’Italia, con 5 pezzi, compreso il segnalato, ma non premiato, Paisà, di R. Rossellini. Assente giustificata, per ,la prima volta, la Germania; presente, invece, salvo sviste, per la prima e l’ultima volta, la Città del Vaticano con un documentario.
Le mostre del dopoguerra
Col 1947 la serie delle mostre riprende, e si ha l’VIII, in nulla inferiore a quelle d’anteguerra, neanche nella eccessiva durata di 23 giorni (23 ag. – 15 sett.), nonostante la concorrenza dei festival (di Bruxelles) e di Cannes, ormai stabile e giunto alla seconda edizione14. Tra i film in concorso fecero specialmente parlare di sé i francesi Quai des orfèvres (Legittima difesa), di H. G. Clouzot, lo scandalistico Diable au corps, di Cl. Autant-Lara, l’edificante Monsieur Vincent, superba interpretazione di P. Fresnay; per il contenuto accusatore: Die Mörder sind unter uns (Gli assassini sono tra noi), del tedesco W. Staudte; inoltre: Odd man out (Il fuggiasco), dell’inglese C. Reed... Presente in forze per la seconda volta il Messico, che si laureò con La perla, del trio Fernández-Figueroa-Armendariz. In questa ottava edizione vennero affrontati per la prima volta in un ambito internazionale i problemi di produzione e distribuzione dei film per ragazzi.
La IX Mostra, del 1948, tornata nel suo Palazzo del cinema al Lido, fu una delle più ricche per il numero delle nazioni concorrenti, 21, e per la qualità di film: 44 a soggetto, 150 tra documentari, sezioni speciali e retrospettive. Molti di essi conservano tuttora un posto di rilievo nella storia del cinema. Basti ricordare, tra quelli a soggetto, gli inglesi Hamlet e Fallen idol (Idolo infranto), rispettivamente di O. Olivier e di C. Reed; gli italiani Sotto il sole di Roma e La terra trema, di R. Castellani e di L. Visconti; l’austriaco Der Prozess (Il processo), di W. Pabst, e gli americani Lousiana story, Treasure of the Sierra Madre (Il tesoro della Sierra Madre) e Macbeth, rispettivamente di R. Flaherty, J. Huston e O. Welles. Durò 17 giorni (19 ag. – 4 sett.); fu affiancata, tra l’altro, da una prima, e non ripetuta, esposizione tecnica internazionale della cinematografia15.
Molte novità nella X edizione, del 1949, diretta da A. Petrucci: apertura di un’arena di 1.800 posti per spettacoli all’aperto, nuovo regolamento per le sezioni speciali e per quella del cinema per ragazzi, rese quasi del tutto autonome; un festival internazionale della moda e del costume nel film...16. Presenti, per la prima volta, tra 19 nazioni, la Iugoslavia, il Canadà ed Israele.
Culturalmente ed esteticamente eterogenei i valori dei film in concorso, frutti di un dopoguerra caotico e contraddittorio. Accanto al conturbante Manon, di H. G. Clouzot, la Francia espose l’edificante Sorcier du ciel (Paese senza Dio), di M. Blistène, e lo spensierato Jour de fete (Giorno di festa), di J. Tari; con l’irruente Molino sul Po, di A. Lattuada, l’Italia inviò, tra l’altro, il calligrafico Patto col diavolo, di L. Chiarini e il discusso Cielo sulla palude, di A. Genina17.
Col 1950, iniziando la seconda decina delle sue edizioni, la Mostra volle dimostrare il suo dinamismo giovanile adottando ulteriori iniziative e modifiche. Per meglio evitare le indecorose commistioni tra i suoi interessi più nobili, fondati sulla qualità dei film, e quelli economici dei produttori, fondati sulla commerciabilità di essi, si istituì una mostra mercato, a fianco, ma distinta, della Mostra d’arte, e questa fu preceduta da tre altre mostre: del film scientifico, del documentario d’arte e del film per ragazzi, le quali assorbirono le antiche sezioni speciali. Fu, insomma, con annessi e connessi, una mostra mostruosa, per le sue centinaia di film proiettati in 22 giorni.
Tra i 39 film a soggetto mancò il capolavoro assoluto, ma non difettarono i pezzi, per una ragione o per l’altra, del massimo interesse18. Novità di buona portata culturale fu la prima mostra internazionale del libro e del periodico cinematografico; novità religiosa, intonata all’Anno Santo in corso, la prima «messa del cinema» celebrata dal cardinale Patriarca in San Marco (2 sett.) e coronata da una sua allocuzione, inizio di una tradizione seguita poi anche dal card. Roncalli.
La XII, del 1951 – 31 film a soggetto, dal 20 ag. al 10 sett. – resterà la mostra del Journal d’un curé de campagne (Diario di un curato di campagna), capolavoro del cinema religioso, di R. Bresson, presentato dalla Francia, e di Rasho-mon (Nel bosco), capolavoro di A. Kurosava, che rivelò all’occidente stupefatto il cinema giapponese. Accanto ai due un buon manipolo di alta classe, tra i quali The river (Il fiume), di J. Renoir, presentato dall’India; Big carnival (L’asso nella manica), di B. Wilder, e le due trasposizioni teatrali Murder in the cathedral (Assassinio nella cattedrale), di T. S. Eliot – G. Hollering, e A streetcar named Desire (Un tram chiamato Desiderio), di T. Williams – E. Kazan, l’uno inviato dall’Inghilterra, l’altro dagli Stati Uniti. Pure da ricordare, nel genere leggero, il disneyano Alice in wonderland (Alice nel paese delle meraviglie), e il cukoriano Born yesterday (Nata ieri). Insomma una grande annata, nella quale però l’Italia non brillò davvero con i suoi tre pezzi, tra i quali l’impacciato La città si difende, di P. Germi.
Meno brillante della precedente, la XIII edizione (20 ag. – 12 sett. 1952). Tuttavia, accanto ad opere eccellenti – come Koshoku lchidai-Onna (La vita di O-Haru), del giapponese K. Mizoguchi, Jeux interdits (Giuochi proibiti), del francese R. Clément, e The quiet man (L’uomo tranquillo), dell’americano J. Ford –, contò, tra i 31 film in concorso, alcune opere minori di grandi registi, quali Les belles de nuit, di R. Clair, Europa ’51, di R. Rossellini, e film di buona classe, come Death of a salesman (Morte di un commesso viaggiatore), di L. Benedek, Carrie (Gli occhi che non sorrisero), di Wyler; ma contò pure troppi film indegni di una mostra di gusto, nonché d’arte, tra i quali duole rilevarne due a soggetto religioso; e sono il pacchiano americano The miracle of our Lady of Fatima, di T. Brahm, e lo spagnuolo El Judas, di I. lquino, scompensato tra l’altezza del soggetto e la vacuità fantastica e narrativa.
Per la storia: passò quasi inosservata la presenza di due registi che poi avrebbero visto salire alle stelle le loro quotazioni: I. Bergman (con Sommarlek) e F. Fellini (con Lo sceicco bianco).
Fu senza dubbio fiacchissima la XIV Mostra del 1953 (23 film: dal 20 ag. al 4 sett.), testimonianza della grave crisi cinematografica mondiale allora in atto. Non meraviglia, quindi, se, per la prima volta da quando era stato scelto a premio, il Leone d’oro non ruggisse, benché, in fondo, a torto, perché almeno un film meritava il premio a pieni voti, dato il suo alto valore assoluto, oltre che relativo rispetto alla quasi generale mediocrità degli altri: ed era Ugetsu monogatari (I racconti della luna pallida d’agosto), ancora di K. Mizoguchi19. Altre eccezioni lodevoli furono The little fugitive (Il piccolo fuggitivo), di Ashley-Engel-Orkin, e Sadko, del russo Ptusko. Invece, almeno cinque grandi registi vi fecero la figura di nobili decaduti; e furono: W. Wyler, col banale Roman holiday (Vacanze romane), J. Huston, col discontinuo Moulin Rouge, i francesi M. Carné e C. Autant-Lara con Thérèse Raquin e Le bon Dieu sans confession (Una signora perbene), ed anche lo stesso Pudovkin, col troppo esaltato (dai critici marxisti) Il ritorno di Vassili Bortnikov. Da ricordare anche qualche episodio dei I vinti, del nostro M. Antoniani, I vitelloni, film ormai vicino al migliore Fellini, e finalmente, se non fosse inutilmente orrido e sudicio, Les orgueilleux, di Y. Allégret.
Polemiche e proposte
Per le caratteristiche delle edizioni che vanno dalla XV alla XXIV (decennio 1954-1963) preferiamo rimandare i nostri lettori alle diffuse relazioni che ne siamo andati via via presentando sul nostro periodico ed altrove20, per finalmente passare a toccare delle polemiche che hanno scaldato le edizioni «democratiche» del dopoguerra, e per proporre delle stesse una nostra, come si vedrà, forse troppo ingenua e drastica soluzione.
Diremmo che, in sintesi, discussioni e polemiche possano ridursi tutte alla questione lapalissiana se tra le manifestazioni mondiali cinematografiche, quella di Venezia debba essere, come lo stesso suo nome la designa, una «mostra d’arte», oppure qualche altra cosa. E diremmo pure che, se le parole conservano ancora un loro senso, la risposta non dovrebbe essere dubbia.
E di fatto così è, perché, almeno espressamente ed in astratto, nessuno osa contestarla. Il guaio è che, poi, in pratica, la questione di principio viene condizionata ai se, ai ma ed ai però apposti da tutti quei più eterogenei interessi, personali o di categoria, ai quali il cinema – «arte» sui generis! qual è – si presta, e quindi anche si presta la Mostra. Per esempio, e soprattutto, interessi economici diretti di produttori di distributori e di registi, ai quali anche un lancio veneziano può giovare; ed interessi economici riflessi dei giornalisti mondani, degli albergatori e dei negozianti locali, attenti soprattutto, se non soltanto, agli aspetti esteriori e vistosi, divistici scandalistici e turistici dell’avvenimento; ma anche interessi ideologici e politici di gruppi di opinione più o meno cospicui, nonché di nazioni e di gruppi di nazioni, in concorrenza dei – rari! – più genuini interessi culturali ed artistici, sociologici e morali...
In parte rivelatore ed interprete ed in parte preda e cavia di questi interessi sono, non solo il pubblico degli spettatori, bensì anche molti dei critici, se «inviati» al Lido non certo a godervi due settimane di ozi artistici, ma a stilarvi «servizi» armonizzati agli scopi degli organismi industriali-commerciali, o ideologico-politici, che li stipendiano. Che se a queste diverse sollecitazioni si aggiungono, in molti critici, oltre a possibili rancori e gelosie personali, anche divergenti teorie estetiche, le quali dall’accezione stessa del termine «arte» si estendono ai giudizi di merito circa i film ed i loro autori, circa chi li ha inviati accettati o rifiutati, e circa chi li ha elogiati o stroncati, premiati o dimenticati, è agevole comprendere come le polemiche, a Venezia, siano di casa e che il Lido sia ogni anno il più fertile terreno di proposte riformatorie o rivoluzionarie.
Eliminarle sarebbe impossibile; e, del resto, neanche auspicabile. Grazie a Dio, non siamo più nell’onniconcorde ventennio, quando, come oggi in U.R.S.S., anche in Italia aveva ragione sempre e soltanto uno! Tuttavia è lecito desiderare che si riducano di molto, mediante la rinuncia ad ogni compromesso rispetto all’unico criterio prescelto per distinguere la mostra di Venezia dai festival suoi emuli e concorrenti. Questo criterio è stato l’Arte con la maiuscola? ed Arte sia! In verità la formula Ammannati in questo senso segnò un passo memorando. Purtroppo, fin dall’inizio, non fu applicata fino in fondo. Quest’anno si è tornati a proclamarla, anzi a sbandierarla. Ma con totale coerenza? Ne dubitiamo forte.
Ne dubitiamo prima di tutto per il numero esiguo di film ad alto livello artistico che ci sono stati mostrati. Da chi protestava di aver ridotto a soli quattordici21 i premi in programma, come non si era in diritto di attendersi, se non altrettanti capolavori, almeno opere insigni, da Mostra? Invece, di film eccellenti, ne abbiamo contati sì e no cinque, contro una decina che non presentavano pregi particolari per approdare al Lido; tra essi, anzi, uno – l’italiano La donna è una cosa meravigliosa – tanto plateale da squalificare da solo, nonché una Mostra d’arte, l’ultimo dei festival! Che se è stato risposto che i quattordici pezzi sono stati selezionati tra una massa di ben centoventi, quindi rappresentavano il meglio dell’annata, nutriamo i nostri dubbi pure su ciò, anche semplicemente ricordando quanto di buono e di ottimo ci è stato dato di vedere nei festival dell’anno. Che se ci si ribatte, come è stato fatto, che Venezia, nell’annata, arriva buona ultima, e che il suo regolamento vieta di programmarvi film già esposti altrove, ribatteremmo a nostra volta che siffatta disposizione, forse conveniente a festival commerciali e turistici, non ci sembra che lo sia per l’unica e sola Mostra d’arte; dalla quale, del resto, aboliremmo la distinzione tra film in concorso e film fuori concorso, con tutto il relativo armamentario competitorio di giurie di coppe e di leoni. Il lamento, che così sparirebbero dal Lido anche gli ultimi residui di mondanità, ci sembra fuori posto, se è vero, come è vero, che l’arte è una cosa, il turismo e gli affari un’altra. In quanto ai cronisti mondani ed ai «paparazzi» – che quest’anno si sono prodotti in drammatiche querimonie – i loro pezzi di colore e le loro foto piccanti possono benissimo andare a cercarle nei defilés di moda, nei festival cinematografici o canori, nei veglioni e nei carnevali, nei concorsi di bellezza, nelle sagre e nelle gare, di cui, in verità, si lamenta più l’inflazione che la mancanza22.
Inoltre dubitiamo circa la coerenza artistica della Mostra considerando la persona che oggi la dirige, sulla quale, si noti, proprio un regolamento stilato sulla sua misura, fa ricadere tutte e piene le responsabilità delle scelte. Nessuno, infatti, ignora la teoria e la prassi di un’arte e di un’estetica dei contenuti (politici) già da lui polemicamente professata, anche se in contrasto col sottofondo idealistico della sua formazione culturale e col calligrafismo del suo stile di regista; e non è presumibile che egli l’abbia ripudiata – ormai, ovviamente, patrocinando altri contenuti («sociali») – proprio oggi che occupa quel posto per designazione politica. A conferma, come se la programmazione e la premiazione dell’anno passato non fossero state sufficientemente indicative in argomento, notiamo che anche quest’anno le sue scelte e le sue esclusioni – proiezioni pomeridiane comprese – nonché le sue preferenze rispetto agli uomini da lui chiamati a consigliarlo nelle stesse scelte ed a designare i premiandi, sono apparse notevolmente polarizzate in senso, diciamo così, levogiro. Ora, che così agendo s’avvantaggi l’ideologia cui egli serve, è indubbio; ma è anche indubbio che né il prestigio della Mostra né gli interessi dell’arte se ne avvantaggino altrettanto.
Finalmente dubitiamo che i criteri con i quali a Venezia si fa accedere il pubblico alle proiezioni in programma si ispirino sempre coerentemente ad interessi artistici. Prendiamo, per esempio, il pubblico serale in sala. Che senso ha l’obbligo dello smoking per gli uomini, e delle relative acconciature da grande soirée per le donne? A parte lo scarso buon gusto estetico che spesso vi si rileva, e, – in tempi di tanto conclamata democrazia populistica –, a parte l’anacronismo di sfoggi lussuosi alla faccia del pubblico proletario, che, in tenuta normale, deve ripiegare nell’Arena, siffatta prescrizione del regolamento, insieme all’alto costo dei biglietti – 6.000 lire le serate di apertura e di chiusura, 3.500 le altre! – quale apporto mai può dare ad una selezione qualitativa, su piano artistico-culturale, degli spettatori? È proprio dimostrato che gli interessi culturali-artistici siano, in essi, proporzionati al gonfiore dei portafogli ed al taglio snob dei vestiti? E se ciò non è dimostrato, quale valore indicativo dei pregi reali dei film può essere attribuito alle reazioni di siffatto pubblico?
Ancora: con quali criteri viene convogliato nella stessa sala il grosso pubblico delle programmazioni pomeridiane? I pienoni segnati dai film presumibilmente provvisti di certi ingredienti, ed i vuoti segnati da altri che gli stessi ingredienti non contengono o non promettano, la dicono lunga su una massa culturalmente eterogenea, nella quale abbondano i «portoghesi» detentori dei troppi biglietti omaggio, signore anziane e pensionati teneri per divi al tramonto, adolescenti in cerca di esperienze esotiche, perdigiorno che si adattano a spendere mille lire per un film della mostra quando forse non ne hanno mai spese cento per entrare in una galleria o visitare un museo. Dopo aver passato decine di ore in mezzo ad essa e dopo averne seguito le reazioni ed i commenti, francamente il monopolio dell’arte e dell’estetica avocato alla mostra lidense suona alquanto ipocrita.
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Concludendo. Anche nel Vangelo di san Matteo è detto: «Nessuno può servire a due padroni: a Dio e a Mammona: poiché se odierà l’uno amerà l’altro, e se sarà affezionato al primo disprezzerà il secondo» (Mt 6,24). Lo stesso discorso, crediamo, vale per l’arte. Venezia può pure tentare di comporla con gli affari, ma a danno di questi e dell’Arte, e, come in ogni pastetta, ad incremento della confusione e delle polemiche.
Per conto nostro continuiamo a credere che Venezia, se vuole salvare il prestigio che ancora detiene, deve puntare tutto e solo sulla sua fedeltà all’arte. In verità – come abbiamo rilevato – non tutto fu nobile nella sua nascita; in gioventù, poi, i suoi tristi amori col fascismo e col nazismo la traviarono non poco, né in seguito la sua condotta fu sempre irreprensibile. Ma è giusto riconoscere che, tutto sommato, rispetto alla cultura e all’arte cinematografiche, le sue azioni liete ed oneste hanno riscattato i suoi trascorsi. Infatti ad essa, in gran parte, si deve, tra l’altro, se il cinema ha ottenuto diritto di cittadinanza effettiva tra le arti, se la critica dei film ha cominciato ad interessare il gran pubblico cercando di portarne l’attenzione, di preferenza, sui registi piuttosto che sulle dive, e se i migliori film hanno cominciato ad uscire per il mondo oltre i ristretti confini delle singole produzioni.
Le sue nozze d’argento, perciò, non andavano passate sotto silenzio. Le abbiamo dunque ricordate, e le accompagniamo con l’augurio di prammatica: Ad multos annos, verso le nozze d’oro! Ma al servizio non di individui o di gruppi, non di interessi mercantilistici o politici, bensì della cultura e dell’arte più genuine. Che è quanto dire: a servizio dell’Uomo.
1 Desumiamo i dati specialmente dalle seguenti pubblicazioni. Fino alla VII mostra: L. FREDDI, Il cinema, Roma 1949; (F. LEPROTTI), L’Olimpiade del cinema, Roma, XVIII. Pino alla IX mostra: Il film del dopoguerra (1945-1949), Roma 1949. Fino all’XI mostra: F. PAULON, 2.000 film a Venezia, Roma 1951. Fino alla XII mostra: Vent’anni di cinema a Venezia, Roma 1952. Inoltre, un panorama di ricordi personali su tutte le mostre, dovuto alla penna di D. MECCOLI, A. BARACCO, P. GADDA CONTI e A. LANOCITA, in Mostra internazionale d’arte cinematografica, Venezia 1959; e molti dati anche in XXV Mostra internazionale d’arte cinematografica, distribuito dalla Biennale di Venezia in quest’anno 1964.
2 Vent’anni di cinema a Venezia, cit., p, 12.
3 Cfr F. LEPROTTI, op. cit., p. 15 ss.
4 E vi fiorirono anche due di quelle iniziative complementari che in seguito avrebbero cercato d’integrarla sempre più negli interessi del più vasto mondo della cultura. Queste furono: un’esposizione dei film di formato ridotto ed il 1º incontro della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica (FIPRESCI). Segno dei tempi: anche L’Osservatore Romano vi ebbe il suo inviato speciale, nella persona di M. Meneghini, il quale però già della prima manifestazione vi aveva pubblicato una breve relazione consuntiva (Oss. Rom., 24 agosto 1932). Negli anni seguenti continuò a pubblicarvi cronache saltuarie.
5 Il terrificante The invisible man (L’uomo invisibile), di J. Whale; un Viva Villa, superba interpretazione di W. Beery; i fortunatissimi It happened one night (Accadde una notte), di F. Capra, e Little women (Piccole donne), con la K. Hepburn, nonché Queen Christina (La regina Cristina), diretto da R. Mamoulian ed interpretato dalla Garbo.
6 Su designazione del conte Ciano, vi fu nominato funzionario l’odierno direttore della Mostra, Luigi Chiarini (cfr FREDDI, op. cit., vol. I, p. 91).
7 Quali Kermesse héroïque, capolavoro di J. Feyder, The gost goes West (Il fantasma galante), di R. Clair inglesizzato, The trail of the lonesome pine (Il sentiero del pino solitario), di H. Hataway, The great Ziegfeld (Il paradiso delle fanciulle), di R.Z. Leonard, e Night mail, di H. Watt e B. Wright.
8 «I delegati divennero veri rappresentanti ufficiali dei rispettivi governi e costituirono l’unico tramite tra l’industria dei vari paesi e la Mostra. L’ammissione dei film fu quindi subordinata al preventivo giudizio di una commissione internazionale” (L. FREDDI, op. cit., vol. I, p. 431).
9 L. CHIARINI (in Cinema, 1937, n. 28, p. 115) scriveva: «La grande illusione è un film figlio di quel pacifismo comunistoide e patriottardo che caratterizza un certo intellettualismo francese, falso e retorico... Non è chi non veda il falso dell’assunto: il popolo, che oggi è il nerbo della guerra, sa che quando essa si scatena è in giuoco la sua stessa esistenza e la conduce con uno spirito, con una forza e un odio per il nemico che sono, appunto, ignoti agli internazionalismi intellettualoidi...»: ed il suo superiore L. FREDDI, in un minuto rapporto al Duce, sviluppava ampiamente questi concetti (op. cit., vol. I, p. 163 ss.).
10 Sempre L. CHIARINI scriveva: «Scipione l’Africano rappresenta il ritorno al culto della romanità intesa come forza viva ed attiva: opera questa assoluta del Fascismo, che ha levato, appunto, la romanità dalla polvere dell’archeologia e dell’erudizione e l’ha portata nel cuore pulsante del Paese, facendola circolare come mito operante nel popolo... Col Fascismo la Roma antica torna nella sua vera luce e si fonde con quella moderna, la Roma di Mussolini: il legame spirituale tra il Dittatore perpetuo e il Duce appare ogni giorno più evidente attraverso l’abisso dei secoli... Sentinelle di bronzo, dopo il Grande appello, che rappresentava la conquista dell’Impero, è già il film della coscienza imperiale di un popolo... I Condottieri, invece, rappresenta... lo spirito militare su cui deve basarsi l’unità della nazione: spirito militare che, per gli italiani, è eroismo, slancio, generosità... Chiediamo film che esprimano lo spirito del nostro popolo così come è stato forgiato dal Fascismo: dei film che accendano gli spettatori per quegli ideali... di cui il Duce ha parlato, e che danno un alto e nobilissimo significato alla nostra volontà di potenza, al nostro spirito guerriero e militare» (Lo schermo, 1937, n. 8; Fascismo e letteratura, Roma 1936, pp. 19 e 13; Cinematografo, Roma 1935, p. 50).
11 La proposta di affiancare retrospettive artistico-culturali alla Mostra era stata avanzata, fin dalla seconda edizione, dallo storico e regista F. PASINETTI (cfr XX Mostra..., cit., p. 40).
12 Cfr Venti anni..., cit., pp. 21-27.
13 Da ricordare, per il resto, il trio francese: La béte humaine (L’angelo del male), di J. Renoir, la Fin du jour (Prigionieri del sogno), di J. Duvivier, e Le jour se lève (Alba tragica), di M. Carné; nonché l’inglese The four feathers (Le quattro piume), di Z. Korda, gli svedesi Gläd dig i din ungdom (Giovanotto, goditi la tua giovinezza), di Per Lindberg, e En handful ris (Un pugno di riso), di P. Fejos.
14 Impose un programma di lavori forzati, con 76 film a soggetto e centinaia di altri pezzi: di retrospettive (espressionismo tedesco, cinema svedese, francese e U.R.S.S., con due film del grande Eisenstein), personali (di Dreyer, Pierre e Jacques Prévert, J. Renoir, G. Alecsandrov, R. Siodmak...), sezioni speciali (documentari, film per ragazzi, arte metafisica e surrealistica)...
15 Da rilevare, sotto il profilo cattolico ed ecclesiastico, l’inclusione di un sacerdote nella giuria, nella persona del belga p. Félix Morlion O.P., unico straniero tra otto italiani, e l’assegnazione di un Premio O.C.I.C. (Office Catholique International du Cinéma) al film che par son inspiration et sa qualité contribue le mieux au progrès spirituel et au développement des valeurs humaines. Il premio fu assegnato a The fugitive (La croce di fuoco), di J. Ford, all’unanimità. Su questo film, forse più ricco di buone intenzioni che di valori religiosi, cfr il severo giudizio di N. GHELLI, suffragato da quello di A. AYFRE, in Cronache del cinema e della televisione, 1959, n. 29, p. 74. Il primo premio dell’O.C.I.C. era stato attribuito a Vivere in pace, di L. Zampa, presentato a Bruxelles nel 1947.
16 Nel 1949 l’istituzione veneziana inizia anche la pubblicazione dei Quaderni della Mostra, editi da Bianco e Nero (e poi Edizioni dell’Ateneo), col volume 11 film del dopoguerra: 1945-1949, cit.; nell’anno successivo seguì Venezia 1950, rassegna della produzione mondiale degli ultimi dodici mesi, col proposito di ripeterla ogni anno; ma non seguirono i fatti. Per la lista completa di essi cfr: VIII Mostra intern. del libro e del periodico cinemat., Venezia 1963, p. 180.
17 Inoltre, vicino al tedesco, amaramente satirico, Berline Ballade (Ballata berlinese), di R.A. Stemmle, si vide l’inglese ironico e comico Kind hearts and coronets (Sangue bleu), di R. Hamer, mentre i business men U.S.A., sempre fedelissimi a se stessi, continuando a fagocitare i registi dovunque li trovassero, piegavano agli incassi il comico in The three caballeros, dell’americano W. Disney, la psicanalisi in Snake pit (La fossa dei serpenti), dell’ucraino A. Litvak, il drammone truculento in Champion (Il grande campione), del canadese M. Robson, e financo il sentimentalismo e la poesia di Johnny Belinda, del rumeno J. Negulesco, e di Portrait of Jennie (Il ritratto di Jennie), del tedesco W. Dieterle, nonché la recente lezione del più umano realismo italiano in The quiet one, del dilettante documentarista S. Mayers.
18 Basti ricordare, per la Francia, l’elegantissimo ed immoralissimo La ronde, di M. Ophuls, il prezioso Orphée, di J. Cocteau, Justice est faite (Giustizia è fatta), primo esemplare del film-arringa specialità del regista-avvocato A. Cayatte, e finalmente il drammatico ma ambiguo Dieu a besoin des hommes (Dio ha bisogno degli uomini), di J. Delannoy; per l’Inghilterra, l’eccellente Gives us this day (Cristo tra i muratori), di E. Dmytryk; per l’Italia, il polemico Francesco giullare di Dio ed il disuguale Stromboli, di Rossellini, nonché il fortunato didattico Domani è troppo tardi, di L. Moguy; per gli Stati Uniti un buon manipolo di film al limite tra l’alto mestiere e l’arte, quali Cinderella (Cenerentola), di W. Disney, Asphalt jungle (Giungla d’asfalto), di J. Huston, All king’s men (Tutti gli uomini del re), di R. Rossen, e Panie in the streets (Bandiera gialla), di E. Kazan.
19 Il fatto si ripeté nell’edizione del 1956, ancora una volta defraudando la cinematografia giapponese, che se l’era guadagnato di forza con l’eccellente Biruma no tategoto (L’arpa birmana), di Kon lchikawa.
20 Cfr Valori artistici e morali alla XV Mostra cinematografica di Venezia (Civ. Catt. 1954, I, 46-62), Equivoci e certezze alla XVI Mostra cinematografica di Venezia (Civ. Catt. 1955, IV, 148-162), La formula buona (Civ. Catt. 1956, IV, 49-62), Cinema affari ed arte a Venezia (Civ. Catt. 1957, IV, 152-166), La XX Mostra cinematografica di Venezia (Civ. Catt. 1959, IV, 279-291), La XXII Mostra d’arte cinematografica (Letture, 1961, pp. 688-700, 771-781), La Mostra veneziana del trentennio (Letture, 1962, pp. 688-703) e Utopie e realtà nel trentennale di Venezia (Civ. Catt. 1962, IV, 241-254), XXIV Mostra veneziana del cinema (Letture, 1963, pp. 696-708) e Cannes-San Sebastian-Venezia (Civ. Catt. 1963, IV, 234-247, 473-486).
21 Eccoli, in ordine alfabetico di nazioni. I titoli chiusi in parentesi quadre sono dei film presentati fuori concorso. Quelli invitati dalla Direzione sono preceduti da un asterisco.
BULGARIA (1): * Kradezat na praskovi (Il ladro di pesche), di V. Radek. – FRANCIA (3): * Les amitiés particulières (Le amicizie particolari), di J. Delannoy; * La femme mariée (La donna sposata), di J.-L. Godard; La vie à l’envers (La vita alla rovescia), di A. Jessua (premio opera prima). – GERMANIA (1): Tonio Kröger, di R. Thiele. – INGHILTERRA (2): The giri with green eyes (La ragazza dagli occhi verdi), di D. Davis; * King and country (Per il re e per la patria), di J. Losey (Coppa Volpi d’interpretazione maschile, a Tom Courtenay). – ITALIA (3): * Deserto rosso, di M. Antonioni; (Leone d’oro); [La donna è una cosa meravigliosa, di M. Bolognini]; * Il vangelo secondo Matteo, di P. P. Pasolini (premio speciale della giuria; premio O.C.I.C.). – SVEZIA (2): * Att alska (Amare), di J. Donner (Coppa Volpi d’interpretazione femminile, a H. Anderson); [* For att inte tala our alla dessa kvinnor (A proposito di tutte queste donne), di I. Bergman]. – U.R.S.S. (1): Hamlet (Amleto), di Gr. Kosinzev (premio speciale della giuria). – U.S.A. (1): * Nothing but a man (Vivere da uomo), di M. Roemer.
22 Anzi, per conto nostro, non verseremmo una lacrima neanche se dalla Mostra si eliminassero la selva di cartelloni ciarlataneschi e le vetrine da pizzicagnoli, addobbate in esaltazione di film polpettoni e di divi, che con l’Arte hanno da spartire anche meno di quel ricco ente turistico che quest’anno, non si sa a quale titolo, si è allogato in pieno Palazzo.