Articolo estratto dal volume III del 1971 pubblicato su Google Libri.
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I precedenti
Senza contare i progetti non realizzati ed i film nei quali egli è personaggio di spalla1, san Francesco d’Assisi è apparso sugli schermi almeno otto volte; con esiti, in verità, molto disuguali.
Salvo sviste, la prima volta fu nel 1911, ad opera dell’ancora oscuro metteur en scène Enrico Guazzoni (il suo celeberrimo Quo vadis? è del 1912). Di quel San Francesco, o Il poverello di Assisi, della Cines (metri 443), si ricorda solo che al Santo prestò la sua faccia, già patibolare, il cascatore (oggi si direbbe stuntman) Emilio Ghione, poi famigerato Za la mort, mentre a santa Chiara toccò in sorte l’opulenta bellezza di Itala Almirante Manzini: futura regina Sofonisba nel famoso Cabiria, di Pastrone (1914).
Seguì, nel 1918, un Frate Sole, autore e realizzatore (con Ugo Falena) il giornalista e commediografo Mario Corsi2. La “restituzione francescana, [...], poema sacro in quattro canti per orchestra e cori” – come lo presentò l’agendina dell’Augusteo, di Roma, il 7 giugno 1918 – fu lanciata quale ambizioso prototipo di una (ritoccata) wagneriana Gesamtkunstwerk: “l’opera più significativa di una nuova orientazione del cinematografo verso una specie di sfruttamento culturale...”. Garante, infatti, per la verità storica ne era il famoso francescanista Jörgensen; per la scenografia Duilio Gambellotti; per la musica, con cui il film faceva un tutt’uno, Luigi Mancinelli. Impersonava san Francesco l’allievo prediletto di Zacconi Umberto Palmarini, affiancato da due attrici allora sulla cresta dell’onda: Silvia Malinverni e (la moglie del Corsi) Rina Calabria. Ma al lancio – forse perché si trattava più di un ibrido, sia pure di buona fattura, che di un autentico nuovo genere –, nonostante l’autorevole appoggio di scrittori come Fausto M. Martini (su La Tribuna) e di Goffredo Bellonci (sul Giornale d’Italia), non seguirono gli esiti sperati.
Successo non migliore – il cinema muto aveva ormai i giorni contati – ebbe il Frate Francesco che Giulio Antamoro diresse per il VIIº centenario della morte del Santo (1926)3, nonostante la superba interpretazione del Poverello da parte di quell’Alberto Pasquali che era stato indimenticato protagonista del colossale Christus (1916) dello stesso regista.
Doppiato in italiano, circolò nel 1948 un Poverello di Assisi, del brasiliano Alberto Cout: vero oltraggio – oltre che alla storia ed alla religione – al buon gusto. Lo riparò, in qualche modo, nel 1949, il nostro Rossellini con Francesco, giullare di Dio: fresca rievocazione dei Fioretti e (discussa) vetta poetica del caposcuola del neorealismo italiano4, che però – roba squisita, consommé; per palati fini – ebbe men che scarso successo commerciale.
Il popcorn, se non proprio il pane e salame, per le platee dal gusto grosso, venne, made in Usa, in cinemascope e Color De Luxe, nel 1961. Confezionatore ne fu l’ormai ottantenne tuttofare hollywoodiano Michael Curtiz, il quale modellò un commerciale Francis of Assis, fratello cugino di Captain Blood, di Robin Hood e di altri avventurieri a lui congeniali.
Con Pier Paolo Pasolini, nel 1966, inizia l’interpretazione del Santo di Assisi in chiave sociale moderna. L’allora deluso poeta del sottoproletariato portò sugli schermi un Francesco ingenuo predicatore di giustizia e di pace tra Uccellacci (i borghesi del capitale) ed uccellini5 (i proletari inermi): ingenuo, ed anche lui socialmente inconcludente, come il Cristo suo modello, che lo stesso regista, in Vangelo secondo Matteo (del ’64), aveva presentato, non profeta ed operatore del messianico “Regno dei cieli”, ma tribuno, appunto inefficace, di un antiborghese “Regno della terra”.
Nello stesso anno Liliana Cavani portava, prima sugli schermi televisivi e poi su quelli cinematografici, il suo primo lungometraggio, in cui, se nel rigore stilistico emulava il Vangelo, insieme dilatava e storicizzava il messaggio del Poverello di Pasolini. Infatti il suo Francesco d’Assisi6 non era più l’illuso predicatore di passeri e di falchi, ma il contestatore, scandaloso perché efficace, di tutti gli odierni valori borghesi, nonché il cristiano pericoloso, perché ardisce “scommettere” sull’applicazione integrale del Vangelo, magari brandito un po’ come il Libretto rosso di Mao, fuori tuttavia ancora dal crescendo antiecclesiale raggiunto dal recente Galileo (del ’68) e nel recentissimo I cannibali (del ’70)7.
Un contestatore ideale...
Nono film, dunque, della “serie San Francesco”, il film di Zeffirelli8 non vuol essere una ricostruzione storica, tanto meno un documentario; ma una libera rielaborazione dei dieci anni che vanno dalla partenza in guerra di Francesco ventenne, manesco e scapigliato, contro Perugia, all’incontro di Francesco, trentenne “poverello”, a Roma col grande Innocenzo III. Nulla, perciò, dei suoi viaggi missionari in Oriente, né delle traversie coi suoi frati e con la corte romana per la sua “Regola”, sulle quali insiste tanto la Cavani; niente delle stimmate nella solitudine della Verna, né della sua morte nella Porziuncola. Immaginato a fantasia un Bernardo da Quintavalle reduce dalle crociate, anticipato l’incontro di Francesco con Chiara; ingiovanita questa – che, in realtà, alla vestizione (1212) aveva diciott’anni –, ed eccessivamente invecchiato Innocenzo III – che all’incontro con Francesco (1210) non superava i cinquanta.
Ma rielaborazione ed interpretazione di un Francesco, come quello di Pasolini, con l’occhio e la mente alla società di oggi; ed anche alla Chiesa di oggi: l’una e l’altra “borghesi” più che non lo fossero nel duecento; quindi da contestare. Ecco perciò – come quello della Cavani, ma in toni, come vedremo, più allegorici che polemico-realistici – un Francesco “contestatore globale” su due fronti: sociale-laico ed ecclesiale.
Su un piano sociale-laico Zeffirelli confeziona un moderno hippy ideale. Ricco e figlio unico, Francesco di Pietro Bernardone pianta traffici e fondaco e si veste di stracci; si inimica il padre, facendosela con gli accattoni e con i proletari da lui sfruttati. Fa gruppo con quattro giovani, anch’essi ex sofisticati borghesi, e, a suo modo “figlio dei fiori”, contesta la “civiltà consumistica” del tempo tornando alla natura, accompagnato da un’ante litteram musica-folk. Figlio di papà, abbandona l’“Assisi-bene” per vivere del proprio lavoro e, quando questo non basta, di elemosine. Rinuncia alla guerra non per fare, marcusianamente, all’amore, o per evadere nella droga – come i fragorosi ed oziosi easy readers di Peter Fonda e di Denis Hopper –, ma per vivere, cristianamente, la carità.
Sotto l’aspetto ecclesiale il Francesco di Zeffirelli vuole essere il cristiano modello nella Chiesa in crisi di questo post-Concilio. Non cieco, dunque, ai problemi dell’ora, ma neanche carismatico dissidente per partito preso. Impegnato a liberarla, questa Chiesa, dalle incrostazioni storiche che ancora la mostrano più amica di Mammona ed alleata dei potenti, che testimone delle Beatitudini: ma non a demolirla con la polemica corrosiva, o con la ribellione dei fatti compiuti. Perciò, costituitosi con i suoi giovani amici in gruppo spontaneo, non teme, lui laico, di usare, come oggi si dice, il suo carisma profetico, propugnando il ritorno ad un integrale “Vangelo dei poveri”, sine glossa; ma, a differenza di molti movimenti carismatici che lo precedettero e lo seguirono – umiliati, arnaldisti, valdesi... –, il suo non è pauperismo anticlericale ed antigerarchico. Al contrario: ben distinguendo tra indegnità di persone, discutibilità delle loro iniziative – Innocenzo III è il papa della crociata contro gli albigesi! – e legittimità della loro funzione, ci tiene a sollecitare la verifica del suo carisma da tutte le istanze della gerarchia istituita, da quella locale sino a quella suprema romana.
...ma scarsamente efficace
Film, dunque, dal messaggio, tutto sommato, ortodosso, questo Fratello Sole, Sorella Luna: da proiettare e da proporre, perciò, come alternativa, sia agli hippies della contestazione globale-sessuale (alla Marcuse), oppure anarchica (alla Mao-Feltrinelli), sia a certi cattolici e preti del dissenso, carismatici di un riscaldato los von Rom; ed anche alle legioni di cristiani tali di nome, ma di fatto servi fedeli del consumismo imperante9. Ma, opiniamo, con risultati molto modici.
Prima di tutto perché Zeffirelli, autore – come vedremo – di gusto raffinato, ma anche impresario accorto ed attento al box office, ha di proposito escluso, come commercialmente improduttivo, l’ascetismo tecnico, poniamo, di Rossellini10, e si è ingraziato il grande pubblico scialando in scenografie, attori, comparse, costumi sgargianti e robe lussuose. Il suo, perciò, è uno strano panegirico del Poverello e di Madonna Povertà; un panegirico che, tra dare e avere, suppone ridde di milioni e fior di miliardi. E si aggiunge, a snervare quel messaggio, il genere e lo stile – tra il teatrale ed il favolistico-romantico – del film, congeniale alla personalità culturale ed estetica del regista più che non la critica di costume e l’impegno sociale o ecclesiale.
Zeffirelli, scenografo e regista di teatro, soprattutto scespiriano, di fama mondiale11, uomo di teatro è rimasto quando – e con questo film egli è alla terza grande prova – è passato alla regia cinematografica. Padronissimo dello strumento, imparato a maneggiare alla scuola soprattutto di Visconti12, più che esprimersi in immagini, egli trascrive e riveste idee situazioni ed eventi non cinematografici con immagini tecnicamente ma non nativamente filmiche. Così ha fatto con La bisbetica domata (1967) e così, anche se in misura alquanto minore, con Romeo e Giulietta (1968): film certamente d’alta classe per splendore formale, ma d’inconfondibile impianto teatrale-scespiriano.
Né fa eccezione questo San Francesco; anche se, non legato ad un testo letterario, questa volta Zeffirelli non vi è “trascrittore” e trasportatore, ma piuttosto illustratore e decoratore dei fatti storici che egli va liberamente rielaborando. Tutto, infatti, vi ubbidisce a convenzioni spettacolari. Non realistico, ma di scelta teatrale, vi è il materiale umano: dal “candido” protagonista ai suoi, tutti e quattro “tipici”, amici e seguaci; dalla “deliziosa” Chiara ai “caratteristici” personaggi di contorno, ed alle diligentemente “costruite” e disposte masse di comparse: tutti impegnati – e bisogna riconoscere che, ottimamente diretti, se la cavano splendidamente - a “rappresentare” i rispettivi ruoli. Convenzionale il dialogo: concettoso e didascalico; teatrali i costumi: da Arena di Verona, da Covent Garden, da Terme di Caracalla.
La bella fiaba
Lo spettacolo – come soltanto i mezzi tecnici del cinema permettono e che gli esuberanti mezzi finanziari gli hanno consentito – è superlativamente grandioso; si direbbe “alla De Mille”, se in Zeffirelli non imperasse quel senso di aristocratica misura che mancava all’arrivato confezionatore di Hollywood. Ovviamente in schermo panoramico ed a colori, tutto vi tende all’iperbole. Per esempio i costumi: tutte bellissime le armature, monumentale l’orpello di Ottone di Brunswick, superbe le acconciature borghesi, felliniani i paludamenti dei gerarchi ecclesiastici, straccissimi invece gli stracci di Francesco... Le facce: stragonfi i grassi, scricchiolanti i secchi; ceffi da galera i cattivi, da pinacoteca i vegliardi e le bellezze muliebri...; le situazioni: Francesco che colloquia con gli uccelli, non in piana terra, ma sullo scrimolo dei tetti; Francesco che scende tra i forzati di una tintoria-galera paterna alla Zola-Balzac; Francesco che, non contento di denudarsi lui, spoglia anche il padre di tutte le sue mercanzie, gettando in strada, dall’alta casa-torre (il che, oltretutto, fa un bellissimo vedere) sgargianti sete ed aurei broccati; Francesco accolto in un’udienza papale da Mille e una notte... ; le scenografie: fluttuare di garze intorno al letto di Francesco reduce deluso; salgariana “taverna dei tesori” di Pietro Bernardone; ondeggiare di gigli, tappeti di papaveri, dorati mari di spighe, chiare dolci e fresce acque a sfondo di preraffaelliti incontri di Francesco con una Chiara chiarissima, e dei bucolici lavacri dei suoi frati; fughe di incensieri, friggitorie di ceri accesi, luccicare di musaici rinforzato da mobili lustrini, profondità grandangolari, a fare, del già magnifico normanno Duomo di Monreale, la magnificenza delle magnificenze, il super-Barnum cortigiano-liturgico della Curia papale...
Quando lo spettacolo tocca questi vertici, ogni rapporto con la realtà viene dimenticato. Siamo al Milione di Marco Polo. “C’era una volta, in un paese lontano lontano chiamato Katai, un principe che si chiamava Bernardone. Questo principe aveva accumulato nel suo castello casse di monete d’oro e di pietre preziose, e montagne di broccati di rasi di damaschi e di velluti, che i suoi sudditi, poverini, lavoravano notte e giorno, senza mangiare, nelle grotte del castello. E questo principe cattivo aveva un figlio giovane e buono, che si chiamava Francesco, il quale un bel giorno, in un campo di gigli, in riva ad un ruscello, incontrò una principessa dai capelli d’oro...”.
Non c’è che dire: la favola è meravigliosa e commovente, ma favola; anzi – accompagnata com’è da couplets trovadorici – esotico melodramma, quasi musical, in cui il messaggio socio-ecclesiale finisce col dissolversi in godimento estetico-formale. Siamo, si direbbe, ad una variante delle due fiabe scespiriane di Zeffirelli cineasta, con un Francesco che, a suo modo, novello dolce e mite Petruccio, doma una novella bisbetica bifronte Ketty: la società borghese e la Chiesa mercantile del duecento; un Poverello ed una Madonna Povertà, che vivendo la più bella storia di amore, negano e superano tutte le divergenze di mentalità di interessi e di valori che oppongono ed opporranno antichi e nuovi Montecchi e Capuleti. Tutto bene, tutto perfetto come spettacolo. Cala il sipario. Il pubblico applaude l’autore (bravissimo), gli attori (bravi), ed esce soddisfatto.
Quel che resta
Sotto questo aspetto, al messaggio favolistico del Francesco di Zeffirelli forse è da preferire quello, religiosamente scarso ma socialmente più sentito, del Francesco della Cavani; ed anche quello, più poeticamente e cristianamente rivissuto, del Giullare di Rossellini. Tuttavia può anche succedere – e c’è da augurarselo – che, malgrado tutto, qualche spettatore resti preso dal fascino umano e cristiano del Francesco storico per quel tanto che della sua testimonianza, di schietta umanità e di autentica santità, traspare ancora della trasfigurazione dell’apologo. Può, infatti, ripetersi quel che si è verificato col Vangelo secondo Matteo, dove le parole di Cristo – a prescindere dalle intenzioni, e malgrado la palese scelta ideologica di Pasolini – hanno continuato ad operare vitalmente, secondo una propria, intrinseca, quasi sacramentalità. E di ciò dobbiamo essere grati a Zeffirelli.
Ma dobbiamo essergli grati anche per un’altra ragione. In una Italia, dove il cinema va sempre più dimostrando13 di essere “mezzo di espressione artistica” moltiplicando i Decameroni, vuoi nostrani vuoi francesi e inglesi, e sguazzando in giornali intimi e in giuochi svedesi; dove il cinema incrementa la “formazione culturale” sfornando franchingrassia e western-spaghetti, ed aiuta la “comunicazione sociale” devastando allegramente la famiglia, dissacrando ogni contenuto e simbolo religioso, demolendo quel che resta del senso dello Stato e del vicendevole rispetto civile; egli ha avuto il coraggio di dire al pubblico: venite a vedere una storia meno rorida di Love story e più rivoluzionaria di Easy readers, dove un giovanotto ed una ragazza non si vergognano di essere puliti, di credere ancora ai sentimenti e agli ideali, di impegnarsi all’amore degli altri – quello vero, quello del dono totale – senza residui e senza pentimenti.
Con un film così verginale e dolce, Zeffirelli pensa di rientrare nel fior dei milioni e dei miliardi di cui sopra? Poco male! Comunque, sempre meglio dei tre miliardi e mezzo finora incassati dal capofila dei Decameroni, e dei cinque miliardi incassati – alla faccia del proletariato! – dall’epigono dei western-spaghetti Continuavano a chiamarlo Trinità.
1 Salvo errori. almeno quattro. II più elaborato, almeno sulla carta, è quello pubblicato nel 1937 dal poeta crepuscolare GUIDO GOZZANO (Milano, Treves, Opere, vol. V; nell’edizione di Garzanti, Milano 1948, a p. 1141 ss.) – EUGENIO FERDINANDO PALMIERI, che ne parla in Vecchio cinema italiano (Venezia 1940, 190 ss.) riferisce: “Non credere – scriveva il poeta ad un amico – che in me sia discesa l’ora di grazia [...]. Ma il mio intelletto trema inesplicabilmente [...]. Ammiro l’eroismo del Poverello che, contro la volontà del padre, rinunciò alla vita galante consentitagli dall’agiatezza per andare a predicare la fratellanza [...]. Lo scenario, in cinque parti, comincia e finisce con questa visione: “Paesaggio assisiano. Molto panoramico. La Porziuncola, piccola al centro. L’anima del Serafico si disegna tra terra e cielo. Egli appare in piedi, rigido, diafano, come nelle vetrate, le mani incrociate e i piedi congiunti. S’alza a poco a poco in uno sfondo celeste dove turbina dapprima una gran corona di spine che si cambiano in rose, poi una corona di rondini che si cambiano in serafini. La visione, dapprima concreta, si fa sempre più diafana e luminosa, fino a semplice schermo abbagliante, dove si disegnano le parole di lui Pax et bonum!” – E commenta il Palmieri: “Fantasia dolcemente gozzaniana”.
Nel 1938, in Francia, si parla di un San Francesco che doveva essere interpretato da Pierre Blanchar (il Raskolnikof di Crime et chátiment di Chenal, e il medicastro di Camet de bai di Duvivier) cfr Cinema, 1938, n. 43, 226).
Nel 1950 il produttore italiano Giorgio Filippi pensa ad un San Francesco da affidare ad Augusto Genina. Nel 1955 riprende seriamente il progetto, affidando la regia al documentarista Vincenzo Lucci Chiarissi, ed il ruolo del Poverello a Giorgio Albertazzi (dopo il rifiuto di Orson Welles e di Jean-Louis Barrault). Ma l’impresa misteriosamente crollava nel luglio 1956 (STELIO MARTINI, in Cinema nuovo, 1956, n. 93, 232).
E pare che anche l’ottanenne Léon Poirier – che aveva amorosamente trattato Charles de Foucauld in L’appel du silence (1936) e la Route inconnue (1948: cfr Civ. Catt. 1969 IV 616) – pensasse di tradurre in immagini il suo fortunato romanzo Un homme appelé François d’Assise (1956).
Tra i film in cui il Santo compare come personaggio di spalla, il giustamente caduto nell’oblio La tragica notte di Assisi (1960) di Raffaello Pacini (autore di un altrettanto bene intenzionato, ed altrettanto inutile, La Monaca di Monza, del 1947).
2 Il quale, venti anni dopo, ne riferiva nostalgicamente in Cinema, 1938, n. 43, 226.
3 Con la sua consueta dotta ignoranza, CH. FORD (in Revue internationale du cinéma, 1957, 26, 38), lo dà come "le premier film consacré à saint François d’Assise”.
4 Tra i molti che ne hanno scritto, pro e contro, cfr: AGEL, Le prêtre à l’écran, 1953, 28; Le cinéma et le sacré, 1953, 75; P. BALDELLI, in Cinema, 1950, n. 46, 137; 1951, n. 55, 37; in Rivista del cinema italiano, 1954, n. 11, 55; e in Sociologia del cinema, 1963, 138. G. BEZZOLA (che lo stronca), in Cinema, 1951, n. 63, 287; G. FORD, Le cinéma au service de la foi, I 953, 96. B. RONDI, in Rivista del cinema italiano, 1955, n. 1, 88, e in Filmcritica, 1964, n. 147, 369 ss.; G.L. RONDI, Il neorealismo italiano, 1951, 21. Inoltre le riviste: Bianco e nero 1950, n. 11, 22; 1951, n. 7, 21; n. 2, 10 e 17; 1955, n. 5, 28; (col pensiero del regista) 1964, n. 1, 13 ss.; Cinema, n. 35, 175; n. 46, 137; n. 59, 164; Humanitas, 1958, n. 11, 797.
5 Cfr la sceneggiatura nell’omonimo volume Uccellacci e uccellini, Milano, Garzanti, 1966 (Civ. Catt. 1966 II 482).
6 Cfr la sceneggiatura nel volume di LILIANA CAVANI, Francesco e Galileo, Torino, Gribaudi, 1970 (Civ. Catt. 1971 III 199).
7 Cfr Civ. Catt. 1970 IV 473.
8 Fratello Sole, Sorella Luna (1972), regia di FRANCO ZEFFIRELLI, soggetto dello stesso e di SUSO CECCHI D’AMICO e LINA WERTMULLER; costumista DANILO DONATI; arredatore RENZO MONGIARDINO. Attori principali: GRAHAM FAULKNER (Francesco), JUDI BOWKER (Chiara), LEE MONTAGUE (Pietro Bernardone), VALENTINA CORTESE (Pica, madre di Francesco), ALEC GUINNES (Innocenzo III).
9 Conferma, in un colloquio (L’Osservatore Romano, 14 giugno 1972), lo stesso ZEFFIRELLI: “Mi sembra che il film non sia affatto un’esaltazione del paganesimo hippy, ma il contrario: indica agli hippies che sono sulla buona strada, ma che manca loro il soffio divino perché la cera diventi carne Gli hippies sono rimasti alla cera appunto perché non hanno ancora ricevuto il soffio del verbo cristiano. Il fatto che il film voglia essere un aggiornamento del messaggio francescano è inevitabile [...]. Comunque il discorso che volevo fare non era quello sulla santità di Francesco. [...]. La sua vera santità è stata nell’esempio, nella coerenza, nella testimonianza, nella impeccabile e inflessibile rinuncia al male. Tutta la sua vita è stata il bene: è stata prendere alla lettera le parole del Vangelo. Ora la traduzione di tutto ciò in termini contemporanei e cinematografici porta al ritratto di un giovane che possa assomigliare a qualcuno di oggi: non deve essere un personaggio remoto, dev’essere un personaggio il piu vicino possibile alla nostra realtà. E infatti i giovani si sono riconosciuti eccome in questo ragazzo”.
10 Nel colloquio citato – dopo aver malaccortamente affermato: “Non si creda che io non sappia fare un film come Francesco, giullare di Dio. Lo saprei fare benissimo. Non è un film molto difficile. Basta prendere i Fioretti, qualche frate vero, e andare in giro a fare improvvisazioni sul tema” –, ZEFFIRELLI rileva veristicamente: “Ma quante persone hanno visto il Francesco di Rossellini? in Italia, al massimo, ottomila persone. Non si può fare un discorso limitato a un’élite che già sa tutte le risposte. L’intenzione mia era allargare a macchia d’olio il discorso che bisogna portare alle grandi masse. E per questo le menti sofisticate sono rimaste insoddisfatte. Ciò non toglie che il film rimanga sempre e comunque un film cristiano”.
11 Nato a Firenze nel 1923, diplomato all’Accademia delle Belle Arti ed iscritto alla facoltà di architettura della stessa città. I suoi interessi artistici, oltre che a Shakespeare (celebri le sue regie in Italia, Parigi, Vienna, Inghilterra, USA ed URSS), e ad altri drammaturghi, classici e moderni (Cecov, Albee, Miller, Verga, Shaffer...), si sono vòlti, con risultati che hanno fatto data, al teatro lirico (Rossini e Verdi, Donizetti, Mascagni, Leoncavallo...). Recentemente (primavera 1970), per la RAI-TV, alla presenza di Paolo VI, ha curato la regia della Missa solemnis di Beethoven, diretta da Wolfgang Sawallisch, prima esecuzione del genere nella basilica di San Pietro.
12 In la terra trema (1947), Bellissima (1951) e Senso (1953). Ha collaborato anche con Petrangeli in Il sole negli occhi (1953).
13 Il Nuovo ordinamento dei provvedimenti a favore della cinematografia (Legge 4 nov. 1965, 1213) comincia con questa – forse sarcastica – professione: “Art. 1. Presupposti e finalità della legge. – Lo stato considera il cinema mezzo di espressione artistica, di formazione culturale, di comunicazione sociale...”.