Articolo estratto dal volume I del 1970 pubblicato su Google Libri.
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Ad una prima visione, La caduta degli dei, di Luchino Visconti, regge bene. Ad una seconda, un po’ meno. Rallentata l’attenzione da film giallo, l’impianto teatrale ed il dialogo pesano, lo splendore formale raramente si scalda in poesia; rare le sequenze – come quelle del funerale di Joachim, e dell’allucinato matrimonio-suicidio finale – stupende per ritmo ed atmosfera. Ad una terza visione resiste soltanto la volontà di sbrogliare, se possibile, l’intrico di eventi e di diabolici interessi in cui il film si struttura. E vediamo di riuscirci.
Il soggetto
Quanti siamo a ricordare quei lugubri fatti? Nel gennaio 1933 i nazionalsocialisti giungevano al potere: Hitler era cancelliere della Germania. Un mese dopo – sabato 27 febbraio – con l’incendio del Reichstag cominciava il terrore. Assunti i pieni poteri – marzo ’33 –, per un anno Hitler pensa come liberarsi delle SA (= Stunn Abteilungen), che l’avevano portato al potere, e così avere dalla sua parte la Wehrmacht. Nella “notte dei lunghi coltelli” – Bad Wiessee: 30 giugno ’34 – settantasei alti gerarchi SA vengono trucidati, tra essi il generale Rohm, capo di stato maggiore e ministro del Reich. Due mesi dopo, il vecchio presidente Hindenburg muore e dalla Repubblica di Weimar, nel sangue, per affogare nel sangue, sorgeva il Terzo Reich “dei mille anni”. Su questo sfondo si svolge il film di Visconti.
Nella notte del 27 febbraio ’33, Friederich Bruckman, dirigente delle acciaierie Essenbeck, e suo cugino, l’SS (= Schutz Staffeln) Aschenbach, si recano in auto nel castello degli Essenbeck, ed Aschenbach persuade Friederich ad impadronirsi dell’azienda (“il nostro cancelliere ha un debole per le grandi industrie...”) sposando la baronessa Sofia von Essenbeck ed eliminando “un altro” della casata (“la cui ostilità verso il nazionalsocialismo è fin troppo scoperta”).
Nel castello si festeggia il compleanno del vecchio capofamiglia e padrone della ditta: Joachim. Gli sono intorno i parenti-azionisti: il nipote Kostantin, ufficiale SA, col figlio Günther (Renaud Verley); Sofia von Essenbeck (Ingrid Thulin), vedova del suo unico figlio Thomas, morto nella guerra ’14-’18, e suo figlio Martin (Helmut Berger); infine, i cugini inglesi Herbert ed Elisabeth Thalman, con le loro bambine Erika e Tilde. La festicciola familiare viene interrotta: “Il Reichstag brucia!”. Al pranzo, i commensali commentano la notizia secondo le rispettive posizioni riguardo al nazismo. Restano muti il complessato e distorto Martin, l’artista Günther e l’ancora malcerto Friederich; esplode il “comunista” Herbert, invano trattenuto dalla moglie Elisabeth e da Sofia; reagiscono: da convinto SA Kostantin; da SS dissimulatore, Aschenbach; da industriale opportunista il vecchio Joachim, il quale, pur dichiarandosi estraneo a Hitler (“quel... certo signore”), per salvare l’azienda ne passa la vicepresidenza dal “comunista” Herbert all’SA Kostantin.
Ora i personaggi, manovrati da Aschenbach, agiscono per quel che sono. Mentre l’invertito Martin insidia la cuginetta Tilde, il vecchio Joachim viene ucciso. La mano è di Friederich, istigato da Sofia, sua amante, ma l’arma è del “comunista” Herbert. Le SS di Aschenbach piombano per arrestarlo; ma Herbert fugge. È la volta del vicepresidente Kostantin. Tenta di interessare alle acciaierie il figlio musicista, e di passare alle SA le armi pesanti dell’azienda destinate alla Wehrmacht; ma viene giocato dall’erede Martin, che, indettato dalla madre, nomina presidente Friederich. Contrattacco di Kostantin, informato, dalla polizia compiacente, che Martin ha sopraffatto un’altra bambina (ebrea) e che la vittima, impazzita, s’è impiccata. Bel ricatto, nel prossimo consiglio di amministrazione, per obbligarlo a passargli la presidenza della ditta! Ma la sua sorte è segnata: nella “notte dei lunghi coltelli” egli è abbattuto dal fucile mitragliatore di Friederich.
Il quale pare che ormai stia per attuare il suo sogno. Infatti, grazie ai maneggi di Sofia e di Aschenbach, un decreto di “quel... certo signore” trasforma la società da impresa familiare in impresa a proprietario unico; e il proprietario unico è lui, Friederich, con tanto di nome e di titolo degli Essenbeck. Pare, ma non è. Perché anche Aschenbach sa della scelleratezza di Martin, e lo ricatta: il caso sarà archiviato (“con l’ordine nuovo, uccidere un’ebrea non è un reato”) se Martin si darà alle SS; e Martin cede. Ora egli si riprenderà tutto quello che era diventato di Friederich, compresa sua madre Sofia. Ed infatti, drogato, la possiede (e la donna impazzisce). Non basta. Durante un tempestoso consiglio di amministrazione ricompare il “comunista” Herbert, ed accusa Friederich e Sofia quali assassini del vecchio Joachim e della propria moglie Elisabeth, sterminata a Dachau; da parte sua, Martin svela a Günther che Friederich è l’assassino di suo padre Kostantin...
Quindi il finale macabro, cerimoniere e regista la SS Martin. Nell’antico castello Friederich e Sofia si sposano. Eleganti toilettes, corteo, rito “ariano”, champagne, strette di mano, altro corteo. I coniugi Essenbeck si ritirano nel salotto, Martin depone dinanzi a loro due capsule di cianuro. Li lascia soli. Passeggia tra le coppie che ballano nelle anticamere. Torna. I due sono morti: Friederich riverso sul divano, Sofia eretta sullo schienale, gli occhi sbarrati sulla maschera spettrale. Martin, SS perfettamente integrata, batte i tacchi e stende il braccio nel saluto nazista.
Derivazioni illustri
A questo bel rompicapo giallo è approdato lo svolgimento del tema: Narrate “la storia di una famiglia nel cui seno avvengono dei delitti che rimangono praticamente impuniti”. – “Dove, come e quando, nella storia moderna, dei fatti così potevano avvenire?” – si sono chiesti i soggettisti; ed hanno risposto categoricamente: “Soltanto durante il nazismo. Durante il nazismo avvenivano degli eccidi, avvenivano degli assassini, sia in massa sia singoli, che rimanevano assolutamente impuniti”1. Veramente, contro una premessa così categorica, qualcuno potrebbe pure eccepire, ricordando eccidi ed assassini, sia in massa sia singoli, restati assolutamente impuniti, per esempio, quelque part a levante della Germania, prima durante e dopo il nazismo. Ma non andiamo tanto per il sottile. Oltre tutto – et pour cause! – è più agevole documentarsi sulle malefatte dei nazisti che su quelle dei comunisti (magari nostrani); ed i soggettisti l’hanno fatto, consultando, tra gli altri, la Storia del Terzo Reich di Shirer, Ho pagato Hitler, del Thyssen, Hitler, studio sulla tirannide, di Bullock, e financo il romanzaccio sui “lunghi coltelli” della Kemski. Il finale poi del film – a parte il matricidio, che rincara la scellerataggine di Martin stupratore ed incestuoso – si modella sulla farsa tragica recitata da Hitler e da Eva Braun nel Bunker della Cancelleria.
Dopo il nazismo, a questo punto, nello svolgimento del tema soccorre Wagner. Non è soltanto il titolo del film a rimandare all’ultima giornata della tetralogia dei Nibelunghi: Il crepuscolo degli dei. C’è anche la sua musica (la celebre marcia funebre di Sigfrido, ma “degradata”, nel funerale di Joachim, e il canto sbracato nella notte dei coltelli...); ci sono le vampe degli altiforni che aprono e chiudono il film, come le fiamme delle Walchirie aprono il Crepuscolo e quelle del rogo di Sigfrido lo chiudono; e soprattutto c’è l’impasto del materiale umano: dalla sordida coppia Martin-Sofia (sarcastica antitesi della coppia eroica Sigfrido-Brunilde) sino al fondo stesso di tutti i personaggi, i quali, appunto come nell’opera wagneriana, si spingono verso la catastrofe più secondo i loro vicendevoli rar porti che per le loro psicologie individue.
Dopo Wagner è la volta di Thomas Mann. Forse anche del Mann di Doctor Faustus (il diabolismo di Aschenbach echeggiante quello di Leverkühn-Nietzsche), ma soprattutto del Mann dei Buddenbrook, da cui Visconti deriva il gran pranzo d’inizio come scena madre di avvio del dramma, il tema della “Decadenza di una famiglia” (sottotitolo del romanzo)2, ed anche, ma capovolto, il motivo dell’artista. Infatti, mentre in Mann il piccolo Hanno, ultimo dei Buddenbrook, si rifiuta alla vita ed alla civiltà borghese di quattro generazioni ed, improvvisando al pianoforte, ne sigilla la fine con una libera creazione artistica, nel film di Visconti il giovane Günther abbandona la musica per far sua una volontà di potenza alimentata dall’odio: reso simbolo e membro eletto di una nuova millenaria civiltà nazista. Ma i prestiti non si fermano qui. I cannoni dei Krupp, di W. Manchester3, oltre all’ambientazione del soggetto – l’azienda Essenbeck, a carattere familiare dinastico, alimentatrice del nazismo in danaro e in armi, si modella sulla dinastia dei Krupp –, contribuisce anche a costruire il personaggio di Friederich, in parte corrispondente a Berthold Beitz, braccio destro di Alfried Krupp, ed anche il personaggio di Martin, nel quale confluiscono le qualità meno nobili di Gustav e di Arndt Krupp, dal Manchester qualificati (il primo) "l’Oscar Wilde del Terzo Reich” e (il secondo) "il più noto playboy della Ruhr”. Inoltre, la Volpe nella soffitta, di Hugues, e soprattutto Gli ossessi di Dostojewskij, forniscono scenografia e sostanza all’episodio della piccola ebrea...4.
Arte decadente
Prestiti di questo calibro possono, in sede filmologica, interessare il capitolo “Dall’idea al soggetto”, ma non assicurano davvero la riuscita artistica di un film; nella Caduta degli dei poi finiscono col palesare una creazione più laboriosa che ispirata, non frutto di germinazione per forza interna, ma risultato di accessioni suppletorie. Si è parlato di “capolavoro di Visconti” e di “tragedia scespiriana”: le solite iperboli di certa critica cinematografica giornalistica. In quanto a capolavori, preferiamo La terra trema e, magari, Senso. In quanto a Shakespeare: qui certamente c’è quello minore, “degli orrori”: – vendette, omicidi, suicidi, stragi, stupri, incesti, pazzia... –, manca il grande Shakespeare delle passioni umane. Se passioni ci sono, appaiono molto dette e poco vissute, anche a causa della tecnica di ripresa, tutta oggettiva, di Visconti, sollecita di raccontare, dall’esterno, ciò che succede, e poco di introdurci in personaggi, sia pure nella loro mostruosità, credibili. Si salva l’arrivista Friederich, che, tra promesse e ricatti, diventa collaboratore e carnefice; invano cerca nel Mein Kampf una ragione che gli soffochi la vergogna in quel poco di coscienza che gli resta, ed accetta uno stoico suicidio quando, troppo tardi, scorge nella SS Martin, che straccia il decreto “dinastico” del Führer, tutta l’infida malia del nazismo. Ma Sofia, a prescindere dall’interpretazione della Thulin, convince poco. E convince poco anche Martin, col suo complesso edipico d’accatto. E persuade meno la conversione subitanea di Günther da amico del “comunista” Herbert a nazista. E meno di tutti persuade il deus ex machina del film, Aschenbach, troppo emblematico portatore della teoria e della prassi del nazismo.
Resta, è vero, la raffinatezza formale di Visconti. Interni cupi di ombre, qua avvampati di sangue là lividi di lussuria, dove mostri morali si muovono come nella scenografia infernale di Satyricon si muovono i mostri fisici di Fellini; esterni notturni o crepuscolari, in cui puntualmente scaracchiano, schifose blatte, le moto e le auto della SS; studiati movimenti di macchina a rilevare gli intrichi dei personaggi, ecc.: ma le preziosità stilistiche si esauriscono in se stesse, si autocompiacciono. Manca, come dire?, l’amore.
E manca anche l’Amore, quello con l’A maiuscola, per l’uomo. L’orrido morale fa spettacolo. Anche il crescendo di scelleratezze sino alla catastrofe, dalla quale nessuno si salva, sembra fine a se stesso. All’odio, dal nazismo eretto a valore di potere, Visconti sa opporre soltanto altro odio, contro i nazisti: non qualcosa capace di redimere l’uomo, cattivo o debole che sia. Inoltre, il regista fa un passo ulteriore – oltre i termini già toccati in Ossessione, in Senso, in Rocco, nel Gattopardo ed altrove – nella distruzione fisica e morale della donna. Misoginia cronica ed atmosfera morbosa di un’arte decadente.
Una volta tanto ci si trova d’accordo con Bernard Shaw, che nella Quintessenza dell’Ibsenismo notava: “Ibsen fu spietato in piena coscienza, e nessuno ha detto cose più terribili di lui: eppure non c’è uno solo dei suoi personaggi che non sia, secondo la vecchia frase, il tempio dello Spirito Santo, e che a momenti non ci commuova proprio per il senso che ci dà di questo mistero”.
1 Per questa ed altre notizie circa la genesi del film tengo presente il Dialogo con l’autore, che apre il volume della Collana Cappelli La caduta degli dei, di Luchino Visconti (Civ. Catt., 1970 I 617).
2 È stato rilevato che i due temi, insieme con quello della “morte del padre”, tornano come leitmotiv nella filmografia di Visconti. Un gran pasto comune è in Rocco e i suoi fratelli, nel Gattopardo, in Vaghe stelle dell’Orsa; il tema della famiglia innerva La terra trema, Rocco e i suoi fratelli e il Gattopardo; e muoiono il padre Valastro nella Terra trema, il padre Pafundi in Rocco. il padre Wald Luzzatti in Vaghe stelle dell’Orsa...
3 Cfr Civ. Catt. 1970 I 407.
4 È la celebre “confessione” sulla morte della piccola Matrjosa, consegnata da Nikolaj Stavroghin al monaco Tichon. In molte edizioni del romanzo si trova in appendice; in altre, meglio, al cap. IX della parte II.