Articolo estratto dal volume II del 1959 pubblicato su Google Libri.
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Una delle alterazioni patologiche più diffuse nel costume odierno è il divismo: televisivo, sportivo, cinematografico. Nazionale, e quasi ancora in incubazione il primo; più che nazionale, dilagante, ma piuttosto ad andamento acuto il secondo; pandemico, cronico e con punte parossistiche il terzo. E la stampa ne è la più vistosa manifestazione esantematica, come il rossore e il prurito nella risipola; ed insieme ne è l’agente di contagio più efficace: alquanti giornali e settimanali, farciti con le più iperboliche metafore per il divismo sportivo; innumerevoli giornali, settimanali, ed anche volumi, per quello cinematografico, lardellati d’illustrazioni procaci a compenso delle futili falsità che di solito li riempiono.
Chi li acquista e li legge vi perde il danaro, il tempo e il pudore, e rimbambisce; perciò, fame oggetto d’indagine e scriverne su una rivista, che intende rispettare e tutelare e il tempo e il danaro e la morale e la cultura dei suoi lettori, si direbbe non conveniente; tuttavia il fenomeno è tanto indicativo del costume del tempo nostro, ed implica tali risonanze, appunto, nei valori della cultura e della morale – oltre che in quelli dell’economia nazionale e mondiale – che la notizia di alcuni volumi che ne trattano è da ritenersi utile.
Naturalmente, c’è maniera e maniera di trattare l’argomento. Per esempio: G. Gentilhomme1 ne scrisse (siamo nel 1950) col distacco di un professionista e, diciamo anche, con coscienziosità onesta. Un lettore intelligente non tarderà a rilevare nel suo volumetto, di carattere pratico-didattico, prima la natura equivoca dei successi divistici, che pretendono appoggiarsi su capacità artistiche, o almeno di mestiere, dei loro candidati, ma di fatto spessissimo vengono raggiunti per vie che con l’arte e la cultura non hanno nulla che fare; e poi gli avvilenti pedaggi che certi successi richiedono, dai quali la morale non esce certo indenne, né la dignità della vedetta, e spesso neanche la sua felicità terrena. Sotto questo rispetto, alcune pagine, e le righe che chiudono il volumetto, proprio per la loro crudezza, testimoniano della sensibilità morale dell’autore. Ma, evidentemente, scritti di questa fatta, più che incrementare il divismo lo smontano; perciò non riscuotono grande successo presso certo pubblico di medio livello culturale e morale. Se ne assicurano, invece, uno lusinghiero quegli scritti che, pur presentandosi privi di certi richiami grossolani, e magari vantando questa loro qualità, introducono i lettori nel vacuo mondo dei divi, non accorgendosi i loro autori di diventare con ciò essi stessi promotori del fenomeno, che forse condannano. Oltre alla collana già da noi presentata in questo periodico2, appartengono a questa categoria, per esempio, la galleria di ventiquattro medaglioni di divi e di dive raccolta da G. Beaume nel 19543, e lo zibaldone autobiografico pubblicato dal russo G. Annenkov nel 1952, tradotto in italiano nel 19554. Per quanto i due autori possano vantare un’indiscutibile conoscenza del mondo divistico – il primo come collaboratore di una nota rivista cinematografica, il secondo come costumista, da trenta e più anni, in film di primo piano e di divi tra i più noti – e perciò contino innumere esperienze dirette nel mondo di cui riferiscono, appunto per questo sta al lettore intelligente lo sceverarvi il vero dal manipolato e l’intuirvi dal detto il non detto; sta poi al moralista e al sociologo rilevarvi i dati più probanti della mediocrità morale, se non dello squallore, di certe grottesche moderne contraffazioni dell’ormai desueto De viris illustribus e della ormai dimenticata Leggenda aurea; infine, sta agli specialisti di teorie estetiche e di filmologia farvi le opportune considerazioni e deduzioni su certi rotismi del cinema arte-industria e sulla loro dinamica, che spiega il nascere e il maturare degli stereotipi fondamentali della mitologia odierna. Al limite della graduatoria, dalla editoria divistica, diciamo cosi, tecnico-professionale a quella che confina con la più frivola e scandalistica – la quale ultima, naturalmente, non crediamo che sia degna di essere nominata nella nostra rivista – nel 1957 è uscito un volume5, purtroppo italiano, che da solo è un documento quanto mai probante di quell’aberrazione civile e morale di cui il divismo è insieme fonte, stimolo e volgarissima manifestazione. Si tratta della non onorata fatica del noto organizzatore del concorso nazionale di bellezza, che da una quindicina di anni sta sfornando miss: vuoi sorriso, vuoi Italia, vuoi cinema. Egli vi narra, appunto, vita, morte, lotte, miracoli e trionfi di questa sua non gloriosa impresa, vantando i nomi da lui sollevati, sull’ala variegata dei rotocalchi, ai più alti cicli (di cartapesta) della patria nostra e del mondo. Anche in questo volume, moralisti e sociologi troveranno ampia materia per rilevare e giudicare certi macrofenomeni sociali che, da soli, testimoniano l’involuzione e il rovesciamento in atto dei già più stimati valori di civiltà e di moralità privata e pubblica, come pure per condannare l’incredibile leggerezza ed inconscienza – stavamo per dire insipienza – con la quale uomini non malvagi né ignoranti, quell’involuzione, ad occhi aperti, determinano, aggravano e spingono alle estreme conseguenze.
Il nostro autore – anche questo è segno dei tempi – è un agente pubblicitario. Il suo impegno è piazzare i prodotti delle ditte industriali o commerciali che gli pagano il servizio. Purché riesca, la natura morale dei mezzi messi in opera non entra nei suoi conti; o meglio: c’entra; ma per lui non c’è assolutamente niente di male se, non dentifrici e tessuti vengono piegati ad uso degli esseri umani, ma gli esseri umani, ridotti a cose venali, vengono lusingati, mobilitati, svestiti, esaminati da sensali e messi in mostra come giumente, dati in pasto all’inverecondia dei fotografi, e venduti a tanto al capo ai rotocalchi, in servizio appunto dei dentifrici e dei tessuti. E il suo stupefacente candore dura inconcusso anche se interpellanze parlamentari denunciano, nella sua impresa, «un grave turbamento per la pubblica morale» (p. 11), anche se le autorità ecclesiastiche di Palermo si sollevano «contro questa manifestazione pagana, che porta a sacrificare sull’altare della bellezza fisica sentimenti che avrebbero dovuto essere indirizzati in modo diverso ed a scopi diversi e più alti» (p. 144), anche se il cardinale (che poi non è cardinale) di Piacenza diffonde e a tutte le parrocchie una lettera pastorale contro i concorsi di bellezza» (p. 164), anche se intorno alla sua iniziativa fioccano le denunce per oltraggio al pudore. Queste ultime, per lui, sono solo «infortuni» (p. 170). Egli s’indigna e protesta in favore di un toro danneggiato in una corrida (p. 180), ma il danno irreparabile arrecato alle sue concorrenti, se vincitrici o soccombenti poco importa, e lo scontento inoculato nell’animo di migliaia di ragazze, col prospettare loro scervellate evasioni dalla realtà della vita quotidiana, non lo toccano. Anzi, egli si vanta dei suoi successi come di «materiale sufficiente per persuadere molte fanciulle, insoddisfatte della loro posizione, a puntare su una carta che offre sia pur vaghe probabilità di vincere, ma non richiede in compenso grandi sacrifici» (p. 210), tra questi ovviamente computando quello del pudore; infatti egli scrive senza batter ciglio: «Quando fu il momento di presentarsi davanti alla giuria per la prima sfilata in costume da bagno, la Z. fu presa da una crisi di pianto; tra le lacrime disse che si vergognava, e ci volle del bello e del buono a persuaderla che non si trattava di cose sconvenienti» (p. 196).
Per quanto sembri impossibile, queste cose egli le riferisce impassibile, come impassibile sciorina la sua documentazione fotografica come se esibisse campionari di uccellini o di lattonzoli, e non di persone umane. Se poi la ipocrisia dei moralisti – perché, per certi signori, ogni morale è ipocrisia – lo induce a difendere anche su piano morale la sua impresa, le ragioni che egli porta ben testimoniano dell’eccelsa cultura e capacità di ragionamento logico di certi uomini che, eppure, maneggiando le leve di alcuni formidabili strumenti pubblicistici, formano le idee e i comportamenti del grande pubblico.
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Per fortuna, un più apprezzabile servizio alla cultura rendono altri libri recenti, che studiano ed analizzano il fenomeno del divismo senza contribuire ad un suo inopportuno incremento; tra questi si è aggiudicato un posto di assoluto rilievo Il divismo, di G. C. Castello6.
Il lettore che conosca alcuni dei numerosi scritti dell’autore, scorrendo questo, che per ampiezza e compiutezza li supera tutti, vi riscontrerà, più patenti che mai, due sue invidiabili costanti, vale a dire: la chiarezza, eleganza e scorrevolezza della forma letteraria, e la minuziosa rigorosa documentazione a rincalzo della sempre straordinaria ricchezza di notizie; e gliene sarà grato, perché, se la prima quasi non gli farà avvertire la lunghezza del viaggio attraverso le più che quattrocento fitte pagine del testo, la seconda lo provvederà di tale un’imbandigione di notizie scelte, controllate ed ordinate, che egli, se non dovesse approfondire l’argomento, potrà ritenersi dispensato da leggere quanto su di esso è apparso anteriormente a questo volume; se poi dovesse approfondirlo, troverà nelle sue più che centocinquanta pagine di bibliografia e di filmografia uno strumento prezioso. Infatti, questa bibliografia, aggiornata e precisa, integra ed ormai supera quella già molto preziosa del Montesanti7, mentre la filmografia, frutto della certosina pazienza di R. Chiti, allinea, tra essenziali e complete, ben centoquaranta elenchi di film di divi, di cui alcuni, salvo sviste, per la loro completezza ci sono apparsi del tutto originali.
Non escludiamo però che lo stesso lettore, passata la prima gradevole impressione d’assieme, non resti poi un po’ perplesso, com’è avvenuto a noi, sulle ragioni che possono aver indotto il Castello ad escludere o a scegliere, ordinare e presentare il suo pur ricco e brillante materiale. Tuttavia noi accettiamo per buono il disegno generale dell’opera; esso, infatti, segue, grosso modo, il criterio cronologico, contemperandolo con quello delle classi e dei tipi divistici determinati dall’evoluzione del gusto. Ecco, perciò, i primi tre capitoli consacrati al divismo “fatale”, che dannunzianeggiò nell’Italia d’anteguerra; seguono i tredici che trattano del divismo, per dir cosi, merceologico, confezionato dallo star-system hollywoodiano, presentandone i prodotti di più largo smercio, ora all’insegna dei loro prototipi (Mary Pickford, come «fidanzata del mondo»; Greta Garbo, come «la divina»; Douglas Fairbanks: «l’americano»; Rodolfo Valentino, ossia «del fascino latino»; Marlene Dietrich, «passione stregante» ecc.), ora a quella delle caratteristiche dominanti (le ingenue e le romantiche, le glamour e le it, i candidi, i sofisticati e i duri...); ed ecco, infine, il penultimo capitolo, che serve un po’ da ripostiglio, dedicato alla mitologia europea, e l’ultimo, per la verità scompensato alquanto, consacrato alla (a tutt’oggi) più pesante manifestazione del divismo che sono le «maggiorate», made, purtroppo, in Italy. E spieghiamo anche il rilievo quasi nullo concesso dal Castello alle doti d’interpretazione dei suoi personaggi; crediamo, infatti, che il divismo stia all’arte come l’isterismo e gli ubriachi stanno al sentimento e ai poeti, altra cosa essendo il divo, concrezione passiva dell’inconscio delle masse, e altra l’attore artista, interprete attivo e cosciente di un’opera di bellezza intellettuale: tant’è vero che la fama dei divi, concretamente commisurata dalle quotazioni dei loro box-offices, raramente va di pari passo con le loro capacità artistiche, più spesso non ne dipende affatto, anzi, qualche volta è addirittura inversamente proporzionale alla loro arte, nonché alla loro cultura ed intelligenza. Queste cose il Castello non le dice, ma pensiamo che le faccia comprendere sufficientemente tacendo, cioè non passando a giudizi d’arte una volta che ha stabilito di soltanto esporre un fenomeno che con l’arte non ha nulla da spartire. Infine, spieghiamo anche l’apparente acritica con cui egli procede nell’accumulare notizie e dati, quasi che non si preoccupasse affatto, - in ogni caso non avvisandone il lettore, – dell’attendibilità o meno di essi e delle fonti donde egli li attinge; perché sappiamo che in ogni entusiasmo divistico, la verità oggettiva delle gesta dell’eroe viene ampiamente surrogata dalla fantasia più calda dei soggetti passivi del fenomeno, e che siffatta volenterosa credulità dei fanatici viene sistematicamente sfruttata dallo star-system. Infatti, esigenza primaria di esso è che si parli, e si parli moltissimo, a tutti i costi, dei divi già in orbita o ancora sulle rampe di lancio: in bene o in male non importa; a questo scopo tutto è ritenuto buono: dalle dicerie più futili di pettegole emerite, quali la Hopper, la Parsons e la Maxwell, alla mania scandalistica di certa stampa, alimentata dai falsi scientemente architettati e comunicati dalle agenzie pubblicitarie delle case di produzione, previo accordo con gli stessi divi, a ciò del resto impegnati da ferree clausole contrattuali. Rebus sic stantibus, ai fini di una presentazione fenomenica del divismo, nulla importa se corrisponda a verità o meno quello che dei divi si dice o ai divi si attribuisce: detti e fatti che loro si riferiscono non essendo la causa e la spiegazione del loro divismo, ma piuttosto una delle tante manifestazioni di esso.
Temiamo, tuttavia, che queste considerazioni siano per sfuggire a lettori impreparati, vale a dire ai più, mentre ci pare che nell’esporre un fenomeno, il quale esercita si ampia e profonda presa nelle idee e nel costume del pubblico, e che trova nella più indifesa curiosità di questo il suo maggiore incentivo, conveniva che l’autore non si limitasse a farla da informatore indifferente. Vero è che certo suo uso dell’aggettivazione, certe coloriture e inflessioni della frase, e certe spiccate preferenze da lui concesse ad attori artisti, quali la Garbo e Chaplin, come pure alle prime estenuate dive italiane piuttosto che alle loro enfiate epigoni odierne, rivelano, a chi sa comprendere, una sua posizione di critica, se non sempre di condanna, almeno su piano culturale, dei lati più deteriori del fenomeno; ma una sua esplicita reazione di docenza non avrebbe guastato, tanto più che qua e là si ha l’impressione che particolari ed aneddotti da lui forniti non siano sempre consigliati da esigenza di prescrizione storiografica, per quanto puntigliosa, ma da un certo indulgere a curiosità non propriamente culturali, già dei suoi ascoltatori, – ché questi capitoli si originarono in alcune apprezzate conversazioni del Castello alla R.A.I. – ed ora dei suoi lettori. A parte questa carenza, i pregi e i limiti dell’opera del Castello ci paiono evidenti. Più cronaca, e qualche volta aneddotica, che storia; accurata cernita di dati fenomenologici, ma non essenziale sistemazione di essi; tanto meno indagine di fondo delle loro cause originarie ed inconsce, attinenti ai dinamismi psicologici dei soggetti attivi e passivi del fenomeno stesso, né di quelle che consapevolmente li sfruttano, insiti ai meccanismi del cinema come attività economico-industriale.
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Ci auguriamo, dunque, che spunti uno studio definitivo sul divismo; ma non ci facciamo illusioni sulle difficoltà che si frappongono alla sua attuazione. Perciò accogliamo con piacere i tentativi parziali che ne indagano l’uno o l’altro aspetto, di cui alcuni piuttosto recenti. Per esempio, sull’incidenza che nel fenomeno compete all’attuale posizione oligopolistica mondiale della produzione americana, verità del massimo interesse e definitive, ci hanno documentato gli studi del Mercillon e del Bächlin, già da noi presentati in questa sede8. Più lirici ed impressionistici che fondati sull’equanime analisi dei fatti ci paiono invece alcuni saggi che affrontano il fenomeno dal lato storico-sociale-psicologico. Ricordiamo tra questi i due volumetti di P. Duvillars, del 19509, e di E. Morin, del 195710: blande requisitorie contro i non valori del divismo, non si comprende bene, però, in nome di quali valori reali, dato che l’uno e l’altro autore, indulgendo a certo risibile laicismo comune a molta saggistica d’oltr’alpe, non fanno mistero del loro ateismo materialistico. Tuttavia, al primo non difettano alcune preziose intuizioni psicologico-sociologiche sul divismo, le quali il secondo sviluppa sfruttando una maggiore quantità di dati e di materiale documentario, una non indifferente conoscenza del linguaggio cinematografico e dei suoi meccanismi di suggestione, una oggettiva notizia sui congegni industriali ed economici che li usano sistematicamente ai loro fini, e soprattutto una non comune competenza nella psicologia, particolarmente del subconscio e dell’inconscio. Anzi ci pare che i rilievi che egli accumula sotto questi due ultimi aspetti, per quanto di prima approssimazione, nella loro crudezza aprono visuali a molti insospettate sul divismo come fenomeno gregario antiumano ed anticulturale. Lo studioso che volesse approfondirli ne potrà trovare una conferma in due opere, per la verità non leali né pulite, e la prima anche pietosamente blasfema, tuttavia quanto mai probanti nella loro stessa materialistica documentazione: ci riferiamo ai due volumi, consacrati da A. Kyrou e da Lo Duca11, alla componente meno spirituale e più attiva del divismo cinematografico, l’erotismo.
Grazie a Dio, in più spirabil aere si muovono i due studi recenti di J. Siclier12, con i quali ci piace terminare questa nostra scorribanda nell’editoria culturale dedicata alle dive, ai divi e al divismo. È risaputo che la merce più ricercata sul mercato del divismo, e perciò la vittima più comune ed il valore umano più profanatovi al dio Mammona, è la donna; J. Siclier tratta appunto di questa, non per documentare filologicamente il triste fenomeno di cui essa è soggetto-oggetto, tanto meno per fame argomento di curiosità più o meno passive e compiaciute, o di denunce generiche, bensì per indagare sull’ambiente storico-sociale che lo inquadra, e che dal divismo, a sua volta, viene determinato e qualificato. A questo scopo, egli si riferisce unicamente ai contenuti umani dei film e delle loro eroine, prima nella più grande produzione americana e poi in quella minore francese, nell’una e nell’altra indagine studiando l’evoluzione dei miti parallelamente all’evoluzione interna della società, che prima li esige e li esprime, e poi se ne pasce e li distrugge. E siccome l’indagine, nel caso del cinema americano, conclude ad una progressiva e poi totale estinzione di alcuni originali valori di bellezza e di sentimento spirituale, e nel caso del cinema francese si conclude coll’opporre al realismo passionale e materialistico delle sue eroine un più nobile ideale, ci pare che i due volumetti implichino una concezione culturale e morale della vita, di cui con piacere diamo atto.
Per quanto alcuni atteggiamenti particolari non ci trovino del tutto consenzienti, la sua indagine, come quelle del Mercillon e del Bächlin, ci pare un modello della serietà morale e della competenza specifica con cui vanno condotti gli studi particolari sul divismo, per darci di esso una visione quanto più è possibile oggettiva e totale, assolutamente necessaria sia per pronunciarne un giudizio di valore, sia per correggerlo nel molto che ha di deteriore su piano sociale, culturale e morale.
1 G. GENTILHOMME, Comment devenir vedette de cinéma. Paris, Éditions de l’Ermite, 1950, in-16º, pp. 104.
2 Tascabile del cinema, Milano, Sedit (Civ. Catt. 1958, III, 413).
3 G. BEAUME, Vedettes sans maquillage, Paria, La Table Ronde, 1954, in-16º, 223.
4 G. ANNENKOV, Vestendo le dive. Roma, Bocca, 1955, in-16º, pp. 223. L. 1.600, di carattere aneddotico. Quasi tutto fondato sul pettegolezzo invece il volume di MAXWELL, Jai reçu le monde entier, Paris, Amiot-Dwnont, 1955, in-16º, pp. 290.
5 D. VILLANI, Come sono nate undici miss Italia, Milano, Editoriale Domus, 1957, in-16º, pp. 249. L. 1.800.
6 C. CASTELLO, Il divismo, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1957, in-16º, 601. Con 44 tavv. f. t. L. 2.000.
7 In Sequenze, Quaderni di cinema, 1950, nn. 10-11, pp. 64-70.
8 Cfr Civ. Catt. 1959, I, 403-411.
9 DUVlLLARS, Cinéma, mythologie du XXme siècle, Paris, Éditions de l’Ermite, 1950, in-16º, pp. 138.
10 E. MORIN, Les stars, Paris, Éditions du Seuil, 1957, in-16º, pp. 192.
11 A. KYROU, Amour-érotisme et cinéma, Paris, Le Terrain Vague, 1957, in-16º, 560; LO DUCA, L’érotisme au cinéma, Paris, Pauvert, 1956, in-16º, pp. 220.
12 J. SIGLIER, Le mythe de la f emme dans le cinéma américain, Paris, Les Éditions du Cerf, 1956, in-16º, pp. 180; La femme dans le cinéma français, Paris, Les Éditions du Cerf, 1957, in-16º, pp. 196.